La Grecìa salentina nell’atlante del Pacelli (1803)

di Armando Polito

Dopo essermi occupato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/26/lalbania-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803-posseduto-suo-tempo-giuseppe-gigli-giallo-nota/) dell’isola alloglotta albanese così come appare nell’atlante dell’erudito di Manduria Giuseppe Pacelli, la stessa operazione farò oggi con la Grecìa salentina enucleando la parte relativa dal manoscritto i cui estremi il lettore troverà nel link prima segnalato.

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Descrizione della Grecia Sallentina

Come nella Diocesi di Taranto visono delle Popolazioni, che parlano un linguaggio straniero al comune di tutta la Provincia: così ce ne sono ancora alcun’altre nella Diocesi di Otranto. Quelle di Taranto sono di lingua Albanese, e queste di Otranto di Lingua Greca. Ivi nella Mappa deòò’Albania Sallentina ne osservammo i Paesi, e donde mai avessero potuto un tal linguaggio imparare: qui nella Mappa della Grecia Sallentina faremo l’istesso.  Tredici sono i Paesi, che attualmente parlano il Greco, e sono Soleto, Sogliano, Cutrofiano, Corigliano, Zollino, Sternatia, Martignano, Calimera, Martano, Castrignano (detto perciò Castrignano de’ Greci, a differenza di Castrignano del Capo in diocesi d’Alessano), Mepignano, Cursi, e Cannole. Ma in Soleto, ed in Martano si mantiene maggiormente in vigore, ove al cuni del Popolo né parlano, né intendono altro, che il solo greco; mentre negli altri Paesi va di giorno in giorno degenerandoo la lingua, e più frequentemente del greco parlano l’italiano. L’origine però di tal linguaggio in questi Paesi non lo dobbiamo mica ripetere da tempi della nostra Magna Grecia. Poiché sebbene per la vicinanza a tal Regione ne avesse tutto il Sallento imitato il linguaggio; coll’esser però insieme colla Magna Grecia anche tutta questa Provincia caduta in poter de’ Romani, ne adottò col tempo, lasciata la propria, insieme col costume, e colle leggi, anche la lingua de’ Vincitori. Io assegno per epoca, e credo di non ingannarmi, il tempo, in cui passò ad esser Capitale dello Impero e del Mondo la città di Costantinopoli, per essere divenuta la residenza de’ Cesari. L’invasione, che i Greci Orientali allora fecero della nostra Provincia, fece ritornare fra noi la lingua Greca. Nella nostra Biobiblografia Sallentina ci occuperemo alla lunga di tal punto: e qui solamente osserviamo, che essendo cominciati nella nostra Provincia, a divenir promiscui i due riti latino e greco nella sagra Liturgia; e tanto più che alcune Scuole di Greca letteratura fra noi facevano dello strepito, e ne fomentavano la coltura, fu duopo1 alla fine, che tutte le Chiese del Sallento adottassero totalmente il rito greco, in vigor dell’Editto dell’Imperador Niceforo Foca dell’anno 968, con cui si ordinò che in tutta la Puglia, e nella Calabria in greco i divini uffici si recitassero. Allora fummo tutti di un sol linguaggio, perché era uniforme tanto a quel del Governo, che della Chiesa. Le note vicende quindi accadute, e le invasioni, che fecero in seguito delle Provincie dìItalia straniere selvagge Nazioni, sebbene linguaggio mutar facessero all’Italia tutta, dentro di cui uno particolr ne nacque, qual si fu l’Italiana favella, pur tuttavia serbassi nella nostra Provincia pe ‘l rito Chiesastico il Greco. E ne abbiamo veridiche notizie specialmente della Chiesa di Soleto (antichissima Città per l’origine, e di gloriosa ricordanza, per aver dato il nome di Sallenzia a questa parte di Provincia), in cui da Padre in Figlio per più di un secolo la Famiglia Arcudi occupò la carica di Arciprete Greco nella Chiesa Soletana. Or l’ultimo di tali Arcipreti di rito greco, e primo di rito latino fu il dotto Antonio Arcudi, che morì nel principio del secolo XVI dopo aver pubblicato in Roma per ordine di Papa Clemente VIII il suo Breviario Greco.

 

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Sul finire dunque del secolo XV dovettero le nostre Chiese abbandonare a poco a poco il greco, adottare il rito latino, e cessare un tale linguaggio in Provincia. Que’ luoghi però, che oggi formano la Grecia Sallentina, sebbene per uniformarsi a tutti i Paesi vicini, usassero anche per la Chiesa il Latino, ritennero però per lor linguaggio il greco, ed insieme coll’Italiano lo serbano tuttora, comecché molto allontanato dalla natia purezza.    
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Mi congedo dal lettore con le stesse amare considerazioni con cui chiudevo il post sull’Albania salentina; anche il griko, nonostante le lodevoli iniziative locali di sensibilizzazione e conservazione, è destinato a morire, sopraffatto inesorabilmente dall’assalto dei nuovi (ma non tanto …) media, tv in primis, dal pregiudizio imperante secondo cui piccolo non è bello (belle le multinazionali!…) e dalla globalizzazione. Tuttavia debbo rivendicare al Pacelli un primato. La sua ipotesi sull’origine del griko precede di parecchi anni una corposa bibliografia che annovera Griechische volkslieder in Suden von Italien pubblicato nel 1821 da K. Witte sulla rivista  Geselischalter (articolo, però, dedicato al grecanico, cioè al greco di Calabria) e poi, via via,  i contributi di Domenico Comparetti (Saggi dei dialetti greci dell’Italia meridionale, Nistri, Pisa, 1866), Giuseppe Morosi (Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1870). Si può dire che gli studi del Morosi costituiscono lo spartiacque  tra due scuole si pensiero che negli anni successivi si sarebbero affrontate non senza virulenza. Per il Morosi l’origine del griko era bizantina. Poi venne Gerard Rohlfs (Scavi linguistici nella Magna Grecia, Collezione meridionale editrice, Roma, 1933)  a ribaltare la teoria del Morosi (che nel frattempo era stata ripresa da Clemente Merlo, Carlo Battisti e Giovanni Alessio e che dopo la guerra sarà ripresa da Oronzo Parlangeli) sostenendo che il griko avesse un’origine molto più antica di quella bizantina, che fosse, cioè, il residuo della colonizzazione della Magna Grecia. La diatriba sulle due teorie si è via via congelata (anche per la morte  dei protagonisti) fino al 1996, anno in cui Franco Fanciullo pubblicò Fra Oriente e Occidente. Per una storia linguistica dell’Italia meridionale, ETS, Pisa, ETS. Il Fanciullo, originario di Cellino San Marco (questa nota che può sembrare campanilistica vuole essere una sorta di compensazione del fatto che un fenomeno di casa nostra è stato oggetto di indagine da parte di studiosi non locali, se si esclude il Parlangeli, o, addirittura, come nel caso del Rohlfs, stranieri), sulla base anche di principi tratti dalla moderna sociolinguistica, avanza un’ipotesi che rappresenta, in un certo senso,  un compromesso tra i due blocchi precedentemente descritti, giunge, cioè, alla conclusione che l’origine del griko non risale né alla Magna Grecia, né al periodo bizantino, ma al tardo-antico, cioè  imperiale perché, secondo il Fanciullo,  quando i Romani sconfissero definitivamente i Messapi, nel nostro Salento sarebbero arrivati sì i soldati di Roma, ma anche moltissimi greci.

Comunque siano andate le cose e per chiudere con un ulteriore briciolo di campanilismo (so benissimo che questo sentimento non va d’accordo con la neutralità della scienza, ma tant’è: ogni tanto bisogna pur cedere a qualche debolezza …), va almeno riconosciuto che il padre della teoria dell’origine bizantina non fu il lombardo, milanese Morosi ma il salentino, manduriano  Pacelli.

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1 Sic, per d’uopo.

Il complesso megalitico di contrada “Plao”, in feudo di Corigliano d’Otranto, e i suoi Dolmen “Caroppo”

Dolmen Caroppo I
Dolmen Caroppo I

di Oreste Caroppo

un sito che ebbi il grande privilegio di poter scoprire da piccolo, con indescrivibile emozione, durante le mie esplorazioni del territorio! Per decenni era del tutto passato inosservato agli occhi degli studiosi, cultori di “cose patrie” e non solo. Era il 1993, il 16 luglio del 1993, momenti che non si possono dimenticare! Tanto che i due dolmen principali del complesso furono poi battezzati con il mio stesso cognome, sui primi testi che furono pubblicati dopo la grande eco che il ritrovamento ebbe, e non vi è da meravigliarsi data l’ imponenza del più grande dei due dolmen, della sua enorme lastra, o meglio delle sue più lastre litiche orizzontali di copertura disposte adiacenti tra loro, una rarità per tale aspetto, nell’ambito delle manifestazioni del megalitismo salentino, sin ad oggi note.

 

Dolmen Caroppo I e II
Dolmen Caroppo I e II

E queste foto che scattai allora, in analogico, le pubblico per condividerle a tutti, perché son FOTO PREZIOSE, PREZIOSISSIME! Perché? Perché oggi lo spettacolo suggestivo di quel complesso, così come appariva in tutta la sua verginità ai miei occhi, è stato oltraggiato volgarmente! I due Dolmen, almeno quelli, per fortuna son rimasti lì, in piedi, temuti nella loro integrità, e dunque identità, e per questo dai “vandali”, fortunatamente, rispettati, ma tutto il contesto è stato vilipeso, in così pochi anni, certamente a seguito dell’eco della notizia della loro importanza: tutti i massi megalitici intorno ai due dolmen che in queste foto vedete, e che eran sparsi per il sito, taluni anche con interessanti fori, son stati rimossi, asportati, svaniti!

Dolmen Caroppo I
Dolmen Caroppo I

L’enorme banco roccioso affiorante sulla Serra, la collina dorsale tra Maglie e Corigliano, sulla cui cresta sorgeva il complesso (in basso passa l’antica strada rurale Maglie-Corigliano), un banco roccioso a vista, esteso come in pochi altri contesti salentini così, e che accecava per il suo calcareo biancore di pietra leccese, tra le foglie dei fichi, della vite e degli ulivi, piantati in conchette di terra, è stato coperto con terra di apporto, neppure locale, svanite quelle che apparivano come altre ciste dolmeniche, qui documentate nelle foto che aggiungerò; così stesso vile destino per quelle che erano “specchie”, cumuli di pietrame minuto, ma anche talune cumuli ordinati di “chianchette” di pietra naturale lastriforme, giustapposte le une sulle altre orizzontalmente; coperto così con pietre e terra l’evidente ingresso di una grotta, cavità naturale carsica o forse artificiale o semi-naturale, pure qui documentata, che in un simile contesto quanti interrogativi culturali e di ricerca pone per i nostri archeologi!!! Una bacinella rettangolare scavata nella roccia, le tracce di cavatura arcaica lì stesso dei grandi massi e lastroni, coperti! Coperti  mi auguro, perché non vorrei che qualche pazzo abbia fatto persino lì muoversi, tra i dolmen, un mezzo meccanico spietratore e spacca sassi!

Sempre Dolmen Caroppo I dall'altro lato
Sempre Dolmen Caroppo I dall’altro lato
Dolmen Caroppo I
Dolmen Caroppo I
Dolmen Caroppo II
Dolmen Caroppo II

 

Dolmen Resti di un possibile tumulo con cista dolmenica all' interno, di cui restavano questi tre ortostati laterali, e pietrame minuto ... tutto scomparso
Dolmen Resti di un possibile tumulo con cista dolmenica all’ interno, di cui restavano questi tre ortostati laterali, e pietrame minuto … tutto scomparso
Resti di un possibile tumulo con cista dolmenica all' interno, di cui restavano questi tre ortostati laterali, e pietrame minuto
Resti di un possibile tumulo con cista dolmenica all’ interno, di cui restavano questi tre ortostati laterali, e pietrame minuto

Un muro di blocchi megalitici informi (tra i fondi “Plao mea” e “Plao mincio”)), sostituito con un muretto cementato di blocchi squadrati; trafugato il coperchio monolitico di pozzo, circolare con foro maniglia passante sul bordo, che era stato impiegato dai contadini per farne uno “ssettaturu”, un sedile e al contempo una cuccia (a copiata tipologia dolmenica) per qualche cane, nei pressi del trullo che ricadeva in quel fondo (nel podere chiamato “Plao mea”); trullo con la croce raggiata incisa all’ interno sulla sua chiave di volta della tholos, ancora almeno quello, come altri prossimi rimasto in loco! Sopravvissute alcune “spase” di pietrame della civiltà contadina per seccare fichi e legumi, la vela di un vecchio pozzo, e i muretti a secco dei poderi e di alcuni caratteristici terrazzamenti! E poi, persino lì, in questa manciata di anni, dopo la pace ed il rispetto di secoli di lavoro dei contadini che han preservato tutta quella magia incantevole di pietre: due abitazioni costruite nei suoi pressi, una accettabile per stile, in pietra, più accostabile ad una “case colonica”, ma l’altra uno squallore di cemento, una bestemmia realizzata scassando il prezioso banco roccioso! Colpe?! Tante! Di tutti! Anche mia che non ho vigilato, che non ho preteso…ma forse perché ero un bambino!

coperchio monolitico di pozzo
coperchio monolitico di pozzo

dolmen struttura trilitica di poggioreale sulla serra di Corigliano

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Ma queste foto son, se tutti lo vorremo, e tutti riconosciamo il valore e l’incanto di ciò che mostrano, pietre più dure e più pesanti del blocco monolitico più ciclopico di quel complesso, più dell’intera collina, perché ci dicono ciò che c’era, le suggestioni che abbiamo perso, ma che DOBBIAMO E POSSIAMO RIPRISTINARE, RECUPERARE, RESTAURARE ASSOLUTAMENTE!

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NOTA SUL TOPONIMO “PLAO”

Il toponimo “Plao”, richiama il toponimo “Paliceddha”, (italianizzato in Palicella) presente non lontano, in feudo di Maglie, e che di origine griko-salentina, vuol dire piccola “plaka”, piccolo dolmen. La “plaka”, che diventa nel dialetto romanzo salentino, “chianca”, è la lastra di pietra, che puo pertanto, passare ad indicare la tavola di pietra e quindi il dolmen. così a Maglie un grande dolmen è chiamato proprio “Chianca”, come il toponimo della particella in cui insiste, in contrada Poligarita, e un dolmen a Melendugno è chiamato dai locali “Plaka”, in dialetto. La radice “Pla-”, echeggia la radice dei termini greci “Platea”, spazio ampio, di “Platano”, il nostro albero mediterraneo autoctono (il Platanus orientalis) dalle ampie foglie, e in contrada Plao tanto la presenza delle ampie lastre dei dolmen, quanto l’ampia distesa di nuda levigata superficie spianata di roccia calcarea carsica, dove vi erano i megaliti e che ebbi il privilegio di contemplare intatta e scoperta, ben si accordano con il toponimo griko-salentino “Plao”. Il podere Plao, era diviso nel 1993 tra due parenti, di una famiglia di Corigliano, e la porzione più grande nella parte alta della Serra, dove vi erano i due “Dolmen Caroppo”, era chiamato “Plao mea”, in griko “mea”, dal greco “mega”, che vuol dire “grande”; la porzione più piccola posta lungo le pendici terrazzate della Serra, bordata dalla strada antica Maglie-Corigliano, era chiamato “Plao mincio”, dal dialetto locale “mincio”, che vuol dire “piccolo”. L’appezzamento più devastato è stato proprio il “mea”, mentre il “mincio” è tenuto dai suoi proprietari con ben maggiore cura e rispetto per il paesaggio storico-naturale locale! Quando mi avvicinai, nel 1993, con metro, taccuino, penna, bussola e macchina fotografica per rilevare il sito, incontrai l’anziano contadino del fondo “mincio”, che fu ben lieto di condurmi nella proprietà adiacente del parente per farmi vedere i dolmen, quelle “taule de petra”, tavole di pietra, come il trullo presente nel “mea”, ma poi anche il bel trullo presente nel suo fondo, e i terrazzamenti, il lavoro degli avi mi diceva, e poi che forza da giganti, mi diceva, i nostri antenati nel costruire il grande dolmen, e mi mostrava fiero le sue grandi lastre orizzontali molto spesse, “quante persone per sollevarla!? Quanto lavoro e ingegno gli antichi!”, ma l’unico uso che lui aveva visto dai suoi padri per quelle tavole di pietra era fungere da superfici secche su cui seccare al sole d’estate i fichi, per far provviste dolci per l’inverno … quelle pietre enigmatiche avevano trovato un riciclo, un riuso, nella civiltà contadina, ed erano state così rispettate al contempo nel loro enigmatico arcaico mistero, ne avevano aguzzato la fantasia e spinto a simulazioni, laddove possibile, con lastre di pietra però meno mastodontiche di quelle, come nel sedile realizzato vicino al trullo del fondo “mea”!!!

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Il castello di Corigliano d’Otranto (Lecce)

di Maurizio Nocera

 

Il Castello di Corigliano d’Otranto (Lecce, Edizioni del Grifo 2009, pp. 290, euro 28), a firma di Giuseppe Orlando D’Urso e Sabrina Avantaggiato.

Si tratta del primo volume della collana Helios, diretta da Harvé A. Cavallera. Il libro come prodotto in sé è ben confezionato con numerose illustrazioni ed una copertina cartonata stampata, “vestita” da una sovraccoperta similare. La grafica editoriale e la copertina sono di Federico G. Cavallera, mentre le immagini provengono dalla Foto Video Serra di Corigliano d’Otranto. Hanno patrocinato l’edizione: la Sezione di Maglie, Otranto e Tuglie della Società di Storia Patria per la Puglia, della quale il D’Urso è socio; e la Cartolibreria di Gino Giannachi di Corigliano d’Otranto.

Chi sono i due autori? Giuseppe Orlando D’Urso, «attivo e presente nella vita e sociale del territorio […] ha animato diversi gruppi teatrali e culturali, per poi rivolgere la sua attenzione alla ricerca storica»  con diverse pubblicazioni, alcune con la stessa casa editrice, come “Corigliano d’Otranto. Memorie dimenticate” (2000); “Le strade del Signore sono ferrate. Corigliano d’Otranto 1901-2001. Significatività Sociale dell’Opera Salesiana” (2001); “Corigliano d’Otranto. L’Arco Lucchetti, il Castello, la Chiesa Matrice” (2005); mentre con la Casa editrice EditSantoro ha pubblicato “Corigliano d’Otranto. Famiglie (Comi-Maggio-Gervasi-Peschiulli”) (2005); “Gaetano Papuli e le Sette Antichità di Corigliano d’Otranto” (2005). Sabrina Avantaggiato invece è architetta ed è alla sua prima pubblicazione.

In quarta di copertina c’è l’abstract del volume che così commenta: «Con

La Strina, suoni e canti di Corigliano d’Otranto

a cura di Stefano Donno e Luciano Pagano

Esce per Kurumuny Edizioni “Corimondo – La Strina, suoni e canti di Corigliano d’Otranto”. Con interventi di Luigi Chiriatti, Sergio Torsello, Michele Costa e Daniele Durante.

Riallacciare e ricostruire i fili di una memoria spezzata e umiliata anche solo limitatamente ai canti, racconti, biografie: un compito arduo e difficile da portare a termine. I protagonisti e i depositari di questa memoria erano restii al ricordo.
La sola idea del ricordare modalità di vita, usi, costumi richiedeva un notevole sforzo di pazienza sia da parte loro che dei ricercatori.
Andare in giro per i paesi a “ricercare e cercare” coloro che ricordavano, i grandi ‘alberi’ di cultura e di canto, richiedeva pazienza, calma e amore profondo per la conoscenza della memoria orale e delle storie delle nostre comunità.
In questo contesto Corigliano d’Otranto non costituiva sicuramente un’eccezione.

Questo contributo, che ci riporta al periodo aureo dell’indagine sul campo e della documentazione dei repertori tradizionali, è anche un lavoro che rende omaggio alle persone vive, agli ultimi epigoni di una civiltà linguistica, ai custodi delle modalità performative, delle tecniche strumentali e vocali, della memoria sonora (e non solo) della comunità di appartenenza.
Persone che normalmente non assurgono a protagonisti della ricerca etnomusicologica, relegati spesso nel ruolo di informatori o in quello ancora più angusto di depositari delle “sacre tavole” della tradizione.
Anche da questo punto di vista Corimondo suggerisce diverse chiavi di lettura: la tradizione non è un’entità immutabile nel tempo e nello spazio e le culture tradizionali sono sottoposte agli influssi più diversi con cui devono confrontarsi in un’incessante attività di mediazione, rielaborazione, patteggiamento. Protagonisti di questo lavoro di lunga durata della memoria sono i musicisti tradizionali, in questo caso i fratelli Serra, Luigi Costa, Giovanni Avantaggiato, per citarne solo alcuni.
In tale contesto, allora, lo studioso diventa un’insostituibile figura di mediazione culturale perché – lo ribadiva qualche tempo fa Antonello Ricci – «registrare le musiche orali non è un’operazione qualunque. Realizzare dischi a partire da queste fonti sonore è una importante forma di mediazione sociale e culturale che consente di mettere le musiche e i musicisti delle comunità locali in un circuito di ampia circolazione. Consente cioè la conoscenza, la fruizione, il riuso del patrimonio etnico musicale».

Ma c’è di più: un disco di musiche tradizionali rappresenta per le comunità locali «una forma di rafforzamento identitario, di ratificazione culturale, di autorappresentazione». Chiriatti, insomma, ha il merito di aver fissato, a suo tempo, su un supporto durevole queste memorie immateriali, volatili, intangibili che ora vengono restituite alla comunità di appartenenza. Come un “mucchietto di gemme” preziose. Che condensano in pochi tratti essenziali l’identità culturale di un territorio. Un patrimonio incommensurabile, da custodire e valorizzare.

Il CD contiene un’antologia di 19 canti di cui 10 descrittivi, 4 balli, 3 canti di questua, 1 narrativo e 6 recitati raccolti in un’unica traccia.

Il Cd “Corimondo – La Strina, suoni e canti di Corigliano d’Otranto” è promosso con il sostegno di PUGLIA SOUNDS – PO FESR PUGLIA 2007/2013 ASSE IV”.

Salento terra di santità. I Servi di Dio di Corigliano, Diso, Erchie, Francavilla Fontana

di fra Angelo de Padova

 

Fra Bernardino Delli Monti da Corigliano. Rinunciò ai titoli della primogenitura al fratello ed entrò nell’Ordine dei Frati Minori dell’Osservanza, passando così dalle piume alle paglie, dalle sete alle lane, dalle vivande squisite alla penitenza. Pervenuta a Roma la fama della sua santa condotta fu mandato Visitatore nelle Calabrie, nella Sicilia e nella Provincia Romana e Gregorio XV lo destinò Visitatore Apostolico per buona parte delle Province Italiane. Morì a Roma il 22 ottobre del 1621.

Fra Diego da Corigliano, morto il 26 settembre del 1674. Uomo della bontà e della semplicità, veniva chiamato “il santarello” umile, obbediente, dotato di scienza infusa. Aveva una spiccata conoscenza delle Scritture; pur essendo illetterato parlava meravigliosamente delle cose divine. Grande spirito di preghiera. Esalò la sua santa anima con gli occhi fissi al cielo e dicendo: “Signore nelle tue mani consegno il mio spirito”. Frate minore.

Fra Francesco De Blasi da Diso,  il 19 novembre ???; conte di Lenos e signore di Castro, fatto cappuccino visse e morì santamente. Cappuccino.

Fra Stefano di S .Teresa da Erchie. Distintosi per la virtù dell’obbedienza. Morto il 14 gennaio1814 a Oria. Frate minore.

Fra Alessio da Francavilla Fontana, morto il 9 ottobre 1679, lavoratore, devoto della Madonna, dotato del dono dell’estasi e della profezia, morì al

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