Il mio Natale a Martina Franca

 

 

di Dora Liuzzi

Era mia nonna che, subito dopo la festa dell’Immacolata, cominciava a creare, in casa, l’atmosfera natalizia che noi ragazzi sognavamo per un intero anno; tutto aveva inizio con il suo invito caloroso:  “piccini, cominciate a raccogliere il materiale per il presepe”.

I miei fratelli allora avevano campo libero: c’era un falegname che aveva la sua bottega di fianco al portone di casa di mia madre (io vivevo a casa di nonna dove si svolgeva la vita di noi tutti); il suo nome era Antonuccio “pizzaridd”; da lui essi prendevano pezzi di legno di varia lunghezza e di diverso spessore; rientravano carichi e cominciavano a depositarli nel “maiazzl”, un’ampia stanza-deposito per le provviste che, pcr1’occasione, si trasformava in laboratorio.

Seguiva la raccolta dei giornali c poiché allora non c’era tanta carta in giro come oggi, per metterne insieme un bel po’, bisognava penare diversi giorni; si facevano ricerche nel retrobottega di nonno, dal cartolaio-libraio Mimi Carrieri, amico di famiglia e sempre tanto generoso (da lui mamma comprava i libri di scuola per noi quattro, “a rate” interminabili perché quelle di un anno si incrociavano con quelle dell’anno successivo) e talvolta anche qualche Famiglia cristiana, a cui mamma era abbonata, serviva allo scopo.

Tempi difficili quelli, di guerra e dell’immediato dopo-guerra, ma il presepe in casa non doveva mancare (come in casa Cupiello); mia zia, che sovrintendeva alle masserizie, brontolava sempre quando doveva mettere fuori la farina che serviva per preparare la colla: in un vecchio barattolo Nino e Pietro impastavano acqua e farina e non dovevano essere molto bravi, a detta di zia, se consumavano tanta, tanta farina; io allora vedevo colla dappertutto, sul pavimento, sui loro vestiti, sulle pareti e mi estasiavo, ma non “davo una mano” perché quello era lavoro esclusivo dei “maschi”.

Preparata la struttura del presepe, con montagne impervie, valli nascoste, qualche raro sentiero e una minuscola grotta, si passava alla seconda fase, la coloratura: con polvere verde e marrone il paesaggio veniva delineato meglio, anche se, a rivederlo oggi con gli occhi della memoria, mi rendo conto che quello era un paesaggio inesistente in quanto né in Palestina, né in qualche altro punto della Terra si sarebbe potuto trovare qualcosa di simile e, del resto, i miei fratelli, che erano solo dei ragazzini, non si ponevano il problema di creare qualcosa di verosimile, ma solo quello di “creare” secondo le regole che la fantasia infantile dettava di volta in volta (e perciò quel paesaggio era di anno in anno sempre diverso, sempre più irreale).

Quando la struttura portante era ultimata, allora il presepe usciva dal laboratorio e veniva trasferito con cura al primo piano, nella camera da letto mia e di mia zia e veniva poggiato su di un mobiletto (una specie di secreté di mia zia; guardare là dentro, tra le scatoline dei suoi gioielli, era un piacere “proibito” per me e perciò tanto più carico di voluttà) che, per l’occorrenza, veniva liberato dalle “cianfrusaglie” che lo ricoprivano.

Ora il lavoro diventava diverso ed io mi potevo inserire: si andava in giro, per le campagne, a raccogliere muschio e a rubare qualche ramo di pino perché facesse da sfondo verde alle montagne; queste ricerche “campestri” duravano più giorni e si usciva prestissimo, nel pomeriggio, di casa, appena finito di pranzare: “solo un’ora e poi qui, subito, perché dovete studiare” ed era impensabile trasgredire un ordine così perentorio di mia zia.

Quando, poi, con il verde “naturale” il presepe era ultimato nella sua struttura, rimaneva la fase finale e in questa ero quasi protagonista; infatti andavo a prendere dal ripostiglio una scatola di cartone in cui erano custoditi gelosamente i “pupi”, ognuno avvolto in un pezzo di carta affinché, urtandosi con il vicino, non si rompesse. Nonostante, però, tali precauzioni, sempre ne veniva fuori qualcuno rotto che si aggiungeva agli “invalidi” degli anni precedenti. Bisogna sapere, infatti, che avevo nella scatola un settore dove c’erano gli “invalidi”: chi con un braccio in meno, chi con mezza gamba; ad un altro mancava una mano, a quel pastore la pecorella era senza testa e così via. Poiché i vari pezzi anatomici erano andati perduti nel corso degli anni, era nostra cura sistemare innanzitutto questi “sfortunati”: tra un ramo, nel fondo lontano di una grotta, gli anfratti di una montagna, di profilo, di spalle, in posizioni, insomma, nelle quali poco si scorgesse la loro menomazione. Dopo aver sistemato, con cura diligente, questi sventurati pupi, mettevamo in bella mostra le statuette più belle, dai colori vivaci; negli ultimi tempi si erano aggiunti i pupi di plastica che erano, per quegli anni, una vera “sciccheria”; ognuno di noi aveva fatto qualche piccolo sacrificio durante l’anno, aveva “racimolato” qualche lira per aggiungere al presepe una statuetta nuova fiammante.

Con i pupi veniva fuori dalla scatola di cartone il solito pezzo di specchio rotto che, sistemato in mezzo al muschio, dava l’illusione del laghetto. Da ultimo si aggiungevano i fiocchi di neve, fatti di ovatta e le luci, due modeste serie di lucette, sistemate con “arte” da mio fratello nei punti strategici (me ne ricordo una, in particolare, coperta con una “velina” rossa, che creava l’illusione dei carboni accesi, nel fondo di una grotta).

Non tutto sempre andava liscio nel campo dell’elettricità: l’unico che capisse qualcosa era mio fratello Nino ed un suo compagno di scuola che tagliavano fili, ricucivano con nastro adesivo, facevano prolunghe, risistemavano spinotti e, quando tutto era pronto e si inseriva la spina nella presa della corrente, il cuore batteva forte fino quasi a fermarsi; temevamo sempre una scintilla, uno scoppio, un cortocircuito (come talvolta accadeva) che mandasse in fumo tutto il lavoro.

La preparazione del presepe si inseriva nella novena del Santo Natale, che io facevo con enorme fervore, dopo quella dell’Immacolata. Avendo frequentato le scuole elementari e le medie presso le suore salesiane di Don Bosco, la religione era parte integrante della mia giovane vita, l’e1emento propulsore delle mie giornate; nei periodi “forti” poi dell’anno liturgico il sentimento religioso sovrastava tutti gli altri: uscivo al buio, al mattino, di casa, per correre nella chiesa delle suore (quante volte, per la neve che allora cadeva abbondante a Martina Franca, sono scivolata e poi… zoppicante, tiravo avanti senza lamenti, con i geloni alle mani e ai piedi, che spesso sanguinavano). La novena del Natale era la più suggestiva per i canti di attesa del Messia: rivedo la chiesa sempre piena, non solo di noi ragazze, ma anche di adulti, e il “coro” di cui facevo parte (pur essendo tanto stonata), guidato da suor Anna Guarini, mentre don Fedele Caroli celebrava la Messa e poi …rivedo la fila per la Comunione e, subito dopo, la corsa a casa per una breve colazione e poi, di nuovo, dalle suore per la scuola.

Tutte mi passano dinanzi agli occhi le compagne di classe: Titina, Anna Maria, Cenzina …. quante strade diverse abbiamo percorso, ma ognuna conserva gelosamente nel cuore il ricordo di quegli anni, di quelle novene. Quando rivedo qualcuna di queste compagne (avviene raramente), è come se ci fossimo lasciate il giorno prima: tutto il resto della vita, quella parte più importante, quella in cui ci siamo realizzate, (ma è vero?), i moltissimi anni che ci separano da quel tempo, scompaiono; non parliamo o parliamo poco di questi anni, e sono pur tanti, parliamo invece di quel tempo: ti ricordi…  ti ricordi… e mi accorgo che i ricordi sono  nitidi, il tempo trascorso non li ha opacizzati, anzi… li ha caricati di dolcezza; eppure ognuno di noi ha tanto  di più oggi di allora, ma il periodo mitico, fatato dell’esistenza rimane solo e soltanto quello.

* * *

Mentre noi ragazzi impiegavamo il nostro tempo libero per l’allestimento del presepe, nonna e zia erano indaffarate a preparare i dolci natalizi: cominciavano con il “latte di mandorla” (non ha nulla da spartire con l’attuale latte di mandorle che si vende nei bar) che richiedeva molto lavoro: si mandava innanzitutto qualcuno di noi dalle “Monacelle” a prendere il quantitativo di amido (a posm) necessario per un chilo di mandorle (soltanto queste suore sapevano la quantità necessaria e vendevano l’amido a quei tempi); poi mandorle e zucchero si portavano dal “caffettiere” Caforio, nostro amico ed anche un po’ parente, perché le macinasse (non c’erano i frullatori); quando l’impasto era pronto, veniva per me il momento più emozionante: nell’ampia cucina “monacale” il fuoco sotto la caldaia ardeva per avere pronta l’acqua calda e nello stesso tempo per raccogliere i tizzoni e sistemarli in una “furnacedd” su cui, di lì a poco, sarebbe stata sistemata una caldaia particolare, “a callaredd”, all’interno “stagnata”, che serviva esclusivamente per la cottura del latte di mandorla. Mia nonna prendeva un panno bianchissimo, dalla trama un po’ larga (sempre lo stesso, che serviva soltanto per questo) e lo sistemava su di un ampio recipiente; nel panno si poggiava la pasta di mandorle e mia zia, mentre io e mia nonna tenevamo gli angoli del panno ben tirati sul recipiente, versava acqua tiepida sull’impasto. Era bellissimo allora vedere quest’ acqua lattiginosa scendere nel recipiente, poco per volta, affinché lo zucchero contenuto nella pasta si sciogliesse bene; quando questa operazione era finita, nonna stringeva nel panno l’impasto quasi secco e poggiava questa specie di “fagotto” in una coppa (più tardi noi ragazzi avremmo fatto razzia di quella pasta mescolandovi un po’ di zucchero); il latte ottenuto veniva versato nella piccola caldaia e cominciava la fase “cottura”, una fase lunga, minuziosa; ad un certo momento (non so quale) della cottura, veniva aggiunto l’amido e, verso la fine, quando questo latte “aprèv ‘vgg”, cioè cominciava a bollire (ma molto lentamente), si aggiungevano i “vrmcidd”, una pasta ridotta in “vermi” finissimi e piccolissimi, che nonna aveva confezionato un po’ per volta, conversando con le amiche intorno al braciere, la sera, tenendo poggiato un panno bianco sulle ginocchia; per quel che ricordo, questi “vermicelli” dovevano stagionare un po’ perché fossero buoni all’uso e non so con quale tipo di farina dovevano essere fatti.

A questo punto il latte cominciava a condensarsi e bisognava girare, con un cucchiaio di legno, sempre nella medesima direzione e molto lentamente; mentre nonna era intenta a questo delicato compito, zia riempiva l’ampio tavolo della cucina di coppe di diversa misura (una sola, grande, dal bordo azzurro, sempre la stessa, che ancora conservo, serviva per la famiglia), non molto grandi in quanto erano destinate quasi tutte ad amici e parenti.

Quando tutto il latte era stato versato nelle coppe, allora si ricopriva, quasi per intero, la superficie di ogni coppa, di cannella, pestata nel mortaio di bronzo (mentre ancora il latte bolliva sulla fornacetta), per cui non si aveva quella polvere finissima, uguale, che oggi possiamo acquistare, ma una polvere irregolare, frammista con pezzi di cannella. L’odore intenso di questa spezia si spandeva nella casa ed io ne ero inebriata (ecco perché l’odore di cannella mi riporta sempre, di colpo, in quella cucina della mia infanzia e provo, sino ad esserne dilaniata dentro, lo spasimo che questo “frammento” di ricordo mi provoca).

L’antivigilia di Natale si preparavano le “cartddèt” e i “purcidd”: ricordo la sfoglia sottile che serviva per le “cartellate”, che da noi avevano una sola forma: la sfoglia veniva tagliata in lunghe strisce con una “rotella” seghettata, che rendeva smerlati i bordi di questi nastri di pasta; poi queste strisce venivano tagliate in rettangoli e mia nonna, con il pollice e l’indice della mano sinistra (nella destra aveva la “rotella”), “pizzicava” questi rettangoli trasformandoli in farfalle (così lei le chiamava e così apparivano ai nostri occhi).

Mia zia attendeva alla frittura e queste farfalline avevano il colore dell’oro antico quando uscivano dalla padella. Con la stessa pasta, ma ridotta in piccoli dadi, venivano confezionati i “purcidd”: questi dadi, passati con abilità sorprendente su di una vecchia grattugia, si trasformavano in tante conchigliette dal guscio riccio; dopo la frittura, passavano nel tegame in cui bolliva miele misto ad acqua ed infine venivano sistemati nei piattini della frutta; in qualche piatto grande si faceva la composizione di “ca1tellate” e “purcidduzzi”, non mescolati insieme, ma poste le une accanto agli altri e su tutti un velo di cannella.

Non va trascurato il fatto che tutti questi lavori venivano eseguiti nel primo pomeriggio e si protraevano sino all’imbrunire; per l’ora del Vespero quasi tutto doveva essere ultimato perché nonna doveva andare in chiesa per la funzione “serale” in quanto la vita, allora, in casa, era realmente scandita dai tempi “religiosi”: nonna iniziava la sua giornata con l’ascoltare la Santa

Messa e la concludeva con la recita dei Vespri.

La vigilia di Natale si preparavano gli ultimi dolci, detti “intrém d’ vicch” e le “péttul”; dei primi è rimasto il ricordo presso qualche anziano, ma forse nessuno più, al mio paese, li prepara; eppure erano buonissimi: la pasta sfoglia veniva tagliata in strisce larghe appena un dito e veniva cotta, mescolata a noci e “passul” (uva zibibbo) dentro “u cutt”, una specie di miele nero, fatto col mosto (al momento della vendemmia), di cui si va perdendo ormai l’uso (il procedimento di cottura del mosto per ricavare questo “miele nero” è lunghissimo e richiede molta cura; nella mia infanzia, dopo la vendemmia, in campagna, da noi, si preparava ed era qualcosa di “divino”). Anche le “pettole” si bollivano nel “cotto” (mai nel miele) ed erano le ultime a venire preparate perché una parte si consumava solo fritta, la sera della vigilia. Non c’era l’uso, a casa di nonna, di nessuna cena in comune, la sera della vigilia: i “grandi” rispettavano la vigilia per cui a mezzogiorno noi  ragazzi mangiavamo qualche panino e la sera si mangiavano vermicelli con il baccalà, “in bianco”, il capitone (mio nonno era napoletano e questa tradizione era entrata nella nostra famiglia), finocchi, frutta secca e “pettole”.

Dopo cena cominciavano i vari giochi in attesa dell’ora della Messa; non sempre i più piccoli riuscivano ad attendere la tarda ora e se ne andavano a dormire; io non ho mai rinunciato alla Messa di mezzanotte, neppure quando c’era la neve e volevano impedirmi di uscire; non valeva allora nessuna autorità; tanto strepitavo che, alla fine, tutta “imbacuccata”, mi lasciavano andare dalle Suore.

Al rientro dalla chiesa, si prendeva Gesù Bambino e lo si sistemava nella grotta, accendendo le luci per tutta la notte.

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