Cucina e canti al tempo dei briganti, di Giorgio Cretì

di Paolo Rausa

 

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Il generale José Borgesdon Ciro Annicchiarico di Grottaglie e il lucano Carmine Crocco di Rionero in Vulture, fra gli altri, sono chiamati da Giorgio Cretì a illustrare la loro ‘lunga marcia, per i sentieri impervi della storia, grondanti sangue versato e illegalità,  ruberie, espropri, con uno spirito ribelle contro l’ordine costituito dai piemontesi, nella libertà, nell’illusione di ricostituire il regno dei Borboni. Una illusione, per la verità, foraggiata dai nobili spodestati, retrivi,  che mal digerivano questa incursione straniera nei loro possedimenti. Giorgio Cretì in questo lungo e appassionato racconto nella ‘Cucina e canti al tempo dei briganti’  segue le loro vicende umane dal punto di vista del cibo e delle melodie tristi e amorose che accompagnavano i bivacchi o le soste negli anfratti del territorio, in cui cercavano di issare i loro vessilli. Giorgio si è chiesto: ‘Che cosa mangiavano questi briganti e in quali dolci canzoni annegavano la tristezza della loro vita, la nostalgia di un amore?’ L’autore, come ha già dato prova nei precedenti numerosi saggi e ricettari e nei romanzi, non indulge a sentimentalismi o a simpatie di sorta. E’ sempre attento alla vicenda umana, alla cultura che traspare, attraverso il cibo, di una società semplice che fa dei prodotti che offre la natura un’arte, che va oltre la mera sussistenza. I cibi conservati innanzitutto, le cunserve, di bottarga, i formaggi (il cacioricotta), i salumi (la nduja), la ricotta ‘scante, le verdure sott’olio e sott’aceto, i fichi essiccati che tante generazioni di contadini e di poveri hanno nutrito, le carrube sottratte ai cavalli da pance fameliche degli umani, le patate lessate, in camicia, allu tianu, le spezie e prima fra queste il peperoncino, ‘il pepe del poveri’ come dice l’autore, la cunserva piccante, che arricchisce il desco popolare del suo sapore e dei suoi uschi, i gemiti per quanto brucia il palato e poi dopo, i legumi (lupini, fave, ceci e piselli, la cicerchia), i maccheroni, i funghi sulle montagne calabresi dell’Aspromonte soprattutto, il rancio somministrato nei luoghi più reconditi, utilizzando gli animali razziati dalle greggi o dalle masserie dei benestanti, facendo attenzione a non farsi scoprire dalla soldataglia che guardava in cielo per scoprire le volute del fumo e seguire l’odore di arrosto, la selvaggina e le erbe agresti, le erbe e malerbela papa(ve)rina innanzitutto, stufata con peperoncino piccante e olive nere. Tra un boccale di vino e l’altro, quando ormai la pancia era piena, allora solo allora tornava la nostalgia della casa, della famiglia e di un amore a cui si era scelto di sacrificare tutto, persino la vita. I canti, i cori, le filastrocche cantate, intonate o meno, ripercorrevano le storie fantastiche delle loro vite, chiudendo una giornata che tra mille rischi e pericoli li vedeva per loro fortuna ancora vivi. ‘Cucina e canti al tempo dei briganti’ di Giorgio Cretì, Capone Editore, Lecce, 2011, pp. 134, € 12,00.

Il brigante del meridione: bandito o Robin Hood ?

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di Cristina Manzo

 

 

« Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra. »

(Principe Don Fabrizio Salina)1

 

« Ribellarsi e ribellarsi ancora, finché gli agnelli diverranno leoni. »

(Robin Hood)2

 

 

Utopia, si chiamerebbe il luogo della nostra esistenza, se non ci fossero ingiustizie, se la vita fosse felice, e se esistessero sul serio i valori di Liberté, Égalité, Fraternité, che definivano la Rivoluzione Francese. Utopia, come l’isola-regno immaginaria di Tommaso Moro, abitata da una società ideale. Ma così come l’etimologia del nome che  dal greco antico Moro derivò con un gioco di parole, tra  ou-topos cioè ( non-luogo) ed eu-topos (luogo felice); utopia è quindi, letteralmente un “luogo felice inesistente”. La storia ci dimostra che ripetutamente, la disparità sociale è stata presente nella vita dell’uomo, così come l’ ingiustizia, e dovunque esse regnino, non può non generarsi il malcontento e il bisogno anche nascosto di opporvisi. Ora la domanda è, “la storia riesce ad essere super partes? Se la storia è scritta  da  chi vince, che non sempre equivale a essere anche nel giusto, è possibile che vengano sovvertiti e ravvisati gli ideali e i principi degli sconfitti?”

Il Robin Hood della moderna leggenda e del folklore, il principe dei ladri, ripreso da Alexandre Dumas (padre) nel suo romanzo postumo Robin Hood il proscritto, viene privato delle sue terre dallo Sceriffo di Nottingham e diventa un fuorilegge. “in quel periodo, tra coloro che erano stati privati dei loro possedimenti si sollevò il celebre bandito Robin Hood, (con Little John e i loro compagni)”3 Nelle versioni moderne della leggenda, Robin Hood si rifugia nella Foresta di Sherwood, nella contea del Nottingham. Attorno a lui si forma uno stuolo di uomini, anch’essi afflitti dall’ingiustizia che vige nel regno, poveri contadini privati delle loro terre e di ogni possedimento, con tante bocche da sfamare, che non riescono a fronteggiare in alcun modo le angherie e l’esoso aumento delle tasse, che il principe Giovanni, impostosi sul trono, in assenza del re Riccardo Cuor di Leone, partito in terra santa per la crociata, che invece regnava con rispetto e giustizia, impone per le continue guerre e le lotte di dominio. Persino un sacerdote si unisce a loro, Little John, le donne portano nella foresta i viveri e li aiutano come possono, tutto il paese li appoggia, perché essi sono diventati fuorilegge, ma per una giusta causa.

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Molto probabilmente, è questo che accadde in riferimento al fenomeno del brigantaggio, nell’Italia meridionale, nel passaggio di regno che avvenne tra i Borboni e i Savoia. “Chi sono i Briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d’uomo, non ha farmachi. Tutto gli è stato rapito, dal prete al giaciglio di morte, o dal ladroneccio feudale o dall’usura del proprietario o dall’imposta del comune e dello stato. Il contadino non conosce pan di grano, nè vivanda di carne, ma divora una poltiglia innominata di spelta (farro), segale, omelgone, quando non si accomuni con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra matrigna a chi l’ama. Il contadino robusto e aitante, se non è accasciato dalle febbri dell’aria, con sedici ore di fatica, riarso dal sollione, eivolta a punta di vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piobe, e non nevica e non annebbia. Con questi ottanticinque centesimi vegeta esso, il vecchio padre, spesso invalido dalla fatica già passata, e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli […] il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e la fanno perdurare.”4

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Il brigantaggio fu una risposta del popolo scontento e sobillato, dagli stessi regnanti sconfitti, all’invasione dei Savoia ed alla fine  del Regno delle Due Sicilie. Si sviluppò tra il 1860, con l‘’annessione’ al Regno d’Italia, che si andava costituendo e il  1866 quando migliaia di soldati savoiardi, che nulla sapevano del meridione, furono inviati sulle terre del sud a presidiare.

Il brigantaggio ebbe inizio storicamente proprio con la partenza per l’esilio del Re Francesco II di Borbone,  il 13 febbraio 1861. Così il popolo ribelle, venne marchiato con la parola “Brigante” che deriva dal termine  francese brigant, cioè delinquente, bandito. Il 13 febbraio 1861 è  il giorno in cui i vincitori, ovvero chi ha scritto la storia, dando la sua versione dei fatti, ha marchiato i contadini meridionali con questo nome. Coloro che dominarono con la forza e con la repressione, un popolo affamato, povero e scontento, sconvolto dall’aumento delle tasse e dei prezzi sui beni primari, costretto alla leva obbligatoria, privato della propria dignità, che con giusta ragione iniziò a rivoltarsi, provando rancore verso il nuovo regime e soprattutto verso gli strati sociali che giocando su questa sciagura, si avvantaggiarono degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche, onori e vantaggi economici.

Nacquero bande di briganti, a cui aderirono non solo contadini disperati ma anche ex soldati borbonici, ex garibaldini e banditi comuni. Il governo delle Due Sicilie facendo leva sulla disperazione del popolo tentò di riprendersi il regno sfruttando il malcontento e la disperazione generale. Il popolo disperato ascoltò le parole del vecchio regime e si lasciò suggestionare dalle sue proposte e, nella speranza di poter ottenere benefici, appoggiò la causa di una restaurazione borbonica.5

Ci fu un proliferare di nuove bande di briganti, sparse in tutto il Mezzogiorno, tra Campania, Lucania, Puglia, Calabria e Sicilia. I componenti delle bande più combattive, venivano considerati, dalle folle, come veri e propri eroi che lottavano contro i nemici Cavour e Vittorio Emanuele. Questi personaggi, dotati di grande tempra e di carisma, e le loro imprese: la continua latitanza; i pasti frugali; le grandi distanze da percorrere, spesso tutte in una volta e quasi sempre di notte; l’uso delle tattiche militari della guerriglia per tenere testa ad un esercito formato da migliaia di uomini ed armato fino ai denti, sono divenute mito. L’ottima conoscenza del territorio era un’altra delle caratteristiche fondamentali che permise a pochi uomini di resistere per lungo tempo agli assalti militari. Tanto fra i boschi e le montagne, luoghi che facilmente si prestano alla mimetizzazione, all’organizzazione di agguati e di scorrerie, quanto sui campi aperti, come gli altipiani, i briganti erano in grado di mostrare una perfetta padronanza delle tattiche militari, grazie alle quali, spesso costringevano la cavalleria sabauda ad impegnarsi in lunghi scontri frontali dall’esito quasi sempre incerto.6

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Essi avevano tutti un inno,che cantavano durante le loro riunioni segrete, in mezzo ai boschi e alle montagne, ed erano tutti fedeli ad un giuramento. Inno dei briganti:  “ Ammu pusato chitarra e tammure pecche’ sta musica s’adda cagna’ simmo briganti e facimmo paure e cu’ ‘a scuppetta vulimmo canta’ E mo’cantammo ‘na nova canzona tutta la gente se l’adda ‘mpara’ nuie cumbattimmo p’ ‘o rre burbone e ‘a terra nosta nun s’adda tucca’ Chi ha visto ‘o lupo e s’e’ miso paure nun sape buono qual e’ ‘a verita’ ‘o vero lupo ca magna e criature e’ ‘o piemuntese c’avimm’ a caccia’ Tutte ‘e paise d’ ‘a Basilicata se so’ scetate e vonno lutta’ pure ‘a Calabria s’e’ arrevotata e stu nemico facimmo tremma’ Femmene belle ca date lu core si lu brigante vulite aiuta’ nun lo cercate, scurdateve ‘o nomme chi ce fa guerra nun tene pieta’ Ommo se nasce, brigante se more e fino all’urdemo avimm’ a spara’ ma si murimmo menate nu sciore e ‘na preghiera pe sta liberta”7

Il giuramento dei “briganti” “Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostri augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinchè la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati, Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo”8

Lo storico più coraggioso, spirituale e anticonformista del nostro secondo Novecento, l’etrusco Giordano Bruno Guerri, celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell’Unità d’Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, (Mondadori, Milano, 2010).

I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l’aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità7 Nella scuola italiana, dalle università alle elementari, i fatti sono stati distorti nell’interesse della cultura delle classi dominanti.” Il popolo meridionale è stato privato della vera memoria storica, nascondendo e distruggendo quanto ritenuto inopportuno, con la conseguenza che esso «ancora oggi paga lo scotto economico e politico di un’unità nazionale che esiste solo sulla carta, imposta con l’inganno e la violenza e mantenuta con l’astuzia”, scrive nella  premessa di Il Brigantaggio in Terra d’Otranto, Ribellione popolare e repressione militare dal 1860 al 1865 Carlo Coppola.9

I “pennivendoli” Croce, Gentile, De Amicis, Carducci, Verga, D’Annunzio, Fucini e un’intera schiera di loro epigoni hanno imposto una storia del Meridione che non è quella vera. Il Brigantaggio, dice Coppola, anche con i suoi errori e le sue storture, fu l’ultimo tentativo del popolo meridionale di rimanere libero. Il Brigantaggio, che fu resistenza contro gli invasori piemontesi, ha interessato tutto il Meridione d’Italia e quindi anche il Salento.

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Briganti salentini furono Pasquale Romano di Gioia del Colle ricordato come il “Sergente Romano”, Cosimo Mazzeo di San Marzano soprannominato “Pizzichicchio”, Rosario Parata “Lo Sturno” di Parabita, Quintino Venneri “Melchiorre” di Alliste. Il Salento, che costituiva la Provincia di Terra d’Otranto, si estendeva dal Capo di Leuca fino al Golfo di Taranto con parte dell’odierna Basilicata, comprendeva un territorio di circa 6.500 chilometri quadrati suddivisi in 130 comuni e 70 borgate con una popolazione di circa mezzo milione di abitanti.

Nel Salento diffusissime erano le banche, esistevano ben 145 istituti di credito tra banche agricole, monti di pegno e monti frumentari. Con l’arrivo dei piemontesi fu tutto smantellato e rapinato. Il territorio salentino non ha mai avuto una vera e propria tradizione brigantesca. Tuttavia, in molti, dovettero ricredersi quando il giornale “La tribuna del Salento”, nel 1971, cominciò a pubblicare a puntate “Brigantaggio e reazione nel Salento dopo il 1860”. Il fenomeno Scoppiato dapprima nella Basilicata, si estese, poi, a quasi tutte le province del Salento. Ma la figura più caratterizzante fu senza dubbio quella del “brigante letterato”, Giuseppe Valente, chiamato così per la sua spiccata capacità dialettica e stilistica; fu, infatti, uno dei pochi briganti a non essere analfabeta. Egli redigeva personalmente le “missive” che, poi, inviava alle famiglie più ricche per estorcere loro denaro. La banda del Valente ebbe un’attività impressionante.10

Come in tutto il Regno, anche nel Salento, pur se con minore intensità essendo la proprietà fondiaria molto più frammentata rispetto al resto del meridione, esisteva l’eterno dissidio tra i feudatari proprietari terrieri e i contadini che lavoravano le terre. La dinastia Borbone, in questa lotta, era schierata con il popolo contro i cosiddetti “galantuomini”. Attraverso una mirata legislazione venivano difesi i diritti di chi nei fatti possedeva e lavorava la terra. L’avventura garibaldina e la conseguente unità d’Italia rompe questo delicato equilibrio. Il popolo meridionale, privato dell’alleato Borbone, rimase alla mercé degli eterni nemici “galantuomini”. Tutte le promesse garibaldine sulle quotizzazione delle terre non vengono mantenute. I contadini vengono ridotti alla fame. Non resta che la rivolta.

Dopo il plebiscito-truffa le masse contadine in tutto il Meridione ed anche nel Salento si mettono in subbuglio. A cominciare dagli ultimi mesi del 1860 scoppiano tumulti contro i piemontesi, con sorti alterne, a Tuglie, a Sava, a Surbo, a Matino, a Parabita, a Sternatia, a Poggiardo, a Marittima, a Oria, a Taviano, ed in tantissimi altri centri. Il governo di Torino avrebbe potuto cercare la pacificazione, attraverso una vigorosa riforma agraria e un approccio moderato. Risponde invece con i fucili, spostando nel Meridione la maggior parte dell’esercito “italiano”, e con la leva obbligatoria. E’ l’innesco del grande brigantaggio. La maggior parte dei giovani meridionali arruolabili si da alla macchia e si unisce agli sbandati del disciolto esercito borbonico. Nascono tante bande, capitanate da uomini valorosi. Cosimo Mazzeo di San Marzano, detto “Pizzichicchio”, acquisterà grandissima fama per essere riuscito per un lungo periodo a tenere in scacco e a battere ripetutamente le truppe regolari. Nell’agosto 1862 tutti i principali capibanda di Terra d’Otranto si riunirono nel bosco della Pianella, vicino a Taranto, per concordare una strategia comune. Pasquale Romano viene nominato capo supremo, riuscendo ad avere a disposizione circa 700 uomini a piedi e 300 a cavallo. La rivolta diventa guerra civile, il Salento e l’intero Meridione sono in fiamme. La spietata repressione che si abbatté su tutto il Meridione ebbe ragione della ribellione.11

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Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abruzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.12  La Pica, scrive Coppola, non fu una legge, fu un’infamia.13

Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: « Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi. »14

Il Salento in appena 5 anni, scrive ancora Coppola, arretra economicamente di 50 anni.15Tra i capi briganti più temuti, e di cui si parlò di più nel Salento, vi erano Ciro Annicchiarico, e il già citato Cosimo Mazzeo, meglio conosciuto come Pizzichicchio.

Ciro Annicchiarico detto Papa Ciro o Papa Ggiru (Grottaglie, 15 dicembre 1775 – Francavilla Fontana, 8 febbraio 1817) è stato un presbitero e brigante pugliese. Vissuto all’inizio del XIX secolo, della vita di Papa Ciro da religioso non si hanno molte notizie, eccetto che fu prete a Grottaglie e dopo essere stato accusato di un omicidio per motivi passionali, avvenuto il 16 luglio 1803, si diede alla macchia al fine di sottrarsi all’arresto. Al termine delle scorribande, don Ciro riparava sulle alture boschive del territorio di Martina Franca, spesso sul monte o all’interno di una caverna che ancora portano il suo nome.16

Martina Franca, la caverna nascondiglio del brigante papa Ciro
Martina Franca, la caverna nascondiglio del brigante papa Ciro

 

La setta che il brigante Ciro Annicchiarico fondò nel mese di ottobre del 1817, era diversa da tutte le altre per la sua atrocità, si chiamava “la setta dei decisi”. “ Gli iniziati in questa società furono i più insigni assassini della provincia, ma specialmente quei di Grottaglie, Francavilla e Martina, i quali furono riuniti in una setta, organizzati e patentati come “decisi” e l’assemblea o seduta loro, invece di essere chiamata campo o squadriglia, si chiamava “decisione.” 17 Ad ognuno degli iniziati veniva rilasciato un diploma con il sigillo della società.

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Il brigante Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio”, nato a San Marzano nel 1837, fu uno dei signori più temuti e importanti del brigantaggio meridionale. Leader incontrastato di una vasta zona del tarantino, era circondato da un gruppo di fedeli come Francesco Maniglia, Tito Trinchera (insieme ad una cinquantina di fedelissimi). La banda Pizzichicchio era adorata dai contadini poveri e temuto dai possidenti, il Pizzichicchio era considerato un bandito paterno verso gli oppressi e gli sfruttati, collaborò con Romano e Lavaneziana alla presa dei comuni di Carovigno, Erchie e Cellino San Marco. La caverna è stata individuata nella primavera del 2000 dai soci del Centro Speleologico dell’Alto Salento (ex C.D.G.M.) e si apre sul versante orografico orientale della gravina di S. Elia in territorio di Massafra (Grotta S. Elia – sin. Grotta del brigante Pizzichicchio Pu. 1651). Si presenta con un’ampia apertura larga 13 metri e alta 5,5 che conduce in una cavità profonda 16  metri che si restringe progressivamente ad imbuto. Dai pastori del luogo è conosciuta con sinonimo di “Grotta Coppolecchia” per differenziarla da un’altra distante 500 metri denominata “Coppola grande”18

 

Massafra Planimetria della grotta coppolecchia, nascondiglio del brigante Pizzichicchio
Massafra Planimetria della grotta coppolecchia, nascondiglio del brigante Pizzichicchio

 

Un altro luogo molto caro ai briganti, fu quello di Cellino S. Marco, esattamente nei territori che appartengono alla famiglia di Albano Carrisi, si trovava il loro nascondiglio. Del brigantaggio a Cellino San Marco ci informa anche lo storico cellinese Enzo Gambardella: “Già sin dal 1842 i briganti scorazzavano nel nostro agro e dal vicino bosco di Curtipetrizzi, dove si erano stabiliti, assaltavano le diligenze, svaligiavano i malcapitati viaggiatori e non mancavano di penetrare di tanto in tanto nello stesso paese, dove, spargendo il terrore, non lievemente danneggiavano nelle persone e nei beni la già immiserita popolazione.”

I briganti oltre a rifugiarsi nel bosco di “Curtipetrizzi” usavano come covo segreto la famosa “Rutta dei Briganti” (Grotta dei Briganti) che si trova nella campagna antistante al menzionato bosco a circa 400 m. in linea d’aria. Questo covo ben si prestava ad essere un nascondiglio poiché l’ingresso della grotta sotterranea era completamente coperto dalla fitta vegetazione di macchia mediterranea ancora oggi presente. I più anziani del paese, che a loro volta hanno sentito dai loro nonni, raccontano che la grotta era collegata con il vicino bosco tramite dei “camminamenti” (tunnel) sotterranei da dove i briganti potevano passare e sfuggire facilmente alla Guardia Nazionale, nascondendosi nella fitta vegetazione boschiva.

I briganti vestivano come contadini; qualcuno di loro portava in testa un berretto con fiocco rosso; d’inverno si avvolgevano in grandi cappe scure. I capi-banda avevano la barba ed il cappello all’italiana.  L’animatore delle imprese del Brigantaggio nel Brindisino fu il bandito Romano di Gioia del Colle.

Più volte intervenne anche la banda dello spietato Carmine Crocco, il capo esponente del brigantaggio tra le montagne della Basilicata Altri personaggi di spicco furono: Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio”, Giuseppe Nicola La Veneziana, Antonio Lo Caso detto “Il Capraro”, Giuseppe Valente detto “Nenna-Nenna“.

Nell’organizzazione generale del Brigantaggio brindisino vigeva un sistema simile a quello militare. Il La Veneziana che conosceva perfettamente ogni zona del circondario, fungeva da coordinatore tra le varie bande. I briganti provvedevano alle proprie necessità mediante l’opera di alcune persone chiamate manutengoli. Questi erano i fornitori volontari, sostenitori del Brigantaggio. Tutte le volte che i soldati della Guardia Nazionale penetravano nei nascondigli, nei covi dei Briganti, vi trovavano ogni sorta di provvigioni e squisitezze: carni, pane, formaggio, vini, liquori, medicinali. Manutengoli erano preti, monaci, parenti dei briganti, contadini.

A confermare è Don Carmelo, padre di Franco Carrisi il quale racconta che suo nonno Antonio lavorava nel bosco come carbonaio. Aveva contatti diretti con i briganti, tanto da meritare la loro fiducia. A lui, infatti, si rivolgevano per avere vettovaglie e tutto ciò di cui avevano bisogno. L’anziano carbonaio, temendo i disertori non poteva sottrarsi al suo compito di “corriere”. La sera del 24 luglio 1861, dopo un conflitto a fuoco, la Guardia Nazionale comandata dal cap. Luigi Lupinacci riuscì a catturare gli undici briganti nascosti nel bosco di Curtipetrizzi; furono, poi, condotti a Brindisi e fucilati il 26 luglio del 1861.19 All’incirca quattro mesi prima, era stata proclamata la tanto attesa Unità d’Italia. Ma invero le incomprensioni tra le “due Italie” esistono ancora ai nostri giorni.

 

 

 

1 Il Gattopardo è un film drammatico del 1963 diretto da Luchino Visconti, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d’oro come miglior film al 16º Festival di Cannes

2 Robin Hood  film del 2010 diretto da Ridley Scott

3 Secondo The Annotated Edition of the English Poets – Early ballads (Londra, 1856, p.70)

4Da uno scritto di F.S Sipari di Pescasseroli ai censurari  del Tavoliere, Foggia 1863, Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli  Oggi anche di Laterza, Bari, 1966, pp.337-339

5 Tommaso Pedio, Brigantaggio e questione meridionale, Levante, Bari, 1982, p.135

6 da  ibrigantiditerranostra.wordpress.com

7  idem

8 Marco Monnier, Notizie documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero, Firenze 1862, pp. 73,74

9 www.lankelot.eu/…/guerri-giordano-bruno-il-sangue-del-sud-antistor

10 Carlo Coppola, Il Brigantaggio in Terra d’Otranto, Ribellione popolare e repressione militare dal 1860 al 1865, Associazione Culturale Area, Circolo di Matino “Raffaele Gentile”, Matino (LE) 2004

11 http://roccobiondi.blogspot.com/2011/07/il-brigantaggio-nel-salento-di-carlo.html

12 perlacalabria.wordpress.com/…/la-legge-pica-del-1863

13 http://roccobiondi.blogspot.com/2011/07/il-brigantaggio-nel-salento-di-carlo.html

14Patrick Keyes O’Clery, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’Unità della nazione, Milano, Ares, 2000, pag. 528

15 http://roccobiondi.blogspot.com/2011/07/il-brigantaggio-nel-salento-di-carlo.html

16 da  ibrigantiditerranostra.wordpress.com

17Riccardo Church, Brigantaggio e società segrete nelle Puglie, Arnaldo Forni editore, Firenze, 1899, p.118

18 idem

19 da: http://www.curtipetrizzilandia.it/briganti.php

Il brigante Ciro Annicchiarico

Il brigante Ciro Annicchiarico, detto il “Papa”, nel territorio di Martina Franca. Le testimonianze dei generali Riccardo Church e Michele Santoro  

 

di Michele Lenti

 

Uno degli aspetti più complessi ed affascinanti della storia salentina è, sicuramente, il brigantaggio, la cui fenomenologia variò nel corso dei secoli, dando vita a pure forme di banditismo, o a movimenti di lotta, più o meno ispirati da motivazioni politiche ed ideologiche. Ciro Annicchiarico fu un esponente di spicco del contropotere nel Sud Italia, archetipo di fuoriuscito e capo di una corrente che al suo interno contemplava eversione e strategia del terrore; aspetti, questi, attribuiti al suo operato, che molto colpirono l’immaginario collettivo, e che offrirono il destro, sia a storici che a scrittori, per una interpretazione della sua vita in chiave politico-sociale, ma anche picaresca e un po’ romantica.

Figlio della temperie culturale giacobina che imperversava nelle province del Regno, ed in particolar modo nel Salento, Ciro Annicchiarico nacque a Grottaglie, da Vincenzo e da Ipazia d’Alò, il 16 dicembre 1775. A venticinque anni divenne sacerdote e maestro di canto gregoriano. Ma nel 1803, accusato dell’assassinio di Giuseppe Motolese, antagonista in amore per una certa Antonia Zaccaria, fu arrestato e condotto a Lecce, e da quel tribunale condannato a quindici anni di esilio, da scontare in prigionia. La quale, però, riuscì ad evitare fuggendo e tornando nella sua città natale. Convinto massone e giacobino, atteggiandosi a sostenitore del nuovo regime dei re francesi, di Giuseppe Bonaparte prima (1806 – 1808), e di Gioacchino Murat dopo (1808 – 1815), riuscì a spadroneggiare, assieme ai cinque fratelli, nella Guardia civica del comune di Grottaglie. Nel 1808 il padre del Motolese ottenne dalle autorità che si ordinasse di nuovo il suo arresto; detenuto nel carcere di Lecce, riuscì nuovamente ad evadere.

Datosi, pertanto, alla macchia, fondò, nel 1813, con il fratello Salvatore, una banda di ventiquattro persone, giurando lo sterminio dei persecutori. Il 16 agosto 1814 il governo di Murat lo dichiarò bandito, ma nessuno osò toccarlo. Con la restaurazione borbonica del 1815 l’Annichiarico cercò, invano, di essere amnistiato; divenne, allora masnadiero politico, alleato della Carboneria. Si iscrisse, pertanto, alla setta dei “Decisi”, ala estrema costituitasi nella dieta straordinaria dei liberali salentini a Lecce nel 1816, divenendone, in seguito, il capo e dandole un programma politico-sociale ed un’organizzazione di tipo militare.

La banda, le cui logge erano dette “Decisioni”, era padrona assoluta del Nord-Est tarantino e delle Murge, e non ammetteva atteggiamenti neutrali. All’interno di siffatto sodalizio non mancava un sistema di entrate costituto, oltre che dalle tasse per le patenti di appartenenza, anche dalle contribuzioni imposte; le esecuzioni, poi, erano eseguite con macabra solennità. Dal 1816, infatti, la setta si diede a vendette crudelissime e a delitti orrendi, mentre aumentava la potenza del prete-brigante, che godeva di appoggi nelle classi più diverse. Nella sua orbita d’influenza ora entra anche Martina, evento, questo, favorito dallo stato di stagnazione economico-sociale divenuto più fosco all’indomani della Restaurazione Borbonica. «Martina Franca, la prima città in Terra d’Otranto… godeva cattiva reputazione, come uno dei principali covi dei briganti che formavano la compagnia del rinomato capo Ciro Annichiarico».

Sulla città, infatti, pesavano disoccupazione e miseria, oltre ad un degrado culturale e sociale che vedeva ignorare persino le più elementari norme di igiene pubblica. «Tutti i larghi erano ingombri d’immondizie – come ricorda, nei suoi scritti, il generale Michele Santoro – tutti gli escrementi si accumulavano in questi luoghi durante la notte, le strade non selciate, porci che scorrevano il paese, l’aria putrida e fetente, produttrice di molte malattie, e precisamente dell’antrace, e febbri di mutazioni opprimevano questi abitanti, e non poche vittime scendevano nel sepolcro, e molto più che il paese era ingombro di cloache e di muraglie e non dava accesso alla libera circolazione dell’aria».

Il generale R. Church in abito greco (da Brigantaggio e Società Segrete nelle Puglie)

Terreno fertile, dunque, per il banditismo e per le manovre politico – militari dell’Annichiarico, il quale poteva contare sull’appoggio del galantuomo Martino Recupero, e sul ricovero che offriva la folta boscaglia che allora circondava Martina, in special modo le Pianelle ed i Monti del Duca. Ciononostante, nel 1817, cercò di venire a patti col governo, al quale promise di sterminare le bande di Oria e del bosco dell’Arneo in cambio del perdono. Ma, proprio per l’opposizione di Ferdinando I, re delle Due Sicilie, il 22 settembre di quello stesso anno fu nuovamente bandito, mentre, qualche mese dopo, fu deciso l’invio, in Salento, di truppe al comando del generale Riccardo Church, col proposito di spezzare ogni velleità liberale e distruggere la setta dei «Decisi».

È il libro Brigantaggio e società segrete nelle Puglie (1817 – 1828) a dare un quadro, seppure di parte, della situazione cui venne incontro l’ufficiale inglese nella sua marcia verso il Salento: «Il brigantaggio era all’ordine del giorno su tutte le strade maestre e a tutti i passi. Bande armate di assassini spargevano il terrore dovunque, ma più specialmente nelle province pugliesi».

A Martina Franca il generale «si attendeva d’incontrare segni d’ostilità, forse d’opposizione». «Marciai con tutte le mie forze ancora compatte ed intere – scrive Church al generale Nugent il 24 dicembre 1817 – per potere, in caso che le cose andassero male, stabilire l’ordine e proteggere Taranto, nel castello del quale avevo posto una compagnia di Greci, e a fine di cominciare le mie operazioni nella provincia di Lecce, in una delle città principali di essa». «Martina – continua a scrivere il generale – è una piccola città di 15.000 abitanti, posta sulla sommità di una collina, circa 50 miglia lungi da Lecce e 18 da Taranto».

In realtà, con i suoi 15.000 abitanti, era uno dei centri più popolosi non solo della Puglia, ma di tutto il Meridione. Essa, infatti, teneva testa a Bari che contava appena 20.000 anime, a Cerignola che ne aveva 16.000, e alla vicina Taranto, dove si stimava vivessero 18.000 persone, mentre superava Lecce e Trani, che avevano 14.000 abitanti ciascuna, e Brindisi che, con i suoi 5.000 abitanti, era poco più che un paese. In Terra d’Otranto era, dunque, la città maggiore. Perplessità deve avere sicuramente suscitato, invece, il comitato d’accoglienza all’ingresso delle truppe nell’antico borgo. Accanto al «vescovo, figura maestosa…seguito dal clero, dal sindaco e dai primari cittadini..accalcati intorno e dietro di loro», vi erano «quanti degli abitanti avevano potuto trovare una scusa per uscire all’aperto, uomini e donne, madri con lattanti in collo, barcollanti fanciulletti dagli occhi neri aggrappati alle sottane, vecchi con bastoni in mano, giovinastri dall’aspetto selvaggio, alcuni che seguivano il corteo, altri fermi in crocchio, fuori delle porte, guardando con avida curiosità».

Nonostante questo primo impatto e la fama che precedeva la città, il generale ebbe modo di scrivere in una delle sue lettere: «Siamo stati ricevuti con cordialità, non un lamento è stato profferito contro un soldato delle mie truppe, ed io faccio sempre venire avanti il sindaco a consegnarmi in iscritto le lamentazioni, se ve ne sono».

La visita di Church non mancò di sortire effetti immediati sulle condizioni in cui versava Martina. Infatti, per far fronte alla pesante carenza igienica, «subito – come scrive il generale Michele Santoro – furono dati ordini severissimi, non solamente al comune, ma a tutti gli abitanti di sfrattare di tutte quelle macerie le strade nonché dei porci ambulanti che infettavano il paese. Pene severissime furono pronunciate contro i trasgressori. In tutte le ore, sì di notte che di giorno diverse pattuglie perlustravano il paese, e guai a quella famiglia che si avesse permesso di gittare un bicchiere d’acqua dal balcone, ed in pochi giorni il paese divenne una città, che si poteva scorrere a piedi scalzi senza pericolo di macchiarsi».

A Martina il generale ebbe modo di conoscere quella parte della borghesia ricca ed influente, presso la sontuosa residenza cittadina di Martino Recupero, che era, però, allo stesso tempo, il quartier generale proprio del brigante Ciro Annichiarico. Ciononostante, il vecchio galantuomo martinese mostrò affabilità e cortesia nei confronti del militare inglese, al punto che quest’ultimo, a distanza di non pochi anni, ricordava con piacere e nostalgia quel breve soggiorno martinese.

Francavilla Fontana, palazzo Basile

L’amena parentesi presso casa Recupero sembra, per il momento, distogliere il generale dalla sua missione. «Chi lo crederebbe?» scrisse infatti il Santoro nel suo manoscritto parlando della sosta del Church a Martina: «mentre lì dimorava il generale – continua il manoscritto – don Ciro, ferito in un attacco precedente co’ rivali di Grottaglie, si curava nella stessa casa, al piano superiore. Il Recupero, mentre onorava in tutt’i modi l’ospite, voleva mantenere l’amicizia di don Ciro, anche perché utile ai suoi disegni. Una sera in conversazione col generale era il sign. Raffaele Conserva, e parlando di Ciro si lasciò sfuggire “voi l’avete su la testa”, ma il generale non capì a che volesse alludere, e la cosa passò inosservata». In realtà il Church seppe farsi valido interprete delle direttive imposte dal governo borbonico, riuscendo abilmente a separare i Carbonari, che comunque aspiravano alla costituzione di una Repubblica Salentina, che fosse distaccata dal potere centrale, dall’Annichiarico, che cavalcò tale idea, ma per il proprio tornaconto e facendo uso di mezzi violenti. Tra i liberali che, al momento opportuno, decisero di passare dalla parte del Governo, memori, probabilmente, delle tristi sorti a cui andarono incontro i fautori della Repubblica Partenopea del 1799, vi era una vecchia conoscenza del Church: don Martino Recupero.

«Certo sono stato in qualche modo un protettore di Annichiarico – pare avesse detto il vecchio galantuomo, avvertendo che le cose nell’aria, ormai, stavano cambiando – ma che cosa fare? Il Governo non fa nulla per proteggerci, e se uno non si mostra amico di don Ciro, non può osare di uscir fuori e non si è nemmeno salvi nella propria casa, né si è più padroni delle proprie terre, nemmeno dei servi; ma quanto ad essere un amico di don Ciro, signor generale, la verità è che egli non ha nemico più acerrimo di me! Vostra Eccellenza ha avuto fiducia in me, ha rifiutato di ascoltare le calunnie a mio carico, ed io son vostro! Comandatemi e disponete di tutto quanto possiedo».

Il racconto, fantasioso come gran parte del libro, ma sconcertante per l’analisi che fa di alcune dinamiche criminali, purtroppo ancora attuali ai giorni nostri (basti pensare, ad esempio, alle vittime del racket delle estorsioni, spesso e volentieri, per evitare tragiche conseguenze, costrette a tacere, anche a causa delle Istituzioni, spesso inefficienti sul piano della sicurezza), rivela, comunque, l’abilità diplomatica dell’inglese, unita ad un’efficace tattica militare, che fece terra bruciata intorno al prete – brigante, il quale ebbe ancora il tempo di compiere scorrerie tra le «masserie dei monti di Martina, rifugi preferiti dei briganti, i quali sapevano che il massaro era, generalmente, per timore o per simpatia, un amico su cui poter fare assegnamento».

Non fu trattato, certo, come amico il proprietario di Masseria Piccoli, un certo Pietro Chiarelli, sequestrato ed obbligato a versare una somma che si aggirava intorno ai tremila ducati. Nonostante questo episodio, la morsa dell’esercito al comando di Church continuò a stringersi sempre più intorno a Ciro Annichiarico, scampato avventurosamente, durante il matrimonio di un brigante, all’assedio di san Marzano. Nulla può, però, presso masseria Scasserba, vicino Grottaglie, dove oppose una tenace resistenza per poi arrendersi ed essere condotto a Francavilla il 7 febbraio 1818. Lascia perplessi l’ultimo atto della vicenda terrena di questo masnadiero: senza formulare alcun interrogatorio, alcun processo, colui che «per diciotto anni» era stato «padrone assoluto della provincia, facendo impazzire molti generali francesi, italiani, svizzeri, tedeschi, napoletani», ora, invece, «ridotto all’impotenza», venne giustiziato la mattina dell’8 febbraio 1818, nella pubblica piazza di Francavilla.

Evidentemente anche in catene destava timore, perché capace di fare rivelazioni sul mondo delle società segrete salentine le quali, ad un certo punto, gli avevano voltato le spalle, decretando la fine del suo dominio in Terra d’Otranto. Quanto al Church, fu certamente più il timore di scontrarsi con un militare che aveva assunto le funzioni di Alter Ego dello stesso Ferdinando I, che una sincera ammirazione, come vuole far credere il libro Brigantaggio e società segrete nelle Puglie (1817 – 1828) a far sì che fosse ristabilito l’ordine nella provincia meridionale pugliese. Non fu certamente colpito dalla sua figura il generale Michele Santoro, il quale, piuttosto, coglie occasione, nel suo manoscritto, per mettere in evidenza qualche pecca, quando fa riferimento al soggiorno in casa di don Martino Recupero.

Né fu lusinghiero il giudizio dato da Pietro Colletta (1775 – 1831) nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825: pur sottolineando come «il rigore di lui fu grande e giusto», ingenerando «spavento a’ settari, ardimento agli onesti, animo nei magistrati», rendendo «a quella provincia la quiete pubblica», lo storico marca, in maniera negativa, il fatto che «l’inglese» fosse «passato agli stipendi napoletani per opere non lodevoli».

piazza Umberto Fontana (ph M. Lenti)

Quali fossero queste opere non lodevoli il Colletta non lo spiega, ma interessanti indizi, in tal senso, pare siano stati portati alla luce da Antonio Lucarelli in Rinascenza Salentina. Dopo aver condannato a morte l’Annicchiarico e sgominato la banda di cui era a capo, «il governo credette necessario accordare un potere illimitato a Church».

Questo, secondo lo studioso, consentì al generale di decidere chi condannare, salvando la reputazione, ma soprattutto la vita ed i beni dei capi settari nella provincia di Lecce, dietro, però, il pagamento di un compenso. Così «il marchese Granafei – scrive il Lucarelli – opulento anzi che no, nel giro di pochi mesi ha contratto circa 10.000 mila docati di debiti… il principe di Cassano ha dovuto sborsare la sua rata, che non teneva pronta e che in docati 6.000 gl’improntò il cavalier d. Stefano Maremonti di Lecce».

L’ingordigia di Church era tale per cui «costui non ha ribrezzo di far trattare le sue estorsioni per mezzo di Astuti e del capo dello Stato Maggiore tenente colonnello Smerber, che si sono resi pure ricchi. Il grandissimo timore in cui si vive in Provincia, rende difficile il sapere tutte le rapine; ma sono bastantemente note alcune, e fra l’altre: i 9000 docati che Church, per mezzo di Astuti e Smerber si ha presi dal barone Scazzari… d. Achille Preite ed altri scelerati di Francavilla rimasti impuniti.

Circa 21.000 docati, che per mezzo di Astuti, Sternatia e Principe di Cassano si ha preso da colpevoli di Galatina, Maglie e luoghi vicini… Per mezzo di Astuti…da Benedetto Rovito di Ugento Church si prese docati 3000 ed escarcerò i rivoluzionari di detto comune, Ippazio Baglivo, fratelli Caputo ed altri liquidati rei, fatti arrestare dal zelante Giudice istruttore di Gallipoli; anzi Church…ritirò il processo dalla Commissione Militare. S’ignora il quantitativo, ma si sa che Church per mezzo di Astuti e Smerber ha preso danaro per rimaner impunite le sceleragini di Martina, l’armamento de’ naturali di Laterza contro i Motolesi, ed infiniti altri eccessi».

Pesante, dunque, l’accusa, circa l’operato del Church «che – come conclude il Lucarelli – riferiva al sovrano ed al capitano Generale che il Brigantaggio era debellato e che la pace sorrideva ormai a Terra d’Otranto, aliena da ogni spirito di ribellione e tutta incline ai voleri di sua Maestà…».

Ma evidentemente, lo spirito di Ciro Annicchiarico, così come quello delle più fervide idee liberali, ancora aleggiava nella provincia di Lecce, per cui, dopo la partenza dell’inglese «qualche mese dopo esplodeva la rivoluzione del 1820 – 21, che nel Salento rinveniva una falange di acerrimi ed agguerriti propugnatori…».

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5

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