A proposito delle epigrafi della “trozza” di Villa Scrasceta

di Armando Polito

Questo post vuole essere solo una piccola integrazione al saggio recente, interessantissimo e, come al solito, ottimamente documentato, di Marcello Gaballo (Un’architettura rurale impossibile da dimentica+re: lo Scrasceta. Dalle origini ai nostri giorni, II parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/06/unarchitettura-rurale-impossibile-da-dimenticare-lo-scrasceta-dalle-origini-ai-nostri-giorni-ii-parte/).

Le osservazioni che farò, frutto di una ricognizione personale operata più di trenta anni fa (purtroppo all’epoca non esistevano le fotocamere digitali e una reflex di un certo livello non era nelle possibilità economiche di un modesto insegnante) hanno il solo scopo di evitare un’ulteriore proliferazione di errori dovuti non all’autore del post ma alla fonte primaria, cioè il pur pregevole, pluricitato  lavoro dell’indimenticato Emilio Mazzarella; prima che gli oltraggi del tempo e degli uomini le rendano totalmente incontrollabili …

Parto dalla prima epigrafe, quella del fastigio. La trascrizione del Mazzarella è la seguente:

NYNPHARUM LOCUS/SITIENS BIBE/LYMPHA SALUBRIS UBERIBUS/PULCRAE NAIADIS/ECCE FLUIT.

Va detto preliminarmente che l’iscrizione occupa non cinque ma sette linee e che la sua trascrizione esatta è la seguente:

NYMPHARUM/LOCUS HIC/SITIENS BIBE/LYMPHA SALUBRIS/UBERIBUS/PULCHRAE NAIADIS/ECCE FLUIT

e, con l’aggiunta della punteggiatura. della cui scelta darò ragione più avanti:

NYMPHARUM/LOCUS HIC. SITIENS BIBE!/LYMPHA SALUBRIS/UBERIBUS/PULCHRAE NAIADIS/ECCE FLUIT

L’immagine che segue (tratta da http://www.giannicarluccio.it/wordpress/?p=2614#more-2614) mostra chiaramente il degrado della seconda linea ma non so spiegarmi come, dopo la decifrazione ancora oggi possibile di LOCUS, sia sfuggito il visibilissimo HIC.

La questione non è di poco conto, perché l’omissione ha trasformato in una quasi inanimata epigrafe in prosa ciò che era e rimane un perfetto distico elegiaco.

Ne fornisco di seguito la scansione, non per idiota esibizionismo culturale ma solo perché è un passaggio indispensabile per motivare le osservazioni che farò dopo e facilitarne al lettore la comprensione.

Nymphā|rūm lŏcŭs|hīc||sĭtĭ|ēns bĭbě|lymphă să|lūbrĭs                     

ūbĕrĭ|būs pūl|chraē||Naīădĭs|ēccĕ flŭ|ĭt 

Qui (c’è) il luogo delle Ninfe. Tu che hai sete, bevi! L’acqua salutare,

ecco, scorre dalle mammelle della bella Naiade.

Ho definito il distico perfetto, ma ho bisogno però di perfezionare la mia definizione e di rilevare a tale scopo  come la tecnica di costruzione poetica riesca a risolvere tra l’altro pure i problemi derivanti dall’ambiguità grammaticale di una singola parola. Ciò che ho appena finito di affermare, che può sembrare astratto o, peggio ancora, criptico,  è impersonato dalla terza parola del primo verso (HIC) che teoricamente può valere:

1) come nominativo maschile singolare dell’aggettivo dimostrativo hic/haec/hoc (=questo).

2) come avverbio (=qui).

Nel primo caso le traduzioni possibili, tenendo conto della punteggiatura da me inserita in quella proposta, che è la finale, sarebbero:

a) Questo luogo (è) delle Ninfe.

b) Questo (è) il luogo delle Ninfe.

Entrambe le interpretazioni suppongono, dopo HIC, un EST (è) sottinteso che assumerebbe il valore di copula (in a , in particolare, in cui delle Ninfe ha il valore primario di genitivo di possesso:  se è è copula nell’espressione questo luogo è comune, non si comprende perché dovrebbe cambiare in questo luogo è di tutti e perché non dovrebbe esserlo nel nostro in cui delle Ninfe è equivalente a ninfeo), mentre HIC sarebbe attributo di LOCUS in a e complemento predicativo del soggetto (sempre LOCUS), in b.

Nel secondo caso (HIC avverbio di luogo) l’unica interpretazione possibile sarebbe Qui c’è il luogo delle Ninfe.

Se, però,  non si tiene conto, per quanto riguarda la punteggiatura, del punto fermo dopo HIC, in questo secondo caso, immaginando un punto fermo dopo LOCUS, sarebbe possibile, sempre teoricamente, anche quest’altra interpretazione: Il luogo è delle Ninfe. Tu che qui hai sete …

Da un punto di vista stilistico nulla potrebbe essere obiettato, poiché l’avverbio (HIC) risulterebbe sempre collocato correttamente prima del verbo (SITIENS), come avvenuto nel primo caso, dove, però, il verbo (EST) era sottinteso.

Come dipanare questa matassa? Grazie a due cospicui indizi che poi, confermandosi a vicenda,  diventeranno inequivocabili prove:

Il primo ce lo offre la stessa grafica dell’iscrizione, dove HIC è inciso alla fine della seconda linea, dopo la prima, iI cui ruolo di rilievo è stato riservato in via esclusiva a NYMPHARUM; il secondo la scansione metrica con la sua cesura pentemimera che cade proprio dopo HIC, obbligando nella lettura a fermarsi momentaneamente proprio in quel punto. Insomma, quella cesura corrisponde proprio al punto fermo che nella trascrizione ho posto dopo HIC.

Qualche pignolo ostruzionista teso, in buona o in mala fede, a considerare questa una mia farneticazione potrebbe obiettare che il verso in questione potrebbe anche essere scandito allo stesso modo ma con due cesure (la tritemimera e l’eftemimera) secondo lo schema seguente:

Nūmphā|rūm||lŏcŭs|hīc sĭtĭ|ēns||bĭbě|lūmphă să|lūbrĭs 

Anche il più scalcinato studente di latino, quello di un tempo, gli avrebbe fatto osservare che questa lettura è un brutale, arbitrario e insensato terremoto che spezza legami grammaticali (il genitivo NYMPHARUM separato brutalmente dal soggetto LOCUS che lo regge e SITIENS, participio sostantivato con valore di complemento di vocazione, dal suo verbo BIBE) che coincidono con valori logici, cioè, in ultima analisi, semantici, convergenti verso corretti fini prima espressivi e poi interpretativi.

Alla luce di queste considerazioni rimangono praticabili solo le interpretazioni a e b e ho privilegiato, come s’è visto, b per un fatto statistico: prevalentemente negli autori classici l’aggettivo dimostrativo precede e non segue il nome di cui è attributo, per cui è più plausibile, anche in considerazione, come si è appena visto,  dei sottili strumenti messi a disposizione dall’autore del testo per aiutare il lettore a risolvere le ambiguità teoriche,  che HIC sia avverbio che precede correttamente il verbo sottinteso (EST).

Non mi dilungo sulle ascendenze classiche di nessi e singole parole, che la dicono  lunga sulla raffinatezza culturale dell’autore del distico e del committente dell’opera (potrebbero essere stati un’unica persona) e mi riprometto di farlo solo se questo post registrerà un accettabile riscontro  (si scrive per essere letti, riletti e contraddetti, non per leggersi, rileggersi e non contraddirsi …).

Se la lettura imperfetta di questa prima epigrafe registrata dal Mazzarella non ha provocato travisamenti sostanziali del suo significato, lo stesso non può dirsi della seconda, alla base del puteale, così riportata dal Mazzarella per la prima parte:

PRAESENS FONS PERENNIS INCERTUS FUIT/DIE MARTII DCCXXXXVI

tradotta in nota in La presente fonte sorgiva (o perenne) fu incerta (fino al) marzo 1746.

E per la seconda:

AEMANAVIT ACQUA DIE XVI AUGUSTI MDCCXXXXVI

tradotta in nota in Emanò l’acqua il giorno 16 agosto 1746

Per la prima parte, invece, nonostante la seconda linea sia sepolta quasi per metà (come mostra la foto successiva tratta da http://www.giannicarluccio.it/wordpress/?p=2614#more-2614) dallo sciagurato strato di cemento utilizzato probabilmente per portare l’area che circonda pozzo al piano della vicinissima fabbrica (e non per fissare i quattro sostegni della griglia protettiva, in quanto la stessa sopraelevazione si nota anche in foto più antiche, in cui la griglia è assente), la lettura corretta è:

PRAESENS FONS PERENNIS INCAEPTUS FUIT/DIE VII MARTII MDCCXXXXVI

La presente fonte perenne fu iniziata il 7 marzo 1746 (data di inizio dello scavo)

Per la seconda:

A DIE XVI AGUSTI AEMANAVIT AQUA

Dal giorno 16 agosto sgorgò l’acqua (data di conclusione dello scavo e dell’intercettazione della falda freatica).

L’errata lettura riportata dal Mazzarella, in cui  INCAEPTUS risulta sostituito con INCERTUS e VII viene omesso dopo MARTII, è sfociata nella traduzione totalmente arbitraria che ho già riportato: La presente fonte sorgiva (o perenne) fu incerta (fino al) marzo 1746. Non si capisce per quale motivo si sarebbe dovuto registrare questo inconveniente e, oltretutto, il fino a sottinteso nella traduzione avrebbe supposto un AD DIEM (alla lettera: fino ad un giorno) e non l’ablativo DIE che, insieme con VII, forma un complemento di tempo determinato, che più determinato non si può.  Quanto ad INCAEPTUS: è participio passato di incìpere per il classico inceptus: si tratta (insieme con la variante INCOEPTUS) di un normalissimo esempio di ipercorrettismo presente già nel latino medioevale e particolarmente ricorrente nei testi in latino del XVII e XVIII secolo), modellato sul classico caelum/coelum, ma ancor più giustificato dal fatto che incìpere è formato da in+coèpere e che il participio passato di coèpere è coèptus. La stessa forma di ipercorrettismo si nota in AEMANAVIT per emanavit. Qui, però, non c’è giustificazione di sorta in quanto emanare è formato dalla preposizione e=fuori+manare=sgorgare e, se nel latino medioevale s’incontra celum (per il classico coelum o caelum), cioè il dittongo risolto in e, mai s’incontra il contrario, cioè un originario e ampliato in dittongo; infatti un latino aemanare non risulta attestato neppure una volta, se non qui …

Gli estremi temporali registrati nell’epigrafe sono importantissimi, non solo perché in altre trozze, a quanto ne so, s’incontra, quando s’incontra, solo la registrazione dell’anno di realizzazione,  ma anche perché essi danno un’idea dell’impresa quasi ciclopica dello scavo di un pozzo, con i mezzi di allora: picconi, mazze, punte di ferro e zappe larghe.

Un’ultima osservazione: questa seconda iscrizione, a differenza della prima, ha un carattere che potremmo definire documentario e burocratico ed è in prosa; quando mai, d’altra parte, la burocrazia è andata a braccetto con la poesia, nonostante la rima in comune?  Eppure, essa ci descrive temporalmente con precisione  il concepimento e la nascita della trozza (il periodo di gestazione è sottinteso, perché facilmente calcolabile), mentre quella del fastigio (e sotto questo punto di vista la collocazione non è casuale) evoca i valori senza tempo (purtroppo non posso dire di ogni tempo …): il pensiero d’amore per la natura, per la vita, per il patrimonio culturale dei padri, per la bellezza (purtroppo concretamente non alla portata di tutti, ma per comprenderli non è necessario essere ricchi economicamente …) che ispirarono la sua realizzazione. Lascio al lettore giudicare l’importanza dell’una e dell’altra.

 

 

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2 Commenti a A proposito delle epigrafi della “trozza” di Villa Scrasceta

  1. Ecco l’Armando rispuntato. Certo io non sono in grado di confutarti o di suggerirti altro da quello che tu hai detto. Io mi diverto a leggerti perchè mi riporti in dietro negli anni,quando frequentavo il ginnasio- liceo classico e poi l’Università di Lettere. E questo mi permette di ricuperare un poco di quel sapere che allora avevo acquisito e che tanto mi piaceva. Quel poco che mi è rimasto, mi è servito solo a dare una mano ad una nipote che ha fatto un po’ di latino nel liceo psicopedagogico; ma niente di che, il latino che fanno oggi fa ridere i polii.Comunque oggi mi sono veramente deliziato e sono entrato nel pensiero d’amore per la natura, per la vita, per il patrimonio culturale dei padri e per la bellezza che emanano questi pochi versi!

  2. è vero – è vero signori :è una delizia questo per l’animo nostro ; ma, anche per chi ha voglia di riflettere su quella catastrofica credenza di lingua morta – tanto, che personalmente vado ad ascoltare Mariella Consoli nella nostra Università – grazie sempre e cordialità -peppino .

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