Gastronomia. La lectio di Massimo: tutto sulle frattaglie

Pieter Aertsen Butcher’s Stall with the Flight into Egypt; Oil on wood panel

FRATTAGLIE, RIGAGLIE & CO.

di Massimo Vaglio

Sono sempre più le persone che sentendo parlare di frattaglie arricciano il naso. Quasi sempre si tratta di un’antipatia preconcetta, completamente scollegata  da quelle che sono le caratteristiche organolettiche e nutrizionali delle stesse; un pregiudizio che, come spesso avviene, è originato da una scarsa conoscenza dei prodotti in questione e da una certamente scarsa cultura gastronomica. Ne è riprova la circostanza che vi sono frattaglie molto apprezzate in alcune località e ignorate o comunque poco consumate in altre. Può così capitare di trovarle in vendita, a seconda dei luoghi, a prezzi infimi o molto sostenuti.

Quello delle frattaglie è comunque un argomento molto ampio con implicazioni che vanno ben oltre la gastronomia, la loro valorizzazione rappresenta un virtuoso esempio di utilizzo razionale delle risorse messeci a disposizione dalla madre terra, un dovere morale, che asseconda il principio: utilizzare tutto, per nutrire tutti.

Oltre all’animalismo in senso stretto, la motivazione che spinge molte persone a diventare vegetariane è di carattere etico, in quanto, se si considera che un ettaro di terreno coltivato a cereali produce il quintuplo delle proteine di un ettaro utilizzato per la produzione di carne.

Che i legumi producano dieci volte quelle proteine e i vegetali a foglia quindici volte le proteine per ettaro di terreni di pari dimensioni destinati alla produzione di carne, si comprende come la produzione di carne sia la principale causa dell’ingiusta distribuzione delle risorse alimentari del pianeta e condanni indirettamente alla fame centinaia di milioni di esseri umani. Se a questo si aggiunge il fatto che nel mondo industrializzato la tendenza è sempre più quella di consumare solo i tagli di carne più magri e pregiati con un enorme spreco di biomassa per ogni capo macellato, si capisce come, sempre più persone consapevoli, comincino a ritenere politicamente scorretto mangiare la carne.

Per non parlare del fatto che la produzione di carne è ritenuta dalla comunità scientifica mondiale la seconda causa del cambiamento del clima, a causa delle enormi emissioni di biogas.

Quanto sopra, dovrebbe costituire una motivazione più che valida per un nuovo approccio verso le carni, facendoci razionalmente scrollare di dosso i pregiudizi verso le frattaglie e tutti quei tagli ritenuti meno pregiati, ma che in realtà posseggono caratteristiche organolettiche e nutrizionali simili se non superiori a quelli dei tagli considerati pregiati.

Joachim Beuckelaer Köchin mit Geflügel 1500

Un recupero di queste parti, è un dovere contro lo spreco e il consumismo proprio della cosiddetta società industrializzata, ancora una volta ci può venire in aiuto la nostra grande cultura gastronomica.

Con il generico termine di frattaglie, tradizionalmente si intendono tutti gli organi contenuti nella cavità toracica e addominale dei quadrupedi domestici: bovini, equini, ovini, suini… . Quindi, dopo la macellazione e la suddivisione dei quadrupedi in  mezzene o in quarti, quanto ne risulta viene fatto comunemente rientrare nella categoria delle frattaglie.

L’insieme di tutte queste parti viene tecnicamente e più propriamente appellato quinto quarto, tale definizione deriva dal fatto che l’importo che un tempo si ricavava dalla loro vendita equivaleva all’incirca a quanto si ricavava dalla vendita di un intero quarto dell’animale.

Per cominciare a mettere ordine in questa delicata materia cominciamo a stabilire che le frattaglie appartengono tutte al quinto quarto e si suddividono in  frattaglie bianche, frattaglie rosse e parti o tagli assimilati. Le frattaglie rosse comprendono: le animelle, alcune parti dell’intestino (pajata etc.), il polmone e la trippa (prestomaci). Quelle rosse sono: il cuore, il fegato, la milza e i rognoni. Vengono pure comunemente assimilati alle frattaglie altri organi quali, le mammelle, i testicoli, il cervello, il sangue, i filoni o schienali, ma pure gli stinchi, il muso, la lingua, le guance, le orecchie, il diaframma…

Ovviamente, sarebbe troppo lunga e tediosa un’analisi completa delle prerogative di ognuna di queste parti, atteso che ognuna di esse, anche quella apparentemente più negletta è protagonista nella nostra penisola di una lunga serie di ottimi piatti regionali, ci soffermeremo così su quelle frattaglie che supportano alcune preparazioni peculiari del nostro Salento.

Fra le frattaglie universalmente più apprezzate si annoverano le animelle. Le migliori fra queste sono quelle d’agnello, seguite da quelle del vitello; si tratta delle ghiandole del timo, delle salivari e del pancreas. Tutti i testi di cucina classica da Escoffier a Pellaprat,  pullulano di raffinate ricette sulle animelle. Vincenzo Tanara (1603-1667) le definì: “honore de’ conviti, delizie de’ golosi, ristoro degli ammalati”. Nel Salento, un tempo erano molto apprezzate e richieste, anche se venivano ammannite quasi sempre in ricette molto semplici o arrostite alla brace.

Da qualche decennio sono cadute in pressoché totale disuso, rimangono infatti a pressoché esclusivo appannaggio di pochissimi estimatori o degli addetti alla macellazione. Fra i miei ricordi gastronomici più interessanti, annovero alcuni spuntini mattutini a base di animelle arrostite direttamente sulla lamiera dell’inceneritore di un macello.

Con il termine gastronomico di trippa si indicano i prestomaci e lo stomaco vero e proprio dei ruminanti da macello: bovini, ovini, caprini e bufalini, ovvero, rumine, reticolo, omaso e abomaso. Il rumine o pancione si trova dopo l’esofago ed è costituito da un tessuto spesso e spugnoso, segue il reticolo dall’aspetto di nido d’ape, popolarmente appellato cuffia, il prestomaco successivo è l’omaso, inconfondibile perché formato da tanti fogli sottili e per questo appellato foiolo, centopelli, centopezze etc. costituisce la parte meno grassa e più delicata delle trippe. Infine c’è l’abomaso (il lampredotto dei toscani), ovvero lo stomaco vero e proprio, comunemente detto “quaglio”, in quanto, da quello dei vitelli e degli agnelli non svezzati si ricava il caglio per la caseificazione.

Per ogni ricetta, è sovente indicata una di queste distinte parti, quindi è quantomeno superficiale usare il generico termine trippa. Nel Salento, il piatto più peculiare che se ne ricava sono i cosiddetti “gnummarieddhri”, di trippa. Si tratta di involtini ricavati dall’omaso (“centupezze”), variamente farciti, legati con refe o con budelline e portati a cottura in un blando intingolo a base d’ortaggi. Altri piatti peculiari sono il cosiddetto “cularinu”che sarebbe l’intestino retto, e la cosiddetta “matriata” (la pajata dei romani), ossia l’intestino tenue dei bovini,  la cui tradizione è rimasta sempre circoscritta alla città di Lecce, ove viene preparata soffritta e alla genovese.

Se è superfluo parlare dei ben noti turcinieddhri, che costituiscono una tradizione dell’intera Puglia, lo è sicuramente meno aprire uno scorcio sulle frattaglie equine che, cosa più unica che rara, trovano nel Salento magistrali esecutori, di insospettabile bontà i cosiddetti “quataroni” (calderoni )  tradizione soprattutto di Nardò e Galatone.

Le analoghe parti dei volatili da cortile vengono invece dette rigaglie, ed è fra queste che troviamo l’eccellenza della categoria con il prelibatissimo foie gras, onore e vanto della cucina francese e spina nel fianco degli animalisti, ovvero con il fegato grasso d’oca.

Per quanto attiene il Salento, come per il maiale e come abbiamo visto per il cavallo, anche di polli e galline non si butta, o meglio non si buttava via niente. Lla regola prevedeva che la macellazione dovesse essere eseguita con la classica tirata di collo, in seguito alla quale, appendendo il malcapitato a testa in giù, il sangue sarebbe affluito nel collo, ove si sarebbe coagulato andando così a costituire un prelibato boccone. Persino le zampe, previa scottatura, venivano cucinate. Fegato, cuore e ventriglio, sovente venivano avvolti con le budelline dello stesso animale e cotti nel brodo o nel sugo. La testa, le creste, le gonadi e persino le uova non ancora sviluppate, costituivano dei bocconi prelibati premurosamente riservati ai bambini.

Non si può chiudere quest’argomento senza accennare alle frattaglie di pesci e molluschi marini. Pensate che dei tonni, oltre alla polpa, vengono utilizzate un’altra ventina di parti. Fra queste: le sacche ovariche e spermatiche (lattume), il cuore, lo stomaco, le budelle e persino gli occhi e le labbra. Nel Salento sono molto apprezzate tutte le interiora della cernia, branchie comprese, quelle della pescatrice, il fegato di diversi pesci quali il nasello, la torpedine, la razza e il grongo. Le sacche ovariche di molte specie ittiche e il fegato e la sacca del nero (“melana”) dei polpi e delle seppie. Nessuno arricci il naso, anche il caviale è una frattaglia!!

 
 

 

Joachim Beuckelaer 1566

 

 

Involtini di trippa e “cularinu”   

Gli involtini di trippa rappresentano spesso il non plus ultra delle specialità che si possono trovare nel menu delle ultime “ botteghe di vino” salentine ovvero nelle caratteristiche osterie con mescita.

Per prepararli procuratevi dell’omaso di vitellone (centopelli), tagliatela a quadri della grandezza del palmo di una mano e farcite ognuno di questi con, formaggio piccante, pepe nero, prezzemolo o sedano, una punta di aglio e mortadella tagliata a listarelle. Arrotolateli facendo in modo di chiudere le estremità, bloccateli con del filo di cotone bianco, e fateli cuocere a fuoco lento in una blando sugo di pomodoro a base o in una sorta di denso brodo ottenuto facendo cuocere fino al disfacimento degli ortaggi: patate sedano e carote nel brodo. Con lo stesso procedimento potete  preparare anche le trippe di pecora e agnellone, lo stomaco del maiale ed anche il “clarino” che sarebbe l’intestino retto dei bovini, che una volta farcito con un miscuglio di pecorino, pangrattato, prezzemolo pepe nero, salame e uova sode,   vista la forma allungata basterà cucire solo dalle estremità e una vola raffreddato, si potrà tagliare a fettine e servirlo bagnato dal suo sugo di cottura bollente.

Il calderone, ovvero, lu quatarone

Il calderone, in gergo detto, quatarone o quatarottu, a seconda delle dimensioni della caldaia che si adopera per cuocerlo, è un piatto che abitualmente si prepara in diversi paesi del Salento con cadenza settimanale, di solito nella serata o nel giorno avanti a quello di macellazione, poiché, la sua base, è costituita da ogni tipo di frattaglie, e tagli assimilati, quasi sempre equini, sapientemente lavati e talvolta sbollentate, per attenuarne eventuali sapori e odori forti. Generalmente vengono preparati da esperte massaie in locali attigui alle macellerie equine e venduti a porzioni che impazienti avventori consumano sul posto o portano a casa riempiendo recipienti, dalle più disparate fogge, che si sono portati dietro.

Proprio nel valorizzare nell’insieme parti altrimenti poco appetibili, risiede il segreto di questa intramontabile preparazione. Le varie parti devono essere tagliate a pezzi, operazione che ne facilita la pulitura, gli intestini devono essere preventivamente lavati in acqua e limone, raschiati e sbollentati; le altre parti quali le spolpature della testa, la coda, la lingua, la trachea, la milza ed i nervetti ricavati dagli stinchi verranno pure ben lavati e sbollentati. Altra caratteristica, è che la cottura deve essere eseguita obbligatoriamente al fuoco di legna, o se si tratta di piccoli quatarotti anche in forno a legna. Assodato questo importantissimo particolare, passiamo alla preparazione: preparate un intingolo composto da pomodori pelati, conserva di pomodoro, cipolla, carota, sedano e prezzemolo, sale, peperoncino, qualche foglia di alloro e poca acqua e fatelo cuocere sino a che i componenti si saranno quasi completamente disfatti ed amalgamati. A questo punto, allungate con acqua, riportate ad ebollizione e aggiungete le carni preventivamente sbollentate e tagliate a pezzi. La cottura dovrà essere lenta e si dovrà protrarre per almeno tre quattro ore sotto attenta sorveglianza, il sapore e l’odore vi avviseranno quando sarà pronto. Ovviamente il quatarotto può essere anche preparato utilizzando solo pezzi di carne prelevati da tagli di maggior pregio, ma il risultato è a mio modesto parere decisamente inferiore, anche perché la carne sazia molto di più delle frattaglie, ed il piacere di questa preparazione, consiste proprio, nel farsi delle grandi scorpacciate. I generosi, vini rossi salentini, di Negramaro o di Primitivo, accompagneranno eccellentemente questo piatto.

Cervello in cappone (cervello gratinato)

La denominazione di questa ricetta (cervello in cappone) ha dato adito per molto tempo ad un equivoco: il popolino credeva infatti che si trattasse di cervelli di cappone, che venivano sacrificati in massa solo per ricavarne il cervello da servire durante sontuosi convivi. Da qui lo scaturire di coloriti racconti, in cui spesso si attribuiva a tali spropositi gastronomici la rovina di molte famiglie nobili. Lavate, lessate il cervello, lasciatelo raffreddare e tagliatelo in fette spesse circa due centimetri e quindi a pezzetti. Preparate un composto aggiungendo al pangrattato, pepe nero macinato, sale fino e prezzemolo tritato. Passate velocemente i pezzi di cervello in olio extravergine d’oliva, rigirateli nel pangrattato condito e adagiateli in una teglia foderata con carta da forno unta di burro. Fateli gratinare in forno caldo onde fargli ottenere un’invitante colorazione dorata e servite subito.

Marende di pane cu la melàna di purpu

Tartine al nero di polpo

La melana, dal greco melànos, cioè nero, si riconosce, una volta rivoltata la sacca per l’aspetto di una piccola patata di colore brunastro, invero si tratta di due distinti organi; il fegato racchiuso in un’unica membrana e una piccola vescichetta strettamente aderente alla prima, che contiene l’inchiostro usato dai polpi, come dagli altri Cefalopodi per sfuggire ai predatori. Fate scaldare in una padella un filo di olio extravergine d’oliva unite una mezza cipolla tritata molto finemente e appena questa sarà appassita un po’ mettetevi la melana che avrete cavato da due chilogrammi di polpi, e amalgamate con un cucchiaio di legno. Aggiungete velocemente un pugno di pangrattato e due cucchiai di capperi sott’aceto tritati grossolanamente, incorporate il tutto mescolando e diluendo con un bicchiere d’acqua. Quando il composto avrà ripreso densità, aggiungete una cucchiaiata di Gavoi (pecorino sardo), un pizzico di pepe nero o del peperoncino fresco affettato a rotelline, mescolate il tutto e sarà pronto da spalmare su fette di pane pugliese casereccio fresco tagliato a fette sottilissime. Questa prelibatezza a base di frattaglie marine si può considerare il caviale della cucina pugliese.

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3 Commenti a Gastronomia. La lectio di Massimo: tutto sulle frattaglie

  1. Non so se qualcuno di voi è vegetariano o frequenta assiduamente vegetariani, so in compenso che certamente anche qui essere vegetariani significa far parte di una sparuta e numericamente insignificante minoranza (ammesso sempre che il sottoscritto non sia l’unico e solo!).
    Ebbene per farvi capire come si vive da questa parte del cosmo, vorrei farvi un elenco ragionato delle miserie e dei fastidi cui è sottoposto costantemente un vegetariano (specialmente in Italia), sperando che questo mio sfogo possa servire anche a chi vegetariano non è, suggerendogli cosa evitare per non angustiare il prossimo vegetariano che avrà tra i piedi (devo dire subito che esiste tuttavia anche una razza di vegetariani specializzata ad angustiare gli onnivori).
    Tra le prime fatiche che un vegetariano affronta quotidianamente vi è proprio quella sensazione di far parte di una comunità microscopica, di essere una mosca bianca e in qualche modo un diverso. Ora, a questo senso di particolarità ognuno reagisce a modo suo, andando per generalizzazione i due atteggiamenti discordanti di fondo più riscontrabili sono da un lato quello di chi fa del proprio vegetarianesimo una bandiera da sventolare sempre e ovunque alla minima occasione (anche per abbordare, perché fa figo talvolta) come se fosse un segno di eroismo e levatura morale (atteggiamento questo che nasconde una scelta non matura e convinta di essere vegetariano), dall’altro lato c’è invece l’atteggiamento di chi discretamente se lo tiene per se pensando giustamente che i suoi modi di alimentarsi non debbano per forza interessare milioni di individui.
    Diciamo subito che i guai veri esistono per quest’ultima specie di vegetariano, il personaggio discreto che non vorrebbe convincere nessuno a diventare come lui, non si sente affatto migliore degli altri per come mangia né vorrebbe tanto meno essere ad ogni occasione sollecitato a “diventare normale” da fortuiti ed occasionali filantropi pseudo-scientifici interessati ad offrirgli consigli non richiesti su come nutrirsi correttamente. In questi incontri occasionali (cene, serate in compagnia, cerimonie e festività, conoscenze con nuove persone in gruppo…) il povero vegetariano è costretto a subire un elenco sterminato di piccole ma fastidiose scocciature. Mi limiterò a esporre le più frequenti. Non manca mai per esempio durante una di queste serate l’amico dell’amico che, appena si rende conto di avere per le mani un vegetariano non vede l’ora di adoperarsi immediatamente a ravvivare gli umori del malcapitato illustrandogli con fare didattico e pedante l’assoluta necessità delle fantomatiche proteine nobili contenute nella carne. Questa diffusa razza di chiacchieroni inguaribili tende in genere a guardare con una certa commiserazione il suo interlocutore, commiserazione che si trasformerà necessariamente in scherno non appena arrivano in tavola le portate di carne: qui l’atteggiamento del chiacchierone diviene meno didattico e, sorridendo mentre addenta compiaciuto il suo pezzo di carne, vi regalerà “simpatiche” battutine che dovrebbero zittirti completamente, del tipo “e poi come si fa a dire di no a questo profumino?!” oppure “e poi chi te la fa fare?”. Per il vegetariano non c’è verso di far comprendere al chiacchierone che per lui la carne costituisce solo un disgustoso pezzo di cadavere, l’unico effetto che questa reazione sortirebbe sarebbe infatti solo l’ennesima interminabile lezione sull’alimentazione equilibrata ecc.
    Il secondo tipo di scocciatori che il vegetariano deve sorbire è lo scettico. Costui –che in realtà non vedeva l’ora di intervenire- in genere inizia ad affacciarsi alla discussione quando in tavola compaiono pietanze a base di uova o formaggi, alla presenza delle quali lestamente sbotterà: “allora non sei un vegetariano! Mangi le uova e i latticini azz! Sei un mostro come noi dunque”. Per il vegetariano non c’è verso di fargli notare che quelli che non mangiano neanche uova e latticini sono i vegani (e non i vegetariani), lo scocciatore in questione non è infatti disposto ad apprendere certe distinzioni e preferisce continuare a sbirciarvi con uno sguardo che sembra dire: “caro mio, a me non mi fai mica fesso!”. Qualora poi si riuscisse a fargli faticosamente digerire la suddetta distinzione lo scettico terminerà il proprio intervento con una mossa che dovrebbe definitivamente dimostrare a te stesso e agli altri l’autoillusione di cui eri vittima: “E le piante cosa sono? Non sono esseri viventi? Lo vedi che sei un mostro come noi?!” oppure, peggio ancora “azz fumi? Ma allora non sei affatto tutta sta perfezione!”. Insomma, lo scettico è interessato a convincerti del fatto che non sei un santo, peccato però che sia stato sempre e solo lui a pensarlo.
    Andando oltre, alla schiera della terza specie di scocciatori appartengono per lo più individui di sesso femminile. Sollecitate forse dal proprio senso materno (per cui le dirò le maternaliste), questo genere di scocciatrici è convinto per qualche strana ragione di doverti soccorrere e proteggere dalle insidie del mondo esterno. In genere queste si introducono nel discorso per dimostrarti che non sei solo e incompreso e che hai tutta la loro considerazione nel portare avanti le tue convinzioni. Così, nonostante i loro migliori propositi, queste fanciulle (quasi sempre di sinistra) finiscono per martoriare il vegetariano trattandolo come un patetico essere indifeso e incoraggiandolo con frasi del tipo ”Io ti capisco…sai, anche io odio mangiare il pesce” oppure “anche io vorrei diventare come te…ma a casa è mia madre che cucina”. Il vegetariano farebbe una gran fatica a scrollarsi i pregiudizi di queste ma non ci pensa minimamente perché ciò quasi mai gli conviene. Per le maternaliste un vegetariano è infatti spesso uno spiritualista, un adorabile poeta, un sensibile o, a seconda dei gusti, un amabile pacifista, una specie di hippy-fricchettone, un idealista o addirittura -se la maternalista in questione è intrisa di pratiche e dottrine modaiole new-age- il malcapitato può diventare un esempio di saggio sulla via della liberazione. Insomma, queste tendono a proiettare alcune caratteristiche del proprio stereotipo di uomo ideale sul vegetariano che, per non deluderle, mentre parla con una di loro non può comportarsi come vorrebbe veramente, ossia bevendo ettolitri di birra e concentrando le sue attenzioni sulle abbondanti curve della sua interlocutrice. Insomma, con una maternalista a tavola il vegetariano rischia quasi sempre di doversi alzare da tavola sobrio, con un affettato sorriso da ebete in faccia e, come se non bastasse, pienamente informato dei soprusi che subiscono le donne angolane nonché dello sfruttamento delle miniere africane da parte delle multinazionali occidentali.

    • grande Pier Paolo, che bella lezione ci hai dato! Proprio una giornata di lectio questo 9 aprile! Ti sarai accorto che la tua conversione sta facendo proseliti. Non diverrò mai come te, ma cerco di emularti come meglio posso.
      Marcello

  2. Ricetta con LU MILANU TI LU PURPU
    In una pentolina versate dell’ABBONDANTE olio d’oliva ed uno spicchio d’aglio, mettere al fornello e cuocere a fuoco lento, prima che l’aglio inizi a rosolorasi toglietelo e buttatelo via, non bisogna farlo rosolare altrimenti il suo forte odore impregnerà e coprirà tutti gli altri sapori. Immediatmente dopo immergete nell’olio caldo LU MILANU unitamente alle parti terminali dei tentacoli, LI COTE TI LU PURPU, che nel frattempo avete provveduto a tagliare a pezzettini, versateci un pochino di buon vino bianco secco e a pentola scoperta far cuoecere il tutto per qualche minuto, poi fatelo raffreddare e aggiungete una spruzzatina di pepe ed un trito di prezzemolo. Questo preparato è ottimo per inzuppare delle fette di pane casareccio oppure per condire dei bei piatti di linguine. Naturalmente deve essere accompagnato da un ottimo vino bianco o meglio ancora con dello spumante secco

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