Coltivazione di ulivi tra Andalusia e Terra d’Otranto in un importante studio accademico

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Transizione socio-ecologica dell’oliveto nel lungo periodo

in Italia e Spagna (1750-2010)[1]

 di Gianpiero Colomba

In questo articolo cerchiamo di spiegare brevemente il livello di multifunzionalità e di produzione dell’oliveto, ovvero la sua resa agronomica, e di ricostruire l’evoluzione di alcuni indicatori biofisici basati sulla proposta metodologica del metabolismo agrario, come per esempio l’indicatore di efficienza energetica “ERoEI” (Energy Returned on Energy Invested)). Lo scopo principale è quello di analizzare le dinamiche di sostenibilità storica della coltivazione dell’oliveto, con l’obiettivo finale di ottenere insegnamenti utili per individuare gestioni efficienti nel presente.

Il contesto storico della ricerca, parte dell’epoca in cui la base energetica era quasi esclusivamente solare e arriva ai giorni nostri, descrivendo la transizione socio-metabolica industriale quando, per la prima volta nell’agricoltura, ebbe luogo l’arrivo a grande scala dei combustibili fossili e dei fertilizzanti chimici.

La maggior parte degli indicatori agronomici e ambientali, si riferiscono alla provincia di Cordova in Andalusia, che oggi rappresenta la regione leader al mondo in quanto a superfici investite a oliveto e alla provincia storica di Terra d’Otranto che lo fu nel XVIII° secolo e gran parte del XIX°.

Abbiamo cercato di dare una risposta al come fu possibile che in Italia si riuscì a “sostenere” un’alta densità di popolazione in un contesto di agricoltura «organica avanzata» (Wrigley, 1988), e in condizioni agro-climatiche simili a quelle spagnole. Per pratiche agrarie migliori o più intensive? O attuando pratiche insostenibili per lungo tempo? Inoltre, quale fu la causa della forte caduta della produttività in Italia agli inizi del XX° secolo?

Analizzando la porzione di terra utile per abitante in Terra d’Otranto nel 1880, si calcola che vi era una disponibilità teorica di 1,3 ettari (superficie territoriale / abitanti), mentre in Cordova di 3,6 ettari per abitante. Mezzo secolo dopo, nel 1930, questa proporzione nella provincia del sud della Spagna era di 2,1 ettari, all’incirca uguale alla quota che si calcola in Terra d’Otranto nel 1809, più di un secolo prima. Analogo discorso se consideriamo la porzione di terra coltivabile per abitante, con 1,0 e 1,9 ettari rispettivamente nel 1880. Si ricorda che il limite per il sostentamento di una comunità in epoca pre-industriale era all’incirca fissato in 1,5 / 2,0 ettari per abitante (Malanima, 1995), per cui in Terra d’Otranto questo limite lo si era superato già a partire dagli inizi del secolo XIX. Completare il sostentamento in queste situazioni richiese evidentemente delle strategie di “risparmio del suolo” (Kander et al., 2014) e l’oliveto ne fu un esempio paradigmatico, soprattutto in Italia.

Per quel che concerne l’efficienza, abbiamo stimato gli input applicati all’oliveto, tanto a livello tradizionale (lavoro umano e animale, concimi, ecc.) come a livello attuale (fertilizzanti, trattamenti, macchinari, ecc.) e gli output (produzione di olive, legna, ecc.) considerando la materia secca e traducendo il tutto in unità di misura energetica (Joule).

Le stime che riguardano il territorio salentino, sono l’analisi di libri contabili privati di fine secolo XVIII e di gran parte del XIX, relativi alla conduzione di alcuni oliveti nel territorio di Poggiardo e Tricase (Le), mentre per l’attualità attraverso interviste a esperti e agronomi condotte nell’anno 2016 sul territorio leccese.

La grande espansione dell’oliveto nel mediterraneo è avvenuta in epoca contemporanea e Italia e Spagna sono stati i paesi di maggiore produzione di olio di oliva nel mondo. Valga un dato per descrivere l’importanza dei due paesi nel contesto mondiale: durante il quinquennio 1903/07, agli inizi quindi del XX° secolo, l’Italia produceva 226.000 tonnellate di olio che equivaleva al 40% della produzione mondiale e la Spagna, secondo produttore, con 189.000 ne produceva il 34%.

Oggigiorno, insieme, questi due paesi producono il 63% della produzione mondiale, con l’Italia che produce il 18% dell’olio mondiale, mentre la Spagna il 45%. Pur tuttavia, i principali risultati della ricerca mostrano che Italia e Spagna hanno avuto specifiche e distinte evoluzioni.

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Nel caso dell’oliveto italiano, si osserva un livello intensivo che possiamo definire impropriamente “industriale” già alla fine del secolo XVIII° e per gran parte del XIX° rispetto allo spagnolo, il quale si poteva considerare con una vocazione più “contadina”. L’oliveto italiano, infatti, dedicava una parte maggiore della sua produzione di olio per il mercato e l’esportazione. Alla fine del secolo XIX° poi, si ebbe un’inversione con l’Italia che risentì maggiormente della crisi di fine secolo rallentando la sua crescita e la sua produttività. In questo stesso periodo, la Spagna iniziò una vera e propria “età di oro” che le permise di superare l’Italia in quanto a superfici e produzioni, diventando paese produttore leader indiscusso. L’importante transizione tra Italia e Spagna, da un punto di vista commerciale e produttivo, si può riassumere in questi numeri: tra i quinquenni 1871/75 e 1901/05, quindi nell’ultimo quarto di XIX° secolo, in Italia le esportazioni di olio caddero da 70.400 tonnellate a 32.200, mentre in Spagna passarono da 23.500 a 43.400.

Il livello produttivo medio nel sud d’Italia a metà del secolo XVIII° (11,3 quintali/ettaro), era maggiore di quello del sud della Spagna (6,0 q./et.). Ipotizziamo quindi che in Italia, all’interno di una “economia organica” e in condizioni agro-climatiche simili, l’oliveto richiedeva un maggior livello di fertilizzazione o più in generale di input esterni, per soddisfare la sua vocazione “industriale”. Successivamente, agli albori dell’era pre-industriale tra il 1880 y 1930, registriamo una rilevante caduta della produttività in Terra d’Otranto pari al 25% (da 13,5 a 10,1 q./et.). La rivoluzione verde, infine, permise un esponenziale aumento delle rese agrarie le quali, in condizioni analoghe in quanto ad accesso a energie fossili tendono a convergere, raggiungendo una produzione pari a circa 34 q./et.. Nell’attualità, per ogni 10 olive prodotte nel mondo 1 arriva da una di queste due province del Mediterraneo.

 

Produzione di olive nell’oliveto specializzato. (Quintali / ettaro / anno).

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L’aumento della quota di suolo dedicata alla coltivazione dell’olivo si comprende, da un lato per la grande domanda di olio che proveniva dall’estero dando luogo quindi a una spiegazione di tipo «monetarista» e dall’altro venne determinata dalla capacità di somministrare una molteplicità di beni fondamentali per le comunità e per il sostentamento familiare, spiegazione quest’ultima, legata alla “multifunzionalità” dell’oliveto.

La legna prodotta rappresentava la fonte più importante di approvvigionamento energetico. Le foglie dell’olivo erano un eccellente alimento per il bestiame; la sansa vergine si usava per fertilizzare, come combustibile, per alimentare il bestiame e, se trattata con solfuro, si usava per ricavarne una supplementare quota di olio; la sansa esausta mescolata con la melassa, era un ottimo alimento per cavalli e maiali; l’acqua di vegetazione si usava come fertilizzante e come disinfettante per le radici delle piante e per la produzione di alcol; e il residuo della “morchia” era utile per la fabbricazione del sapone.

Se consideriamo la legna prodotta con la potatura, secondo una recente stima (Colomba, 2013), intorno al 1870 in Terra d’Otranto, c’era una disponibilità teorica di 3,2 quintali di legna di olivo pro-capite/anno. Se si considera che in Italia la necessità di legna pro-capite/giorno era minore di 1 chilo (Malanima, 1995), stimiamo per il sud d’Italia, con temperature meno rigide, un fabbisogno pari a ca. 3 quintali pro-capite. Tutto ciò ci fa pensare che prima dell’arrivo dei combustibili fossili la legna d’olivo fosse indispensabile da un punto di vista energetico, giacché in Terra d’Otranto era molto scarsa la quota di terra forestale (appena il 16,5% dell’intero territorio provinciale al 1930).

Abbiamo analizzato le possibili cause della crisi produttiva di fine secolo XIX° da un punto di vista energetico e non solo commerciale, studiando le relazioni tra il maggiore livello produttivo verificatosi in Italia tradizionalmente e l’efficienza e quindi la sostenibilità dell’oliveto. Abbiamo stimato innanzitutto la quantità di energia applicata al suolo in epoche distinte. La variabile è stata contabilizzata in ore di lavoro (umano e animale) per ettaro. Per esempio, si è calcolato che intorno al 1750 in Terra d’Otranto si impiegavano, mediamente, 368 ore/ettaro/anno (equivalenti a 345 MJ) per lavorare la terra (questo lavoro spesso includeva anche il sovescio fatto a zappa) e occorrevano 27,6 ore per arare con una coppia di buoi. Inoltre, la raccolta manuale prevedeva un dispendio di 276,2 ore. Nell’attualità si dedicano, in media, appena 2,9 ore di lavoro umano per la gestione del suolo e 96 ore per la raccolta.

Abbiamo quindi calcolato l’indicatore di efficienza energetica, che rapporta output a input come descritto in metodologia.

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Evoluzione storica dell’efficienza dell’oliveto. (ERoEI; Otput/Input).

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La storia descrive una caduta continua di questo indicatore dal secolo XVIII° fino ai giorni nostri. Nel caso italiano è passato da 6,6 a 2,6 (efficienza più bassa) mentre nel caso spagnolo da 9,6 (efficienza più alta) a 3,1. Questo significa che la produzione, seppur in crescita, è aumentata a un ritmo inferiore rispetto agli input esterni, disegnando così un processo continuo di perdita di efficienza.

L’agro-ecosistema di Terra d’Otranto, necessitava tradizionalmente più energia di quello di Cordova, generando così uno svantaggio ecologico in ottica comparativa. Si entrò in una sorta di rendimento decrescente in prospettiva energetica, mentre nel caso di Cordova si aveva un oliveto al quale, aggiungendo poca energia addizionale si ottenevano maggiori ritorni. In Terra d’Otranto bisognava investire maggiori risorse per ottenere la stessa quantità di prodotto. Non fu solo, quindi, una mera questione di mercato e prezzi bassi del prodotto olio con conseguente abbandono di coltivazioni non più redditizie, ma un collasso socio-ecologico mediato da rendimenti decrescenti nel sistema produttivo energetico e di nutrienti.

Infine, la transizione descritta ha generato dei problemi all’agro-ecosistema oliveto che in estrema sintesi si possono descrivere così: caduta di efficienza energetica, recente incremento delle emissioni di CO2 e «sovra-fertilizzazione» di Azoto con la conseguente contaminazione da nitrato. Nell’attualità, infatti, nell’oliveto industrializzato si fertilizza con più N di quello che sarebbe necessario, creando un surplus stimato in circa 74 kg/et. di N nel caso di Terra d’Otranto mentre, al contrario, nel 1880 si stima un deficit di quasi 20 kg/et. Questa importante coltivazione che caratterizza così fortemente il paesaggio ha smesso di essere un serbatoio di carbonio, per diventare un problema per il cambiamento climatico.

 

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

Nota biografica

Colomba Gianpiero, vive attualmente nella città di Firenze e ha terminato un dottorato di ricerca presso l’Università “Pablo de Olavide” di Siviglia, il cui titolo è: “L’Europa, il mondo mediterraneo e la sua diffusione atlantica. Metodi e teorie per la ricerca storica”. Si è avvalso della direzione di tesi dei professori Manuel González de Molina e Juan Infante Amate.

Dall’inizio del 2011 fa parte del gruppo di lavoro del “Laboratorio di Storia degli Agroecosistemi” dell’Università UPO di Siviglia. Durante questi anni ha illustrato i principali risultati della sua ricerca in vari forum accademici (UGR, Granada 2012; UEX, Badajoz 2013; AHC, Madrid 2013; SISS, Firenze 2017), presentando lavori inerenti alla storia ambientale e al mondo rurale.Il 7 settembre 2017 ha raggiunto il punteggio massimo difendendo la Tesi dal titolo: “La transizione socio-ecologica dell’oliveto nel lungo periodo. Uno studio comparato tra il sud d’Italia e il sud della Spagna. (1750/2010)”. La ricerca descrive la storia della grande espansione dell’oliveto nel Mediterraneo negli ultimi due secoli e mezzo da una prospettiva socio-ecologica.Il contributo di questo lavoro è stato quello di stimare inediti dati riferiti alla storica provincia di Terra d’Otranto (Sud Italia), presentando i dati relativi all’utilizzo del suolo, alla produzione e alla sostenibilità agricola dell’uliveto, attraverso uno studio in cui sono presenti metodologie trans-disciplinari.

Indirizzo mail: gianpiero.colomba@gmail.com

 

[1] Il lavoro di ricerca che qui si riassume è una estrema sintesi di una tesi dottorale presentata presso l’Università “Pablo de Olavide” di Siviglia agli inizi di settembre del 2017 e descrive la storia della coltivazione dell’olivo nel mediterraneo nell’arco degli ultimi due secoli e mezzo, da una prospettiva socio-ecologica.

I dati statistici che si indicano, sono proprie stime le cui fonti primarie sono riportate nella bibliografia della tesi conservata presso gli archivi informatici dell’Università UPO di Siviglia e consultabile su http://www.upo.es/rio.

La vite e l’olivo salentini nelle memorie degli autori latini e greci

di Armando Polito

CATONE (III-II secolo a. C.), De agricultura, 6, 1: In agro crasso et calido oleam conditivam, radium maiorem, Sallentinam, orcitem, poseam, Sergianam, Colminianam, albicerem;  quam earum in iis locis optimam dicent esse, eam maxime serito (Nel terreno grasso e caldo (pianta) l’olivo nelle varietà  da condimento, allungata maggiore,  salentina, orcite, posea, sergiana, colminiana, albicere; di esse pianta soprattutto quella che in quei luoghi dicono essere la migliore).

DIONIGI DI ALICARNASSO (I secolo a. C.), Antiquitates Romanae, I, 37, 2: Ποίας δ᾽ ἐλαιοφόρου τὰ Μεσσαπίων καὶ Δαυνίων καὶ Σαβίνων καὶ πολλῶν ἄλλων γεώργια; (Di quelle di quale regione olivicola [sono meno pregiate] le coltivazioni dei Messapi, dei Dauni, dei Sabini e di molti altri?

VARRONE (I secolo a. C.), De re rustica, I, 8: Iugorum genera fere quattuor: pertica, arundo, restes, vites. Pertica, ut in Falerno; arundo ut in Arpino; restes, ut in Brundisino; vites, ut in Mediolanensi (I tipi di spalliera sono press’a poco quattro:  con pertica, canna, corda, viticci. Pertica, come nel Falerno; canna, come nel territorio di Arpi; corde, come nel Brindisino; viticci come nel Milanese).

PLINIO  (I secolo d. C.), Naturalis historia, XIV, 3,  passim: Metaponti templum Junonis vitigineis columnis stetit (A Metaponto il tempio di Giunone si resse su colonne di vite); Nec non Tarentinum genus aliqui fecere, praedulci uva (Inoltre alcuni considerarono di origine tarantina una specie di vite dall’uva dolcissima); Verum et longinquiora Italiae ab Ausonio mari non carent gloria Tarentina(Veramente, [viti] d’Italia piuttosto lontane dalla parte del mare Ausonio, non mancano di fama la tarantina …).

La storia del tempio di Metaponto [naturalmente non si tratta dell’ultimo, del quale ci restano le rovine, visibili nella foto in basso tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Era_(mitologia)#mediaviewer/File:Metapontum_2013.JPG)] retto da colonne di vite (comunque, mi chiedo inizialmente: vite vera e propria o colonna di legno di vite o colonna in pietra rivestita da vite?), anche se non coinvolge il territorio di Terra d’Otranto ma uno confinante, è troppo intrigante perché io passi agli altri brani dello stesso autore sulla vite e sull’olivo salentini senza spendere su di essa più di una parola (si salvi chi può! …).

Che la vite non abbia nel nostro territorio un fusto di grosse dimensioni è cosa risaputa e confermata anche dalla testimonianza di Plinio che nello stesso capitolo dello stesso libro ricorda impieghi tutto sommato eccezionali del suo legno: Jovis simulacrum in urbe Populonio ex una conspicimus, tot aevis incorruptum; item Massiliae pateram. Etiam nunc scalis tectum Ephesiae Dianae scanditur una vite Cypria, ut ferunt, quoniam ibi ad praecipuam amplitudinem exeunt (Ho visto nella città di Populonia una statua di Giove ricavata da una sola vite, intatta dopo tanto tempo; allo stesso modo una tazza a Marsiglia. Anche ora si sale sul tetto del tempio Diana ad Efeso mediante una scala fatta di una sola vite di Cipro, come dicono, poiché lì giungono ad una grossezza eccezionale).

Resti del tempio di Artemide ad Efeso; immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b2/Ac_artemisephesus.jpg
Resti del tempio di Artemide ad Efeso; immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b2/Ac_artemisephesus.jpg

E di seguito Plinio dà la sua spiegazione: Nec est ligno ulli aeternior natura. Verum ista ex silvestribus facta crediderim (Né altro legno ha una durata maggiore. Veramente sarei propenso a credere che questi manufatti siano stati ricavati da viti selvatiche).

Non mi è chiaro se al carattere selvatico Plinio attribuisca la grossezza o la durata nel tempo oppure entrambe.

Nel capitolo 98 del libro XVI vi è un’integrazione riguardante il  tempio di Diana ad Efeso: Maxime aeternam putant hebenum et cupressum cedrumque, claro de omnibus materiis iudicio in templo Ephesiae Dianae, utpote cum tota Asia extruente quadringentis annis peractum sit. Convenit tectum eius esse e cedrinis trabibus. De simulacro ipso deae ambigitur. Ceteri ex hebeno esse tradunt, Mucianus III consul. ex iis, qui proxime viso eo scripsere, vitigineum et numquam mutatum septies restituto templo, hanc materiam elegisse Pandemion, etiam nomen artificis nuncupans, quod equidem miror, cum antiquiorem Minerva quoque, non modo Libero patre, vetustatem ei tribuat. Adicit multis foraminibus nardo rigari, ut medicatus umor alat teneatque iuncturas, quas et ipsas esse modico admodum miror (Ritengono estremamente durevoli l’ebano, il cipresso e il cedro essendo chiaro su di loro tutti l’esempio nel tempio di Diana ad Efeso poiché col concorso di tutta l’Asia fu edificato in quattrocento anni. Si conviene che il suo tetto è di travi di cedro. Sulla statua stessa della Dea ci sono dubbi. Alcuni tramandano che fosse di ebano, Muciano console per la terza volta, uno di quelli che da poco avendola vista ne hanno scritto, (dice che è) di vite e mai cambiata pur essendo stato il tempio restaurato sette volte e che tale essenza la scelse Pandemione, indicando anche il nome dell’artefice, cosa di cui certamente mi meraviglio poiché le attribuisce un’antichità maggiore di Minerva2 e del padre Libero. Aggiunge che si bagna col nardo attraverso parecchi fori affinché l’umore medicamentoso nutra e mantenga salde le unioni della cui esistenza non mi meraviglio molto).

Indipendentemente dalle dimensioni della statua di Diana, il dettaglio delle unioni ci potrebbe spingere ad ipotizzare che nemmeno la statua di Giove a Populonia e, quel che ci interessa più da vicino, le colonne del tempio di Metaponto fossero in un unico pezzo.

Eppure l’ipotesi è messa in dubbio dalla testimonianza di Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, II, 1, 14: Ἐν δὲ τῇ Μαργιανῇ τὸν πυθμένα φασὶν εὑρίσκεσθαι τῆς ἀμπέλου πολλάκις δυεῖν ἀνδρῶν ὀργυιαῖς περιληπτόν, τὸν δὲ βότρυν δίπηχυν [Nella Margiana (regione asiatica identificata con la valle di Fergana) dicono che spesso si trova il ceppo della vite così grosso che solo due uomini possono abbracciarlo e il grappolo di due cubiti].

Può darsi che Strabone abbia riportato una diceria esagerata e perciò suscettibile di tara, come non è da escludersi, nonostante lo spesso, che sia esistito qualche esemplare di quelle dimensioni, certamente non paragonabili a quelle di qualche vite centenaria nella quale è possibile imbattersi, per esempio, sulla costiera amalfitana, cui si riferisce la foto che segue, il corrispondente dei nostri ulivi patriarchi.

immagine tratta da http://www.lucianopignataro.it/a/tenuta-san-francesco-le-viti-giganti-e-piede-franco-della-costiera-amalfitana/25504/
immagine tratta da http://www.lucianopignataro.it/a/tenuta-san-francesco-le-viti-giganti-e-piede-franco-della-costiera-amalfitana/25504/

Per quanto fin qui detto appare verosimile che le colonne del tempio di Metaponto fossero costituite veramente da ceppi di vite gigante. Non sono un ingegnere ma credo che sarebbero state, comunque, in grado di reggere il peso del tetto. C’è stato, però, in un passato non molto remoto, chi ipotizzò, sia pure indirettamente, che la fabbrica  fosse una capanna piuttosto che un tempio vero e proprio.

Si tratta di Vincenzo Cuoco (1770-1823) che nel 1806 pubblicò il Platone in Italia, romanzo in forma epistolare, il cui inizio sembra anticipare il dilavato e graffiato autografo2manzoniano:  Il manoscritto greco che ora ti do tradotto, o lettore, fu ritrovato da mio avo, nell’anno 1774, facendo scavare le fondamenta di una casa di campagna che ei volea costruire nel suolo istesso ove già fu Eraclea3. Ogni angolo dell’Italia meridionale chiude tesori immensi di antichità; e non ve ne sarebbe tanta penuria se i possessori non fossero tanto indolenti quanto lo è il ricco possessor del terreno, ove era una volta Pesto, e dove oggi non vi si trova né anche un albergo per ricovrar coloro che una lodevole curiosità move dalle parti più lontane dell’Europa a visitar le ruine venerabili della più antica città dell’Italia.

L’ultimo periodo è di una sconcertante attualità; solo che, probabilmente, il Cuoco si sarebbe ben guardato dallo scriverlo se avesse presagito che il suo invito sarebbe stato accolto con la costruzione di case, alberghi, villaggi turistici e simili sopra i siti archeologici o nelle loro immediate adiacenze, con l’unica magra alternativa di spostare alcuni manufatti dal luogo in cui sono custoditi (vedi la polemica sui Bronzi di Riace da esibire o meno alla ormai famigerata Expo 2015).

Meglio non divagare, ma solo per rispetto del lettore e dell’economia del post, non certo di quella legata unicamente all’ignoranza e alla speculazione; nel capitolo XXXV così si legge: Peccato, che in questo bel tempio, tu ricerchi in vano una bella Dea! Non vedi né il sublime Giove, né la Minerva bella del nostro Fidia. Quando sei nel sacrario, ti si mostra una colonna rozza, sconcia, quasi simile a quelle sciagurate colonne di viti che sostengono quella capanna che in Metaponto chiamasi anch’essa tempio di Giunone.

E il Cuoco, quasi a commento alle immaginarie parole messe in bocca a Platone, in nota a Giunone aggiunge con nonchalance, quasi a conferma filologica della sua invenzione: Lo stesso Plinio ci dice che in Metaponto eravi un tempio di Giunone le di cui colonne eran di legno di vite. O la vite di Metaponto dovea esser marmo, o il tempio dovea esser una capanna.

Capanna o non capanna che sia stato questo tempio, non mancano testimonianze moderne di manufatti in legno di vite.

Girolamo Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, Francesco Valuasense, Venezia, 1664, p. 3: A questa Santa Basilica (il Duomo di Ravenna) fa nobile, e maestoso ingresso una gran piazza apertavi dall’Arcivescovo Cristoforo Boncompagno con trè porte in faccia, la maggior delle quali è di vari marmi, e colonne egregiamente ornata, e massime di un grandissimo architrave con diversi intagli, figure, & è tradizione antica, che la porta di legno, che la chiude sia di vite.

Scipione Maffei, Osservazioni letterarie, Stamperia del Seminario, Verona, 1739, tomo IV, p. 371: Meritano menzione ancora le antiche porte del Duomo, che sono di legno di vite. Le tavole sono lunghe piedi 10, larghe più d’un piede, e grosse un’oncia e mezza.  

Giovanni Poleni, Sopra al tempio di Diana d’Efeso, in Saggi di dissertazioni accademiche pubblicamente lette nella nobile Accademia etrusca dell’antichissima città di Cortona,  tomo I, parte II, Pagliarini, Roma, 1742, pp. 48-49: Le porte della vecchia Chiesa Cattedrale di Ravenna, che fu abbattuta pochi anni sono, ed ora si rifabbrica magnificamente erano di legno di vite. Menzionate esse furono nella relazione d’un giro fatto dal celebratissimo Autore delle Osservazioni letterarie; e di esse pure me ne ha data una piena contezza il Reverendissimo P. P. Pomponio Suardi Abate in S. Vitale di Ravenna. Questo misurar fece da un architetto quelle porte, ed io qui trascrivo la nota delle misure da lui mandatami. La lunghezza delle Tavole è di palmi Romani 21. In circa: la larghezza di mezza porta è di palmi 8 e mezzo; la larghezza delle Tavole più strette è d’once 14 e delle più larghe d’once 21. In circa: la grossezza delle dette Tavole è di once 4 circa. Anche al dì d’oggi nelle pignete vicine a Ravenna vi si veggono delle viti d’una straordinaria grossezza. Quelle porte, benché antichissime siano, non ostante sono così ben conservate, che li direttori di quella grandissima fabbrica della Cattedrale pensano di servirsi delle Tavole di esse per formare alla cattedrale medesima le nuove porte.

Francesco Ginanni (1716-1766), Istoria civile e naturale delle pinete ravennati, Salomoni, Roma, 1774 p. 204: Di questa spezie di vite (labrusca, di cui ha parlato prima) forse potrebbero essere le tavole, che formavano le antiche Porte del Duomo nostro, e ora foderano le moderne. Esse erano lunghe piedi 10, larghe più di un piede, e mezzo.

Al di là delle divergenze dimensionali ravvisabili nei brani del Maffei e del Poleni, sembrerebbe che il pensiero dei direttori nominati nel passo del Poleni divenne, in qualche modo, realtà, ma credo che il foderano del passo precedente vada inteso tenendo conto di quanto si legge  in Francesco Nanni, Il forestiere in Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1821, p. 5:  Meritano qui di essere ricordati sedici riquadri di tavole di vite, tenue avanzo delle antiche porte di questa Cattedrale, impostati nel di dietro della moderna porta, i quali fanno prova di quanto scrissero gli antichi intorno al crescere a dismisura di questa pianta.

La notizia è confermata da Gaspare Ribuffi in Guida di Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1835, p. 16: Parete interna della Porta d’ingresso in Prospetto. Sopra la porta di mezzo: Grandioso Quadro rappresentante il Convitto del re Assuero di Carlo Bonomi ferrarese scolaro  di Paolo Veronese.   Nella serranda: Sedici riquadri di tavole di Vite, avanzo delle antiche Porte di questa cattedrale.  Sarebbe interessante, a questo punto, sapere come sono e stanno le porte attuali e chissà se qualche lettore, magari  ravennate perché per lui sarebbe più agevole, non soddisferà questa mia curiosità.

Il duomo di Ravenna; immagine tratta da http://www.duomoravenna.it/?page_id=236#duomo
Il duomo di Ravenna; immagine tratta da http://www.duomoravenna.it/?page_id=236#duomo

Chissà, chissà, chissà … che fine ha fatto il tronco di cui scrive Gaetano Savi nel Trattato degli alberi della Toscana, Piatti, Firenze, 1811, tomo II, p. 192: … nell’atrio dell’orto botanico di Pisa se ne (di vite) conserva un tronco alto braccia 5 (m. 2,918), e di braccia 2 (m. 1,67) di circonferenza, proveniente dalla maremma Sanese, e nominatamente da un terreno situato Tra Soreno e Castellottieri. 

Dopo questa lunga parentesi torno all’assunto iniziale e alla carrellata principale delle altre testimonianze pliniane.

XV, 1, 8: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta hanc palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatiore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit (Anche in questo bene [l’olio, prima ha parlato del vino] l’Italia ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nel territorio di Venafro e nella parte di esso che produce l’olio liciniano, per cui altissima è la considerazione riservata all’oliva licinia. Questa fama la diedero i profumi adattandosi loro il suo odore; la diede anche il gusto per il sapore alquanto delicato. Per il resto nessun uccello è ghiotto delle bacche di [oliva] licinia).

Rinvio il lettore che si starà chiedendo dov’è citato il Salento (però ho sottolineato Licinianum e Liciniae) in questo brano all’ipotesi formulata in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/24/olive-celline-perche-questo-nome/.

MACROBIO (IV-V secolo d. C.), Saturnalia,  III, 20, 6: Olearum genera haec enumerantur: Africana, albigerus, Aquilia, Alexandrina, Aegyptia, culminia, conditiva, Liciniana, orceas, oleaster,  pausia, paulia, radius, Sallentina, Sergiana, Termutia (Si contano queste varietà di olivi: l’africana, l’albigera, l’aquilia, l’alessandrina, l’egizia, la culminia, quella da condimento, la liciniana, l’orcea, la pausia, la paulia, la allungata, la salentina, la sergiana, la Termuzia).

Chiedo scusa al lettore per averlo intrattenuto, ancora una volta, con un argomento nella trattazione del quale di mio c’è ben poco, a parte l’augurio finale, in due versi (!), endecasillabi in rima baciata, per chiudere in allegria, augurio per oggi limitato a queste due essenze e dovuto alle ben note contingenze non solo economiche:

Lunga vita alla vite e all’ulivo

per noi vino ed olio senza additivo!

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1 Minerva era considerata l’inventrice di tutte le arti.

2 Come sapeva qualsiasi studente del passato (quando la lettura de I promessi sposi era obbligatoria), il Manzoni finge di aver ritrovato un antico manoscritto e, dopo aver rinunziato alla sua semplice trascrizione, decide di prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura.

3 Nei pressi di Policoro, in provincia di Matera.

Ruolo, organizzazione e obiettivi dell’olivicoltura pugliese

Seminario all’Hilton Garden Inn, venerdì 28 marzo 2014

A Lecce si discute della nuova PAC 2014/2020

Ruolo, organizzazione e obiettivi dell’olivicoltura pugliese

Tecnici, amministratori ed imprenditori agricoli

intorno ad un tavolo per definire le future scelte strategiche 

olivi 

La globalizzazione porterà davvero ad un mercato mondiale? L’olivicoltura pugliese potrà uscire dalla crisi? E come? Se bisogna fare “sistema”, qual è il sistema? A queste ed altre fondamentali domande cercheranno di dare risposte i tecnici, gli amministratori e gli imprenditori agricoli che parteciperanno al seminario dal titolo “PAC 2014/2020 – Ruolo, organizzazione e obiettivi dell’olivicoltura pugliese” che avrà luogo venerdì 28 marzo, alle ore 9, presso l’Hilton Garden Inn, promosso da APOL Lecce e CIA Lecce. In allegato il programma dettagliato dell’iniziativa.

“In una complessa realtà globale si inquadra lo stato di crisi dell’olivicoltura pugliese – si legge in una nota a firma congiunta di Benedetto Accogli, Presidente APOL Lecce e Giulio Sparascio, Presidente CIA Lecce – che in quest’ultimo periodo deve far fronte, in provincia di Lecce, anche ad una nuova fitopatia, caratterizzata da disseccamenti estesi e rapidi della chioma delle piante, che determinano il deperimento delle stesse. Per garantire il rilancio del settore, assicurando un equo reddito ai nostri produttori, occorre necessariamente definire il ruolo, l’organizzazione e gli obiettivi dell’olivicoltura pugliese.

Alla base di tutto diviene necessario il rinnovamento delle aziende olivicole attraverso il ricambio generazionale, che è il più importante elemento da perseguire nella politica di innovazione del settore. Occorre definire, altresì, un nuovo modello di organizzazione economica capace di mettere insieme i piccoli e medi produttori, rendendoli protagonisti e artefici del loro futuro.

Per tale motivo è necessario sensibilizzare i produttori e le loro Organizzazioni a definire scelte strategiche comuni per l’olivicoltura pugliese che abbiano come obiettivo, da un lato la razionalizzazione della fase produttiva con la diminuzione dei costi di produzione e l’aumento della qualità del prodotto, dall’altro la concentrazione in una sola struttura commerciale, in modo da diffondere un’unica immagine dell’olio extra vergine di oliva pugliese da valorizzare, promuovere e quindi commercializzare con un solo brand.

Tale percorso potrà essere favorito dalla recente approvazione della riforma della PAC per il periodo di programmazione 2014-2020 che prevede, fra le altre misure, maggiori e più importanti compiti a favore degli Organismi associativi.

In vista del processo che porterà le competenti Istituzioni italiane a delineare le scelte applicative nazionali per quanto riguarda la nuova PAC per i prossimi anni, occorre esortare i responsabili della politica agricola a livello nazionale e regionale a compiere delle scelte compatibili con le esigenze di rilancio e di crescita del sistema olivicolo pugliese, considerata l’importanza economica, territoriale, ambientale e sociale che il settore riveste.”

 

Il seminario chiuderà alle ore 14 con una degustazione di prodotti tipici della dieta mediterranea presso gli stand delle aziende associate alla Confederazione Italiana Agricoltori di Lecce e all’Associazione tra Produttori Olivicoli di Lecce.

 

L’intera sessione sarà trasmessa in diretta streaming da SudNews.tv. e, contestualmente, sarà lanciato su Twitter l’hashtag #olivicolturapuglieseper condividere i temi discussi e per interagire in modalità on-line, attraverso il moderatore, durante i lavori.

Novembre, è tempo di raccoglierle

di Armando Polito

Mola olearia da Pompei. Immagine tratta da Rediscovering Pompeii, “L’Erma” di Bretschneider, Roma, 1990, pag. 132

 

È colpa mia se le olive si cominciano a raccogliere  in questo periodo dell’anno e se, dunque, l’argomento non appare fuori stagione?

Questa volta, a conforto di chi mi legge,  a parlare sarà solo (o quasi…) Plinio (I secolo d. C.) con la sua Naturalis historia, anche perché le notizie al riguardo probabilmente sue sono accompagnate puntualmente da citazioni di autori che l’avevano preceduto.

Si comincia con una nota storica: (XII, 1): “Teofrasto, uno dei più famosi autori greci, intorno all’anno 440 dalla fondazione di Roma1 disse che l’olivo non nasceva lontano dal mare più di quaranta miglia e Fenestella2 sostiene che l’olivo non esisteva in Italia, Spagna ed Africa al tempo del regno di Tarquinio Prisco, 173 anni dalla fondazione di Roma e che quest’albero ora è passato pure oltre le Alpi e nelle zone centrali della Francia e della Spagna”.

Ecco, subito dopo, delineate le conseguenze economiche e di mercato: “Perciò nell’anno 505 dalla fondazione di Roma…l’olio aveva il prezzo di dodici assi a libbra, nell’anno 680 M. Seio…diede al popolo romano per tutto l’anno dieci libbre di olio per un asse. Ma molto meno si meraviglierà di ciò chi saprà che ventidue anni dopo …l’Italia mandò l’olio nelle provincie”.

Segue un dettaglio non da poco, pur nella sua estrema sinteticità, che prelude alla coltivazione intensiva, anche se, probabilmente,  con un’esagerazione finale: “Esiodo3, che fu tra i primi ad insegnare l’agricoltura, disse che chi aveva piantato un olivo mai ne aveva colto il frutto, così lentamente cresceva quest’albero. Ma ora pongono i semi  anche nei semenzai e dalle piante trapiantate nell’anno successivo raccolgono il frutto”.

È tempo di passare all’olio: (XIII, 2) “A raccolto effettuato, per produrre l’olio è necessaria più cura di quanto non ne occorra per produrre il vino, perché dalla medesima oliva si possono estrarre oli diversi. Anzitutto è da considerare l’oliva acerba o che, comunque, non ha cominciato ancora a maturare: il sapore dell’olio è eccezionale. Quello poi che esce dalla prima torchiatura è pregiatissimo, a seguire quello che si estrae, come da poco si è cominciato a fare,  mettendo le olive pestate in piccoli cestelli di vimini. Quanto più l’oliva è matura, tanto più l’olio è pesante e meno gradevole. Il migliore momento per raccogliere le olive, quando son sane e abbondanti,  è quello in cui cominciano ad annerire. C’è una grande differenza se si fanno maturare le olive nei frantoi o sui rami, se l’albero era bagnato o se l’oliva aveva solo il suo succo e non bevve nient’altro che rugiada”; (XIII, 3): “L’invecchiamento danneggia l’olio, a differenza del vino, ed esso dovrebbe essere al massimo di un anno;  in questo la natura, se ci fa piacere capirlo, è stata provvida, perché non è indispensabile usare il vino  che è nato per ubriacare; anzi, il suo invecchiamento, che lo rende migliore, ci invita a metterlo da parte; la natura, invece, non volle che così avvenisse con l’olio, che dopo il primo anno è già vecchio e scadente per tutti”.

Poi Plinio, sempre nello stesso capitolo dello stesso libro del brano appena citato, ritorna al raccolto con questi consigli: “È un danno se per limitare le spese si aspetta che le olive cadano da sole. Quelli che vogliono seguire la via di mezzo le battono con le pertiche, danneggiando l’albero e compromettendo il raccolto dell’anno successivo. Perciò c’è per coloro che coltivano l’olivo una legge che dice di non reciderlo e non batterlo. Coloro che agiscono cautissimamente battono leggermente con canne, senza rompere i rami, altrimenti l’albero è danneggiato nella successiva germinazione e si perde un anno di fruttificazione. Lo stesso succede se si aspetta che le olive cadano da sole perché esse permanendo sull’albero oltre il tempo dovuto sottraggono sostanza al raccolto successivo”.

E contro l’opinione (apparentemente non infondata) che l’oliva più polposa dia più olio: “Le olive sono fatte di nocciolo, olio, carne e morchia, che è sua putrefazione amara. Nasce dall’acqua, perciò è minima in tempo di siccità, abbondante in quelli piovosi. Il succo dell’oliva è l’olio e questo s’intende soprattutto nelle olive acerbe…cresce l’olio dopo la nascita della stella di Arturo, fino al 16 settembre, poi crescono i noccioli e la carne. Quando le piogge giungono abbondanti  e le olive sono assetate, l’olio diventa morchia e il suo colore fa che l’oliva diventi nera e perciò all’inizio di questo processo c’è una minima quantità di morchia, prima non ce n’è proprio. E le persone si ingannano pensando che sia l’inizio della maturazione ciò che in realtà è l’inizio di un difetto. Sbagliano inoltre credendo che l’olio nasca dalla carne dell’oliva, che il succo si incrementi e il nocciolo ingrandisca, ragion per cui sottopongono la pianta ad irrigazione. Se tutto ciò avviene per intervento del coltivatore o per le piogge eccessive l’olio si consuma se non interviene il bel tempo che assottigli il corpo dell’oliva. Causa dell’olio, come dice Teofrasto, è il calore e perciò nei frantoi e nei magazzini è richiesto molto fuoco”.

Mi piace chiudere, proprio a proposito del calore,  con questa testimonianza di una coscienza ecologica e di risparmio energetico insospettabile in tempi in cui si poteva pure scialare e che a distanza di due millenni trova ancora oggi applicazione nei moderni frantoi, dove il nocciolino viene utilizzato per il riscaldamento dell’acqua usata nella gramolatura : (XIII, 6) “Tutte queste operazioni vanno fatte nei frantoi caldi e chiusi e non ventilati; qui non c’è bisogno di usare la legna perché dai noccioli delle olive si produce un adattissimo fuoco”.

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1 La data tradizionale della fondazione di Roma è il 753 a. C., per cui la data alla quale fa riferimento Plinio è il 313 a. C.; infatti Teofrasto  visse dal 371 al 287 a. C. Ottantaquattro anni di età a quei tempi erano veramente un traguardo eccezionale e, a parte il patrimonio genetico, c’è da chiedersi che ruolo abbia avuto, magari, il consumo dell’olio di oliva. Purtroppo, non abbiamo su tale tema alcuna testimonianza, mentre gli archivi televisivi oggi grondano di registrazioni dai quali i posteri potranno attingere notizie preziose sulle abitudini, anche alimentari, di un tronista o di una velina che, com’è noto, sono le categorie più rappresentative dell’umanità del nostro secolo…

2 Storico romano vissuto tra la seconda metà del I secolo a. C. e il primo ventennio del I d. C. , autore di Annales, di cui ci restano una trentina di frammenti.

3 Poeta greco vissuto tra l’VIII e il VII secolo a. C.

Un nuovo patto tra Dottori Agronomi e utilizzatori del Paesaggio rurale

campagna salentina (ph Fondazione TdO)
di Antonio Bruno
E’ assente, non c’è, come dici? Chi? Ma il committente dei dottori agronomi. Il committente è la figura che commissiona un lavoro, indipendentemente dall’entità o dall’importo. Esso può essere una persona fisica nel caso di un lavoro privato, una persona giuridica nel caso di un lavoro per un’azienda, un ministero o un assessorato e un Ente pubblico nel caso di un lavoro pubblico.
Mi hanno invitato al Seminario “Nuovi scenari per l’olivicoltura salentina” dedicato allo scambio tra esperienze locali, nazionali e internazionali di olivicoltura che si è tenuto a Lecce il 30 ottobre 2012 finalizzato, nell’intenzione degli organizzatori, al coinvolgimento dei produttori nella progettazione, realizzazione e gestione del settore.
In olivicoltura pochissimi chiedono la consulenza a un dottore agronomo ed è per questo motivo che nel mio intervento nella tavola rotonda ho stigmatizzato l’assenza del committente. In pratica è noto a tutti i colleghi che manca chi commissiona il lavoro al dottore agronomo.
In tema di olivicoltura ed elaiotecnica c’è da precisare che con la guida di un dottore agronomo è alla portata di qualunque produttore olivicolo ottenere un prodotto di altissima qualità. Il prodotto di qualità però paradossalmente non ha mercato poiché c’è il problema dell’asimmetria informativa.
Perfetta simbiosi nella campagna salentina: fichi, ulivi e vigna (ph Fondazione TdO)
Missione principe del dottore agronomo del Salento è avvalorare i benefici nutrizionali e dietetici dell’olio d’oliva. Noi nel nostro ruolo di professionisti possiamo provvedere alla raccolta ed alla divulgazione delle conoscenze scientifiche in materia di proprietà salutistiche e nutrizionali dell’olio d’oliva consapevoli come siamo che tale azione è prioritaria ai fini di un’attenta informazione del consumatore e un’efficace incentivazione dei consumi. Solo che, siccome non c’è il committente, pur potendo fare questo lavoro non c’è nessuno che è disposto a pagare per farcelo fare.
Dell’asimmetria informativa ho scritto nell’articolo che può essere letto a questo link http://centrostudiagronomi.blogspot.it/2012/01/perche-nel-salento-leccese-non-ce-il.html .
Non possiamo imporre a un malato di essere curato dal medico, non lo possono fare nemmeno i medici che, come noto, prima di un intervento di qualunque tipo devono chiedere il consenso al paziente che ha il diritto di rifiutare di essere curato.
La questione che si pone è fondamentale per il futuro della nostra professione. C’è uno sfrenato ricorso al “fai da te” da parte dei proprietari del paesaggio rurale. Un “fai da te” che diventa l’unica consulenza professionale a cui fanno ricorso gli Imprenditori agricoli professionali.
Si ricorre a noi proprio quando non se ne può fare a meno. E sapete quando non se ne può fare a meno? Quando c’è bisogno della firma del dottore agronomo come nel caso delle provvidenze che mette a disposizione l’Unione Europea. Le Misure del Piano di Sviluppo Rurale che prevedono il finanziamento degli agricoltori professionali sono l’unica prestazione professionale richiesta da questi ultimi ai dottori agronomi.
campagna salentina (ph Fondazione TdO)
Invece ci sono pratiche dell’agricoltore, sia professionale che part time, che non si dovrebbero lasciare senza il controllo del professionista dottore agronomo e che potrebbero rappresentare un mezzo per consentire la collaborazione fattiva tra tecnici e proprietari o utilizzatori del paesaggio agrario. Con qualche accorgimento è possibile rifare un patto tra proprietari e utilizzatori del Paesaggio Rurale e Dottori Agronomi. Mi riferisco all’uso dei pesticidi in agricoltura che oggi è consentito a chiunque sia in possesso di un autorizzazione all’acquisto e l’uso dei presidi fitosanitari conseguita seguendo un corso. Infatti chiunque intende acquistare e/o utilizzare presidi sanitari deve essere in possesso di un patentino rilasciato dall’Ufficio Provinciale dell’Agricoltura UPA dalla Provincia di residenza.
Per l’ottenimento del patentino è prevista la partecipazione ad un corso di formazione con frequenza obbligatoria ed il superamento di un esame finale.
Inoltre vi è da aggiungere che coloro che sono in possesso di un titolo di studio in materie agrarie sono esonerati dalla partecipazione al corso e possono ottenere l’autorizzazione con la sola presentazione della domanda e meno male che l’hanno previsto perchè altrimenti al danno si sarebbe aggiunta anche la beffa.
I danni all’ambiente e alle persone derivati da questa normativa sono sotto gli occhi di tutti ed ecco perché sia l’acquisto che l’utilizzo dei presidi fitosanitari deve essere autorizzato da un dottore agronomo che deve anche stabilire e certificare le modalità e le dosi che ha utilizzato il proprietario del paesaggio rurale sia esso agricoltore professionale o part time.
Una sorta di consulenza continua che parte dalla cura delle patologie dei vegetali per poi ampliarsi ad affrontare le patologie organizzative e di mercato del settore agricolo.
Lancio questa proposta ai colleghi dell’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Lecce per aprire un dibattito sulla nostra professione finalizzato a un nuovo Patto con i proprietari e utilizzatori del Paesaggio rurale.

L’albero di ulivo, emblema del paesaggio e della storia dell’economia salentina, corre il rischio di scomparire


di Antonio Bruno*

L’olio d’oliva extra vergine qualche settimana fa veniva pagato al mercato di Andria all’ingrosso Euro 2,75 al chilo. Se l’olio ha il marchio dop (denominazione d’origine protetta) oppure igp (indicazione geografica protetta) allora può arrivare a quasi 7 euro al chilo, ma di questo tipo di olio ce n’è davvero molto poco.

Il numero di piante di olivo per ettaro si aggira in provincia di Lecce nel caso di impianto tradizionale a 400 piante che producono mediamente 45 chili di olive. Dalle olive si ricava mediamente il 18% di olio per cui da un ettaro di oliveto si ricavano 18.000 chili di olive e quindi 3.240 chili di olio che se è andato tutto bene, e sempre se risultasse tutto extravergine con i prezzi di qualche giorno fa sarebbe venduto a 2,75 euro al chilo.

Ecco che, se tutto viene fatto a regola d’arte e l’annata è stata buona, un ettaro di oliveto fornisce al proprietario una produzione lorda pari a circa 9.000 euro. Dai 9.000 euro però bisogna togliere i costi di produzione e cioè le spese per le lavorazioni, la concimazione, la potatura, la raccolta e trinciatura della legna, la difesa dai parassiti, la raccolta, il trasporto e infine la molitura. Cosa resta? Leggiamolo dalle parole scritte dagli agricoltori di Martano domenica 25 gennaio 2009 e che anche quest’anno risuonano nel Salento leccese: “Produrre olio non conviene più? Allora abbattiamo gli olivi del Salento e magari facciamone legna da ardere, con quel che costa il gas.

Sebbene la Legge n.144/51 permetta solo l’abbattimento di 5 alberi di ulivo ogni biennio, quando sia accertata, la morte fisiologica, la permanente improduttività o l’eccessiva fittezza dell’impianto da parte dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, alla luce della crisi che sta attraversando il comparto olivicolo si comunica all’Ispettorato la necessità di operare lo svellimento totale degli alberi di olivo presenti nei terreni di proprietà.

Tra l’altro in controtendenza rispetto alla linea perseguita dal governo regionale che, con la legge regionale n. 14 del 4 giugno 2007 recante “Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia”, entrata in vigore il 7 giugno 2007, aveva inteso tutelare e valorizzare gli alberi di ulivo monumentali in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché in quanto elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale, cercando di porre un freno al fenomeno dell’espianto e commercio degli alberi, specie di quelli secolari.”.

Il motivo? “Le attuali condizioni di mercato” – aggiungono gli olivicoltori – che in assenza di nessun intervento istituzionale a sostegno della economicità aziendale, rendono passiva, deficitaria ed antieconomica la loro coltivazione ed il loro mantenimento ai fini agricoli.

Dopo un secolo la storia si ripete solo che nel 1918 chi aveva occasione di percorrere le campagne del Salento leccese non poteva fare a meno di restare sorpreso nel vedere il grande movimento rappresentato dalla distruzione di oliveti che si andava compiendo a partire dal 1915. Tale distruzione era senza tregua sia d’estate che in inverno e sia che gli alberi di olivo si trovassero in buono che in cattivo stato di vegetazione e che producessero o meno un buon quantitativo di olive.

Nel 1918 si sentivano i colpi secchi della scure amplificata nel silenzio che allora dominava le campagne, chi si avventurava per le strade rurali era investito dall’odore acre del fumo che si sprigionava dalle carbonaie che si incontravano in ogni dove nelle contrade del Salento leccese. E sempre percorrendo la rete viaria salentina si incrociavano ovunque lunghe file di carri stracarichi di legna.

Questa immagine di devastazione è stata la caratteristica del Salento leccese del 1915 – 18 che costituisce la prova della crisi gravissima che in quel periodo stava attraversando l’oliveto e l’olivicultura salentina.

In quel periodo non c’era necessità di recarsi in campagna per poter vedere le migliaia e migliaia di metri cubi di legna d’olivo che si accatastavano nei pressi delle stazioni ferroviarie. Inoltre a Piazza delle Erbe era possibile vedere i carri ricolmi che formavano una lunga coda per aspettare uno dopo l’altro di poter essere pesati sulla bascula dell’Ufficio daziario.

Questa situazione era già evidente in tutto il Regno d’Italia e il governo di allora avuta chiara la situazione pubblicò un decreto luogotenenziale l’8 agosto del 1916 che aveva la funzione di moderare questa piaga del taglio senza scrupoli degli oliveti meridionali.

Le norme per accordare la concessione del taglio degli olivi contenute in quel decreto erano troppo vaghe ed indeterminate al punto che due anni dopo, ovvero nel 1918, si poteva assistere a questo scenario devastante ed apocalittico di taglio dei veri e propri boschi d’olivo del Salento leccese.

Quel decreto imponeva la costituzione di commissioni che dovevano autorizzare o meno la distruzione degli olivi che però agivano senza criteri precisi tanto che alcune volte autorizzavano la distruzione di oliveti che avrebbero dovuto essere rispettati e altre volte vietavano il taglio di oliveti vecchi ed improduttivi.

I proprietari di oliveti del 1915 – 18 erano incentivati a divenire taglialegna dai prezzi altissimi dei combustibili legna e carbone e quindi non esitavano a chiedere lo svellimento dei loro oliveti. Gli astuti proprietari per fare in modo che la domanda di autorizzazione per il taglio fosse fondata e accettata dalla commissione hanno scritto interminabili motivazioni alcune volte giuste, ma spesso le argomentazioni addotte erano solo dei pretesti alcuni dei quali addirittura ridicoli.

La maggior parte degli olivicoltori giustificavano la loro domanda di svellimento per l’improduttività delle loro piante. Spergiuravano che la mancanza di produzione permaneva nonostante avessero impiegato tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnica e dalla scienza. Altri giustificavano la domanda di taglio con la volontà di trasformare l’oliveto in seminativo da destinare alla coltivazione del tabacco o del vigneto che a loro dire garantivano un reddito di gran lunga più elevato.

Altri dichiaravano di voler tagliare il loro oliveto per destinare il terreno alla coltivazione raccomandata allora dal governo ovvero quella dei cereali, essendo che il paese ne aveva necessità essendo stato tanti anni in guerra. Infatti in quel periodo il Governo raccomandava di aumentare quanto più era possibile la produzione di derrate alimentari. Tale argomentazione risultava altamente umanitaria e spesso inteneriva i cuori dei componenti della commissione ottenendo in tal modo l’agognata autorizzazione al taglio.

Ma le ragioni che allora fecero più presa sull’animo dei componenti della commissione furono quelle di salvaguardare la salute dei lavoratori, potatori e raccoglitrici di olive che potevano essere contagiati dalla malaria che imperversava in quegli anni in quegli oliveti.

Tutti i motivi addotti hanno avuto un gran successo tanto che la commissione ha autorizzato il taglio del 90% degli oliveti dei proprietari che presentarono domanda di distruzione.

Per questi motivi nel 1918 il Governo si apprestava a licenziare un altro decreto in sostituzione di quello del 1916, ma mentre il Governo provvedeva c’era un’altra causa che dava davvero ragione ai proprietari di oliveti di distruggere tutto ed era l’istituzione in quegli anni del calmiere sugli oli.

Col termine calmiere dal greco kalamométrion, si intende l’imposizione per legge di un tetto massimo ai prezzi al consumo per uno o più prodotti, solitamente di prima necessità. Questa misura venne presa dal governo per contrastare un aumento eccessivo dei prezzi causato dall’inflazione. Per questo motivo se prima di questa decisione a voler tagliare gli oliveti erano solo i proprietari di quelli infruttiferi o poco fruttiferi affascinati dal miraggio dell’alto prezzo della legna, dopo l’introduzione del calmiere anche i proprietari di oliveti produttivi si lasciavano trascinare dalla corrente.

Il produttore di olive e di olio del 1918 faceva un ragionamento molto semplice dopo aver fatto i calcoli sulle spese di coltivazione e di raccolta del prodotto e tenuto conto anche della produzione di olive che non è costante, arrivavano alla conclusione di distruggere i loro oliveti vendendoli per legna anziché ricavare olio. Questo poiché l’olio avrebbe finito con l’essere venduto a prezzo di calmiere ritenuto per quegli anni eccessivamente basso rispetto a quello di altri grassi commestibili.

Le notizie riportate sono state redatte dal Prof. Ferdinando Vallese che conclude la sua nota con l’affermazione che il problema non era di facile soluzione perché, comunque si cercasse di risolverlo, si urterebbero gli interessi dei proprietari se si propendesse per l’applicazione del calmiere e quelli dei consumatori se del calmiere si intendesse fare a meno.

Ora come allora gli olivicoltori pur consapevoli che l’espianto indiscriminato di ulivi porterebbe alla deturpazione del paesaggio tipico del nostro territorio, non vedono altre soluzioni alla grave crisi che sta attraversando il settore, che mette in serio pericolo la loro sopravvivenza aziendale.

L’albero di ulivo, emblema del paesaggio e della storia dell’economia salentina, corre il rischio di scomparire perché risulta antieconomico.

Oggi la legna e il carbone non rappresentano la “suggestione energetica”, oggi va il rinnovabile, il solare e l’eolico, frutta tanti Euro all’anno, da riuscire ora come allora a distruggere gli oliveti del Salento leccese.

Ad oggi la Puglia occupa per le energie rinnovabili il primo posto in Italia per potenza installata con oltre 100 Megawatt. Tra eolico, fotovoltaico e biomasse, il Piano Energetico regionale (Pear) prevede l’installazione di poco meno di 5 mila Mw di potenza entro il 2016.

L’obiettivo “minimo” fissato dal Pear, prevede l’installazione di almeno 200 MW, cioè il doppio del risultato raggiunto fino ad oggi. Questo vuol dire che siamo solo a metà dell’obiettivo considerato minimo. Ora come allora la crisi del mercato è affrontata dagli agricoltori vendendo ciò che hanno avuto dai loro padri per ricavare energia.

Allora la situazione cambiò. E oggi? Cosa faranno gli olivicoltori di oggi con un prezzo dell’olio di 300 euro al quintale?

*Dottore Agronono

 

 

Bibliografia

L’Agricoltura Salentina del 1918

Marcello Scoccia Capo Panel ONAOO Rilevazione prezzi del 02 e 03 Aprile 2010 TN 13 Anno 8

Disciplinare Consorzio di tutela DOP Terra d’Otranto

UNAPROL FILIERA OLIVICOLA ANALISI STRUTTURALE E MONITORAGGIO DI UN CAMPIONE DI IMPRESE

http://www.frantoionline.it/ultime-notizie/produrre-olio-non-conviene-piu.html

Paolo De Maria L’olio nel Salento

Adriano Del Fabro Coltivare l’olivo e utilizzarne i frutti

Glauco Bigongiali Il libro dell’olio e dell’olivo: come conoscere e riconoscere l’olio genuino

Norme basilari per coltivare olivi nel Salento

Perché l’olivo di cultivar “coratina” nel Salento leccese produce due anni e al terzo anno non da frutto?

 

di Antonio Bruno

Nel Salento leccese l’olivo dilaga, è presente prepotentemente e caratterizza il Paesaggio rurale costituendo un vero e proprio patrimonio.

E’ ormai noto che è opportuno legare la produzione al territorio per valorizzarla in termini di tipicità che da maggiore identità all’olio e che lo caratterizza. E tutti siamo al corrente che le varietà che nel corso dei secoli si sono affermate nel Salento leccese sono la Cellina di Nardò e l’Ogliarola di Lecce.

La cultivar di olivo più famosa è la Coratina
L’Unaprol (Unione nazionale dei produttori olivicoli) ha rilevato attraverso un’Analisi del 2008 che in ambito nazionale la cultivar che le aziende olivicole intervistate hanno dichiarato con la maggiore frequenza è la “coratina”, che ha totalizzato il 16% di citazioni.

Nel Salento leccese i primi alberi di Coratina negli anni 80
Questa indagine trova riscontro nel Salento leccese in cui alcuni produttori negli anni 80 hanno impiantato alberi di olivo di cultivar Coratina suggestionati dalla “fama” dell’olio ottenuto da queste olive. E ancora oggi vi è chi impianta alberi di questa cultivar.

L’alternanza di produzione della coratina nel Salento leccese
Ma come dice il mio Direttore Generale Vincenzo Provenzano “Non c’è rosa senza spine” e dopo circa 30 anni di esperienza dei pionieri che impiantarono negli anni 80 gli alberi di Coratina nel Salento leccese si è giunti alla conclusione che la Coratina in questo territorio presenta una alternanza di produzione che con le normali pratiche agricole della nostra zona non risulta superabile.

Ma cos’è l’alternanza di produzione?
E’un fenomeno che caratterizza in modo rilevante l’olivo in quanto annate molto produttive (anni di carica) sono seguite da altre poco produttive (anni di scarica).

Per quali motivi si verifica?
Questa tendenza è da attribuire, più che alle condizioni climatiche dell’annata, allo stato di nutrizione conseguito nelle annate precedenti, il quale influenza la produzione di ogni pianta. Le cause dell’alternanza sono complesse in quanto concorrono diversi fattori tra cui: condizioni climatiche sfavorevoli, potature e concimazioni errate, vigoria della pianta, carenze idriche, attacchi parassitari, raccolta delle olive troppo ritardata e la predisposizione della cultivar, nonché l’età dell’albero (le piante giovani sono più recettive all’alternanza di quelle adulte).

Nell’areale di diffusione gli olivicoltori sono riusciti ad avere dagli alberi di coratina una moderata alternanza di produzione. Per questo motivo è bene riportare le caratteristiche di questo albero da ciò che si è osservato nel suo areale di diffusione.

Come viene coltivato l’olivo di varietà Coratina nel suo areale di diffusione

Principali sinonimi: «Cima di Corato», «Racioppo di Corato».

Areale di diffusione: tra il sud-est della provincia di Foggia ed il nord-ovest della provincia di Bari, nei territori di Andria, Barletta, Bisceglie (parte), Canosa, Cerignola, Corato, Minervino Murge, Molfetta (parte), Ruvo di Puglia (parte), San Ferdinando, Trani, Trinitapoli.

Superficie approssimativa: 60.000 ha.

Tendenza: stazionaria.

Giacitura prevalente: pianeggiante o leggermente ondulata.

Tipi prevalenti di suolo: calcare da medio ad elevato, falda assente, profondità variabile, naturalmente ben drenati, struttura da fine a media, scheletro da assente a medio, fertilità media, poggianti su sottosuolo sabbioso del Pleistocene.

Precipitazioni annue: 500-600 mm.

Portamento dell’albero: tra assurgente ad espanso.

Angolo d’inserzione delle branche primarie: regolare.

Chioma: mediamente densa, isodiametrica.

Sesti d’impianto: regolari e normali (7-9 m).

Densità di piantagione: 150-220 alberi per ettaro.

Altezza dell’albero: 3-4 m.

Turno di potatura: annuale.

Alternanza di produzione: moderata.

Modalità di raccolta prevalenti: manuale (brucatura) e meccanica (vibratori).

Caratteri distintivi della coltivazione nell’areale di diffusione: potatura accurata e molto ben bilanciata. Grazie al moderato vigore, indotto anche da un ambiente non eccessivamente fertile, gli alberi presentano sviluppo in genere ridotto, rendendo l’esecuzione delle operazioni di potatura e raccolta meno drammatica rispetto ad altre forme. Tra quelle illustrate è la forma d’allevamento che più si adatta concettualmente ai canoni di una moderna olivicoltura.

La Coratina ad Andria

Caratteristica dell’allevamento della cultivar «Coratina». in irriguo, in agro di Cerignola; in asciutto, in agro di Andria.
Con oltre 17.000 ettari di uliveti, 2.000.000 di alberi che producono la pregiata varietà d’oliva Coratina, 50 frantoi e numerose aziende imbottigliatrici, Andria rappresenta da sola il 3,5% della produzione di olio extravergine d’oliva di tutta Italia. I suoi frantoi ricavano 150.000 quintali di olio, quanto la produzione dell’intera Toscana. A tanta quantità corrisponde una qualità di livello superiore. La raccolta delle olive inizia ad autunno inoltrato quando sono mature ma ancora verdi e viene condotta con il sistema della brucatura a mano. Questo consente di ottenere un olio a bassissima acidità e resistente all’ossidazione, dal colore giallo con vividi riflessi smeraldini, estremamente fragrante con un piacevole retrogusto amarognolo e leggermente pizzichino.

La Coratina a Carpignano Salentino
Mi sono recato a Carpignano Salentino presso l’Azienda Carmine Sicuro che ha 350 alberi di Olivo cultivar Coratina.
L’oliveto è irrigato con turni di irrigazione ogni 10 giorni.
Concimazione: Azoto a Base Organica con microelementi per via foliare.
Azoto a base organica ovvero a base di amminoacidi a basso e medio peso molecolare derivanti dall’ idrolisi di sostanze proteiche di origine animale. Non si può definirlo come un generico “ concime azotato ” perché di fatto è una miscela naturale e stabile di strutture complesse ( peptidi, peptoni, amminoacidi ) che sono alla base di complesse funzioni fitoregolatrici del metabolismo delle piante. Sono eccellenti veicolanti organici, da aggiungere al momento di qualsiasi concimazione, in quanto hanno effetti di tipo chelante-complessante nei confronti di tutti gli elementi.

Lotta integrata a cura dei Dottori Agronomi del CODILE (Consorzio di Difesa delle Produzioni Intensive della Provincia di Lecce)
La lotta integrata è riconosciuta e regolamentata dall’Unione Europea, la lotta integrata è un metodo di coltivazione mista, che cioè utilizza sia la chimica che i metodi naturali di difesa dai parassiti.

Potatura: Una potatura leggera ogni 6 anni

Alternanza di produzione: L’oliveto produce due anni e poi per un anno non da alcuna produzione

Raccolta: A Novembre con l’ausilio dello scuotitore raccolgono il 30 – 40 % delle olive.

Caratteri distintivi della coltivazione nell’areale di Carpignano Salentino: la potatura viene effettuata solo ogni sei anni e la raccolta non è anticipata per tutto il prodotto

Le tecniche per attenuare l’Alternanza di produzione dell’olivo
Per attenuare questo fenomeno è indispensabile mantenere il giusto equilibrio tra attività vegetativa e produttiva della pianta, il quale può essere garantito praticando varie operazioni colturali tra cui una razionale concimazione ed irrigazione, una potatura da effettuare ogni anno adeguando la fruttificazione alla vegetazione della pianta, una regolare lotta antiparassitaria (soprattutto contro la mosca dell’olivo) ed una raccolta anticipata.

La risposta alla domanda “Perché l’olivo di cultivar coratina solo nel Salento leccese presenta una forte alternanza di produzione” è la seguente:

Perché al contrario di quanto si fa nell’ordinario nell’areale di produzione invece di effettuare una potatura accurata e molto ben bilanciata ogni anno si preferisce intervenire ogni 6 anni e perché si raccoglie anticipatamente solo il 30 – 40 % delle olive invece di praticare la raccolta anticipata per tutto il prodotto.

Conclusioni

Se si applicasse una corretta tecnica di gestione la cultivar di olivo “coratina” darebbe produzioni di 40 – 80 chili di olive per pianta e considerando una media di 60 chili di olive per pianta e una densità d’impianto di 200 piante per ettaro si avrebbe una produzione dai 120 ai 150 quintali di olive per ettaro.
Considerando che l’Azienda Sicuro ha venduto le olive di coratina a 45 euro al quintale e che queste olive sono molto richieste dal mercato si avrebbe una resa per ettaro annuale di circa 7.000 euro per ettaro.

Ma quali i costi?

Qualcuno potrebbe farmi l’obiezione che tale reddito ha per contro dei costi annuali per potatura e raccolta diversi da quelli che si hanno con la tecnica adottata oggi nel Salento leccese. Ma quali sono questi costi? Vediamoli insieme:

Voce di Costo Euro per ettaro all’anno

Irrigazione, Concimazione                                                                                            250

Trattamenti fitosanitari                                                                                                  250
Potatura (100 ore per ettaro e operaio a euro all’ora)                                   1000

Raccolta (8 ore ettari, noleggio scuotitore + 2 operai: 150 Euro all’ora)                                                                                                                                  1200

Frangitura (5 Euro al quintale)
Le maggiorazioni di costo

E’ evidente che dai conti fatti la spesa in più è quella di 1000 euro per ettaro per la potatura e di 600 euro in più per la raccolta. In due anni si spendono in più 3mila euro ma in compenso si ha la produzione di olive nel terzo anno che compensa abbondantemente tale maggiore spesa.

Bibliografia

A GODINI – F. CONTÒ, L’Olivicoltura marginale in Puglia

Alberto Grimelli, ANNO DI CARICA, ANNO DI SCARICA

UNAPROL, FILIERA OLIVICOLA ANALISI STRUTTURALE E MONITORAGGIO DI UN CAMPIONE DI IMPRESE

Alberto Grimelli, Intensivo contro superintensivo. Facciamo un po’ di conti

Che fare per raccogliere 90 chili l’ora di olive ogliarole leccesi e celline di Nardò?

di Antonio Bruno

Il Dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’Università degli studi di Perugia guidato dal prof. Franco Famiani ha condotto numerose prove per valutare gli effetti della cultivar, epoca di raccolta, intensità di potatura e carico produttivo sull’efficienza delle diverse macchine agevolatrici della raccolta delle olive disponibili sul mercato.

Cosa sono le macchine agevolatrici della raccolta delle olive?

Le agevolatrici sono macchine raccoglitrici dotate di semplici dispositivi, quali pettini vibranti o ganci oscillanti, azionati da compressori o direttamente da piccoli motori a scoppio, che vengono posizionati all’interno della chioma e provocano il distacco delle olive per bacchiatura o per le oscillazioni indotte nei rametti. Queste attrezzature sono diffuse in zone dove non è economicamente conveniente investire nell’acquisto di grosse macchine o dove le condizioni colturali non sono adatte all’impiego di macchine complesse (Famiani et al., 1998).

Il tempo necessario per ottenere il distacco delle olive

Tutte le prove danno come risultato la quantità di olive raccolte in un ora da un operatore e è necessario precisare che questo conteggio ha preso in considerazione soltanto la fase di distacco delle olive dall’albero.

Questo significa che siccome per qualsiasi macchina è necessario un cantiere per la stesura e spostamento dei teli e poi per il recupero delle olive dai teli stessi e che tali tempi sono identici per tutte le macchine agevolatrici l’unico

Memento, sallentinus: Legge di tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali

2007: Legge di Tutela e Valorizzazione del paesaggio degli Ulivi monumentali della Puglia

Regione Puglia Legge Regionale n. 14 del 04-06-2007
(B.U.R. Puglia n. 83 del 7-6-2007)

 

IL CONSIGLIO REGIONALE HA APPROVATO
IL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE PROMULGA
la seguente legge:

TITOLO I
FINALITÀ E DEFINIZIONI

ARTICOLO 1
(Finalità)
1. La Regione Puglia tutela e valorizza gli alberi di ulivo monumentali, anche isolati, in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché quali elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale.
2. La tutela degli ulivi non aventi carattere di monumentalità resta disciplinata dalla legge 14 febbraio 1951, n. 144 (Modificazione degli articoli 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1945, n. 475, concernente il divieto di abbattimento di alberi di ulivo), e dalle norme applicative regionali.

ARTICOLO 2
(Definizioni)
1. Il carattere di monumentalità viene attribuito quando la pianta di ulivo possiede età plurisecolare deducibile da:
a) dimensioni del tronco della pianta, con diametro uguale o superiore a centimetri 100, misurato all’altezza di centimetri 130 dal suolo; nel caso di alberi con tronco frammentato il diametro è quello complessivo ottenuto ricostruendo la forma teorica del tronco intero;
b) oppure accertato valore storico-antropologico per citazione o rappresentazione in documenti o rappresentazioni iconiche-storiche.
2. Può prescindersi dai caratteri definiti al comma 1 nel caso di alberi con diametro compreso tra i centimetri 70 e 100 misurato ricostruendo, nel caso di tronco frammentato, la forma teorica del tronco intero nei seguenti casi:
a) forma scultorea del tronco (forma spiralata, alveolare, cavata, portamento a bandiera, presenza di formazioni mammellonari);
b) riconosciuto valore simbolico attribuito da una comunità;
c) localizzazioni in adiacenza a beni di interesse storico-artistico, architettonico, archeologico riconosciuti ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).
3. Il carattere di monumentalità può attribuirsi agli uliveti che presentano una percentuale minima del 60 per cento di piante monumentali all’interno dell’unità colturale, individuata nella relativa particella catastale.

ph Francesco Politano

 

Carburante dai frantoi oleari?

Da Giacinto Donno,  magister del passato, una lezione per il futuro!

 

di Antonio Bruno
 

Il patrimonio olivicolo italiano è stimato in 150 milioni di piante distribuite su una superficie di più di 1 Milione di ettari. La Puglia vanta il più alto numero di aziende olivicole, infatti sono più di 267mila. Dagli sforzi, dalla creatività e dai sacrifici di queste donne e uomini vengono fuori più di 222mila tonnellate di olio, quasi una tonnellata in media ad azienda, che rappresenta il 37% della produzione Nazionale di olio d’oliva. Le percentuali  sono il risultato di una media basata su dati ISTAT e ISMEA relative alle campagne olearie dal 2002 al 2008.
Per fare quest’olio ci vuole l’acqua che dopo essere stata a contatto o dentro le olive, diviene “Le acque di vegetazione dei frantoi oleari” che costituiscono da sempre un problema ambientale importante per le industrie molitorie, che in Italia raggiungono le 6.000 unità e rappresentano un problema per la nostra Regione perché più della metà delle acque di vegetazione dei frantoi oleari sono concentrate in Puglia.

Partecipo a tanti convegni in cui Imprenditori Agricoli Professionali si accaniscono in un piagnisteo e in lamentazioni struggenti e passionali in cui si dichiarano vittime delle norme assurde che riguardano le acque di vegetazione divenute un problema che, a loro dire, prima non esisteva, e

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