La condizione degli Ebrei a Lecce al tempo di Maria d’Enghien

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Maria d’Enghien, Basilica di S. Caterina a Galatina, particolare (foto di Daniela Bacca)

di Armando Polito

Va preliminarmente detto che ai tempi di Maria d’Enghien e degli statuti da lei emanati per la città di Lecce il 4 luglio 1445 la discriminazione degli Ebrei  era una prassi storicamente ben conosciuta e sperimentata. Basti sinteticamente ricordare che nel 1215, sotto il pontificato di Innocenzo III (1198-1216) il IV Concilio lateranense stabilì l’obbligo per gli Ebrei di portare un segno distintivo sui vestiti e la loro esclusione dai pubblici uffici; in sostanza, dopo che erano falliti i ripetuti tentativi di conversione, si era deciso di isolarli e rendere facile l’identificazione del presunto diverso con un distintivo  che per le donne era il velo giallo, contrassegno delle meretrici, e per gli uomini un cerchio rosso.

Il “problema ebraico” troverà ampio spazio nel 1430 negli statuti sabaudi di Amedeo VIII di Savoia, che introdurrà per gli Ebrei l’obbligo di vivere in un luogo separato.1

I provvedimenti contenuti negli statuti della contessa Maria sembrano muoversi nel solco già tracciato, ma danno l’impressione di una loro applicazione più laicamente tollerante ed umana: me lo fa pensare, per esempio, il fatto che il permanere dell’obbligo dei segni distintivi appaia più come una misura di ordine pubblico che di effettiva discriminazione, quasi un compiacere formale all’autorità religiosa e non mi pare neppure secondario il fatto che nei provvedimenti la pena prevista (tra cui la fustigazione per le vie della città  nel caso in cui il colpevole non fosse in grado di pagare la multa) non fa distinzione alcuna tra giudei e cristiani. E la delazione, da altri2 interpretata come emblema della caccia all’ebreo, era in realtà la prassi corrente per una notevole serie di reati, indipendentemente dal colpevole.

Che le cose stessero proprio così lo conferma il Libro Rosso di Lecce, anno 1467, ove (cito dall’edizione a cura di Pier Fausto Palumbo, Schena, Fasano1997, pag. 187) a proposito degli Ebrei si legge: foro sempre incorporati et uniti cum la dicta Universita, contribuendo in omne peso et pagamento, et cussi gaudendo omne previlegio et immunita quali gaudevano li altri citatini. Più chiaro di così …

Molto probabilmente anche per questo, caso raro ieri e ancor più oggi per un detentore del potere, la contessa di Lecce godette dell’affetto di tutti i suoi sudditi.

Bisognò attendere il 26 febbraio 1495 (Maria era morta da quasi 50 anni) perché si manifestasse la rottura di questa pacifica convivenza: Die 26 Februarii essendo in Lecce fama, che il Re di Francia habbia pilliato Napoli, se levò armata manu tutto lo populo, et saccheggiaro tutto lo Castiello, dove erano andati la maggior parte de Judei cu loro facultate pe essere salvi, saccheggiando dopo tutto lo resto de la Judea, dove in tante spade non ci fu morto nullo, et durò paricchi jorni lo saccheggiamento, sempre trovando robba et denari sotterrati. Die 21 Marsio se levò in romore tutto lo populo de Lecce gridando, morano morano tutti li Judei, overo se facciano Cristiani, dove una gran quantità sendo fero Christiani, et pilliaro cum gran furia lo Episcopo di Lecce, portandolo di mezzo a la Piazza a consegrare la Sinagoga de Judei, dove in dicto jorno li fo miso nome de Sancta Maria de la Grazia, et portato da mille fegure de Sancti, et celebrate Messe. Pe volirne fare certi della ostinazione de maligni et perfedi Judei me accade narrarvi uno orribile caso, che soccesse in Lecce, essendo tutti Judei reposti in Casa de Cristiani pe pagura de no essere ammazzati, certi Judei stando in Casa de uno Zentiluomo nomine Pierri Sambiasi in quel dì, che se levò le grida morano li Judei, et se fazzano Cristiani, questi tali, che erano cinque fra mascoli et femine, tutti se iettaro dentro uno Puzzo pe no se fare Cristiani, el Marito d’una di quelle, che fo il quarto, che se iettò dentro lo Puzzo, trovò la Molliere, et due altri, che surgeano nel cadire suo, et non soffondao nell’acqua, dove havendosi pentito se recuperò alli gradi de lo Puzzo, el quinto, che era suo figlio se accecao, l’ultimo cascando …. sopra il predetto, tutti dui andara in acqua, el Patre se recuperò, el figlio havia accecato el Patre pe no morire, el Judeo arrecordandose d’un coltello, che havia addosso, perdonò la morte al figlio pe camapare esso, quelli della Casa subito cursero al rumore, cacciarende lo Patre vivo , et li quattro morti3.

Ecco, tratti dal codice di Maria d’Enghien nell’edizione di cui già mi sono avvalso4, i passi relativi, anche questi con la mia “traduzione” a fronte per far rilevare al lettore alcune incongruenze formali (direi usuali in un manoscritto) del testo originale e per soffermarmi nelle note su alcuni vocaboli che ancora oggi sopravvivono.

 

 

Questo del danneggiamento procurato dal bestiame è l’unico reato che non preveda espressamente pene comuni per i trasgressori. In un altro bando6, infatti, viene regolamentato tale reato quando commesso da un non ebreo. Tuttavia, il fatto che lì si parli di danno generico da quantificare e in più di una multa a discrezione dal Capitano della città non consente un esame comparativo che, alla resa dei conti, metta in risalto una pena maggiore quando lo stesso reato è commesso da un ebreo.

 

 

________________

1 Nel 1555 la bolla Cum nimis absurdum emessa da Paolo IV istituzionalizzerà il ghetto imponendo agli Ebrei di abitare in una o più strade senza alcun contatto con i cristiani. Dopo qualche secolo (magra consolazione …) la follia nazista.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/26/ebrei-nel-salento-sotto-i-del-balzo-orsini/

Da inquadrare, invece, nella categoria del giornalismo-spazzatura, che crede di fare cultura con titoli altisonanti a firma di novelli sedicenti Piero Angela, è il servizio a cura di Lara Napoli, visibile all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=CLfS44IS3pE

La tragedia non è costituita dal fenomeno in sé, quanto dal numero di proseliti/imitatori e di credule vittime, il cui sviluppo esponenziale i nuovi media, la rete più di ogni altro, hanno favorito.

3 Cronache di M. Antonello Coniger di Lecce, in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851, pagg. 498-499.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/20/riflessioni-su-alcuni-bandi-leccesi-del-xv-secolo/

5 La variante ancora oggi in uso a Nardò è cuminanzièri ed in passato era il nome del servo agricolo che mangiava insieme con la famiglia del padrone. Per il Rohlfs la voce nasce da incrocio tra convenienza e comunanza.

6

7 Tal quale ancora in uso a Nardò. Per il Rohlfs è di origine onomatopeica.

8 Oggi stompu è sinonimo di mortaio; qui invece dal contesto si direbbe un tipo di agrume, ma non son riuscito ad individuarlo.

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

Antica presenza ebraica a Grottaglie. L’attività di tintori e conciapelli

 

La festa delle trombe

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare comune. Grottaglie, Bottega Tromba di S. Pietro (bottega Vestita, Grottaglie)

di Rosario Quaranta

 

Stando a una tradizione medievale, la presenza di ebrei in alcune città della Puglia risalirebbe addirittura agli anni immediatamente successivi alla caduta di Gerusalemme del ‘70 dopo Cristo ad opera di Tito e alla conseguente deportazione degli abitanti: “Quelli che (Tito) stabilì in Taranto, Otranto e in altre città della Puglia fu di circa 5.000”si legge nell’opera  Sefer Iosefon risalente al X secolo. Se questa notizia suscita qualche dubbio o perplessità circa la realtà storica dell’avvenimento, non altrettanto si può dire circa la presenza di ebrei nella città bimare a partire dalla fine del quarto secolo dopo Cristo, che è attestata  da una consistente documentazione epigrafica in greco, latino ed ebraico, conservata nel Museo Nazionale di Taranto e da molti altri documenti che Cesare Colafemmina ha studiato e proposto nella monografia Gli ebrei a Taranto: fonti documentarie (Bari 2005).

Per l’illustre studioso quella degli ebrei fu una presenza piuttosto consistente che diede vita a una vera e propria cultura ebraica pugliese e che vide nei secoli VIII-IX una grande fioritura poetica.  Poiché la maggior parte delle iscrizio­ni sono in latino, si pensa che la colo­nia ebraica si identificò con l’elemento latino-longobardo piuttosto tollerante nei loro confronti. I Longobardi presero Taranto tra il 670 e il 680, togliendola a Bisanzio, e la tennero fino all’840, quando venne occupata dagli Arabi, scacciati a loro volta 40 anni dopo dai Bizantini che ripristinarono la cultura greca.

Un riferimento ufficiale alla presenza degli Ebrei a Taranto si ritrova  nel diploma del 1133 di  Ruggero II (confermato poi nel 1195 da Enrico VI di Svevia) in cui il re normanno, accogliendo le richieste del vescovo Rosemanno, concesse a lui e alla sua chiesa le donazioni e i privilegi già fatti dal duca Roberto il Guiscardo, dal prin­cipe Boemondo e dalla madre di questi Costanza. Fra le dona­zioni c’erano molti casali tra i quali Grottaglie, ma c’erano pure i redditi sulle attività dei giudei della città.

Grottaglie. La gravina del Fullonese. Qui gli ebrei, prima di trasferirsi nella Giudecca, esercitarono le loro attività di tintori e conciapelli

Oltre che a Taranto, ebrei e neofiti si impiantarono in alcune località vicine. Altri vi immigravano da sedi più lontane. Talora si trattava di presenze occasionali dovute a motivi commerciali o professionali, come a Massafra. Presenze stabili sono attestate a Grottaglie, Martina Franca, Manduria, Castellaneta. In que­st’ultima cittadina è ancora in uso il toponimo Via Giudea. La vita degli ebrei a Taranto non era fatta solo di commercio, artigianato, prestito bancario. Alcuni codici ebraici del XV seco­lo ci illuminano sugli aspetti più profondi dell’identità ebraica, quella culturale e religiosa (…).

Federico, figlio di Ferrante I d’Aragona, con i Capitoli del 12 giugno 1498 concesse agli ebrei una lunga serie di garanzie e di riconoscimenti di diritti. Successivamente, con la conquista spagnola del regno di Napoli (1503) si assistette al tramonto e alla fine del Giudaismo dell’Italia meridionale, dapprima col bando di espulsione del 1510 di Ferdinando il Cattolico che interessava tutti i giudei e i “cristiani novelli”, salvo poche eccezioni; e infine con Carlo V che “nel maggio 1541 emanò un decreto con cui ordinava senza pietà a tutti i giudei che abitavano nel regno di Napoli di uscire dalle sue terre entro il mese di ottobre. Entro la data stabilita, i giudei pugliesi lasciarono il Regno: alcuni si avviarono alla volta di Roma, gli altri si imbarcarono chi per Venezia, chi per Ragusa, la maggior parte per Corfù e Salonicco. Restarono solo quei neofiti che si erano assimilati alla popolazione cristiana e nella quale poco per volta si dissolsero. Ma le autorità non li dimenticavano, e per parecchio tempo restò loro appiccicata la qualifica, invero poco onorevole e sempre fonte di sospetti, di “cristiani novelli” (Colafemmina).
Secondo alcuni documenti e una tradizione costante, anche a Grottaglie si è registrata quindi una attiva presenza ebraica tra basso Medioevo e primo Cinquecento.

Inizialmente, secondo la ricostruzione fatta da Ciro Cafforio nella monografia La Lama del Fullonese (Taranto 1961), essi si stanziarono nella gravina del Fullonese per esercitarvi la tintoria e la concia delle pelli, come il toponimo lascia intendere: “i giudei venuti in quel tempo, nella nuova dimora trovarono condizioni favorevoli all’esercizio e allo sviluppo dei loro mestieri. La pastorizia e l’allevamento di bovini di razza pregiata, detti dal pelo lom­bardo, erano praticati su larga scala dai naturali del luogo e forniva­no le pelli da conciare; i boschi poi offrivano abbondantemente fo­glie di lentischio e di corbezzolo, cortecce di quercia e noci di galla: vegetali questi che, contenendo grande quantità di tannino, di acido gallico e di mannite, erano usati direttamente come materie concian­ti. In molte antiche scritture una contrada dell’agro di Grottaglie è chiamata «Monte di Giuda seu la strada di Ceglie». Essa veniva a trovarsi al nord-est dell’abitato ed è così precisata nella Platea dei beni della Mensa Arcivescovile di Taranto. Per essere detta località macchiosa con cespugli di corbezzoli e di lentischi, non sembra difficile che i giudei del Fullonese l’abbiano presa in enfiteusi o secondo l’uso longobardo col sistema curtense, donde il nome «corte » per la raccolta della «frasca». Sugli spalti della lama è ancora visibile qualche vasca di macerazione, scavata nella roccia. L’acqua necessaria a tale uso sulle prime fu attinta da pozzi esistenti nel fondo valle; in seguito, per le maggiori necessità, il Pubblico Reggimento fece scavare dei pozzi di acqua viva a po­nente della lama nel luogo che da allora si disse «de puteis novis» (…).

Antichi mestieri a Grottaglie: lu cunzatòri e lu panaràro in un acquerello di Angelo Pio De Siati (1998)

In conseguenza poi del mestiere di tintori, la tradizione ricorda che gli Ebrei diffusero negli orti e nei giardini di Grottaglie la cul­tura del melograno, il frutto del quale, come è noto, dà la corteccia che si usa per tingere di giallo le stoffe e i marocchini. Circa la religione, è superfluo dire che gli immigrati, quando si stabilirono nella lama del Fullonese, professavano il giudaismo, al quale rimasero fedeli ancora per qualche secolo. Il luogo in cui si riu­nivano per pregare e leggerela Scritturaè visibile anche oggi. Sulla fiancata destra della lama e propriamente quasi alla metà, là dove il solco vallivo forma un gomito più accentuato, si aprono due grot­te discretamente conservate (…). Con la costruzione delle mura del paese, le grot­te della lama del Fullonese vennero tagliate fuori e allora gli abitan­ti si ridussero nell’area fortificata. Gli Ebrei ebbero a loro disposizio­ne un rione nella parte sud-ovest del paese, vicino alla porta S. An­tonio. Il rione fu detto «la Giudeca»; la strada di accesso «de li cuoiai » prima, e «delli scarpari» poi. La chiesa ivi esistente fu detta S. Stefano «dei Giudei» (…). La conversione fu una conseguenza naturale  della convivenza col popolo grottagliese e una necessità. Anche a volersi mantenere fedeli alle tradizionali credenze, come è il carattere spiccato dei giu­dei, gl’inevitabili rapporti economici e sociali con i cristiani, annessi e connessi con i mestieri che esercitavano, indebolirono a poco a po­co l’intransigenza dei loro principi religiosi. Ma fu anche una neces­sità : 1) per beneficiare delle concessioni e privilegi che i principi lar­givano agli abitanti di Grottaglie; 2) per sottrarsi alle decime dovu­te all’Arcivescovo di Taranto, che per giunta era feudatario del luogo; 3) per liberarsi dal disprezzo col quale venivano fatti segno nella settimana di Passione, quando cioè la Chiesa commemora la morte di Cristo, dovuta proprio ai giudei.

Questi novelli cristiani nel corso dei secoli esercitarono sempre i mestieri di tintori e di conciapelli; alcuni si elevarono al rango di commercianti, tenendo botteghe di «pannacciari di piazza, propria­mente sottola Ven. Confraternitadel S.S. Rosario». Essi portaro­no la loro attività a sì alto grado da meritare l’esenzione delle tasse, caso unico nella storia ferocemente fiscale di Grottaglie che si di­batteva in deficit e debiti, liquidati solo quando fu abolito il feudalesimo (…) I giudei, entrando dunque ad abitare nella cerchia delle mura di Grottaglie, al principio del secolo XIV si unirono ai Grottagliesi anche spiritualmente, e contribuirono in tutti i tempi a dar lustro alla patria adottiva.”

Censuario del 1417 incui viene riportato il nome di Nicolao, un ebreo “neophita” o “cristiano novello” di Grottaglie

Altre testimonianze documentali sulla presenza degli ebrei a Grottaglie, oltre quelle richiamate dal Cafforio, ho potuto ritrovarle in alcuni codici e pergamene dei secoli XV-XVI conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Taranto e nell’Archivio Capitolare di Grottaglie, e in particolare:
a.    Registro censuario del 1417 in cui si parla di una casa e di un terreno locati rispettivamente per venti anni e in perpetuo  a “Nicolao neophito”, ossia a un giudeo convertito al cristianesimo (Registrum exaratum in anno MCCCCXVII pro Maiori Ecclesia Annunciationis Criptalearum, Ms in Archivio Arcivescovile di Taranto).

La pergamena del 1486 incui figurano i nomi dei due giudei di Grottaglie, Mosè e Giacobbe

b.    Una pergamena del 12 agosto1486, in cui si fa riferimento al diacono Angelo de Gasparro che chiede copia di una sentenza del capitano arcivescovile Darede de Cava, riguardante i giudei Mosè e Giacobbe da Rossano contro Mico de Michi (Archivio Capitolare di Grottaglie, Pergamene, Notaio Cataldo De Tipaldo)

  1. Alcuni riferimenti nel protocollo del notaio Federico Ciracì (Federicus Cirasinus) dai quali si ha notizia di una località extraurbana denominata S. Pietro de Iudeis (Atto del 2 novembre 1531) e dell’esistenza della Giudecca presso le mura (in convicinio de Iudeca iuxta moenia; atto del 24 gennaio 1532). In quest’ultimo documento il venerabile D. Donato Ristaino affitta a mastro Geronimo Manigrasso una casa palazzata con camera e cisterna sita appunto nel rione della Giudecca, per nove anni e per cinque ducati l’anno, per farci una conceria di pelli e per esercitarvi tutte le attività connesse all’arte del conciapelli.

Gli Ebrei avrebbero lasciato il ricordo della loro permanenza a Grottaglie non solo nella onomastica e nella vita economica, ma anche in una manifestazione folcloristica che si svolgeva annualmente il 29 giugno.

Si tratta della festa delle trombe che così viene descritta dal Cafforio: “questa consisteva nell’allietare maggiormente la ricorrenza religiosa col suono delle trombe di argilla, di fabbricazione locale, dai primi vespri della vigi­lia fino alla notte del 29 giugno. Simpatica pratica folcloristica, que­sta, e forse unica nella nostra regione, che fu anche introdotta in Grottaglie dai cristiani novelli. È  noto che gli Ebrei usarono le trom­be da principio nel Tabernacolo nei giorni delle feste solenni, quan­do immolavansi gli olocausti e le vittime di pacificazione; in seguito nel tempio per annunziarvi le feste solenni, l’ingresso del giorno di sabato e i giorni della luna nuova (…) I ragazzi, appena venuti in possesso delle trombe, toccavano, co­me suoi dirsi, il cielo col dito le provavano, tentavano gli acuti da prima con cautela per non impressionare bruscamente gli orecchi dei familiari e poi a gran fiato. Chi poteva uscire all’aperto, sulla strada o in cortile, si sbizzarriva a volontà, e così il frastuono comincia­va. Ma il più alto grado dello strepito si raggiungeva la sera della fe­sta nei pressi della chiesa di S. Pietro (…) A notte alta tornava il silenzio e quei suoni non si sentivano più per un anno preciso, perché a festa finita gli strumenti di argilla anda­vano in frantumi.”

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare ritorto. Grottaglie, Bottega Caretta, Grottaglie

La “festa delle trombe” (e chi scrive la ricorda bene), interrottasi per molti decenni, è stata ripresa con successo da qualche anno grazie al “Piccolo Teatro di Grottaglie”. E così anche quest’anno, il 29 giugno, giorno consacrato ai santi Pietro e Paolo, nella piazzetta antistante la piccola chiesa dedicata al principe degli apostoli, sarà possibile ascoltare, tra canti, poesie e musiche popolari, quel caratteristico, roco suono delle effimere trombe in terracotta che rinnoverà il ricordo di una tradizione che si perde nel buio dei tempi.

Libri/ Gertrude e Samuel Goetz, sopravvissuti alla Shoah

di Paolo Vincenti

Una drammatica testimonianza di vita vissuta. In due toccanti memoriali,  In segno di gratitudine e Senza Volto , i coniugi Gertrude e Samuel  Goetz ricostruiscono la propria straordinaria esperienza di sopravvissuti alla Shoah. I Goetz, reduci da una delle pagine più dolorose e terrificanti della storia del Novecento, sono stati protagonisti di una serata,  organizzata lo scorso anno dall’Associazione  “Emergenze sud-Presidio del libro di Parabita”, in collaborazione con la Pro Loco di Ruffano e l’Associazione “Soap” di Ruffano, presso il Teatro di Via Paisiello a Ruffano.

Samuel e Gertrude Goetz,  intellettuali  ebrei di origine polacca e austriaca, che oggi vivono negli Stati Uniti, hanno intrecciato il proprio destino con quello  della guerra e della segregazione razziale  e la fuga dall’abominio e dalla repressione di un  regime spietato e violento li ha portati  in Italia dove, durante gli anni della seconda guerra mondiale, si rifugiarono  per scampare alla persecuzione nazista.

Fu proprio il campo rifugiati di Santa Maria al Bagno, Nardò, ad accoglierli.  Qui, i due perseguitati si conobbero e qui nacque il loro amore, prima di essere  separati dalle vicende belliche e ritrovarsi poi nuovamente in America dove si trovano tuttora,  a Los Angeles, California, alla soglia degli ottant’anni, dopo una vita lunga  e intensa ma piena di soddisfazioni. Samuel e Gertrude Goetz sono tornati in Italia per un ciclo di conferenze organizzate dall’Associazione Presidi del Libro e da Besa Editore.  E  Ruffano ha avuto l’onore di ospitarli la sera del 23 aprile, quando i due autori sono stati intervistati da Sonia Cataldo, responsabile del  Presidio del Libro Parabita,  Paolo Vincenti, Presidente Pro Loco Ruffano e Elena Pistone dell’Associazione Soap Ruffano,  per un’iniziativa  promossa dalla Regione Puglia e dall’Associazione Presidi del Libro e  patrocinata dal Comune di Ruffano.

Il primo memoriale è quello di Gertrude Goetz,  “In segno di gratitudine” (Besa Editore), nel quale l’autrice ripercorre la propria dolorosa esperienza di profuga ebrea negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Dall’Austria, il paese di origine, che la aveva vista bambina felice e adolescente spensierata, all’Italia dove, insieme alla propria famiglia, compie un viaggio che dal Brennero la porta in Salento, nel campo profughi di Santa Maria al Bagno- Nardò dove, scrive l’autrice nella Prefazione “ all’età di dodici anni, compresi per la prima volta il significato di libertà, sicurezza e di conforto amichevole. Fu lì che io e i miei genitori ci rendemmo conto di non essere più in pericolo, di essere sopravvissuti e di aver riconquistato il diritto di vivere.. . In piedi su un’altura, vidi un paesaggio paradisiaco, una distesa di acqua di mare calma, di colore blu intenso e, sulla riva, un paesino pittoresco, Santa Maria. Fui letteralmente sopraffatta da un senso di rinnovata gioia di vivere e di speranza in un futuro migliore.” Qui, Gertrude conosce anche Samuel,  l’amore della sua vita, prima di partire per gli Stati Uniti, ossia per il viaggio definitivo,  in un paese dove, però, ritrova il suo amato compagno dal quale non si separerà più per tutta la vita. “Santa Maria rappresenta anche il periodo della ripresa degli studi. Iscritta al Liceo di Nardò, vi fui accolta con calore”, scrive ancora Gertrude. “Eravamo sopravvissuti, avevamo un tetto, eravamo provvisti di tutto il necessario e avevamo trovato la calda ospitalità della piccola comunità di Santa Maria. Sulla sua spiaggia conobbi molti italiani e feci amicizia con un giovane più grande di me di tre anni che ancora oggi, a distanza di cinquantacinque anni, è il mio compagno di vita. Ho serbato per me il ricordo dei giorni trascorsi a Santa Maria e l’ho condiviso con i figli e con i miei numerosi nipoti che non vedono l’ora di visitare Santa Maria e ammirare con i loro occhi quel che hanno ascoltato dalle mie parole”. Il libro reca una Prefazione di Fabrizio Lelli e una Postfazione di Paolo Pisacane, presidente Associazione Pro Murales Ebraici Santa Maria al Bagno. E proprio la madre e la zia di Pisacane compaiono, insieme a Gertrude, nella bella foto in bianco e nero che campeggia sulla copertina del libro; una foto che ritrae tre belle ragazze sedute sugli scogli di Santa Maria al bagno con, alle spalle, il nostro inconfondibile Mare Ionio salentino. Nel 1949, Gertrude venne ammessa negli  Stati Uniti d’America e si stabilì a Los Angeles- California,  dove ha conseguito diverse lauree e ha lavorato come bibliotecaria e insegnante in un liceo. Ora è in pensione ma ancora molto attiva sul fronte della promozione culturale e  della memoria storica, come il suo soggiorno di questi giorni in Salento conferma.

“Senza volto “ (Besa Editore) è invece il titolo del libro di Samuel Goetz, ebreo di origine polacca che a differenza della moglie ha vissuto in prima persona l’esperienza di internato in un campo di concentramento nazista, ad Ebensee (Austria) e  a Cracovia.  Nel  suo memoriale  ricostruisce con una lucida analisi gli anni di quel cammino di dolore e poi, capitolo dopo capitolo, tutte le peripezie di un’avventura umana davvero incredibile ma, per un inspiegabile disegno del destino, dal lieto fine; ed è proprio la sua sopravvivenza che lo ha fatto, e lo fa ancora, un privilegiato, una persona diversa, per qualche oscuro disegno del destino, da tante altre come lui che hanno invece trovato la morte nei lager . Dopo la narrazione degli anni bui, di deportato e profugo in Italia, Samuel ricostruisce, nell’ultima parte del libro, gli anni della ritrovata serenità, della nuova vita in America, dove è stato professore alla UCLA, l’Università di Los Angeles, città in cui egli ha vissuto e vive tuttora insieme alla sua numerosa famiglia.

L’autore dice di essersi interrogato spesso sull’utilità di scrivere un libro su quella drammatica esperienza, ferita aperta nel cuore dell’Europa del Novecento, abominio inenarrabile,  che egli stesso definisce  “un tradimento della storia”. Ma gli accadimenti politici degli anni Ottanta e Novanta con quelle ondate di revisionismo storico in cui “pseudo scienziati”, come li definisce Sam , cercavano di negare l’evidenza storica dell’Olocausto e dei campi di sterminio, lo hanno convinto a mettere nero su bianco la propria esperienza,  a futura memoria. La rabbia, la frustrazione, il bisogno di reagire ai negazionisti, unite al desiderio di raccontare ai propri figli ed ai propri nipoti quello che era successo, lo hanno portato a farsi attivista in questa nobile causa di salvaguardia della memoria storica. Ed è proprio la testimonianza diretta dei protagonisti di quegli anni, come Sam e Gertri Goetz , che aiuta anche noi a non dimenticare l’Olocausto, a non dimenticare a quali degenerazioni può arrivare la bestia umana quando è assetata di sangue. E un incontro così emozionante come quello che si è svolto a Ruffano aiuta anche una piccola comunità del nostro Salento a capire che non è solo un mese della memoria che ci  può far riflettere su quello che è stato e su quello che ancora è  la nostra storia.

 

I murales ebrei di Santa Maria al Bagno. Per non dimenticare!

di Gianni Ferraris

Prendendo la litoranea da Gallipoli verso nord si passa per alcune frazioni sulla marina. Sono paesini prevalentemente di seconde case. In estate è un pullulare di turisti, di lingue, di culture diverse. Negli altri mesi invece la calma è immensa. Poche persone, il mare che accompagna con il suo sottofondo di rumori più o meno cupi, pescatori in lontananza. Sono luoghi in cui è bello sedersi e guardare il tempo scorrere con i pensieri che lo accompagnano. Posti battuti dal maestrale che porta freddo, a tratti la roccia è stata tagliata per far passare la strada. Si transita fra due muri nella “montagna spaccata” come la chiamano qui.

Ebrei a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

E subito dopo il mare riappare. E la storia è passata da qui come da ogni luogo e sono racconti ora, quasi fiabe. Gli abitanti locali li danno per scontati, ma per me che ascolto per la prima volta sono evocativi di come la solidarietà sia ovvia, non derogabile, in queste terre. Lo straniero, il diverso, è accolto e spesso protetto, soprattutto se ha gli occhi colmi di terrore. Non importa da dove venga, né importa il colore della pelle o politico, prima si accoglie, poi magari si discute. Santa Maria al Bagno ti viene incontro con le sue Quattro Colonne. Sono i resti di una grande torre di avvistamento, come le altre voluta da Carlo V, danneggiata forse da un sisma che ne ha demolito il centro, lasciando in piedi solo i quattro angoli. È una frazione di Nardò, in questo piccolo luogo sostò a lungo un pezzo di storia.  

Era da poco passato il Natale del 1943 quando il piccolo sobborgo fu scelto dalle autorità inglesi come campo profughi. Arrivarono i primi camion carichi di persone, erano slavi. Furono requisite le case, furono alloggiati gli sfollati. Ma la diffidenza fra i profughi e quelli che solo pochi mesi prima erano considerati nemici era forte. La difficile convivenza durò pochi mesi. Gli slavi lasciarono il luogo. E spesso lasciarono un ricordo non buono. Non sempre trattarono con cura le cose e le abitazioni che vennero loro affidate. Andarono in altri luoghi i profughi, ma rimasero i soldati inglesi. E poco tempo dopo altri camion arrivarono. Molto più numerosi e con molte più persone.
 
Quando scesero a terra i loro sguardi erano diversi. Timorosi e spesso rivolti in basso. C’era un po’ di diffidenza e paura nei salentini. Ancora le eco dei massacri di ebrei, dei campi di sterminio, non erano arrivate in queste terre, tutto sommato solo sfiorate dalla guerra. Furono sufficienti pochi mesi per sapere, capire, ascoltare storie che si credevano impossibili. E presto nacque quella solidarietà che è spontanea in chi ha conosciuto la fame verso chi ha vissuto gli orrori della storia. Così il cibo dato dall’amministrazione delle Nazioni Unite veniva scambiato dagli ebrei con il pesce dei pescatori locali. Spesso veniva donato in cambio di nulla. 

E i rapporti divennero solidi e solidali. Gli ebrei fecero nascere alcuni negozi, e la vita ricominciò. I bambini andavano a scuola tutti assieme, forse non avevano il grembiulino, però nessuno avanzò mai la pretesa di far frequentare classi diverse a nessun altro. Nonostante si sentisse parlare italiano, salentino, spagnolo, yddish. In quegli anni nel campo passarono circa 100.000 ebrei e furono celebrati circa 400 matrimoni regolarmente registrati allo stato civile di Nardò. In uno di questi la teste fu Golda Meyer. Da qui passarono Moshe Dayan e Ben Gurion. Stavano andando verso quella che sarebbe diventata Israele, ma questa è altra storia.

Nel Salento le esigenze religiose dei nuovi arrivati vennero agevolate. Nacque una sinagoga in alcuni locali sulla piazza, ed un kibbuz poco distante. E ancora sono presenti, fortunosamente salvati dalla distruzione, alcuni murales fatti da Zivi Miller, ebreo polacco che a Santa Maria trovò la compagna della sua vita. Un comitato ne ha preso a cuore la vicenda perché quelle opere erano in una casa abbandonata e fatiscente e si stavano irrimediabilmente danneggiando.

L’amministrazione comunale ha provveduto a staccarli e a dar loro una sede più idonea. Ed è opera meritoria in giorni in cui una destra estrema e quasi eversiva sta rialzando la testa. E lo fa nei modi più criminali. A pochi metri da quella casa e da quella testimonianza è comparsa, a inizio anno, una scritta che dice: 10 100 1000 Anna Frank. L’humanitas trovata nel Salento venne riconosciuta e viene ricordata in Israele. E un riconoscimento è giunto alla città di Nardò dal capo dello stato.

Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del 27 gennaio 2005, ha conferito motu proprio la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla città di Nardò
con la seguente motivazione:

«Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche».

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

È il più grande dei due murales realizzati da Zivi. Rappresenta il grande sogno degli ebrei di raggiungere la Terra Santa. Sulla sinistra le vittime scampate all’olocausto si lasciano alle spalle un’Europa disseminata di filo spinato. Attraversano l’Italia e raggiungono il campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno. Da qui il viaggio di una moltitudine allegra e festosa che raggiunge finalmente la Palestina, passando simbolicamente sotto un arco a forma di stella di David.

 

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

Questo è il secondo murales di Zivi. È evidentemente meno gioioso dell’altro. In questo caso la Terra Promessa è un fortino, un castello inaccessibile. La porta e le finestra sono chiuse dalle grate: da lì sventolano i simboli dell’ebraismo. Una mamma e i suoi due bambini giungono da lontano, ma la loro espressione è corrucciata, come se per la difficile strada percorsa per arrivare fin lì avessero perso qualcuno di importante. Ad accoglierli non c’è un arco, né le palme del deserto ma un soldato inglese col fucile in mano.

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

Questo è l’unico murales non realizzato da Zivi. È opera di una ragazza ebrea, anch’essa ospite del campo di Santa Maria. In questo caso, l’accezione dei soldati inglese sembra essere diversa da quella datagli dall’artista rumeno. I militari non bloccano gli ebrei in arrivo, ma custodiscono i simboli della loro religione, rimanendo un gradino più in basso, quasi fossero degli umili e discreti servitori della causa ebraica.

 

Antica presenza ebraica a Grottaglie. L’attività di tintori e conciapelli

La festa delle trombe

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare comune. Grottaglie, Bottega Tromba di S. Pietro (bottega Vestita, Grottaglie)

di Rosario Quaranta

 

Stando a una tradizione medievale, la presenza di ebrei in alcune città della Puglia risalirebbe addirittura agli anni immediatamente successivi alla caduta di Gerusalemme del ‘70 dopo Cristo ad opera di Tito e alla conseguente deportazione degli abitanti: “Quelli che (Tito) stabilì in Taranto, Otranto e in altre città della Puglia fu di circa 5.000”si legge nell’opera  Sefer Iosefon risalente al X secolo. Se questa notizia suscita qualche dubbio o perplessità circa la realtà storica dell’avvenimento, non altrettanto si può dire circa la presenza di ebrei nella città bimare a partire dalla fine del quarto secolo dopo Cristo, che è attestata  da una consistente documentazione epigrafica in greco, latino ed ebraico, conservata nel Museo Nazionale di Taranto e da molti altri documenti che Cesare Colafemmina ha studiato e proposto nella monografia Gli ebrei a Taranto: fonti documentarie (Bari 2005).

Per l’illustre studioso quella degli ebrei fu una presenza piuttosto consistente che diede vita a una vera e propria cultura ebraica pugliese e che vide nei secoli VIII-IX una grande fioritura poetica.  Poiché la maggior parte delle iscrizio­ni sono in latino, si pensa che la colo­nia ebraica si identificò con l’elemento latino-longobardo piuttosto tollerante nei loro confronti. I Longobardi presero Taranto tra il 670 e il 680, togliendola a Bisanzio, e la tennero fino all’840, quando venne occupata dagli Arabi, scacciati a loro volta 40 anni dopo dai Bizantini che ripristinarono la cultura greca.

Un riferimento ufficiale alla presenza degli Ebrei a Taranto si ritrova  nel diploma del 1133 di  Ruggero II (confermato poi nel 1195 da Enrico VI di Svevia) in cui il re normanno, accogliendo le richieste del vescovo Rosemanno, concesse a lui e alla sua chiesa le donazioni e i privilegi già fatti dal duca Roberto il Guiscardo, dal prin­cipe Boemondo e dalla madre di questi Costanza. Fra le dona­zioni c’erano molti casali tra i quali Grottaglie, ma c’erano pure i redditi sulle attività dei giudei della città.

Grottaglie. La gravina del Fullonese. Qui gli ebrei, prima di trasferirsi nella Giudecca, esercitarono le loro attività di tintori e conciapelli

Oltre che a Taranto, ebrei e neofiti si impiantarono in alcune località vicine. Altri vi immigravano da sedi più lontane. Talora si trattava di presenze occasionali dovute a motivi commerciali o professionali, come a Massafra. Presenze stabili sono attestate a Grottaglie, Martina Franca, Manduria, Castellaneta. In que­st’ultima cittadina è ancora in uso il toponimo Via Giudea. La vita degli ebrei a Taranto non era fatta solo di commercio, artigianato, prestito bancario. Alcuni codici ebraici del XV seco­lo ci illuminano sugli aspetti più profondi dell’identità ebraica, quella culturale e religiosa (…).

Federico, figlio di Ferrante I d’Aragona, con i Capitoli del 12 giugno 1498 concesse agli ebrei una lunga serie di garanzie e di riconoscimenti di diritti. Successivamente, con la conquista spagnola del regno di Napoli (1503) si assistette al tramonto e alla fine del Giudaismo dell’Italia meridionale, dapprima col bando di espulsione del 1510 di Ferdinando il Cattolico che interessava tutti i giudei e i “cristiani novelli”, salvo poche eccezioni; e infine con Carlo V che “nel maggio 1541 emanò un decreto con cui ordinava senza pietà a tutti i giudei che abitavano nel regno di Napoli di uscire dalle sue terre entro il mese di ottobre. Entro la data stabilita, i giudei pugliesi lasciarono il Regno: alcuni si avviarono alla volta di Roma, gli altri si imbarcarono chi per Venezia, chi per Ragusa, la maggior parte per Corfù e Salonicco. Restarono solo quei neofiti che si erano assimilati alla popolazione cristiana e nella quale poco per volta si dissolsero. Ma le autorità non li dimenticavano, e per parecchio tempo restò loro appiccicata la qualifica, invero poco onorevole e sempre fonte di sospetti, di “cristiani novelli” (Colafemmina).
Secondo alcuni documenti e una tradizione costante, anche a Grottaglie si è registrata quindi una attiva presenza ebraica tra basso Medioevo e primo Cinquecento.

Inizialmente, secondo la ricostruzione fatta da Ciro Cafforio nella monografia La Lama del Fullonese (Taranto 1961), essi si stanziarono nella gravina del Fullonese per esercitarvi la tintoria e la concia delle pelli, come il toponimo lascia intendere: “i giudei venuti in quel tempo, nella nuova dimora trovarono condizioni favorevoli all’esercizio e allo sviluppo dei loro mestieri. La pastorizia e l’allevamento di bovini di razza pregiata, detti dal pelo lom­bardo, erano praticati su larga scala dai naturali del luogo e forniva­no le pelli da conciare; i boschi poi offrivano abbondantemente fo­glie di lentischio e di corbezzolo, cortecce di quercia e noci di galla: vegetali questi che, contenendo grande quantità di tannino, di acido gallico e di mannite, erano usati direttamente come materie concian­ti. In molte antiche scritture una contrada dell’agro di Grottaglie è chiamata «Monte di Giuda seu la strada di Ceglie». Essa veniva a trovarsi al nord-est dell’abitato ed è così precisata nella Platea dei beni della Mensa Arcivescovile di Taranto. Per essere detta località macchiosa con cespugli di corbezzoli e di lentischi, non sembra difficile che i giudei del Fullonese l’abbiano presa in enfiteusi o secondo l’uso longobardo col sistema curtense, donde il nome «corte » per la raccolta della «frasca». Sugli spalti della lama è ancora visibile qualche vasca di macerazione, scavata nella roccia. L’acqua necessaria a tale uso sulle prime fu attinta da pozzi esistenti nel fondo valle; in seguito, per le maggiori necessità, il Pubblico Reggimento fece scavare dei pozzi di acqua viva a po­nente della lama nel luogo che da allora si disse «de puteis novis» (…).

Antichi mestieri a Grottaglie: lu cunzatòri e lu panaràro in un acquerello di Angelo Pio De Siati (1998)

In conseguenza poi del mestiere di tintori, la tradizione ricorda che gli Ebrei diffusero negli orti e nei giardini di Grottaglie la cul­tura del melograno, il frutto del quale, come è noto, dà la corteccia che si usa per tingere di giallo le stoffe e i marocchini. Circa la religione, è superfluo dire che gli immigrati, quando si stabilirono nella lama del Fullonese, professavano il giudaismo, al quale rimasero fedeli ancora per qualche secolo. Il luogo in cui si riu­nivano per pregare e leggerela Scritturaè visibile anche oggi. Sulla fiancata destra della lama e propriamente quasi alla metà, là dove il solco vallivo forma un gomito più accentuato, si aprono due grot­te discretamente conservate (…). Con la costruzione delle mura del paese, le grot­te della lama del Fullonese vennero tagliate fuori e allora gli abitan­ti si ridussero nell’area fortificata. Gli Ebrei ebbero a loro disposizio­ne un rione nella parte sud-ovest del paese, vicino alla porta S. An­tonio. Il rione fu detto «la Giudeca»; la strada di accesso «de li cuoiai » prima, e «delli scarpari» poi. La chiesa ivi esistente fu detta S. Stefano «dei Giudei» (…). La conversione fu una conseguenza naturale  della convivenza col popolo grottagliese e una necessità. Anche a volersi mantenere fedeli alle tradizionali credenze, come è il carattere spiccato dei giu­dei, gl’inevitabili rapporti economici e sociali con i cristiani, annessi e connessi con i mestieri che esercitavano, indebolirono a poco a po­co l’intransigenza dei loro principi religiosi. Ma fu anche una neces­sità : 1) per beneficiare delle concessioni e privilegi che i principi lar­givano agli abitanti di Grottaglie; 2) per sottrarsi alle decime dovu­te all’Arcivescovo di Taranto, che per giunta era feudatario del luogo; 3) per liberarsi dal disprezzo col quale venivano fatti segno nella settimana di Passione, quando cioè la Chiesa commemora la morte di Cristo, dovuta proprio ai giudei.

Questi novelli cristiani nel corso dei secoli esercitarono sempre i mestieri di tintori e di conciapelli; alcuni si elevarono al rango di commercianti, tenendo botteghe di «pannacciari di piazza, propria­mente sottola Ven. Confraternitadel S.S. Rosario». Essi portaro­no la loro attività a sì alto grado da meritare l’esenzione delle tasse, caso unico nella storia ferocemente fiscale di Grottaglie che si di­batteva in deficit e debiti, liquidati solo quando fu abolito il feudalesimo (…) I giudei, entrando dunque ad abitare nella cerchia delle mura di Grottaglie, al principio del secolo XIV si unirono ai Grottagliesi anche spiritualmente, e contribuirono in tutti i tempi a dar lustro alla patria adottiva.”

Censuario del 1417 incui viene riportato il nome di Nicolao, un ebreo “neophita” o “cristiano novello” di Grottaglie

Altre testimonianze documentali sulla presenza degli ebrei a Grottaglie, oltre quelle richiamate dal Cafforio, ho potuto ritrovarle in alcuni codici e pergamene dei secoli XV-XVI conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Taranto e nell’Archivio Capitolare di Grottaglie, e in particolare:
a.    Registro censuario del 1417 in cui si parla di una casa e di un terreno locati rispettivamente per venti anni e in perpetuo  a “Nicolao neophito”, ossia a un giudeo convertito al cristianesimo (Registrum exaratum in anno MCCCCXVII pro Maiori Ecclesia Annunciationis Criptalearum, Ms in Archivio Arcivescovile di Taranto).

La pergamena del 1486 incui figurano i nomi dei due giudei di Grottaglie, Mosè e Giacobbe

b.    Una pergamena del 12 agosto1486, in cui si fa riferimento al diacono Angelo de Gasparro che chiede copia di una sentenza del capitano arcivescovile Darede de Cava, riguardante i giudei Mosè e Giacobbe da Rossano contro Mico de Michi (Archivio Capitolare di Grottaglie, Pergamene, Notaio Cataldo De Tipaldo)

  1. Alcuni riferimenti nel protocollo del notaio Federico Ciracì (Federicus Cirasinus) dai quali si ha notizia di una località extraurbana denominata S. Pietro de Iudeis (Atto del 2 novembre 1531) e dell’esistenza della Giudecca presso le mura (in convicinio de Iudeca iuxta moenia; atto del 24 gennaio 1532). In quest’ultimo documento il venerabile D. Donato Ristaino affitta a mastro Geronimo Manigrasso una casa palazzata con camera e cisterna sita appunto nel rione della Giudecca, per nove anni e per cinque ducati l’anno, per farci una conceria di pelli e per esercitarvi tutte le attività connesse all’arte del conciapelli.

Gli Ebrei avrebbero lasciato il ricordo della loro permanenza a Grottaglie non solo nella onomastica e nella vita economica, ma anche in una manifestazione folcloristica che si svolgeva annualmente il 29 giugno.

Si tratta della festa delle trombe che così viene descritta dal Cafforio: “questa consisteva nell’allietare maggiormente la ricorrenza religiosa col suono delle trombe di argilla, di fabbricazione locale, dai primi vespri della vigi­lia fino alla notte del 29 giugno. Simpatica pratica folcloristica, que­sta, e forse unica nella nostra regione, che fu anche introdotta in Grottaglie dai cristiani novelli. È  noto che gli Ebrei usarono le trom­be da principio nel Tabernacolo nei giorni delle feste solenni, quan­do immolavansi gli olocausti e le vittime di pacificazione; in seguito nel tempio per annunziarvi le feste solenni, l’ingresso del giorno di sabato e i giorni della luna nuova (…) I ragazzi, appena venuti in possesso delle trombe, toccavano, co­me suoi dirsi, il cielo col dito le provavano, tentavano gli acuti da prima con cautela per non impressionare bruscamente gli orecchi dei familiari e poi a gran fiato. Chi poteva uscire all’aperto, sulla strada o in cortile, si sbizzarriva a volontà, e così il frastuono comincia­va. Ma il più alto grado dello strepito si raggiungeva la sera della fe­sta nei pressi della chiesa di S. Pietro (…) A notte alta tornava il silenzio e quei suoni non si sentivano più per un anno preciso, perché a festa finita gli strumenti di argilla anda­vano in frantumi.”

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare ritorto. Grottaglie, Bottega Caretta, Grottaglie

La “festa delle trombe” (e chi scrive la ricorda bene), interrottasi per molti decenni, è stata ripresa con successo da qualche anno grazie al “Piccolo Teatro di Grottaglie”. E così anche quest’anno, il 29 giugno, giorno consacrato ai santi Pietro e Paolo, nella piazzetta antistante la piccola chiesa dedicata al principe degli apostoli, sarà possibile ascoltare, tra canti, poesie e musiche popolari, quel caratteristico, roco suono delle effimere trombe in terracotta che rinnoverà il ricordo di una tradizione che si perde nel buio dei tempi.

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

I murales ebrei di Santa Maria al Bagno. Per non dimenticare!

di Gianni Ferraris

Prendendo la litoranea da Gallipoli verso nord si passa per alcune frazioni sulla marina. Sono paesini prevalentemente di seconde case. In estate è un pullulare di turisti, di lingue, di culture diverse. Negli altri mesi invece la calma è immensa. Poche persone, il mare che accompagna con il suo sottofondo di rumori più o meno cupi, pescatori in lontananza. Sono luoghi in cui è bello sedersi e guardare il tempo scorrere con i pensieri che lo accompagnano. Posti battuti dal maestrale che porta freddo, a tratti la roccia è stata tagliata per far passare la strada. Si transita fra due muri nella “montagna spaccata” come la chiamano qui.

Ebrei a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

E subito dopo il mare riappare. E la storia è passata da qui come da ogni luogo e sono racconti ora, quasi fiabe. Gli abitanti locali li danno per scontati, ma per me che ascolto per la prima volta sono evocativi di come la solidarietà sia ovvia, non derogabile, in queste terre. Lo straniero, il diverso, è accolto e spesso protetto, soprattutto se ha gli occhi colmi di terrore. Non importa da dove venga, né importa il colore della pelle o politico, prima si accoglie, poi magari si discute. Santa Maria al Bagno ti viene incontro con le sue Quattro Colonne. Sono i resti di una grande torre di avvistamento, come le altre voluta da Carlo V, danneggiata forse da un sisma che ne ha demolito il centro, lasciando in piedi solo i quattro angoli. È una frazione di Nardò, in questo piccolo luogo sostò a lungo un pezzo di storia.  

Era da poco passato il Natale del 1943 quando il piccolo sobborgo fu scelto dalle autorità inglesi come campo profughi. Arrivarono i primi camion carichi di persone, erano slavi. Furono requisite le case, furono alloggiati gli sfollati. Ma la diffidenza fra i profughi e quelli che solo pochi mesi prima erano considerati nemici era forte. La difficile convivenza durò pochi mesi. Gli slavi lasciarono il luogo. E spesso lasciarono un ricordo non buono. Non sempre trattarono con cura le cose e le abitazioni che vennero loro affidate. Andarono in altri luoghi i profughi, ma rimasero i soldati inglesi. E poco tempo dopo altri camion  arrivarono. Molto più numerosi e con molte più persone.
 
Quando scesero a terra i loro sguardi erano diversi. Timorosi e spesso rivolti in basso. C’era un po’ di diffidenza e paura nei salentini. Ancora le eco dei massacri di ebrei, dei campi di sterminio, non erano arrivate in queste terre, tutto sommato solo sfiorate dalla guerra. Furono sufficienti pochi mesi per sapere, capire, ascoltare storie che si credevano impossibili. E presto nacque quella solidarietà che è spontanea in chi ha conosciuto la fame verso chi ha vissuto gli orrori della storia. Così il cibo dato dall’amministrazione delle Nazioni Unite veniva scambiato dagli ebrei con il pesce dei pescatori locali. Spesso veniva donato in cambio di nulla. 

E i rapporti divennero solidi e solidali. Gli ebrei fecero nascere alcuni negozi, e la vita ricominciò. I bambini andavano a scuola tutti assieme, forse non avevano il grembiulino, però nessuno avanzò mai la pretesa di far frequentare classi diverse a nessun altro. Nonostante si sentisse parlare italiano, salentino, spagnolo, yddish. In quegli anni nel campo passarono circa 100.000 ebrei e furono celebrati circa 400 matrimoni regolarmente registrati allo stato civile di Nardò. In uno di questi la teste fu Golda Meyer. Da qui passarono Moshe Dayan e Ben Gurion. Stavano andando verso quella che sarebbe diventata Israele, ma questa è altra storia.

Nel Salento le esigenze religiose dei nuovi arrivati vennero agevolate. Nacque una sinagoga in alcuni locali sulla piazza, ed un kibbuz poco distante. E ancora sono presenti, fortunosamente salvati dalla distruzione, alcuni murales fatti da Zivi Miller, ebreo polacco che a Santa Maria trovò la compagna della sua vita. Un comitato ne ha preso a cuore la vicenda perché quelle opere erano in una casa abbandonata e fatiscente e si stavano irrimediabilmente danneggiando.

L’amministrazione comunale ha provveduto a staccarli e a dar loro una sede più idonea. Ed è opera meritoria in giorni in cui una destra estrema e quasi eversiva sta rialzando la testa. E lo fa nei modi più criminali. A pochi metri da quella casa e da quella testimonianza è comparsa, a inizio anno, una scritta che dice: 10 100 1000 Anna Frank. L’humanitas trovata nel Salento venne riconosciuta e viene ricordata in Israele. E un riconoscimento è giunto alla città di Nardò dal capo dello stato.

Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del 27 gennaio 2005, ha conferito motu proprio la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla città di Nardò
con la seguente motivazione:

«Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche».

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

È il più grande dei due murales realizzati da Zivi. Rappresenta il grande sogno degli ebrei di raggiungere la Terra Santa. Sulla sinistra le vittime scampate all’olocausto si lasciano alle spalle un’Europa disseminata di filo spinato. Attraversano l’Italia e raggiungono il campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno. Da qui il viaggio di una moltitudine allegra e festosa che raggiunge finalmente la Palestina, passando simbolicamente sotto un arco a forma di stella di David.

 

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

Questo è il secondo murales di Zivi. È evidentemente meno gioioso dell’altro. In questo caso la Terra Promessa è un fortino, un castello inaccessibile. La porta e le finestra sono chiuse dalle grate: da lì sventolano i simboli dell’ebraismo. Una mamma e i suoi due bambini giungono da lontano, ma la loro espressione è corrucciata, come se per la difficile strada percorsa per arrivare fin lì avessero perso qualcuno di importante. Ad accoglierli non c’è un arco, né le palme del deserto ma un soldato inglese col fucile in mano.

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

Questo è l’unico murales non realizzato da Zivi. È opera di una ragazza ebrea, anch’essa ospite del campo di Santa Maria. In questo caso, l’accezione dei soldati inglese sembra essere diversa da quella datagli dall’artista rumeno. I militari non bloccano gli ebrei in arrivo, ma custodiscono i simboli della loro religione, rimanendo un gradino più in basso, quasi fossero degli umili e discreti servitori della causa ebraica.

 

Libri/ Gertrude e Samuel Goetz, sopravvissuti alla Shoah

di Paolo Vincenti

Una drammatica testimonianza di vita vissuta. In due toccanti memoriali,  In segno di gratitudine e Senza Volto , i coniugi Gertrude e Samuel  Goetz ricostruiscono la propria straordinaria esperienza di sopravvissuti alla Shoah. I Goetz, reduci da una delle pagine più dolorose e terrificanti della storia del Novecento, sono stati protagonisti di una serata,  organizzata lo scorso anno dall’Associazione  “Emergenze sud-Presidio del libro di Parabita”, in collaborazione con la Pro Loco di Ruffano e l’Associazione “Soap” di Ruffano, presso il Teatro di Via Paisiello a Ruffano.

Samuel e Gertrude Goetz,  intellettuali  ebrei di origine polacca e austriaca, che oggi vivono negli Stati Uniti, hanno intrecciato il proprio destino con quello  della guerra e della segregazione razziale  e la fuga dall’abominio e dalla repressione di un  regime spietato e violento li ha portati  in Italia dove, durante gli anni della seconda guerra mondiale, si rifugiarono  per scampare alla persecuzione nazista.

Fu proprio il campo rifugiati di Santa Maria al Bagno, Nardò, ad accoglierli.  Qui, i due perseguitati si conobbero e qui nacque il loro amore, prima di essere  separati dalle vicende belliche e ritrovarsi poi nuovamente in America dove si trovano tuttora,  a Los Angeles, California, alla soglia degli ottant’anni, dopo una vita lunga  e intensa ma piena di soddisfazioni. Samuel e Gertrude Goetz sono tornati in Italia per un ciclo di conferenze organizzate

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