Tutto ciò che bisogna conoscere del carrubo (III ed ultima parte)

di Massimo Vaglio

carrube

Caramelle di carrube

Ingr.: carrube, miele, olio

Togliete i semi dalle carrube e fatele bollire in acqua per circa mezz’ora.Unite un uguale peso di miele e fate cuocere insieme al decotto. Quando il composto comincia a caramellare, rovesciatelo su un piano di marmo unto d’olio, livellatelo sino a 1-2 centimetro e fatelo raffreddare. Tagliatelo a piccoli quadratini.

 

Cotto di carrube

IL cotto di carrube è un prodotto della tradizione pugliese che veniva usato tradizionalmente per curare il mal di gola dei bambini, per preparare i dolci natalizi al posto dello zucchero e per bagnarci le pettole, dolce tipico del Natale dell’area del Gargano.

Il cotto di carruba ha il merito di conservarsi, inalterato, per diversi anni.

Per prepararlo spezzettate le carrube e ponetele a bagno per 48 ore. Fatele bollire per 10 minuti e spegnete il fuoco. Quando il liquido è tiepido versate una manciata di cenere di legna o di sarmenti, agitando il tutto dopo aver schiacciato le carrube. Lasciate riposare ancora per 24 ore. Prelevate dalla superficie solo la parte di liquido che appare limpida, filtratela e fatela bollire fino a ridurla a un terzo del volume iniziale, ponetela in vasi di vetro scuro aggiungendo scorze di arancia.

 

Decotti curativi

Preparazioni.

Decotto espettorante per le prime vie aeree: in un litro di acqua aggiungere 50 g di carruba in polvere, 50 g di fichi secchi e 50 g di semi di lino: una volta ottenuto il decotto filtrare, dolcificare con miele e berne 3-4 tazze al giorno.

Decotto antidiarroico: preparare un decotto usando 50 g di carruba in polvere in un litro d’acqua, non filtrare, dolcificare con miele e berne 3-4 tazzine al giorno.

Trattamento del colon spastico: per coloro che soffrono di colon irritabile (così detta colite spastica) e non riescono a prendere il latte, basterà aggiungere due cucchiai da the di carruba in polvere e il problema verrà regolarmente superato.

Tutto ciò che bisogna conoscere del carrubo (II parte)

di Massimo Vaglio

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La principale utilizzazione nel settore dell’industria alimentare è rappresentata dalla produzione di farine che trovano impiego nell’industria zootecnica per la realizzazione di ottimi mangimi per animali, ed in particolare per lo svezzamento e l’ingrasso dei suini, per prevenire casi di dissenteria dei soggetti giovani, nonché per migliorare l’appetibilità di foraggi e miscele di mangimi destinate a molte specie animali.

La carruba è diventata popolare nel settore dell’industria alimentare negli anni 80, la polpa è priva di caffeina e viene utilizzata per ricavare il “carcao”, che è un succedaneo del cacao a basso contenuto di grassi, mentre il “semolato”, è la farina di carrube ottenuta facendo essiccare la polpa e poi tritandola.

Grazie a un alto contenuto di proteine, vitamine, minerali come calcio, magnesio, potassio, la farina di carruba è un alimento nutriente a tutti gli effetti, povera di grassi, di sodio e di glutine quindi indicato anche nell’alimentazione dei celiaci.

carrube

Dai semi, si ricava una gomma addensante che viene utilizzata in pasticceria.

Le carrube sono molto ricche di zuccheri, tanto che, con la fermentazione, da un quintale di carrube si ottengono dai venti ai venticinque litri di alcool.

Sino ad un recente passato le carrube erano comunemente utilizzate direttamente per l’alimentazione umana, consuetudine che sopravvive su piccolissima scala, praticamente ormai a livello di mera curiosità.

Si narra che S. Giovanni Battista nel lungo periodo della sua ascesi nel deserto si nutrisse dei frutti di questa pianta (da allora anche denominata “pane di S. Giovanni”), che costituirono pure l’amaro pasto del figliol prodigo durante la dura esperienza di guardiano di porci.

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In campo farmaceutico si utilizzano le carrube come prodotti naturali per la cura di malattie intestinali; sono lassative quando la polpa è ancora verde, astringenti e antidiarroiche da secche, grazie all’elevato contenuto di tannini, pectine, lignina, ecc.; tutte queste proprietà sono ben note e ampiamente sfruttate dall’industria chimica e farmaceutica.

La ricerca scientifica ultimamente sta concentrando i suoi studi su di una peculiarità del carrubo, che è quella di possedere uno strato di tessuto (cambio) costituito da cellule meristematiche, ossia in grado di far ricrescere qualsiasi organo della pianta che dovesse andare incontro a marciume o essere danneggiato. Si tratta, in parole povere, di cellule hanno le stesse caratteristiche di quelle che permettono al polpo la ricrescita di un tentacolo amputato o alla lucertola la ricrescita della coda, come si può intuire si tratta di un meccanismo che se, come si spera, si riuscisse a governare potrebbe trovare meravigliose applicazioni anche nella cura dei tessuti umani danneggiati.

Dai semi inoltre si produce una farina che per l’elevato potere addensante, legato al contenuto di carrubina (un polisaccaride), trova ampio impiego nell’industria alimentare e soprattutto dolciaria.

Dal legno rossiccio, che non è un ottimo combustibile, si possono ricavare sculture e può essere impiegato in lavori di ebanisteria; inoltre, si estraggono coloranti e polifenoli utilizzati nella concia delle pelli.

Per quanto riguarda il Salento, la còrnula, così vengono appellati tanto l’albero quanto il frutto di questo albero, si trova diffusa prevalentemente in esemplari isolati, alcuni dei quali di dimensioni davvero monumentali, ma la sua presenza per quanto attualmente numericamente limitata non sfugge certo alla vista, soprattutto in estate, quando questi alberi, risaltano lussureggianti nella loro verzura, incuranti dell’arsura circostante.

Li si ritrova spesso nelle adiacenze di antiche masserie, lungo i loro stradoni di accesso e in luoghi tanto pietrosi, aridi e scoscesi da essere stati considerati inidonei persino alla coltivazione dei pur parchi ulivi.

La densità di questi alberi aumenta man mano che ci si avvicina a Santa Maria di Leuca, ove insieme al fico d’India riesce a caratterizzare piacevolmente molti, altrimenti brulli, declivi rocciosi.

Anche nel passato, nel Salento, di rado la loro produzione è stata utilizzata per l’alimentazione bestiame, cui venivano destinati alimenti ben meno nobili, ma oltre che essere destinata in tempi di magra all’alimentazione umana, veniva ammassata alla stregua dei fichi secchi di scarto per essere avviata alla produzione dell’alcool.

Chiunque abbia visto un carrubo, non può che convenire sulla sua valenza estetica, cosa già sufficiente a privilegiarne il suo utilizzo nella costituzione di nuove aree verdi, se a questo poi si aggiungono le limitatissime, per non dire nulle esigenze colturali, la sua frugalità e la non peregrina circostanza di poter utilizzare la sua produzione anche a scopi alimentari, industriali ed energetici, si capisce come questo bellissimo albero debba essere rivalutato come essenza dal valore strategico.

A tal proposito, a nessuna persona dotata di un minimo di sensibilità ambientale e buon senso non possono non venire in mente le troppe estensioni di terreno abbandonato a ridosso degli agglomerati urbani; i tanti relitti stradali, non ultime le tantissime piazzole delle nuove rotatorie e le centinaia di chilometri di viali delle nostre zone squallide zone industriali, che con poca spesa, anzi usufruendo dei fondi attualmente messi a disposizione con un apposito bando dalla Regione Puglia, potrebbero essere riqualificati con buona pace del paesaggio e dell’ambiente, con questo nostro nobile, storico e generoso amico.

 

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Tutto ciò che bisogna conoscere del carrubo (I parte)

di Massimo Vaglio

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Il carrubo (Ceratonia siliqua L.) è una pianta sempreverde che raggiunge comunemente i 10-12 metri, di altezza, molto imponente, caratterizzata da una folta chioma espansa dal colore verde scuro, costituita da foglie composte arrotondate, glabre, lucenti e coriacee. Botanicamente, il carrubo appartiene alla famiglia delle Leguminoseae (sottofamiglia Ceasalpinaceae) e al genere Ceratonia, che comprende la sola specie Ceratonia siliqua. Il nome della specie deriva per metà dal greco keràtion (=piccolo corno) e per metà dal latino siliqua (=baccello).

I fiori sono poco appariscenti, riuniti in infiorescenze racemose di odore sgradevole e possono essere attaccati ai rami adulti o anche direttamente sul tronco. A questo proposito è opportuno ricordare che il carrubo è una specie dioica, ovvero che presenta fiori maschili e femminili su soggetti diversi, anche se talvolta nella forma selvatica i fiori maschili e femminili si possono ritrovare su di uno stesso individuo.

Nelle varietà coltivate si producono soltanto fiori femminili, ecco perché al momento dell’impianto è consigliabile mettere a dimora piante dei due sessi.

I fiori si trasformano in frutti dopo circa un anno, i frutti (legumi o baccelli detti lomenti) noti come carrube, nelle varietà coltivate sono lunghi fino ai 20 cm, larghi 3,5 cm e sono spessi circa 1 cm. Si sviluppano in primavera, di colore verde chiaro diventando bruni (color cioccolata) a maturazione completata a fine estate.

Contengono all’interno semi duri e lucenti chiamati carati dall’arabo (‘khirat’). Furono infatti proprio gli arabi ad individuare la particolare caratteristica che questi avevano sempre un peso costante (1/6 di grammo), per questo li utilizzavano come unità di misura delle pietre preziose.

carrubo3

Un albero di carrubo adulto, può produrre alcuni quintali di carrube, e in letteratura sono riportati casi di esemplari che hanno prodotto fino ad oltre una tonnellata di frutti maturi per stagione.

Le carrube, assumono a maturità una colorazione marrone scuro ed hanno un sapore dolce ed aromatico dovuto ad un contenuto in zuccheri che in alcune varietà può raggiungere circa il 60%.

Oltre il 70% circa della superficie nazionale coltivata a carrubo si trova in Sicilia, la restante parte è ripartita tra la Puglia, la Sardegna ed alcune zone della Campania, anche se è presente con alberi sparsi o piccoli nuclei anche in diverse altre regioni sino alle zone più riparate della Liguria che costituisce il limite settentrionale.

I maggiori paesi produttori attualmente sono la Spagna, tutti i paesi dell’Africa settentrionale, la Grecia, la Turchia, e la Siria. In Israele il carrubo è stato ampiamente utilizzato per il rimboschimento di zone montuose, rocciose ed aride.

Il Carrubo, che riesce a raggiungere comunemente dimensioni maestose. E’ una specie molto longeva che arriva a vegetare anche per 500 anni, anche se dalla crescita lenta, originaria dei paesi del Mediterraneo orientale (Siria, Asia Minore) e si è diffusa per coltivazione antichissima in tutto il bacino del Mediterraneo.

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Fu introdotto in Italia dai greci, ma furono però gli arabi (che coltivavano e consumavano i suoi frutti dai tempi più remoti) che ne intensificarono la coltivazione diffondendolo poi in Spagna e Marocco. Insieme all’olivastro, al lentisco ed al terebinto già in epoca fenicia ricopriva con fitte foreste sempreverdi le zone costiere e collinari dei paesi mediterranei; è una specie amante della luce e del caldo e vive fino a 600 m. sopra al livello del mare in terreni rocciosi e calcarei. Di queste grandi foreste, allo stato attuale è rimasto ben poco, ma il carrubo, in areali circoscritti, è riuscito ad ambientarsi anche dove a causa della grande siccità e delle alte temperature estive, alcune specie della macchia mediterranea sono andate scomparendo.

 

Carrubi e carrube nel Salento (II parte)

carrubi

di Massimo Vaglio

Per quanto riguarda il Salento, la còrnula, così vengono appellati tanto l’albero quanto il frutto di questo albero, si trova  diffusa prevalentemente in esemplari isolati, alcuni dei quali di dimensioni davvero monumentali, ma la sua presenza per quanto attualmente numericamente limitata  non sfugge certo alla vista, soprattutto in estate, quando questi alberi, risaltano lussureggianti nella loro verzura, incuranti dell’arsura circostante.

Li si ritrova spesso nelle adiacenze di antiche masserie, lungo i loro stradoni di accesso e in luoghi tanto pietrosi, aridi e scoscesi da essere stati considerati inidonei persino alla coltivazione dei pur parchi ulivi. La densità di questi alberi aumenta man mano che ci si avvicina a santa Maria di Leuca, ove insieme al fico d’India riesce a caratterizzare piacevolmente molti, altrimenti brulli, declivi rocciosi.

Anche nel passato, nel Salento, di rado la loro produzione, è stata utilizzata per l’alimentazione bestiame, cui venivano destinati alimenti ben meno nobili, ma oltre che essere destinata in tempi di magra all’alimentazione umana, veniva ammassata alla stregua dei fichi secchi di scarto per essere avviata alla produzione dell’alcool.

carrube

Chiunque abbia visto un carrubo, non può che convenire sulla sua valenza estetica, cosa già sufficiente a privilegiarne il suo utilizzo nella costituzione di nuove aree verdi, se a questo poi si aggiungono le limitatissime, per non dire nulle esigenze colturali, la sua frugalità e la non peregrina circostanza di poter utilizzare la sua produzione anche a scopi alimentari, industriali ed energetici, si capisce come questo bellissimo albero debba essere rivalutato come essenza dal valore strategico.

A tal proposito, a nessuna persona dotata di un minimo di sensibilità ambientale e buon senso non possono non venire in mente le troppe estensioni di terreno abbandonato a ridosso degli agglomerati urbani; i tanti relitti stradali, non ultime le tantissime piazzole delle nuove rotatorie e le centinaia di chilometri di viali delle nostre zone squallide zone industriali, che con poca spesa, anzi usufruendo dei fondi attualmente messi a disposizione con un apposito bando dalla Regione Puglia, potrebbero essere riqualificati con buona pace del paesaggio e dell’ambiente, con questo nostro nobile, storico e generoso amico.

Il carrubo, quel nostro nobile, storico e generoso amico (I parte)

carrub

di Massimo Vaglio

Il carrubo (Ceratonia siliqua L.) è una pianta sempreverde, che raggiunge comunemente i 10-12 metri, di altezza, molto imponente, è caratterizzata da una folta chioma espansa dal colore verde scuro costituita da foglie composte arrotondate, glabre, lucenti e coriacee.

Botanicamente, il carrubo appartiene alla famiglia delle Leguminoseae (sottofamiglia Ceasalpinaceae) e al genere Ceratonia che comprende la sola specie Ceratonia siliqua. Il nome della specie deriva per metà dal greco keràtion (=piccolo corno) e per metà dal latino siliqua (=baccello).

carrube

I fiori sono poco appariscenti, riuniti in infiorescenze racemose di odore sgradevole e possono essere attaccati ai rami adulti o anche direttamente sul tronco. A questo proposito è opportuno ricordare che il carrubo è una specie dioica, ovvero che presenta fiori maschili e femminili su soggetti diversi anche se talvolta nella forma selvatica i fiori maschili e femminili si possono ritrovare su di uno stesso individuo. Nelle varietà coltivate si producono soltanto fiori femminili, ecco perché al momento dell’impianto è consigliabile mettere a dimora piante dei due sessi.

I fiori si trasformano in frutti dopo circa un anno,  i frutti (legumi o baccelli detti lomenti) noti come carrube, nelle varietà coltivate sono lunghi fino ai 20 cm, larghi 3,5 cm e sono spessi circa 1 cm. Si sviluppano in primavera, di colore verde chiaro diventando bruni (color cioccolata) a maturazione completata a fine estate. Contengono all’interno semi duri e lucenti chiamati carati dall’arabo (‘khirat’); furono infatti proprio gli arabi ad individuare la particolare caratteristica che questi  avevano sempre un peso costante (1/6 di grammo), per questo li utilizzavano come unità di misura delle pietre preziose.

Un albero di carrubo adulto, può produrre alcuni quintali di carrube, e in letteratura sono riportati casi di esemplari che hanno prodotto fino ad oltre una tonnellata di frutti maturi per stagione.

Le carrube assumono a maturità una colorazione marrone scuro ed hanno un sapore dolce ed aromatico dovuto ad un contenuto in zuccheri che in alcune varietà può raggiungere circa il 60%.

Oltre il 70% circa della superficie nazionale coltivata a carrubo si trova in Sicilia, la restante parte è ripartita tra la Puglia, la Sardegna ed alcune zone della Campania anche se è presente con alberi sparsi o piccoli nuclei anche in diverse altre regioni sino alle zone più riparate della Liguria che costituisce il limite settentrionale. I maggiori paesi produttori attualmente sono la Spagna, tutti i paesi dell’Africa settentrionale, la Grecia, la Turchia, e la Siria, in Israele il carrubo è stato ampiamente utilizzato per il rimboschimento di zone montuose, rocciose ed aride. Il Carrubo, che riesce a raggiungere comunemente dimensioni maestose, è una specie molto longeva che arriva a vegetare anche per 500 anni, anche se dalla crescita lenta, originaria dei paesi del Mediterraneo orientale (Siria, Asia Minore) e si è diffusa per coltivazione antichissima in tutto il bacino del Mediterraneo.

Fu introdotto in Italia dai greci, ma furono però gli arabi (che coltivavano e consumavano i suoi frutti dai tempi più remoti) che ne intensificarono la coltivazione diffondendolo poi in Spagna e Marocco. Insieme all’olivastro, al lentisco ed al terebinto già in epoca fenicia ricopriva con fitte foreste sempreverdi le zone costiere e collinari dei paesi mediterranei; è una specie amante della luce e del caldo e vive fino a 600 m. sopra al livello del mare in terreni rocciosi e calcarei. Di queste grandi foreste, allo stato attuale è rimasto ben poco, ma il carrubo, in areali circoscritti, è riuscito ad ambientarsi anche dove a causa della grande siccità e delle alte temperature estive, alcune specie della macchia mediterranea sono andate scomparendo.

La principale utilizzazione nel settore dell’industria alimentare è rappresentata dalla produzione di farine che trovano impiego nell’industria zootecnica per la realizzazione di ottimi mangimi per animali, ed in particolare per lo svezzamento e l’ingrasso dei suini, per prevenire casi di dissenteria dei soggetti giovani, nonché per migliorare l’appetibilità di foraggi e miscele di mangimi destinate a molte specie animali.

La carruba è diventata popolare nel settore dell’industria alimentare negli anni 80, la polpa è priva di caffeina e viene utilizzata per ricavare il “carcao”, che è un succedaneo del cacao a basso contenuto di grassi, mentre il “semolato”, è la farina di carrube ottenuta facendo essiccare la polpa e poi tritandola.

Grazie a un alto contenuto di proteine, vitamine, minerali come calcio, magnesio, potassio, la farina di carruba è un alimento nutriente a tutti gli effetti, povera di grassi, di sodio e di glutine quindi indicato anche nell’alimentazione dei celiaci.

Dai semi, si ricava una gomma addensante che viene utilizzata in pasticceria. Le carrube sono molto ricche di zuccheri, tanto che, con la fermentazione, da un quintale di carrube si ottengono dai venti ai venticinque litri di alcool,

Sino ad un recente passato le carrube erano comunemente utilizzate direttamente per l’alimentazione umana consuetudine che sopravvive su piccolissima scala, praticamente ormai a livello di mera curiosità. Si narra che S. Giovanni Battista nel lungo periodo della sua ascesi nel deserto si nutrisse dei frutti di questa pianta (da allora anche denominata “pane di S. Giovanni”), che costituirono pure l’amaro pasto del figliol prodigo durante la dura esperienza di guardiano di porci.

In campo farmaceutico si utilizzano le carrube come prodotti naturali per la cura di malattie intestinali; sono lassative quando la polpa è ancora verde, astringenti e antidiarroiche da secche, grazie all’elevato contenuto di tannini, pectine, lignina, ecc., tutte queste proprietà sono ben note e ampiamente sfruttate dall’industria chimica e farmaceutica.

La ricerca scientifica ultimamente sta concentrando i suoi studi su di una peculiarità del carrubo, che è quella di possedere uno strato di tessuto (cambio) costituito da cellule meristematiche, ossia in grado di far ricrescere qualsiasi organo della pianta che dovesse andare incontro a marciume o essere danneggiato. Si tratta, in parole povere, di cellule hanno le stesse caratteristiche di quelle che permettono al polpo la ricrescita di un tentacolo amputato o alla lucertola la ricrescita della coda, come si può intuire  si tratta di un meccanismo che se, come si spera, si riuscisse a governare potrebbe trovare meravigliose applicazioni anche nella cura dei tessuti umani danneggiati.

Dai semi inoltre si produce una farina che per l’elevato potere addensante, legato al contenuto di carrubina (un polisaccaride), trova ampio impiego nell’industria alimentare e soprattutto dolciaria.

Dal legno rossiccio, che non è un ottimo combustibile, si possono ricavare sculture e può essere impiegato in lavori di ebanisteria, inoltre, si estraggono coloranti e polifenoli utilizzati nella concia delle pelli.

Riti e tradizioni salentine dalla Quaresima alla Pasqua

Salento fine Ottocento  

                                     TTACCAMU LI CUCUME  

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Per non tradire la regola di astinenza  che per tutto il periodo penitenziale bandiva dalla mensa, oltre alla carne, ogni varietà di formaggio, nelle domeniche quaresimali li pizzariéddhri  (pietanza festiva del mondo contadino) non venivano insaporiti con la tradizionale ricotta ‘scante (ricotta piccante), ma approntati col magro condimento di mollica fritta e carrube grattugiate, lomenti che, per essere abitualmente dati in pasto ai cavalli, esprimevano in pieno lo spessore dell’umiltà penitenziale.

Il giovedì santo però, forse perché anticamente dedicato al reinserimento nella Chiesa dei pubblici penitenti, o per essere commemorativo della cena di Cristo e quindi in tal senso esprimente la gioia del convivio, veniva a porsi come giorno di tregua nell’angoscia espiatoria e perciò, in sede culinaria, vissuto alla festiva.

Valendo da una parte la sospensione dello spirito penitenziale e permanendo dall’altra l’ostracismo ai formaggi fino al mezzogiorno del sabato santo, li pizzariéddhri  venivano conditi supplendo alla grattugiata di carrube con un’irrorata di miele fuso con l’aggiunta di semi di finocchio finemente tritati. Un amalgama che conferiva alla rustica pasta – fatta in casa, spesso con farina scura – delicato sapore di marca orientaleggiante, ma il cui uso a livello contadino più che a ragioni di gusto si doveva a dettatura di influenze simbolico-religiose.

Non si può  infatti sorvolare su quanto di appalesato contrasto c’era nel passaggio dalle carrube, mangiare ti éstie (cibo da bestie), al miele fuso, sursàta ti Ddiu (bevanda di Dio); un repentino salto di qualità che spinge a pensare come, almeno in fase di partenza, l’uso fosse nato quale adombratura di un principio di riscatto – da esseri peccaminosi ad anime

Frutti della terra nel Salento: oggi, parliamo di lupini, carrube e fichi

di Rocco Boccadamo

Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.

Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.

Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.

Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.

I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.

Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.

Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.

Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.

Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.

°   °   °

Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.

Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.

Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.

Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.

°   °   °

I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi  su  grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.

Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.

Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.

Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.

Riti e tradizioni salentine dalla Quaresima alla Pasqua

Salento fine Ottocento  

                                     TTACCAMU LI CUCUME  

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Per non tradire la regola di astinenza  che per tutto il periodo penitenziale bandiva dalla mensa, oltre alla carne, ogni varietà di formaggio, nelle domeniche quaresimali li pizzariéddhri  (pietanza festiva del mondo contadino) non venivano insaporiti con la tradizionale ricotta ‘scante (ricotta piccante), ma approntati col magro condimento di mollica fritta e carrube grattugiate, lomenti che, per essere abitualmente dati in pasto ai cavalli, esprimevano in pieno lo spessore dell’umiltà penitenziale.

Il giovedì santo però, forse perché anticamente dedicato al reinserimento nella Chiesa dei pubblici penitenti, o per essere commemorativo della cena di Cristo e quindi in tal senso esprimente la gioia del convivio, veniva a porsi come giorno di tregua nell’angoscia espiatoria e perciò, in sede culinaria, vissuto alla festiva.

Valendo da una parte la sospensione dello spirito penitenziale e permanendo dall’altra l’ostracismo ai formaggi fino al mezzogiorno del sabato santo, li pizzariéddhri  venivano conditi supplendo alla grattugiata di carrube con un’irrorata di miele fuso con l’aggiunta di semi di finocchio finemente tritati. Un amalgama che conferiva alla rustica pasta – fatta in casa, spesso con farina scura – delicato sapore di marca orientaleggiante, ma il cui uso a livello contadino più che a ragioni di gusto si doveva a dettatura di influenze simbolico-religiose.

Non si può  infatti sorvolare su quanto di appalesato contrasto c’era nel passaggio dalle carrube, mangiare ti éstie (cibo da bestie), al miele fuso, sursàta ti Ddiu (bevanda di Dio); un repentino salto di qualità che spinge a pensare come, almeno in fase di partenza, l’uso fosse nato quale adombratura di un principio di riscatto – da esseri peccaminosi ad anime

Un salentino a Nord Est. Osservando, curiosando e ricordando

di Rocco Boccadamo

 

Alligna nel Salento, come, del resto, in tanti altri posti, una bella e forte pianta, il carrubo, che, nell’arco della sua lunga vita, può anche raggiungere la non comune altezza di dieci metri e si mostra con una folta chioma fronzuta sempreverde.

E’ un albero che non richiede soverchie cure, aduso e resistente a qualsiasi condizione climatica, le erbe e le erbacce, che vanno spuntando naturalmente ai suoi piedi, crescono, diventano rigogliose, ingialliscono e seccano, un ciclo vegetativo dopo l’altro, mentre il nostro gigante lussureggiante se ne resta imperterrito lì, quasi a gustarsi la scena.

Conferisce un appagamento speciale, durante la stagione calda, la sosta alla sua ombra, con l’agio privilegiato di occhieggiare fra i minuscoli spazi del fogliame e, in tal modo, cogliere frammenti di cielo o di mare, in movimento, oscillanti dietro la carezza timida del venticello.

Il carrubo dà anche frutti, sottoforma di grossi baccelli contenenti, all’interno, alcuni semi e contraddistinti da buccia di colore verde quando sono acerbi e di tonalità marrone nella fase di maturazione: si chiamano, semplicemente, carrube.

 

In passato, i contadini, o agricoltori o mezzadri o proprietari dei fondi, provvedevano sistematicamente a raccogliere le carrube; in parte, erano utilizzate ai fini dell’alimentazione degli animali da lavoro e/o domestici, in parte, invece, erano cedute a commercianti ambulanti all’ingrosso, i quali caricavano i capienti sacchi di iuta su traini o camioncini, li ammucchiavano temporaneamente nei magazzini e, da ultimo, conferivano la merce all’ammasso.

Correvano quotazioni bassissime e, di conseguenza, contropartite in denaro risicate, appena gocce di entrate a beneficio dei magri bilanci familiari dei produttori venditori. Adesso, purtroppo, nessuno abbacchia e raccoglie le carrube, se si eccettuano i modesti quantitativi colti e conservati in casa, per preparare, con l’aggiunta di fichi secchi, qualche infuso o decotto che, all’occorrenza, può arrecare lenimento e rivelarsi rimedio naturale alla tosse o al mal gola.Sicché, i frutti del verde e maestoso albero finiscono col cadere da soli sul terreno e col marcire, e così da una stagione alla successiva.Eppure, incredibilmente, sul bancone di un fruttivendolo, stamani, si è presentata alla vista una cassetta, contenente proprio carrube color marrone, e il relativo cartellino prezzo segnava niente poco di meno che € 5 a chilogrammo.

Non c’è che dire, dalla produzione al consumo, esattamente chilometri zero e neanche l’ombra di ricarico.

La vetrina di una macelleria ha invece dato agio, al comune osservatore di strada, di apprendere una cosa assolutamente nuova, in altre parole l’offerta al pubblico, fra le varie specialità, di “carne e salame d’asino”, con l’aggiunta, a beneficio della clientela della zona, dell’appellativo dialettale dell’animale, cioè musso.

La commessa del negozio, per la verità, ha riferito che gli acquirenti di tale genere di carne formano una nicchia limitata, che risente, forse, dei richiami riguardanti la preparazione e la degustazione di manicaretti della specie, in occasione di fiere e sagre. Ha, ad ogni modo, aggiunto che occorrono molte ore, sino a dieci, per cuocere a puntino l’alimento in questione.

Pensare come, lo scrivente, con riferimento all’utile animale da soma, fosse fermo e arretrato al “latte d’asina”, utilizzato per finalità alimentari, particolarmente dei bambini, o cosmetiche.

Poveri asinelli, anche voi, dunque, talora andate a finire al macello, non vi sono più riservati, esclusivamente, il trapasso naturale e il meritato riposo per sempre!

Pensare ancora come, il ragazzo di ieri, provasse uno scrupolo non da poco nei vostri confronti, come categoria, quando, con i calzoncini corti, per fare dispetto all’anziano contadino del paesello natio, Vicenzu u cuzzune, piccolo e ricurvo, il quale si muoveva esclusivamente in groppa a un somarello di pari altezza, gli andava appositamente dietro, sfruculiando l’innocente quadrupede, mediante un ramo, esattamente in un preciso punto, al che la bestia, ovviamente, reagiva saltellando e scalciando, con il rischio, per il suo padrone, di essere disarcionato e cadere malamente a terra.

Cambiando completamente genere di proposta e commercio, un altro esercizio sul corso espone uno strano cartello: “Novità assoluta – Bigodini per boccoli”.
Al che, s’innesca uno stimolo alla curiosità, la titolare del negozio, intenta a provare una parrucca in capo ad una cliente, incarica il marito di sentire e assistere me.

Il predetto mi domanda subito se sono per caso un parrucchiere. Dopo di che, passa a spiegarmi che si tratta di un’invenzione freschissima, frutto, però, di lunghi studi, e fa scorrere un breve filmato in cui scorgo una serie di aggeggi, cannelle di plastica, intorno alle quali si arrotolano, tutto in una volta e non capello per capello, i boccoli, tenuti poi fermi e stretti, per un certo arco di tempo, grazie a mollette, pure di plastica, fatte scorrere, dal basso verso l’alto, lungo le cannelle, e fissate con gancetti sino tenere, i boccoli medesimi, avvolti e bloccati.

Notevole risparmio di tempo, risultati egregi, aggiunge l’uomo, che, alla mia domanda al riguardo, precisa di vendere kit di siffatti bigodini, ciascuno con quarantadue pezzi, alla cifra di euro quarantotto. Mi saluta con un sorriso, non senza gratificarmi con un “ha fatto bene a chiedere illustrazioni”.

Da queste parti, abbondano i manifesti pubblicitari proponenti “Corsi di ballo”, se ne incontrano proprio tanti, si vede che i veneti sono portati per la danza in coppia. Nulla di male, ovviamente, anzi è risaputo che i movimenti, giustappunto del ballo, sono salutari per il fisico e per lo spirito.

In uno stretto e poco profondo canale o roggia, al centro di Padova, ho notato folte colonie di pesciolini; ciò spiega come mai, fra i postumi delle recentissime esondazioni di corsi d’acqua più grandi, nella zona, si siano rinvenuti numerosi esemplari ittici, soprattutto carpe, all’interno delle cantine e garage delle abitazioni rimaste allagate.

All’ombra del carrubo

di Rocco Boccadamo

In effetti, non soltanto ombra e frescura gradevole, si ha la sensazione di immergersi in una piccola oasi balsamica, che riverbera gli odori gradevoli, autentici e genuini, di cui l’andante stagione è intensamente pregna.

Le foglie, di struttura regolare e armonica, quasi che siano state sagomate da mano artigiana, veleggiano al vento, salde e resistenti. Insieme con esse, grappoli innumerevoli, meglio ancora, caschi di frutti, le carrube, penzolano elastici da rami e rametti: al primo spuntare, con tonalità verde, poi assumendo, man mano, un colore marrone, progressivo da chiaro a scuro intenso, intanto che il succo umorale della polpa è assorbito poco a poco dai raggi forti e assetati del sole.

Si pongono all’osservazione fantasiosa, tali grappoli, in certo qual modo alla stregua di ciondoli, pendenti di corallo di rara sfumatura, mirabilia a piena aria, al pari delle magnifiche infiorescenze dei fondali, opera di mano grande e di arte imperscrutabile.

E’ assai piacevole sostare, adagiarsi alleggerendo la mente, ai piedi di questa pianta del giardino di casa, eccezione assoluta, nella sua specie, rispetto al prevalente e dominante boschetto di pini giganti e baldanzosi.

E’ inoltre stupendo e magico penetrare con lo sguardo e coi pensieri il labirinto di rami e foglie, immaginaria scacchiera o dama costellata di minute finestrelle libere e dischiuse verso l’azzurro del cielo.

Su siffatto “specchio”, ecco sfilare innumerevoli momenti, figure e personaggi, solo all’apparenza di ieri, in realtà avulsi dal tempo e dalle stagioni, tuttora di straordinaria, anche se non fisica, attualità.

Fra tali sequenze, i volti marcati, accentuati, rugosi e espressivi di due nonni, dai nomi di battesimo eccezionalmente inizianti con la medesima lettera, e però, in tutto il resto, diversi, agli antipodi l’uno dall’altra.

Il primo era solito tramandare ai nipoti bambini, in rigoroso idioma dialettale, una serie di “cunti “ (racconti), i cui contenuti rispecchiavano, in genere, vicende reali.

O, in alternativa, sciorinare filastrocche come:

Sotto la cappa del mio compare, c’era un vecchio che sapeva “suonare; sapeva suonare le ventiquattro, uno due, tre e quattro” e, ancora, “caddrina zupputa, furtuna nun n’ha” , da tradursi “una gallina che è zoppa, non può essere fortunata”. Nell’ultimo sciogli lingua, interveniva talvolta, non casualmente, la metamorfosi dell’aggettivo “zupputa” in un altro, “futtuta”, con illusorio cambiamento di situazione e concetto.

Fumava, detto nonno, il sigaro toscano, tenendo, sistematicamente, in bocca il lato acceso e infuocato: a suo dire, così tirava meglio.

Il buon uomo è arrivato a campare sino a cento due anni e mezzo.

La nonna vantava una mente, per lo meno una memoria, finissima: ricordava tutto, non solo nomi e date di nascita di figli, genitori, nipoti, familiari, parenti e paesani, ma addirittura le date dei battesimi, i nomi dei padrini e gli eventuali commenti del parroco che somministrava i sacramenti.

Sotto il carrubo, gli eventi del mondo, le diatribe politiche, il gossip, le distrazioni, i discorsi, le notizie e le cronache sembrano dileguarsi, annebbiarsi e quasi squagliarsi per effetto, misterioso, semplicemente di quel mantello di verde e di fronde svolazzanti ai refoli del vento.

E filtrando attraverso i piccoli squarci tra foglia e foglia, tra ramo e ramo, lo stesso frinire delle cicale riecheggia acquietato e per niente fastidioso, lasciando residuare spazio e agio silenzioso affinché gli occhi di chi indugia ai piedi della pianta si voltino a scrutare e si posino sulla non lontana distesa del mare; quest’ultimo, di suo,  sembra corrispondere profumando con aerei effluvi di salsedine, non soltanto la chioma e il corpo esteriore, ma pure le radici e l’anima del sempreverde e prediletto carrubo.

Frutti della terra nel Salento: oggi, parliamo di lupini, carrube e fichi

di Rocco Boccadamo

Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.

Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.

Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.

Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.

I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.

Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.

Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.

Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.

Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.

°   °   °

Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.

Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.

Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.

Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.

°   °   °

I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi  su  grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.

Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.

Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.

Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.

L’importanza del carrubo e dei suoi frutti

Dalla còrnula alle cellule staminali

di Armando Polito

So benissimo che competere con la poesia è impresa disperata e solo un incosciente come me poteva “integrare”, a suo modo, il recentissimo, magistrale post di Rocco Boccadamo sull’argomento. Chiedo, perciò, anticipatamente scusa ai lettori per la mia pazzia.

 

Còrnula in dialetto neretino (ma la voce è in comune con tutto il territorio leccese ad esclusione di Tiggiano dove si usa còrnala, con Oria e Mesagne per quello brindisino e con Pulsano per quello tarantino) è il nome (albero e frutto) del carrubo1. Si intuisce facilmente come la nostra voce si collega strettamente alla forma del frutto che è un baccello lungo 10-15, prima verde pallido, a maturazione marrone scuro, con superficie esterna molto dura (direi cuoiosa), con polpa carnosa e zuccherina e semi scuri, ovoidali, molto duri: esso, infatti, ha la forma curva di un corno e còrnula non è altro che un suo diminutivo2. Nativa delle aree orientali del Mediterraneo (numerose sono le attestazioni nei testi micenei della sua importanza economica; la carruba veniva utilizzata nell’antico Egitto per alimentare il bestiame e preparare un vino, costituì i pasti ascetici di san Giovanni Battista nel deserto e quelli del figliuol prodigo ridotto a guardiano di porci), fu poi diffusa dai Greci in Italia e poi dagli Arabi sulle coste del nord Africa e in Spagna.

Il perdurare della sua importanza economica particolarmente in Sicilia è attestato dalle parole del geografo arabo Idrisi (XII secolo): Carini, terra graziosa, bella e abbondante produce gran copia  di frutte d’ogni maniera ed ha un vasto mercato e la più parte de’ comodi che si trovano nelle grandi città, [come sarebbero] de’ mercati [minori], de’ bagni e de’ grandi palagi. Si esporta da carini gran copia di mandorle, fichi secchi, carrube, che se ne carica delle navi e delle barche per varii paesi.3

Anche i semi hanno avuto il loro momento di gloria quando venivano utilizzati come unità di misura ponderale molto ridotta: caràto, infatti, deriva dall’arabo qīrāt, a sua volta dal greco keràtion (piccolo corno, carato), diminutivo del keras di nota 1: tutto ciò perché si riteneva che i semi del carrubo avessero un peso estremamente uniforme (circa 1/5 di grammo)4.

Poi, come per tante altre specie, il declino. Ancora oggi, però, è possibile leggere sull’etichetta di alcuni prodotti alimentari tra i componenti quale addensante la farina di carrube (per inciso va detto che la stessa farina, non contenendo glutine, è perfettamente tollerabile dai celiaci).

Non tutti sanno, infine, che il carrubo, rispetto alle altre dicotiledoni, ha uno strato di tessuto particolare (cambio) costituito da cellule meristematiche o totipotenziali, cioè in grado di dare origine alla crescita di qualsiasi organo della pianta, diffuse e non localizzate solo all’apice del germoglio e alla punta della radice. Queste cellule hanno le stesse proprietà di quelle che permettono alla coda della lucertola di ricrescere, alla zampa della salamandra di riformarsi (nell’uomo questa capacità naturale è limitata al solo fegato). Insomma, dopo il radar (o, almeno, la sua idea) rubata ai pipistrelli, l’attuale ricerca sulle staminali umane che, però, nella ricostruzione di un organo hanno bisogno di essere indirizzate alla moltiplicazione con appropriate procedure di coltivazione che, com’è intuitivo, implicano, proprio perché “violente”, che il risultato non sia indenne da insidie che, magari, si manifesteranno dopo decenni. Mi chiedo: non sarebbe meglio rinunziare al risultato immediato e che fa business (ipocritamente camuffato, per lo più,  dall’urgenza terapeutica) e concentrare tutti gli sforzi per carpire al carrubo (ma il discorso vale anche, nel mondo animale, per la planaria e per altre specie) il segreto naturale (sicuramente genico) che gli consente di rigenerare spontaneamente un suo ramo marcito?

______

1 Dall’arabo xarrūb, a sua volta dall’ebraico kharuv; il nome scientifico è Ceratonia siliqua (Ceratònia è la trascrizione latina del greco keratonìa=carrubo, a sua volta da kèraton o keras=corno; silìqua in latino designa il baccello dei legumi e in unione all’aggettivo Graeca in Columella e a Syriaca in Plinio designa il carrubo).

2 Credo che nasca come neutro plurale (còrnula) di còrnulum=piccolo corno,  attestato in Pomponio Porfirione (III° secolo d. C.), a sua volta dal classico cornu=corno. Còrnula, dunque, all’origine dovrebbe essere stato un collettivo (per cui l’albero avrebbe significato insieme di corna), per assumere poi, in virtù della desinenza, il genere femminile singolare.

3 In M. Amari-C. Schiaparelli, L’Italia descritta nel “Libro del re Ruggero” compilato da Edrisi, Salviucci, Roma, 1883

pag. 40.

4 Da Wikipedia: Sarebbe stato scelto il seme del carrubo perché è facile constatarne la differenza dimensionale ad occhio nudo; sono state fatte delle prove con delle persone che hanno stimato le dimensioni di vari semi, confrontandoli con un seme campione, con il risultato che il massimo errore di valutazione rientrava nel 5%. La variazione del peso di semi di carrubo presi alla rinfusa arriva al 25%.  ll carato fu rapportato e definito con precisione solo nel 1832 in Sudafrica, il luogo di maggior produzione ed esportazione di diamanti del mondo, dove ne fu stabilita la connessione con il sistema metrico decimale: pesando con una bilancia a braccia uguali più semi di carruba ed eseguendo poi la media aritmetica dei valori ottenuti ne derivò un valore pari a circa 0,2 grammi. Successivamente la quarta Conférence générale des poids et mesures del 1907 adottò come valore del carato (detto carato metrico) il peso esatto di 0,2 grammi.

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