Lu trappitu (il trappeto/trapeto), ovvero quando il dialetto detta legge

di Armando Polito

Le immagini di testa sono volutamente senza didascalia e per scoprire la ragione bisognerà giungere alla fine, non senza aver letto quello che c’è prima …

In Catone (III-II secolo a. C.), De re rustica, XX, XXII e CXXXVI, trapetum (sostantivo di genere neutro) è l’intera macchina; in  Varrone  (II-I secolo a. C.), De agri cultura, I, 55, trapeta (sostantivo di genere femminile) è la mole di pietra durissima; in Columella (I secolo d. C. ), De re rustica, XII, 50, trapetum  è la pesante trave usata per spremere le olive.

Ecco il lemma TRAPETUM e la variante TRAPITUM come sono registrati nel glossario del Du Cange (la traduzione a fronte è mia).

Preciso che il verbo greco τρἐπω interviene sì, ma in seconda  battuta  perché  *τραπητόν (la voce  non è attestata, ma molto probabilmente  è originaria della Magna Grecia) è da  τραπέω, che significa pigiare l’uva, a sua volta da τρἐπω.

Non è necessario essere filologi quanto meno per intuire che trapetum è il padre dell’attuale trapeto, di cui i vocabolari riportano anche la variante trappeto (che credo sia quella più usata), la cui origine meridionale è nella geminazione di p in un precedente trappetum presente in molte scritture a partire dal XV secolo), a sua volta dal trapetum riportato dal Du Cange. Va da sè che il neretino trappitu è da  trappitum, a sua volta da trapitum.

Trappitum in particolare è attestato in un un atto del 15 febbraio 1428 (Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1964, p. 75), in cui Filippo Sambiasi di Nardò, ordinato l’inventario dei suoi beni, fa testamento lasciando, fra l’altro, trappitum unum turchiacum (un trappeto con torchio).

Sempre per Nardò è attestata la variante tarpetum (senza la geminazione della p ma con metatesi tra->tar-) in un atto del 31 dicembre 1427 (Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò, Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981, p. 88: … terciam partem unius tarpeti cum toto apparatu, sit(i)Licii, vicinio ecclesie Sancti Iohannis de  Vetere, iuxta domos Nucii Drimi et Ponagrani  … (la terza parte di un trappeto con tutta l’attrezzatura, sito in Lecce nel vicinio della chiesa di S. Giovanni de Vetere, presso le case di Nuccio Drimo e Penagrano).

E la voce doveva essere  molto diffuso in area meridionale se era già in un atto siciliano del 9 agosto 1351 conservato nell’Archivio di Stato di Palermo (spez. 26 N), sia pur con riferimento alla lavorazione della canna da zucchero: trappitum pulveris zuccari. Nei documenti medioevali raccolti nel Codice diplomatico barese ricorrono tarpetum e tarpitum.  Il che non esclude che la nascita di ognuna delle voci fin qui riportate  sia anteriore, e di molto.

La cronologia dell’uso, pur con tutti i limiti fisiologicamente connessi con tale tipo d’indagine, sembrerebbe, comunque, corroborare l’evoluzione fin qui delineata.

Per quanto riguarda l’italiano, fino alla metà del XVII secolo ricorre trapeto. A titolo d’esempio cito la prima quartina del sonetto LXIII in Leporeambi nominali alle donne et accademie italiane, s. n., s. d. di Ludovico Leporeo (1582-1655): Milla saggia qual dea de l’oliveto/m’ha il cor unto in un punto e m’ha ferito,/e nel suo torchio rigido contrito/con la mola crudel del suo trapeto. Ricordo inoltre che la voce ricorre ripetutamente anche nella locuzione trapeto da cavalli in Giovanni Battista Ramusio, Delle navigationi et viaggi, v.III, Giunti, 1606

La più antica testimonianza di trappeto che ho rinvenuto  appartiene a Onofrio Pugliesi Sbernia, Aritmetica, Bossio, Palermo, 1670. Successivamente a tale data trappetum diventa la forma usata quasi in maniera esclusiva. La pronunzia dialettale sembra aver preso il sopravvento sulla forma filologicamente corretta e non escluderei la spinta decisiva del fattore economico e a tal basti pensare al ruolo di protagonisti  che la Puglia e il Salento in particolare avrebbero avuto in tutta Europa nella produzione e nel commercio dell’olio.  Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia …

Una sintetica storia, invece, con l’occhio rivolto alla tecnologia, è rappresentata visivamente dalle tre immagini di testa che vanno dal I secolo d. C. (Boscoreale, Villa della Pisanella; immagine tratta da https://viaggiart.com/it/boscoreale/luoghi/museo/antiquarium-nazionale-di-boscoreale_13994.html)

ai nostri giorni (immagine tratta da http://www.arsolea.it/wordpress/wp-content/uploads/2012/02/ars18.jpg)

passando per il frantoio ipogeo di di Santa Maria a Cerrate (immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Trappeto_(frantoio)#/media/File:Frantoio_Ipogeo.jpg).

Lascio al gusto del lettore decidere qual è l’attrezzatura che presenta il disegno più moderno, direi quasi avveniristico, manco fosse stato studiata, con  cospicui investimenti, nella galleria del vento …

In un moderno oleificio

di Maria Grazia Presicce

disegno a matita di Maria Grazia Presicce
disegno a matita dell’autrice

 

Siamo in novembre, periodo di raccolta e molitura delle olive.  Da tempo, desideravo entrare in un oleificio moderno mentre era in funzione per tornare in una realtà che mi è appartenuta da bambina e poter gustare ancora quel mondo e perdermi negli effluvi del luogo, almeno…così immaginavo!

vecchio frantoio a Borgagne
vecchio frantoio a Borgagne (foto dell’autrice)

 

Quest’opportunità è avvenuta per caso e così un mattino, dopo aver comprato dell’olio nello spaccio dell’Oleificio trovando aperto il frantoio, non ho resistito alla voglia di entrare e lasciarmi inondare dalle essenze di quell’atmosfera a me cara. Dapprima ho spiato titubante poi, visto che intorno non c’era anima viva, mi sono addentrata…s’intuiva, comunque che c’era qualcuno: la luce nell’ufficio era accesa.

Nell’ampio e alto stanzone, su un lato del muro, enormi cassoni di olive erano impilati mentre, nei pressi la porta dell’ufficio, stazionavano due cassoni colmi di turgide e nere olive sicuramente scaricate da poco. Sulla superficie. Infatti, alcuni rametti di ulivo verdi rallegravano il nero del raccolto e ne denotavano la freschezza.

foto dell’autrice

 

Continuavo a guardarmi intorno. Sulla sinistra, da un’ampia porta, si stagliavano, in bella mostra, una fila di alti e lucenti serbatoi e tutt’intorno, numerosi bidoni di plastica con appeso un cartellino, parevano in attesa…

foto dell’autrice

Immobile osservavo e provavo a percepire profumi ed essenze quando, finalmente, un signore mi viene incontro – scusate l’intromissione, …volevo semplicemente cogliere le antiche fragranze…mi piaceva immergermi negli antichi profumi …sa, i miei nonni avevano un antico frantoio e lì dentro le sensazioni, il calore, le fragranze si percepivano e quasi le toccavi e t’inondavano silenti…

Mi lascia parlare, poi ci presentiamo. Potremmo avere la stessa età – Eh sì cara signora, quei luoghi, quegli odori non esistono più. Come vedi, qui ora non ci sono “essenze” … è tutto diverso. Una volta, il frantoio, aveva un’anima e calore e colore e cuore… adesso è tutto automatizzato e i profumi sono incapsulati nelle macchine addette alla produzione…è tutto veloce…si fa in fretta, non c’è tempo per penetrarne gli aromi.

Ci guardiamo. Nello sguardo c’è tutto. – Venga! Venga a vedere cos’è oggi il frantoio…

Ci spostiamo. M’introduce in un vasto e aperto ambiente occupato, su ambo i lati, da due marchingegni luccicanti, fissi alla base, che si dispiegano per quasi tutta la lunghezza del locale. Qui il rumore diffuso dei macchinari sovrasta la voce. E’ freddo l’ambiente, non c’è colore, né calore, né profumo…

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foto dell’autrice

Pur essendoci olive nelle casse e altre olive inghiottite e maciullate dai robot lucenti, non c’è quell’aroma di olio mosto…

Pochi uomini all’interno dell’oleificio; solo due o tre…e bastavano per azionare, revisionare e sorvegliare quegli androidi che, immobili, svolgevano e producevano…

Mi soffermo e ripenso alla fatica di un tempo e rivedo i fisculi pieni di poltiglia di olive e le presse mosse dalle braccia degli uomini che, a turno, s’affaccendavano a spingere e risento il ticchettio dei perni e avverto il colare dell’olio nel tino sotto il canaletto della pressa…

Quanta fatica! E non solo dell’uomo, anche delle bestie… il cavallo che, nel vecchio frantoio dei nonni, girava bendato la grossa macina di pietra…e poi le donne che, nel vento, nel sole, nella pioggia, nel freddo coglievano le olive una ad una. …Vero, altri tempi però…

immagine tratta da http://www.presepioelettronico.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=4508
immagine tratta da http://www.presepioelettronico.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=4508

 

-Di qua, di qua…- l’operatore solerte mi precede mentre continua a spiegare le moderne fasi di lavorazione – qui, in questa vasca sommersa, si versano le olive raccolte e sporche di foglie di terra, di pietruzze e quel nastro convettore poi, le incanala in quella macchina selezionandole, scartando pietre e foglie, convogliandole, rapidamente, in un’altra vasca che le lava.

E davvero non mi pare vero! Sotto i miei occhi, per magia, quelle olive che avevo visto sporche di tutto, si ripulivano e i rimasugli si raccoglievano in contenitore, mentre, più su, le olive sporche di terra si docciavano prima di essere centrifugate riducendosi in una poltiglia densa, lucida e nerastra.

foto dell’autrice

 

Non c’era sosta nel marchingegno. Il ciclo continuava su un rullo mobile che divideva l’olio dal residuo acquoso e finalmente, da un tubo d’acciaio, l’olio, giallo e lucente, fluiva in un bidone di plastica bianca, simile a quelli che sostavano vicino ai serbatoi del primo stanzone.

Guardavo l’olio colare copioso, ma…ancora quel tipico odore di olio mosto non lo coglievo e allora – posso assaggiare? – Allungo un dito e l’ho intingo e finalmente gusto, però… manca qualcosa…e il mio cuore a percepirlo.

foto dell’autrice

 

Manca l’armonioso afflato dell’uomo che quelle olive ha raccolto e portato a macinare…manca la trepida attesa e poi l’assaggio nel luogo del “parto” e della nascita di quel filo d’olio che, una volta, colava sul pane nell’istante che veniva alla luce per essere gustato e valutarne la preziosa bontà…

Proprio così…quel luogo risultava anonimo, mancava la dedizione, il cuore della gente. La molitura delle olive, un tempo era una cerimonia e ogni fase si viveva, penetrava nell’animo e quando, in un unico piatto di olio mosto, la gente che vi lavorava inzuppava il pezzetto di pane, la fragranza penetrava nel cuore e si spandeva sul viso …

E’ vero, ora è tutto semplificato, è vero oggigiorno il lavoro costa meno fatica e va bene così, ma secondo me, nel moderno vivere, c’è un po’ troppa superficialità…

Il Sansificio di Spongano

        Sansificio old 2

 di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1926 l’ingegnere Francesco Rizzelli impiantò a Spongano un opificio per l’estrazione dell’olio dalla sansa, residuo solido della molitura delle olive.

L’impianto raccoglieva la sansa dei frantoi vicini e, all’inizio, estraeva un olio di scarsa qualità, avendo circa il 40% di acidità, che veniva utilizzato come combustibile (olio lampante) o come substrato nei saponifici.

La ragione di questa scarsa qualità era legata alla tecnologia e in particolare al solvente usato, la trielina. Con il tempo, utilizzando il benzene come solvente, si ottenne un olio migliore, con una acidità ridotta al 15%. Quest’olio veniva acquistato da alcune industrie del nord, fra cui la Costa di Genova e un’altra grande azienda di Firenze (forse la Carapelli), dove veniva ulteriormente raffinato per uso alimentare e immesso sul mercato.

L’attività dell’impianto, durata per circa cinquant’anni, fu anche funestata da diversi incidenti in uno dei quali, il 24 novembre 1927, lo stesso fondatore, l’ingegnere Francesco Rizzelli, perse la vita carbonizzato in un incendio. L’opera fu continuata dal fratello, l’ingegnere Raffaele, che apportò anche importanti modifiche tecnologiche tali da consentire di prolungare per tutto l’anno il ciclo produttivo, prima riservato alla sola stagione olivicola.

Una delle innovazioni più importanti fu il progetto di un grande silos dove la sansa veniva stipata dopo l’essiccazione, consentendo un ridotto utilizzo del solvente ed una maggiore resa in termini di qualità e di quantità.

deposito di sansa nel sansificio di Spongano
deposito di sansa nel sansificio di Spongano

La sansa, proveniente dai frantoi che adottavano la spremitura a freddo delle olive, veniva accumulata in un’area dell’opificio e prelevata da un sistema di secchielli per essere poi convogliata nell’essiccatore. Da qui, asciutta e priva di impurità, poteva essere depositata nel silos o versata direttamente nell’estrattore, dove veniva riscaldata a temperature elevate (circa 100°) e quindi sottoposta a vaporizzazione di solvente (benzene), ottenendo finalmente il prodotto da distillare.

Nello stabilimento erano collocati tre estrattori, ognuno dei quali poteva trattare quarantacinque quintali di sansa, in un ciclo lavorativo di circa sette ore, che richiedeva quasi sette litri di benzene. Una maggiore umidità avrebbe fatto aumentare la quantità di solvente necessario per il procedimento, per questo l’efficienza produttiva era maggiore con la sansa essiccata e depurata.

L’olio ottenuto con tale procedimento veniva poi distillato, con una resa finale di circa sette quintali rispetto ai quarantacinque  di sansa, pari dunque a circa il 13%.

Il residuo della lavorazione, la sansa esausta, veniva riutilizzato come combustibile sia per le caldaie e i fornelli degli essiccatoi dello stesso stabilimento, sia per altri scopi, fra tutti l’utilizzo nelle carcare di Taurisano, fornaci dove venivano cotte zolle di pietre calcaree per ottenere la calce. A Spongano, ma anche in altri comuni del Salento, la sansa veniva usata anche per rendere più morbido il fondo dei campi da calcio in terra battuta.

Traini

Negli anni Ottanta lo stabilimento fu dismesso, in parte per il rischio dovuto all’uso di grandi quantità di solventi portati ad elevate temperature, ma anche per l’ubicazione in pieno centro abitato e per l’inquinamento che derivava dai processi lavorativi.

Forse, però, la ragione più importante è da ricondurre al progresso tecnologico che, intanto, aveva cambiato i presupposti produttivi per quel tipo di opificio. Iniziavano, infatti, ad essere attive le cosiddette mulinova: impianti a ciclo continuo, con un procedimento di molitura delle olive da cui si ottiene  una sansa di qualità diversa.

Nella spremitura a freddo, infatti, la pasta, ottenuta dalla frangitura delle olive, viene distribuita su fiscoli, diaframmi di corda, in fibra naturale (cocco) o sintetica (naylon), che poi vengono impilati e sottoposti a spremitura per mezzo di presse idrauliche. Nella spremitura con il sistema delle mulinova la frangitura può essere fatta con le tipiche mole che macinano le olive nella vasca oppure da un frangitore a martelli. La pasta ottenuta passa in una macchina detta gramolatore che agevola la rottura dell’emulsione di acqua e olio per la successiva fase di estrazione. L’estrazione, in questo caso, avviene in una macchina a centrifuga detta decanter che, sfruttando la forza centrifuga e una temperatura più alta rispetto alla molitura a freddo, separa la parte solida, sansa, dal mosto di olio e da un residuo acquoso, detto morchia. La sansa che viene ottenuta è sbriciolata e meno sfruttabile per l’estrazione di nuovo olio.

Quando lo stabilimento sponganese era ancora attivo, si spargeva nei dintorni un odore acre, particolare, liberando nell’aria un pulviscolo che creava non pochi disagi ai residenti, per qualche problema respiratorio, e alle massaie, disperate per il bucato messo ad asciugare.

Molto interessante, a proposito, è il racconto La manna dei cieli maledetti di Corinna Zacheo che per anni ha vissuto vicino all’opificio e che descrive bene cosa significava vivere accanto a questo “pachiderma brontolone”.

Il racconto inizia così:

 

“Era con questa citazione letteraria che noi, scherzosamente, parlavamo della pioggia continua di fuliggine nera che si posava sulle lenzuola immacolate di bucato, stese ad asciugare; che si infilava in casa da qualsiasi fessura; che forzava il blocco del paravento per disporsi in sottili filari ai lati estremi di porte e finestre.

Te la trovavi dappertutto.

Sulle terrazze poi, si accumulava in tutti gli angoli, dove il vento ci giocava a disegnarvi curiose dune ma che mani irrequiete usavano per tutt’altro divertimento […] che ci stava a fare lì tutta quella sabbia nera che sporcava l’acqua piovana che andava dritto in cisterna e serviva a dissetarci e a liberarci dall’arsura di estati torride?”[1]

 

Il racconto descrive anche piccoli momenti di vita quotidiana di chi ci lavorava, soffermandosi particolarmente sulla motivata preoccupazione degli operai in occasione del difficoltoso ingresso dei cavalli nell’opificio, costretti a varcare la soglia in liccisu, leggermente scoscesa e scivolosa. L’autrice ricorda anche la montagnola di sansa, depositata prima dello stoccaggio nei silos, sulla quale “transitavano una coppia di buoi che tirava avanti e indietro una specie di rullo perché schiacciasse e comprimesse il cumulo, di modo che non franasse”[2].

Sull’alta ciminiera, di forma tronco-piramidale, era situato l’unico parafulmine del paese, quanto mai necessario per impedire che una qualsiasi saetta potesse scaricarsi sul deposito dei solventi infiammabili.

Ma il maltempo spingeva comunque a prendere le dovute precauzioni, staccando l’energia elettrica, interrompendo il lavoro con l’allontanamento delle maestranze fino alla normalizzazione delle condizioni atmosferiche, rammentando agli astanti e a quanti risiedevano nelle immediate vicinanze che tutti si era in continuo pericolo.

Infatti chi abitava vicino all’opificio viveva con la paura di dover scappare ad ogni rumore particolarmente sospetto, anche di notte, in pigiama con una coperta addosso.

Per la popolazione, però, lo stabilimento non era solo un inquinante o una sorta di bomba. Era anche una risorsa non solo per chi ci lavorava.

La miseria dei tempi e le tristi condizioni di vita venivano alleviate di tanto in tanto quando veniva concesso agli operai ed ai paesani di portarsi in casa un secchio di quella sansa incandescente che, riposta in capaci contenitori in metallo, consentiva di cuocere una pignatta di legumi o riscaldare le abitazioni umide e fatiscenti.

Continua ancora la Zacheo:

 

“…nelle ore di punta, poi, l’orario in cui il portone s’apriva per il cambio di turno degli operai, era consuetudine vedere gente accalcarsi, far la fila, litigare per qualche precedenza carpita prima del dovuto. […] Ciascuno era attrezzato con qualche vecchio secchio ammaccato, con qualche mezzo bidone, o con qualche bacinella di ferro smaltato ai cui bordi era legato un filo di ferro filato per agevolar la presa, a mo’ di manico […] e la genialità del popolo era imprevedibile nel trasformare qualsiasi rudere in un comodo contenitore. Guadagnato l’ingresso a forza di gomitate e qualche volta a suon di “secchiate” o di capase o di qualunque altra ferraglia […] che servisse a farsi largo, il “fortunato” ne usciva e si allontanava orgoglioso, col suo caldo bottino …. di  fuoco … e che importa se procedeva affumicato ed asfissiato? Erano gli scarti della sansa combusta e fumigante, che bisognava lasciar fuori di casa, sul limitare, per strada, perché la brace decantasse e smettesse di fumare. I più raccomandati erano i vicini, e perché non reclamassero avevano un trattamento particolare…”[3]

 

Collegata allo stabilimento, ma indipendente dal ciclo produttivo, funzionava una ghiacciaia per la produzione di blocchi di ghiaccio. Quel ghiaccio, che mia nonna chiamava ancora nive, serviva a bar e ristoranti, specie in estate, ma anche in casa per alcune cerimonie o per preparare deliziose granite e veniva custodito in cassapanche di legno, avvolto con sacchi di juta e paglia. Anche dalla ghiacciaia, come in inverno con la sansa incandescente, qualche vicino e qualche paesano cercava di ottenere in regalo qualche pezzo di ghiaccio in estate quando frigoriferi non ce n’erano.

Là dove sorgeva l’opificio, demolito negli ultimi mesi del 1982, oggi c’è piazza della Repubblica; un parcheggio, un giardinetto e un mercato dismesso hanno soverchiato quella che fu fiorente realtà industriale sponganese.

Del sansificio resta solo uno sbiadito ricordo nei più grandi e nulla nei più giovani che non hanno conosciuto l’odore acre della sansa surriscaldata e la fuliggine che si spandeva per l’aria, “manna dei cieli maledetti”, così come ci è stata raccontata da Corinna Zacheo .

 

Si ringraziano di cuore, per la gentile collaborazione, Raffaele Gravante, Claudio Miccoli, Marcello Bramato e Giorgio Tarantino.

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

 


[1] C.ZACHEO, Manna dei cieli maledetti

[2] Ibidem

[3] Ibidem

Per una storia degli oleifici salentini

 

L’Oleificio Sociale di Matino nel 1906, il primo dell’Italia Meridionale

di Antonio Bruno

Il 18 febbraio 1906, sotto forma di società anonima cooperativa a capitale illimitato, fu costituto a Matino, nel Salento leccese, il primo Oleificio sociale dell’Italia Meridionale. Gli oli dell’Oleificio Sociale di Matino nei primi del 900 riportavano grandi onorificenze nelle mostre e nelle esposizioni dell’epoca.
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Tanto per rimanere in tema di territorio, di tutela, di tradizione. L’olio che si si estrae dalle olive del Salento leccese non ha bisogno di parole e il suo profumo è noto a chi mette ogni giorno a tavola la sua boccetta. Si perché l’olio si riconosce per il suo profumo, e tu devi cominciare a pensare così, come quando vai in profumeria e acquisti il tuo profumo non tenendo in alcuna considerazione di che colore sia. Così l’olio, ha importanza solo il profumo e il gusto, il colore non ha nessun valore.

Nel Salento leccese questo profumo si produce e si produceva alla grande; infatti erano attivi 159 oleifici sociali e 210 stabilimenti di molitura privati.

Gli acquirenti maggiori dell’Olio del Salento leccese sono rappresentati dai grossisti (56%), industria (20%) e mercato nazionale.
Ma c’è sempre una prima volta. E allora chi è che per la prima volta nel Salento leccese ha costituito un Oleificio cooperativo? Sono notizie che dovremmo sapere perché riguardano donne e uomini del Salento leccese che hanno fatto la storia.

Nei primi anni del secolo scorso a Matino, nel Salento leccese, un gruppo di uomini intelligenti e coraggiosi, dopo aver costituito un Consorzio Agrario per gli acquisti collettivi, fecero sorgere il 18 febbraio 1906, sotto forma di società anonima cooperativa a capitale illimitato, il primo Oleificio sociale dell’Italia Meridionale con un patrimonio sottoscritto di Lire 27.500 e con 13 soci che già nel 1910 erano diventati 24 costituendo un capitale sociale di di Lire 50.200 quasi interamente versato e una riserva di Lire 2.628.
Lo stabilimento sociale utilizzava una superficie di 700 metri quadrati che si sviluppava su tre piani. Al piano più alto, spazioso ed arieggiato c’era l’olivaio per il deposito e la conservazione delle olive su graticci della capacità di poco meno di un quintale ciascuno. Dall’olivaio le olive, dopo essere state lavate, passavano attraverso una tramoggia, nel piano immediatamente inferiore, che era destinato a frantoio. Il frantoio era composto da una vasca a tre macelli per la prima molitura delle olive, poi da una serie di torchietti a mano, attraverso i quali veniva estratto l’olio di prima qualità; a seguire una serie di presse idrauliche da otto pollici. C’era una seconda vasca a due macelli per la rimolitura e due grandi forate, anch’esse a pressione idraulica.

L’energia era data da una locomotiva mobile a vapore collocata in un apposita stanza, le presse e le forate erano alimentate da una pompa a sei corpi e regolate da due accumulatori.
Dal frantoio si passava al piano terra destinato a chiaritoio e raffineria dove si lavorava l’olio liberandolo dalle acque di vegetazione coi separatori brevettati Bracci, lavandolo, decantandolo ripetutamente e filtrandolo. Quindi l’olio passava nell’oliario costituito da tanti pozzetti sotterranei rivestiti da mattonelle di vetro e in recipienti provvisori di latta.
Vi erano poi gli uffici e un dormitorio per gli operai. Sotto all’olivaio c’era una scantinato spazioso per deposito di sansa, attrezzi ed altro.

In un corpo di fabbrica isolato e lontano dall’edificio principale era messo “l’inferno” che mediante un canale sotterraneo riceveva le acque madri che dal chiaritoio si scaricavano in una grande vasca e successivamente, per mezzo di sifoni, passavano in altre quattro vasche per disperdersi poi in una vora dopo aver subito una fermentazione di 20 giorni.

Lo stabilimento era in grado di lavorare da 120 a 150 ettolitri di olive al giorno con il solo lavoro diurno.
Gli oli dell’Oleificio Sociale di Matino nei primi del 900 riportavano grandi onorificenze nelle mostre e nelle esposizioni dell’epoca.

L’Oleificio Sociale di Matino pur essendo entrato in funzione in ritardo e con una produzione di olive di annata di scarica nel primo anno lavorò una media di 60 ettolitri di olive al giorno, trasformando 3.177 ettolitri di olive in 408 quintali di olio di tre tipi diversi. Si erano ottenuti inoltre 26,25 quintali di olio d’inferno, un olio molto scadente che si ottiene raccogliendo quello che affiora dalle acque di lavorazione e di lavaggio (in realtà molto poco), dopo averle convogliate tutte insieme in un locale di solito sotterraneo all’oleificio, chiamato, non a caso, “Inferno” e lasciate riposare per alcune settimane. E, come è facile intuire, quest’olio si chiama appunto olio d’inferno che nessuno degli oleifici dell’epoca realizzava perché le acque grasse venivano abbandonate prima ancora di essere totalmente sfruttate. Si sono ottenuti poi 722 quintali di sansa che il Prof. Bracci di Spoleto trovò interamente esaurita con i mezzi meccanici e dopo aver effettuato le analisi chimiche riscontrò la presenza del 9% di grasso.
Nel primo anno di lavorazione l’esercizio finanziario si chiuse con Lire 2.005,50 di utile netto. Nel secondo anno si trasformarono 2.039 ettolitri di olive in 268 quintali di olio, 1.622 quintali di sansa con un utile netto di Lire 5.603,00 e tale utile sussisteva nonostante si fossero messe tra le spese Lire 2.000 per l’ammortamento del locale.
Nella terza annata agraria si lavorarono 2.808 ettolitri di olive ricavando 384 quintali di olio e 658 quintali di sansa.

A Matino gli uomini si mettevano insieme per fare l’olio e realizzavano insieme quell’attimo eterno di storia in cui l’oliva sacrifica se stessa per cedere all’uomo il suo fluido dorato, quel pregiato nutrimento che impreziosisce le tavole fin dalle età più remote: l’olio del profumo e del sapore, l’olio della saggezza e del calore, l’olio della tranquillità e del tepore, l’olio delle morbide chiome, l’olio del Salento leccese, l’olio che ti vuole.
Bibliografia

Cosimo Casilli: Lo Sviluppo economico locale: politiche di programmazione e strumenti di incentivazione – Manni Editore.
E. Viola: Cooperazione Rurale. L’oleificio cooperativo di Matino
Aliberti Giovanni: Strutture sociali e classe dirigente nel Mezzogiorno liberale

Presicce, una vera e propria “città sotterranea”.

il centro storico di Presicce

La flotta dei 23 frantoi ipogei di Presicce

di Antonio Bruno

Presicce è un comune di 5.617 abitanti che è situato nel basso Salento, nel territorio delle Serre Salentine, dista 56 km dal capoluogo e 10 km dal mare Ionio. « Presicce, riposa tra due giocaie sub appennine che stanno l’una a levante l’altra a ponente, nel piano di una vallata così aprica che, guardati i pini caratteristici a grande ombrello, qualche punta dattilifera, le creste dei monti coronate di sempre verde ulivo, il tappeto sfioccato e variopinto dei grossi campi che lo circondano, vi dà a primo acchitto l’aria di un luogo orientale. »
(Giacomo Arditi, storico locale)

una stradina del centro storico di Presicce

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