Aracne, le tarantate e un falso mito

LA STORIA DI GINEVRA, UNA TARANTATA BRINDISINA DI FINE SETTECENTO, CONFUSA CON IL MITO DI ARACNE

 

di Gianfranco Mele

 

Come noto, il mito di Aracne raccontato da Ovidio ne Le Metamorfosi narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno.[1]

Tavola di Gustavo Dorè per illustrare il mito di Aracne celebrato da Dante (Purgatorio, XII, 43-45); immagine tratta da http://www.worldofdante.org/pop_up_query.php?dbid=I301&show=more.

 

L’unica versione del mito alternativa a quella che ci racconta Ovidio, è quella che ci perviene dalla lettura di alcuni frammenti di un’opera di Nicandro, la Theriaca, nei commenti inseriti da uno scoliaste che secondo alcuni sarebbe da identificare in Teofilo Zenodoteo. In tale versione, si narra dell’incesto tra Aracne e suo fratello Falance; Athena punisce per questo motivo i due fratelli, trasformandoli in ragni.

Sul web (e non solo sul web, ma addirittura in alcuni scritti, accademici e non, di studiosi del tarantismo) circola una terza versione senza fonte alcuna (in alcuni casi viene addirittura riportata, con duplice errore, come la storia raccontata da Ovidio): narra (copio e incollo da uno dei tanti siti che riportano tale versione, a loro volta copiandosi e incollando a catena) di “una giovane ragazza, Arakne, la quale fu sedotta da un marinaio che, dopo la prima notte d’amore, partì e da allora ella visse in attesa del ritorno del suo amore. Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata da Zeus, il quale voleva la fanciulla per sé, così coloro che erano a bordo perirono affogati. Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa e si uccise. Così, alla morte della giovane, Zeus s’infuriò e la rimandò in terra per restituirle il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola”.

In molti di questi siti, tale versione giunge ad essere l’unica citata, o, come si è detto, addirittura ad essere attribuita ad Ovidio e spacciata per quella del poeta latino.

La ritrovo in un blog dedicato alla pizzica, la ritrovo sulla pagina ufficiale del gruppo Zimbaria,[2] su pagine gestite da cultori e musicisti di pizzica, su tesine di laurea pubblicate online, su un lavoro di una docente dell’ Università di Bologna apparso su una rivista specializzata,[3] sulla pagina Wikipedia dedicata alla “pizzica”,[4] e su una innumerevole serie di pagine e blog aventi per oggetto pizzica e tarantismo.[5] Mi chiedo da dove mai la abbiano pescata tutti costoro, visto che nessuno ne indica fonti. Successivamente, noto (e ne trovo conforto) che la questione non è sfuggita ad Armando Polito, che in un suo articolo apparso qualche anno fa su questo sito web di Fondazione Terra d’Otranto, si accorge di questa incredibile confusione e sostituzione.[6]

Una singolare contorsione esplicativa e interpretativa la compie Annarita Zazzaroni, che scrive: “Il tarantismo pugliese è, infatti, legato anche a una vera e propria riscrittura del mito di Aracne: alcuni fanno risalire la nascita della taranta alla trasformazione in ragno di una fanciulla, Arakne, che fu sedotta da un marinaio e abbandonata dopo una notte d’amore. Per anni Arakne attese il ritorno del suo amato ma, quando questo avvenne, la nave del ragazzo affondò durante l’attracco. Arakne era folle di dolore per aver perso per sempre l’uomo che amava. Fu così che Zeus la trasformò in taranta, perché potesse vendicarsi perpetuamente delle sofferenze subite.“ [7]

Ma da quando in qua, e perchè, “il tarantismo pugliese” avrebbe riscritto il mito di Aracne? Da dove origina dunque questa versione, che avrebbe l’aria di una sorta di leggenda metropolitana (o internettiana), se non fosse che la storia è così singolare e avvincente da pensare (come poi di fatto risulta) che è stata presa in prestito da altre fonti[8] (che però non sono, come vedremo, così antiche)?

La risposta sta in un incredibile scambio della paternità e delle origini del racconto, che ci viene trasmesso attraverso gli scritti di un autore francese ottocentesco, Antoine-Laurent Castellan,[9] e che nella sua versione originale non parla affatto di Aracne (né del relativo mito) ma riferisce di una storia, appresa durante un suo viaggio a Brindisi, che ha come protagonisti una ragazza di nome Ginevra e un marinaio di origini albanesi. La storia è perfettamente identica a quella raccontata nel web (e là spacciata come “la storia di Arakne”): racconta dell’ incontro e dell’amore tra la fanciulla e il marinaio, della ripartenza del marinaio, della attesa della ragazza per il ritorno del suo amato, della barca che finalmente un giorno si avvicina alla costa mentre la fanciulla attende, racconta del segnale, del tragico affondamento poco prima che la barca possa approdare, della disperazione della fanciulla che da quel momento “si trasforma in ragno” (o meglio, diviene tarantata)! Ma (“piccoli” e unici particolari discordanti): la fanciulla non si chiama Arakne, ad affondare la barca non è “Zeus” ma una galea (altrimenti detta “galera”) barbarica, e la tragedia si snoda in Brindisi alla fine del Settecento. Castellan la riporta come un fatto realmente accaduto, e da lui appreso in seguito ad una casuale occasione in cui egli assiste come spettatore alla danza di una tarantata.

l’ opera di Castellan
tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Fabbricati di Brindisi

 

Questa tarantata, è proprio lei, Ginevra, quella fanciulla che aveva perso il suo amore in quella straziante tragedia. E’ la gente del posto a raccontare a Castellan la storia, e a spiegargli come la ragazza sia diventata tarantata a seguito del trauma subito per la perdita del suo amore. O meglio, e per la precisione: nessun ragno aveva mai morso Ginevra, ma le era stato lasciato credere che così fosse stato. Il trauma per la perdita del suo innamorato era stato così forte che Ginevra aveva rimosso il penoso ricordo dell’accadimento, portandosi però addosso un malessere che aveva rielaborato attribuendolo al morso del ragno. Era stata lasciata volutamente in quella convinzione, per non farle riaffiorare il terribile ricordo, e per non farle perdere la speranza di poter guarire.

Nel classico stile del rimescolamento orale (che oltre che di epoche remote è tipico anche dell’epoca del web), la storia diventa “il Mito di Arakne”, e viene infilato persino un Zeus nel racconto, a “sostegno” della derivazione antica e mitologica del racconto.

Una possibile matrice della confusione e del rimescolamento può essere nel fatto che il Castellan nel suo scritto utilizza il termine araigne (che in italiano è ragno: ciò è stato forse sufficiente a scambiare quell’ araigne per la Aracne – altrimenti detta Aragne – mitologica). Il resto, lo han fatto la sprovvedutezza di chi ha fatto circolare a ripetizione la storia confondendo epoche, personaggi e fonti, e, di sicuro, quell’alone poetico e leggendario che caratterizza l’avvincente, struggente e bellissimo racconto di Castellan.[10]

tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Colonna di Brindisi

 

A seguire, trascrivo integralmente il racconto del Castellan traducendolo in italiano (l’opera in lingua originale è consultabile e scaricabile anche attraverso Google books). Premessa: Il Castellan approda in Italia nell’agosto del 1797, e si ferma prima a Otranto, poi a Brindisi. A Brindisi, accade che:

“Mentre passavamo sulla banchina del molo, siamo stati fermati dalla folla, che si accalcava sulla porta di una casa dove si sentiva della musica. Ci siamo fatti spazio, e anche noi siamo invitati ad entrare in una stanza bassa che era servita per diversi anni, e ancora lo era oggi, da scenario e ambiente per la cura del morso della tarantola. Le pareti di questa ampia stanza erano adornate con ghirlande di foglie, mazzi di fiori e rami di vite carichi dei loro frutti, piccoli specchi e nastri di ogni colore erano là sospesi; molta gente era seduta intorno all’appartamento, e l’orchestra occupava uno degli angoli, ed era composta da un violino, un basso, una chitarra e un tamburello. C’era una donna che ballava: aveva solo venticinque anni ma ne dimostrava quaranta; i suoi lineamenti regolari, ma alterati da eccessiva smodatezza, i suoi occhi scuri, il suo aspetto triste e abbattuto, contrastavano con la sua ricercata e variegata decorazione di nastri e pizzi d’oro e d’argento; le trecce dei suoi capelli erano sparpagliate e un velo di garza bianca le cadeva sulle spalle; danzava senza lasciare la terra, con nonchalance, girando costantemente su se stessa e molto lentamente; le sue mani reggevano le estremità di un fazzoletto di seta che faceva oscillare sopra la sua testa, e alcune volte lo gettava indietro: in questo stato, ci offriva assolutamente la posa di quelle baccanti che vediamo su bassorilievi antichi.

L’aria che si suonava in quel momento era languida, trascinata sulle cadenze, e si ripeteva da capo a sazietà. Poi il motivo è cambiato senza interruzioni; questo era meno lento, e ad un certo punto divenne più vivace, precipitoso e saltellante. Questi brani musicali formavano una successione di rondò, o ciò che chiamiamo pot-pouri. Si passava alternativamente dall’uno all’altro; finalmente si tornava al primo, per dare un po ‘di riposo alla ballerina, e permetterle di rallentare i suoi passi, ma senza farla mai smettere di ballare; lei seguiva sempre il movimento della musica; e come quel movimento si animava, si muoveva e diventava più vivace; ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra scolorite, la tristezza era sempre stampata sul suo sguardo, talvolta rivolto verso il soffitto, di solito verso il suolo, oppure a volte muoveva gli occhi a caso fissando il vuoto, anche se abbiamo cercato di distrarla con ogni mezzo. Le offrirono fiori e frutti; li tenne per un momento tra le mani e li gettò in seguito; furono anche presentati fazzoletti di seta di diversi colori; lei li scambiava con il suo, li agitava in aria per qualche istante, li rendeva, prendeva gli altri. Diverse donne là presenti hanno successivamente ballato con lei in modo da attirare la sua attenzione, e cercavano di ispirarle allegria ma senza successo. Sembrava sottoporsi a quell’esercizio contro voglia ma spinta da una sorta di forza irresistibile, e ciò dovette stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua fronte; il suo petto era ansante, e ci hanno detto che questo stato sarebbe terminato con una sospensione totale delle facoltà; che poi era necessario portarla a letto; che il giorno dopo si sarebbe svegliata ricominciando a a ballare, e che lo stesso rimedio sarebbe stato impiegato nei giorni successivi, fino a quando non le avrebbe dato sollievo.

Questo spettacolo aveva qualcosa di doloroso; e mi ha colpito ancor più fortemente quando ho appreso la storia di questa interessante paziente. Non era stata punta dalla tarantola, sebbene ne fosse convinta; e veniva lasciata nella sua errata convinzione solo per nascondere e per non far dimenticare la vera causa del suo stato, e per non privarla di ogni speranza di cura. Ecco l’origine dell’alienazione di Ginevra; questo è, credo, il nome della malata. All’età di vent’anni, pur non essendo la ragazza più carina fra quelle della sua età, si faceva notare per avere una fisionomia provocante e molto espressiva; la sua bocca era rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di fuoco; la sua altezza aveva più duttilità e abbandono della grazia; il suo carattere, per quanto buono e sensibile, era particolare; spesso gioiva fino al delirio, si abbandonava quindi a una tristezza vaga e senza motivo; esagerata in tutti i suoi sentimenti, favoriva l’amicizia per le sue compagne fino all’eroismo, e la sua indifferenza verso gli uomini era simile al disprezzo: quindi doveva esser prevedibile che che se avesse amato un uomo una volta, ciò sarebbe accaduto con veemenza e per tutta la vita. All’età di vent’anni, la sua ora non era ancora arrivata, ma squillò troppo presto per la sua disgrazia. Un giorno stava camminando assorta nei suoi pensieri malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica; l’aria era stata rinfrescata da una tempesta e il mare, che era ancora agitato, ondeggiava sulla spiaggia. Un brigantino (piccolo veliero n.d.r.) a metà frantumato era appena approdato: aveva a bordo un uomo. Partito dal porto di Durazzo per stendere le reti, verso il centro del canale una raffica di vento aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto tra le sue mani e, in balìa delle onde, la sua barca era stata lanciata sulle rive dell’Italia. Sopraffatto dalla stanchezza, morente di bisogno, deplorava la sua disgrazia, così la ragazza gli andò incontro in aiuto, gli offrì una mano e si offrì di portarlo a casa di sua madre, che esercitò verso di lui con slancio i doveri dell’ospitalità.

Questo albanese era giovane; era infelice; sembrava ragionevole e grato; Ginevra credette di essersi abbandonata al piacere puro e disinteressato che la carità fornisce, mentre in realtà l’amore si era già insinuato nel suo cuore nelle vesti di pietà. Tuttavia, il giovane albanese, combattuto dal desiderio di rivedere il suo paese, e dal tenero interesse che lo lega alla sua benefattrice, finalmente parla della sua partenza. A questa parola, come una striscia di luce colpisce Ginevra facendo chiarezza sui suoi sentimenti; riconosce in essa l’amore, per l’angoscia che l’idea di una separazione, lontana dal suo pensiero, inizia a sentire; onesta, ma appassionata, non ha più il controllo di nascondere la sua confusione e lascia persino sfuggire tutta la violenza dei suoi sentimenti; ma esige da questo straniero che adora, il sacrificio dei legami indissolubili con il suo paese d’origine. Senza esitazione, lui acconsente. Quindi lei stessa favorisce la sua partenza dall’Italia, dove non può stabilirsi senza consultare la sua famiglia. Il giorno del suo ritorno è fissato, e Ginevra deve aspettarlo sulla costa, proprio nel punto in cui gli ha salvato la vita.

Fedele alla sua parola, lei va là ben prima dell’ora stabilita; lei conta gli istanti; fluiscono con una lentezza disperata. Intanto, il sole è già al tramonto: preoccupata, cammina sulla riva, gli occhi rivolti verso il mare: lei interroga le onde; il minimo soffio di vento, la minima nube le fa temere una nuova tempesta. Il giorno sta cadendo, il suo cuore è schiacciato e il crepuscolo, di cui la natura si ricopre, oscura, disturba le sue idee; infine, scopre un punto nero all’orizzonte: avanza; è una barca: si precipita alla sommità di una roccia e scuote un velo cremisi, il segnale concordato. Immediatamente lo stesso segno è attaccato all’estremità dell’albero; lei non può più dubitarne, questa barca le porta il suo amante.

Infatti, l’ albanese si era imbarcato, felice, in una barca a remi decorata con tutti gli attributi della gioia. Gli alberi erano decorati e le vele erano di un bianco brillante. Alcuni musicisti, seduti sulla panca di poppa, suonavano con accenti felici; e la sua famiglia, che l’albanese stava lasciando per stabilirsi nel paese di sua moglie, volle affidare a Ginevra la cura della felicità del figlio, il deposito della sua modesta fortuna e il mobilio necessario per la giovane famiglia.

La barca avanza come in trionfo verso le coste dell’Italia, già il suono degli strumenti raggiunge l’orecchio di Ginevra, tocca la superficie delle onde, calma le sue ansie e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. L’imbarcazione si sta avvicinando: l’amore rende i suoi occhi più penetranti; lei distingue, riconosce suo marito che tende le braccia; lei pensa di sentirlo, e questa illusione rapisce una risposta.

Ma improvvisamente un suono sinistro fa cessare le belle melodie; una galera barbarica esce da dietro una roccia sporgente, che la aveva nascosta alla vista degli occhi di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo, cadono tutti in una volta e le danno un movimento rapido. Come l’avvoltoio, si libra sopra l’aria e si dirige verso la sua preda. A questa vista, non meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un cupo torpore; il terrore incatena le sue facoltà, i suoi occhi solo conservano un residuo di vita, seguono i movimenti contrari delle due barche.

La fragile barca sta fuggendo, e grida di paura e dolore sono sostituite agli accenti gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese esorta i suoi compagni ad una resistenza che risulterà vana: le ombre della notte avvolgono questa scena di desolazione e la nascondono agli occhi della sfortunata Ginevra, che cade impotente sulla riva.

Molto tempo dopo, Ginevra esce come da un sonno profondo: apre gli occhi; ma la luminosità del giorno li fa chiudere subito. Non può muovere le sue membra, irrigidita dal freddo del mattino. Eppure le sue idee, dapprima confuse, le raccontano la scena del giorno prima; poi, disorientata, fa risuonare la costa con la sua disperazione; lei esamina l’estensione del canale; nessun imbarcazione solca la superficie; non c’è più felicità o speranza per lei; i suoi sensi si alterano, la sua mente si smarrisce e lei precipita nel mare dalla cima della roccia.

I pescatori la videro, si affrettarono a venire in suo aiuto e la portarono a casa di sua madre. Questo atto di disperazione fu seguito da una lunga apatia e da uno sconvolgimento che degenerò in alienazione della mente. Ginevra aveva dimenticato la causa delle sue pene; lei attribuiva le sue condizioni al pungiglione della tarantola. Questa idea è stata mantenuta, facendole sperare che l’esercizio della danza e gli accordi della musica, che ha veramente placato l’agitazione dei suoi sensi, la abbia finalmente guarita da questa mania malinconica.”

 

[1]
Ovidio, Metamorfosi, IV

[2]    http://www.zimbaria.it/la-pizzica/

[3]    Annarita Zazzaroni, Il ragno che danza. Il mito di Aracne nel tarantismo pugliese, In “Amaltea: Revista di Mitocrìtica”, 2010 (vol. 2), pp. 169-183.

[4]    Nella attuale e più recente versione (magari alla prossima sarà omessa) di Wikipedia alla voce “Pizzica” è riportato un ennesimo copia-incolla della versione che circola sul web e della quale ho preso a caso da altro sito la parte riportata in corsivo in questo scritto.

[5]    Per citarne solo alcune: http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/pizzica_tarantismo150609.html ; http://www.artcaroli.it/opere/arakne/ ; https://www.youreporter.it/foto_la_pizzica_e_le_antiche_origini_del_tarantismo/ ; http://www.storienapoli.it/2014/12/06/il-tamburello-e-la-tarantella/ ; http://pugliaierieoggi.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=14:il-salento&catid=2:territorio&Itemid=20 ; https://pizzica.wordpress.com/ ; https://vivereinsalento.weebly.com/blog/archives/02-2018 ; http://enosud.it/corso-di-pizzica-pizzica/ ; https://sites.google.com/a/student.unife.it/taranta/un-p-di-storia ; http://www.briziomontinaro.it/node/156

[6]    Armando Polito, Aspettando la Notte della Taranta (¼): Aracne, Fondazione Terra d’Otranto, luglio 2014, https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/aracne/

[7]    Annarita Zazzaroni, op. cit., pag. 170

[8]    Una laureanda in Lettere dell’ Università di Torino si accorge delle convergenze tra il racconto fornito dalla Zazzaroni e l’opera del Castellan, ma prendendo per buona e originale la versione (senza fonti) del mito con la storia di Zeus, Arakne e il marinaio, non riesce a far derivare quest’ultima da una storpiatura della storia raccontata dal Castellan. Così, finisce con il validare e conferire ancor più valore alla versione-fake: Vanessa Elena Cerutti, La danza del ragno e la sua evoluzione. La tradizione ritrovata e reinterpretata, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, pp. 49-51

[9]            Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pp. 83-91

[10]  Talmente suggestivo ed evocativo, che si presta bene ad essere “pensato” in chiave mitologica o leggendaria, o a far ipotizzare (come qualcuno ha fatto) che non sia autentico ma frutto della fantasia dell’autore o della sua trasposizione o adattamento di altre leggende. Sono andato frettolosamente alla ricerca di similitudini: per alcuni versi può far tornare in mente la storia di Odisseo e Nausicaa, o l’ antichissima storia egiziana del “marinaio naufragato”, o ancora, e forse con più elementi in comune, una storia ambientata in Liguria nel medioevo intitolata “Il picco spaccato” (viene raccontata nel 1847 da Pietro Giuria – nella raccolta Tradizioni Italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell’Italia – che la presenta come un racconto tipico della tradizione dei luoghi). Ciascuna di queste storie contiene però varianti fondamentali da discostarsi notevolmente rispetto a quella raccontata dal Castellan.

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9 Commenti a Aracne, le tarantate e un falso mito

  1. SULLE TRACCE DI EUROPA. ARACNE, PENELOPE, E “UN FALSO MITO”…

    RIANDANDO CON LA MEMORIA alla “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/31/pellegrino-scardino-san-cesario-lecce-la-tarantata/ ), e,

    RICORDANDO CHE il mito di ARACNE raccontato da OVIDIO (Metamorfosi, VI, 1-145) “narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno” e,

    ANCORA, che sul tema – come ha ricordato lo stesso Gianfranco Mele – il prof. Armando Polito ha offerto brillanti contributi di approndimenti iconografici (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/25/aspettando-la-notte-della-taranta-14-aracne/), credo sia opportuno invitare ancora e di nuovo a una lettura attenta dell’intera narrazione ovidiana, per cercare possibili ragioni del “falso mito”.

    CONTRARIAMENTE a quanto si è pensato e si continua a pensare, c’è un filo doppio che lega Athena e Aracne – una identità speculare (uguale e opposta) che emerge chiara dal confronto della loro situazione “familiare” e e della loro “ideologia” emergente dalle “immagini” dei loro arazzi: quello di Athena che celebra la fondazione di Atene, sé stessa, e la punizione di chi osa sfidare soprattutto la sposa di Zeus, e, quello di Aracne che celebra le “avventure” di Zeus (e di altri déi) con donne mortali, a partire dal famoso “ratto di Europa” …

    ENTRAMBE, rimaste senza madre (quella di Aracne è morta, quella di Athena l’ha “ingoiata” Zeus) ed entrambe al “servizio” dei loro “Padri”, SONO tutte e due collegate nelle varianti del mito a Penelope, come da scena di una xilografia del XVI sec.: Pallade e Penelope con le ancelle e Aracne indignata a tessere la tela – in attesa di un… Ulisse/Zeus, partito per le sue avventure “europee”. O, dato che ormai l’Europa è sulla via del tramonto, anche questa “variante” è da ritenersi “un falso mito”? O, in altro modo, che Athena, Aracne, Penelope, e la stessa Arianna tentano di offrire ancora la chiave per saper riconoscere un falso mito e riprendere il cammino? O no?

    Federico La Sala

    • Anche a voler prendere per buona l’idea della elaborazione (iniziata o inserita da chi, quando, perchè?) di un cervellotico, pur apprezzabile, mix mitologico fatto di dotti incastri, non esiste nella tradizione orale salentina o pugliese (tantomeno in quella scritta) una simile versione del mito di Aracne. Esiste, da poco, nel web (chiaramente, da lì, il passo per trasportarla nella neo-oralità è breve). Da evidenza, si può affermare invece che esiste (o è stata reperita) nel brindisino, memoria della STORIA DELLA TARANTATA GINEVRA raccontata dal Castellan, che, “guarda caso”, è assolutamente SPECULARE alla storia di “Arakne e il marinaio”.
      Dice (quasi) bene la Zazzaroni quando scrive che “il tarantismo pugliese è infatti legato anche a una vera e propria riscrittura del mito di Aracne”: lo si sta legando, infatti, da poco, e grazie al web, in quanto tale riscrittura è contemporanea e niente affatto preesistente.

  2. IL MITO DI ARACNE, IL FILO DI ARIANNA, E “UNA SINGOLARE CONTORSIONE ESPLICATIVA E INTERPRETATIVA” …

    COMPRENSIBILE RISPOSTA, MA – che dire?!- IL FILO DI ARIANNA è molto, molto più lungo di quanto possa immaginare lo stesso “marinaio” e “lega” insieme nell’intreccio non solo Teseo, Atena, Aracne, e Filomela, ma – (metamorfosi-ca-mente) – anche e tutta l’intera civiltà occidentale (e non solo la gloriosa Terra d’Otranto, il Salento, la Puglia). Il senso dell’intervento di Gianfranco Mele – pur lodevole (per aver richiamato l’attenzione sul tema) – mi sembra quantomeno superficiale e non troppo “cervellotico” (il “gomitolo” è “piccolo” – ci vuole ancora e altra lana)!

    Forse è opportuno riguardare i TRE ARAZZI tessuti appunto da Atena, Aracne e Filomela – nel libro VI del capolavoro di Ovidio – e, possibilmente (se si ha voglia di approfondimenti) di ascoltare con gli “occhi” i canti delle “tarantate” e vedere con le “orecchie” la voce della “spoletta” (Patricia Klindienst, “The Voice of the Shuttle is Ours” : http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3085#forum3148918) … così è possibile comprendere più a fondo e meglio “La danza del ragno e la sua evoluzione” (la tesi della laureanda in Lettere dell’ Università di Torino) e la “singolare contorsione esplicativa e interpretativa” operata da Annarita Zazzaroni e accolta da tanti altri (“tarantati”) e tante altre (“tarantate”). O, per caso; Atena (con l’ateniese Teseo e Zeus)contro Arianna ha sempre la ragione “olimpica” dalla sua parte?!

    Federico La Sala

  3. Inizio dalla fine. Ad accogliere la contorsione della Zazzaroni oggi non ci sono tarantati e tarantate (ormai estinti), ma solo fans della pizzica. Dopodichè, tutte queste citazioni e digressioni dei commenti 1 e 2, stimolanti e importantissime ma anche già abbastanza note, sui motivi degli arazzi di Aracne, sugli stupri divini e da parte del potere maschile o maschilista, sull’eros e sull’eros precluso, sull’importanza e sui significati palesi e nascosti del mito e dell’arte, va benissimo che siano ricordate, e senz’altro ci stanno come argomenti da tesi o excursus sul tarantismo. Ma l’articolo non ha questi fini: riguarda la confusione (questo il titolo originale) tra il mito di Aracne e la storia della tarantata Ginevra, in questo caso non altro. Per questo, mi mantengo “superficiale”, perchè se scavassi più giù, magari fino al Tartaro, troverei “il filo” che giunge fin lì e vi troverei i ragni, i serpenti e gli scorpioni – stirpe unica e discendente dal sangue dei titani ecc ecc-, la Falange della Pizzica al completo pronta a punzecchiarmi anche lei su mille altre connessioni.
    Continuando a scavare, la ragnatela si amplierebbe e si arricchirebbe di altre presenze e intrecci (che in ogni caso nulla tolgono al fatto che la storia di “Arakne e il marinaio” è la storia della Tarantata Ginevra).
    In questo momento, per una serie di associazioni provocate dalla lettura dei commenti, mi tornava in mente anche il De Martino quando riprende l’episodio raccontato da Eschilo con protagonisti Zeus, Io, Hera, il pungiglione del tafano, la fine della corsa di Hera in quello scenario acquatico così familiare e così ricorrente nel tarantismo e soprattutto nel più antico tarantismo. Tante interrelazioni nella tela, tanti rimandi, tantissimi spunti (grazie per averli ricordati quasi tutti insieme e in una volta): certo, che il filo è lungo. E lo dobbiamo dipanare tutto QUI?
    Se può interessare, in Salento abbiamo anche “La Storiella di Pierina”, fotografata da un cantastorie, che assomiglia moltissimo a quella del mito di Filomela (a parte i ruoli un po’ invertiti) sufficientemente da essere spacciata, in questo caso, per sovrascrittura (anzi che ri-scrittura) del mito e da poter cambiare a piacimento, volendo, anche i nomi ai personaggi.
    Insomma, questa storia di “Arakne e il Marinaio” la han riscritta negli ambienti delle tarantate o la ha riscritta oggi il popolo del web? La tarantata a fianco di mia nonna avrà avuto una storia per molti versi simile, ma era la storia del suo ri-morso. Avrà avuto, magari, anche (ma forse anche no) sentore della storia della Ginevra brindisina, ma non sapeva certamente di una Aracne e di un Zeus.
    A voler proprio esser condiscendenti e conniventi con la nuova proposta, sennò, scriviamo: “ i salentini OGGI hanno riscritto il mito di Aracne – lasciandone invariata la parte finale della trasformazione della donna in ragno – e sostituendo il resto della storia con la storia di Ginevra e il marinaio (che finchè ce n’è stata memoria, si chiamavano con quei nomi, ma oggi son ribattezzati Aracne e Zeus)”.

  4. LA MATASSA è GRANDE, MA NON VEDO IL BANDOLO. Un piccolo omaggio alla “danza del ragno” e ai lavori di Annarita Zazzaroni e Vanessa E. Cerutti.

    IL MONOLOGO CONTINUA…. “Ma l’articolo non ha questi fini: riguarda la confusione (questo il titolo originale) tra il mito di Aracne e la storia della tarantata Ginevra, in questo caso non altro. Per questo, mi mantengo “superficiale” …. e ripeto lo stesso passo di “danza”!?

    FERMO RESTANTO E CONFERMANDO quanto detto (e, ancora, ringraziando Gianfranco Mele per la sua generosa e cortese risposta), mi sia consentito citare qualche parola dai lavori oggetto della “superficiale” considerazione:

    A) “Il mito è un essere vivente. Per sua propria essenza, infatti, il racconto mitico nasce per spiegare alcuni aspetti della vita dell’uomo e della natura, spesso troppo misteriosi o lontani, quasi incomprensibili. Il mito riesce così a tradurre il rapporto con la divinità, a codificare tradizioni e rituali che compongono l’ethos di un popolo, ma soprattutto, il più delle volte, è capace di dare forma alle forze dell’inconscio. Per questi motivi mito e vita si intrecciano e si uniscono ineludibilmente, facendo sì che il primo diventi appunto qualcosa di vivo e, come tale, soggetto a prendere un corpo nelle manifestazioni dello spirito umano e della collettività: la letteratura, l’arte, la musica, la ritualità” (Annarita Zazzaroni, “Il ragno che danza. Il mito di Aracne nel tarantismo pugliese” – file:///C:/Users/Asus/AppData/Local/Temp/21451-21470-1-PB.PDF);

    B) “L’ INTROMISSIONE DI SAN PAOLO. Abbiamo già accennato a come l’avvento del cristianesimo abbia influenzato un rito d’origine pagana come il tarantismo; secondo De Martino, la rottura tra il rituale nella sua accezione pagana e l’insinuarsi del germe cristiano, avvenne nel secolo XVIII, in concomitanza con leinfluenze illuministe e positiviste che scissero i legami tra i culti pagani, medicina empirica tradizionale, simbolismo animale e terapia musicale. SECONDO SIGERIST invece, la scissione più netta avvenne pochi secoli prima, quando il Salento subì il passaggio dalle pratiche dell’ortodossia bizantina a quelle del cristianesimo di matrice cattolica. In questa sede, appare più feconda la tesi di Sigerist che, oltre a datare l’evento attraverso una reale svolta storica più che ideologica, attribuisce le mutazioni del tarantismo al subentrare di padri cristiani nel territorio Pugliese.51Nella prospettiva demartiniana è presente un eccessivo riferimento alla dicotomia tra le culture industrializzate, considerate ‘moderne’ e sede privilegiata
    di storia e ragionee quelle prettamente tradizionali, dominatedal pensiero magico; secondo quest’ottica,la critica al rituale intaccato dal cristianesimo si allinea nel generale orientamento critico dell’autore nei confronti della ‘magia’ “(Vanessa Elena Cerutti, “La danza del ragno e la sua evoluzione. La tradizione ritrovata e reinterpretata”, pp. 50-51: http://www.vampadelumera.it/files/tesi.pdf).

    Federico La Sala

  5. Vedo che in quanto a ripetizione degli stessi passi di danza non scherza nemmeno lei . A ognuno il suo… monologo, dunque. Sembra molto affezionato anche lei alla sua, tarantola, e alla ripetizione continua del ballo che le sta facendo ballare. Anche questo, è un classico.
    Mi attrezzo nel frattempo alla promozione web della sostituzione de “La Storiella di Pierina” con il nuovo, più mitico ed accattivante titolo “La Storiella di Iti” o “La Storiella di Filomela” o “La Storiella di Tereo”.

  6. L’INTROMISSIONE DI SAN PAOLO, IL WEB, E “LA FINE DEL MONDO” …

    A MIO PARERE, I LAVORI DI ANNARITA ZAZZARONI E DI VANESSA ELENA CERUTTI non spacciano “fake news”, ma – se non vogliamo chiudere gli occhi (per sempre) – sollecitano proprio a ripensare il problema: “Aracne, le tarantate, e un falso mito”!

    Dire che “il mito è un essere vivente”… e segnalare (nella tesi di Vanessa E. Cerutti) lo studio di Sigerist, che vede nel tarantismo “una sapiente forma di cultura musicale e coreutica che le popolazioni del Mezzogiorno praticarono per secoli, celando sotto le apparenze di una procedura terapeutica gli antichi misteri pagani ed evitando in questo modo le persecuzioni della Chiesa” (http://www.besaeditrice.it/component/virtuemart/?page=shop.product_details&flypage=flypage_new.tpl&product_id=830&category_id=37), in qualche modo sollecitano ad approfondire lo stesso lavoro di Ernesto De Martino e dare un “Contributo all’analisi delle apocalissi culturali” (https://www.einaudi.it/catalogo-libri/antropologia-e-religione/antropologia/la-fine-del-mondo-ernesto-de-martino-9788806143565/).

    Sulla “sollecitazione” di Henry Ernest Sigerist, e sulla “intromissione di san Paolo”, non sembri inopportuno richiamare l’attenzione e riflettere su quanto è “successo” a Galàtone, dalla “comparsa” dell’icona “miracolosa” alla nascita del Santuario della Madonna della Grazia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/03/galatone-le-sue-tradizioni-antropologia-fede/#comment-187661).

    Federico La Sala

  7. Immaginavo una risposta del genere (che fra l’altro è la ripetizione di uno dei “passi di danza” già eseguiti nei precedenti commenti, con poche varianti). Ma sia chiaro: non ho inteso nè intendo discutere la preparazione della Zazzaroni e nemmeno quella della Cerutti, nè mal giudicare i loro lavori. Due lavori, anzi, ben articolati, che non sono nemmeno propriamente centrati sull’oggetto della nostra discussione (e dell’articolo), al quale è fatto un fugace richiamo.
    Perciò, il fatto che la Zazzaroni scriva, tra le tante cose interessanti che propone nel suo lavoro, che:
    ” Il tarantismo pugliese è, infatti, legato anche a una vera e propria riscrittura del mito di Aracne: alcuni fanno risalire la nascita della taranta alla trasformazione in ragno di una fanciulla, Arakne, che fu sedotta da un marinaio e abbandonata dopo una notte d’amore. Per anni Arakne attese il ritorno del suo amato ma, quando questo avvenne, la nave del ragazzo affondò durante l’attracco. Arakne era folle di dolore per aver perso per sempre l’uomo che amava. Fu così che Zeus la trasformò in taranta, perché potesse vendicarsi perpetuamente delle sofferenze subite”
    NON inficia la qualità del suo lavoro. Questo passaggio, peraltro, lo inserisce, brevemente, a rinforzo del passaggio precedente:
    “Nella tarantata che balla senza freni e senza sosta, ripetendo le movenze di un ragno che tesse, l’umano e il divino insinuato in esso ripetono lo scontro mitico tra la donna Aracne e la dea Atena; e al tempo stesso perpetuano l’immagine della donna trasformata in ragno, vivificando, nel vero senso della parola, quel mito”;
    e ANCHE SE NON LO AVESSE INSERITO nulla sarebbe cambiato rispetto alla validità del suo discorso e del suo lavoro. Difatti, tutto è ugualmente condivisibile: FUORCHE’ L’ATTRIBUZIONE DI QUESTA STORIA DI “ARAKNE, ZEUS E IL MARINAIO” ALLA TRADIZIONE ORALE PUGLIESE. Si tratta di un errore e di una citazione compiuti a mio avviso in assoluta buona fede, in quanto chiunque di noi,anche solo e semplicemente geograficamente distante dal Salento, avrebbe preso per buona quella storia sparata sul web e “validata” dalla sua presenza sul sito di una nota band di pizzica, credendo che effettivamente in Puglia si sia creata ILLO TEMPORE quella versione del mito e (soprattutto) con quei personaggi protagonisti.
    Bello e interessante anche il lavoro della Cerutti, pur se di tipo più compilativo, come del resto si addice ad una tesi di laurea.
    Più complessa e da meglio scandagliare, a mio avviso, la questione della connessione del Tarantismo con “gli antichi misteri pagani” e con i riti dionisiaci, dal momento che riti misterici pagani ed espressioni squisitamente dionisiache sopravvivono pressochè intatti nella loro forma – e parallelamente e contemporaneamente al tarantismo – nella stregoneria, e, nel caso della Puglia e del Salento, nelle riunioni “masciàre” (guarda caso) chiamate BALLO, dove il cerimoniale complessivo, culminante nel rito orgiastico, resta assolutamente somigliante a quello originale pagano.

  8. L’INTROMISSIONE DI SAN PAOLO, IL LUNGO FILO (DI ARACNE E) DI ARIANNA, E LE RICERCHE IN CORSO ….

    IL FATTO CHE il Santuario della Madonna di Pasano (G. MELE, “Sava (Taranto). L’antica chiesa di Pasano”: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/14/sava-taranto-lantica-chiesa-di-pasano/) è un Santuario cattolico fondato su un locale culto di origine antichissima (bizantina, come testimonia anche un’icona della Madonna con Bambino conservata al centro dell’altare), più volte riedificato. L’attuale assetto risale ad una ricostruzione del 1712 ma di recente sono stati scoperti i resti di una strutture preesistente all’attuale santuario” , E CHE l’icona della Vergine Odigitria con Bambino “è dipinta su una grande lastra in pietra e trattasi di un blocco asportato dalla chiesa più antica. Quest’ultimo edificio, non è mai stato interamente abbattuto, ed è posto a ridosso dell’altare del nuovo” (https://it.wikipedia.org/wiki/Santuario_della_Madonna_di_Pasano), NON GETTA LUCE sulla “politica” di “latinizzazione” della Chiesa cattolica nel Salento alla fine del secolo XVI e all’inizio del XVII e NON SOLLECITA, FORSE, a tentare di capire meglio “l’intromissione di san Paolo” (https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/08/97384/#comment-215219) nel cammino millenario della TRADIZIONE ORALE PUGLIESE e, al contempo, la “straordinaria” e “suggestiva” operazione “controriformistica” e “spagnolesca” (un omaggio alla “Principessa di Eboli”, Ana De Mendoza – oso pensare – contro Teresa d’Avila e le sue carmelitane scalze!*) del vescovo di Nardò, mons. Fabio Fornari, alla fine del Cinquecento in quel di GALATONE, con l’icona della Madonna della Grazia, “La Vergine dall’occhio nero” ( Francesco Danieli, “La festa della Madonna della Grazia. Pietà e folklore galatei dal ‘500 al terzo millennio”: https://culturasalentina.wordpress.com/2011/09/07/la-festa-della-madonna-della-grazia-pieta-e-folklore-galatei-dal-%e2%80%98500-al-terzo-millennio/#more-9316 )? O no?

    Federico La Sala

    *
    RELATIVAMENTE A “Galatone e le sue tradizioni, tra antropologia e fede”, mi sia consentito, si cfr. la nota: GATTA CI COVA! LA “STORIA” DI GALATONE, IL REGNO DI NAPOLI, E LA SPAGNA (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/03/galatone-le-sue-tradizioni-antropologia-fede/#comment-190102) e ai rapporti tra TERESA D’AVILA E LA PRINCIPESSA DI EBOLI, ANA DE MENDOZA, si cfr. il materiale raccolto in “CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano “file” perduto del tardo Rinascimento” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=659).

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