di Giuseppe Magnolo
Le qualità artistiche in qualunque individuo hanno sempre qualcosa di innato, che risponde ad esigenze vocazionali e al tempo stesso crea potenzialità particolari in ambiti corrispondenti alle diverse forme di espressione artistica (visiva, uditiva, cinetica, ecc.). Al tempo stesso l’arte è mestiere, sviluppo di osservazione, capacità di concettualizzare, affinamento di competenze, di abilità relazionali, di prospettive storico-culturali. Le spinte motivazionali verso l’arte possono risiedere tanto in esigenze pratiche (economiche, funzionali, migliorative dell’esistente), quanto teorico-concettuali (astrazione dalla realtà, evasione, rievocazione, idealizzazione). Nello sviluppo dell’itinerario di una personalità artistica i diversi aspetti sopra delineati sono poi soggetti a mutamenti, adattamenti, conversioni, trasformazioni più o meno radicali, che sono conseguenti all’esperienza vissuta, al contesto esistenziale, alle proiezioni fantastiche che ciascun artista riesce a mettere in atto.
Quanto detto vale anche a definire la personalità di Giovanni Russo[1], uomo di formazione tecnico-pratica, ma dotato anche di spiccata sensibilità umanistico-letteraria, coltivata secondo scelte personali attentamente mirate a corroborare le sue convinzioni sia etiche che estetiche. L’ambito dei suoi interessi va dallo studio e la valorizzazione del patrimonio naturalistico alla difesa dell’ambiente, dallo sviluppo urbanistico alla tutela di manufatti e reperti che documentano la storia passata, dalla produzione letteraria in versi e prosa narrativa alla ricerca storica. La sua produzione artistica copre un periodo più che trentennale, ed è stata realizzata prevalentemente in forma grafico-pittorica, con importanti esperienze nella scultura, nella ceramica, nella lavorazione del legno e dei metalli, spesso utilizzando vecchi utensili che vengono assemblati e artisticamente riportati a nuova vita.
L’espressione artistica per Giovanni Russo rappresenta, come avviene per molti artisti, un ambito di esperienza contraddistinto dal gusto personale di assaporare pienamente la libertà individuale senza vincoli o condizionamenti di alcun genere, presupposto indispensabile per creare, esprimere emozioni, esaltare le potenzialità e il valore della memoria, ma anche per discriminare, censurare, contrapporsi con veemenza. Sia che il supporto espressivo sia rappresentato da una tela (pittura), da un foglio di carta (poesia, narrativa), dalla terracotta da incidere o plasmare, oppure dall’impiego di vecchi utensili dismessi per ricomporli artisticamente, l’esperienza di per sé è sempre concepita come un agone in cui scendere con risolutezza per affermare la propria capacità di visione legata a principi e valori sia estetici che morali che meritano di essere esplicitati, divulgati, difesi a spada tratta.
É evidente che il tentativo di dare una definizione sintetica del segno dell’arte che si ritiene distintivo di un autore non è affatto semplice, rammentando anche che esso è costituito tanto dai motivi ispiratori che lo connotano quanto dalla forma che esso viene ad assumere, dal linguaggio che lo distingue, dall’efficacia con cui viene ad essere proposto. La scienza semiotica studia il significato e le implicazioni dei segni, che non sono rappresentati soltanto dal linguaggio più o meno formalizzato, ma anche da tante altre forme espressive come quella figurativa, cromatica, simbolica, mimico-gestuale, sino alle forme totemiche o antropologico-comportamentali. Mutuando i criteri della semiologia per riferirli al caso in questione, è possibile affermare che il segno distintivo delle opere di Giovanni Russo, scaturito da una volontà impellente di palesarsi con spontaneità ed immediatezza, consiste essenzialmente nell’uso di un tratto formale marcato e prevalentemente geometrico (forse di matrice cubista), che si manifesta in modo netto e spesso spigoloso, sostenuto da un cromatismo acceso ed esuberante, tendente ad un forte impatto visivo. E’ in un secondo momento che i contenuti logico-narrativi delle diverse opere rivelano aspetti di un’umanità intensa, avvertita con sofferenza, volta a trasmettere un afflato solidaristico, o anche un aspro disappunto, senza veli o parvenze di accomodamento. La riflessione su questi aspetti di problematicità contenutistica e le ragioni che li sottendono finiscono quindi con lo spostare la reazione dell’osservatore dal piano formale a quello emotivo-concettuale. Ed è proprio su questo terreno che occorre operare un ulteriore approfondimento.
Si ritiene solitamente che uno dei crismi dell’arte risieda nella capacità dell’opera di fare breccia nella sensibilità percettiva dell’osservatore. Seguendo tale criterio si può constatare come sia difficile rimanere indifferenti di fronte al motivo tematico della maternità come espresso ne “Le mendicanti di Bucarest” (fig. 1), o quello della femminilità maliarda e allusivamente simbolica rappresentata nel “Giardino delle farfalle” (fig. 2). Altrettanto efficace risulta il tema ancestrale del capro espiatorio e l’appello alla pietà presente ne “La cacciata della pecora vecchia”, così come il senso di sfibrante sconfitta che traspare dalla composta mestizia dell’ “Operaio ILVA” (fig. 4), ormai ridotto a pura maschera priva di identità, oppure la stoica tenacia adombrata nell’arrancare solitario de “La vecchia e la capra” (fig. 5).
La spinta emotiva così evidente in queste opere ci apre la strada per evidenziare l’altro elemento connotativo che a nostro avviso impronta le opere di Giovanni Russo, quello dell’artista impegnato che, partendo da presupposti di carattere culturale ed estetico, intende anche assolvere ad una funzione civile considerata inscindibile dalla fruizione artistica. Tale aspetto si è venuto progressivamente consolidando nel tempo sia sotto l’influsso di alcuni modelli eccellenti di riferimento elettivo (Picasso, Garcia Marquez, Dante), sia come effetto della riflessione conseguente alla ricerca storico-documentale sul recente passato, mediante la quale l’autore ha potuto constatare come sia stata messa a repentaglio la possibilità di sopravvivenza di individui o gruppi sociali (i minatori, gli emigranti, le operaie tabacchine), e persino di interi popoli (le vittime dell’olocausto).
Il passo successivo sul piano artistico è stata la decisione di mettere da parte qualunque abbandono contemplativo per addentrarsi risolutamente nei sentieri dell’impegno socio-umanitario, adempiendo a ciò che l’autore ritiene come una missione particolare affidata all’arte. Di fatto egli si è attribuito un compito di denuncia inderogabile rispetto a colpe e devianze storicamente acclarate, che per lui ancora costituiscono un umiliante e intollerabile fardello di prevaricazione e violenza esercitata dall’uomo su altri esseri umani considerati deboli o socialmente inferiori: gli svantaggiati, le donne, i bambini. É qui che l’arte viene a caricarsi di una responsabilità enorme, di un respiro collettivo ed epico, che nelle sue forme estreme arriva a postulare una sorta di anatema universale, che sembra provenire dalle cupe atmosfere dell’Inferno dantesco.
Volendo esemplificare quanto detto, soffermiamoci per un momento sul tema dell’olocausto come è configurato nell’opera “Altalene deserte” (fig. 6), in cui l’iscrizione superiore riproduce quella che sul cancello di ingresso al campo di sterminio di Auschwitz accoglieva gli ebrei al loro arrivo, e che ora funge da supporto a tre altalene vuote. Nella sua muta semplicità quest’opera coniuga il tema dell’olocausto, espresso dalla menzogna più grande della storia (“arbeit macht frei”), con quello ancora attuale della violenza sui minori, così efficacemente adombrato nella loro assenza (le altalene rimaste vuote). L’inevitabile effetto di angoscioso disagio prodotto sull’osservatore risponde pienamente alle intenzioni dell’artista, forse anche superandole.
La stessa intensità espressiva si può trovare in “ACAIT” (fig. 7), un dipinto fra i più recenti, che fa parte di una trilogia ispirata dal ricordo di un triste episodio verificatosi a Tricase verso la metà degli anni trenta del secolo scorso, una insurrezione di protesta da parte di operaie impiegate in una fabbrica locale per la lavorazione del tabacco, circostanza in cui si registrarono cinque vittime, tra cui un adolescente accidentalmente coinvolto nei tafferugli[2]. Indubbiamente la concezione strutturale di quest’opera richiama Guernica di Picasso, sia nell’intento di rappresentare il momento successivo all’esplosione di violenza, che nello stile esecutivo ed in alcune tonalità di colore. Ma occorre anche sottolineare alcune differenze importanti (oltre alle dimensioni) rispetto al maestro spagnolo. Innanzitutto il fatto che Picasso operasse nell’imminenza della forte impressione generata dall’effetto distruttivo prodotto dal bombardamento sulla città spagnola corrisponde alla sua finalità di rendere visivamente lo sconquasso raccapricciante della realtà rappresentata. Invece la visione storicamente prospettica di Giovanni Russo lo induce ad una reazione a posteriori, che propende maggiormente verso l’elaborazione di un’immagine concepita quasi come un monumento alla memoria. Ma il dato più significativo attiene alla presenza umana in quest’opera di Russo, e va individuato nell’evidenza esclusiva che egli conferisce alla figura femminile, sia come vittima designata di un ingranaggio sociale perverso, che come madre superstite destinata al pianto e alla sofferenza.
L’idea dell’artista come uomo votato all’impegno sociale non è affatto nuova. Sul piano culturale ha definito intere fasi storiche dal punto di vista sia artistico che letterario. É accaduto nel secondo Ottocento con il naturalismo e il verismo, ma anche nel periodo tra le due guerre mondiali, durante il quale molti intellettuali impegnati si sono schierati apertamente a difesa di questa o quella ideologia. Dobbiamo dunque dedurne un nostalgico desiderio di ritorno ad idee del passato, con cui l’arte pura, ossia scevra da finalità in qualche modo strumentali, ha poco a che fare? Ebbene può anche darsi che talvolta l’artista scada nel moralismo, e che la sua espressione assuma un connotato predicatorio privo del necessario distacco contemplativo. L’importante è non ridurre la concezione dell’arte ad una angusta funzione di tramite, a mero elemento di supporto per intenti rivendicativi, in quanto il suo ambito principale risiede nella sfera estetica ed emozionale. Se grazie a ciò essa riesce anche a conseguire degli effetti significativi sul piano etico, questo non può che accrescerne il valore. Ma Giovanni Russo è ben consapevole che, priva dei suoi requisiti fondamentali, l’arte non può essere più che opera di dignitoso artigianato.
[1] Giovanni Russo vive ed opera a Sogliano Cavour. Diplomato geometra, è responsabile dell’ufficio municipale di Sogliano per lo sviluppo urbanistico. Professionalmente si occupa di restauro e di progettazione nell’ambito dell’edilizia sia pubblica che privata. Oltre agli interessi artistico-letterari, importanti sono anche le sue iniziative a difesa dell’ambiente e del paesaggio urbano.
La sua produzione artistica più recente è stata esposta al pubblico nell’agosto 2013, in una mostra personale allestita a Corigliano d’Otranto nel castello De’ Monti, con la presentazione introduttiva di Giovanni Giangreco.
[2] La rivolta di Tricase avvenne il 15 maggio 1935. ACAIT era il nome dell’azienda di tabacchi che minacciava il trasferimento, con il rischio di perdita del lavoro per molti dipendenti, prevalentemente donne. Cinque persone, tra cui Pietro Panarese di 15 anni, furono uccise dalle forze dell’ordine durante la manifestazione di protesta.
Pubblicato su Il filo di Aracne