Il culto di Sant’Antonio da Padova in Capitanata

Orta Nova (FG) Statua di S. Antonio da Padova (ph. Savino Gaeta)

di Lucia Lopriore
“L’Autentico religioso appartiene concretamente al piano della storia. Non collegato solo a periodi intrisi di forte spiritualità e di magistero della chiesa, come il Medioevo o l’età della Controriforma, si manifesta comunque di più quando il “silenzio di Dio” nelle tragedie collettive esaspera la valenza negativa del quotidiano. Con il suo potenziale di annuncio e liberazione, l’autentico religioso continua a rimanere elemento coagulante delle comunità che avvertono vivo il senso del sacro. E questo è ancora coglibile nei centri minori dove la carica culturale tradizionale, incarnata nelle forme della religiosità popolare, resiste meglio alla speculazione razionale e all’imperativo  della tecnologia che irrompe con le sue liturgie.”

Così esordisce Filippo Fiorentino, storico scomparso di recente, parlando della devozione per la religiosità popolare in relazione ai culti presenti nel Gargano.

In particolare, secondo Fiorentino, in quest’area il fenomeno religioso continua ad alimentare processi di coesione sociale, senza essere però solo esperienza storica di rapporto culturale che funziona nella quotidianità o solo coinvolgimento che legittima la realtà sociale plasmandone, attraverso il Vangelo, gli stili di vita e le scelte. La fede ha incontrato sempre la vita, il sentire, l’operare, il produrre della gente.

Nelle turbolenze esistenziali, nella ricerca del benessere e del progresso tecnologico, le comunità “marginali” del Gargano hanno sperimentato sia liberazione che secolarizzazione attraverso la dimensione culturale, attraverso la figura di affidamento miracolistico del Santo protettore. Così il culto per Sant’ Elia patrono di Peschici, o per San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, o per San Valentino a Vico, o per altri santi patroni venerati in questa zona, rappresenta l’evento determinante per la popolazione del luogo.

Il Gargano è da sempre la terra delle tradizioni. Osservando più da vicino questo fenomeno strettamente connesso a contesti di religiosità popolare, emerge lo stimolo per analizzare attentamente tale fenomeno attraverso la devozione dei Santi patroni.

Da tempi immemorabili, in ogni centro urbano che si rispetti tutti dovevano contribuire ai festeggiamenti del Santo patrono. Artigiani, commercianti esercenti arti e professioni ogni anno erano invitati a versare laute somme per le spese dei festeggiamenti.

Alcune categorie, come ad esempio quella degli appaltatori, erano obbligate dai comuni a versare una quota sugli appalti (vendita di carne, farina, neve, sale, ecc.) stipulati; tale somma era destinata ai festeggiamenti del Santo patrono del paese.

Questo avveniva in tutti i centri del Tavoliere, del Subappennino e del Gargano.

Anche per Sant’Antonio da Padova, festa che ricorre com’è noto il 13 giugno, il culto e la religiosità dei garganici è tanta ed ancora oggi è in uso il detto ci vò pinzà jisse, Sant’Antonii, che fa tridici grazie o jùrne (speriamo che ci pensi Sant’Antonio che elargisce tredici grazie al giorno!).

A Peschici scrive Angela Campanile, studiosa di tradizioni, erano molti coloro che si affidavano a questo Santo. I miracolati il giorno della Sua ricorrenza portavano in chiesa i cesti di pagnotte di pane; dopo la benedizione le pagnotte erano distribuite ai poveri che, per l’occasione, si facevano trovare dietro la porta della chiesa. La quantità di pane da offrire ai poveri variava secondo le condizioni economiche di chi lo prometteva; c’era chi ne faceva persino un quintale. Ancora oggi qualcuno, la mattina del 13 giugno, porta in chiesa qualche pagnotta di pane, che dopo la benedizione viene diviso tra i  fedeli presenti che, prima di mangiarlo, lo baciano perché benedetto e quindi santificato.

La tradizione vuole che chi mangia il “pane di Sant’Antonio” viene protetto dal Santo tutto l’anno.

Anticamente la festa di Sant’Antonio era preceduta dalla “tredicina” tredici giorni di preghiere ed inni in onore del Santo. La chiesa a Lui intitolata era gremita di donne, soprattutto di ragazze che in quel periodo non avevano lavori in campagna cui assolvere. Era usanza che i ragazzi, tornando dalla campagna portassero un’erba con palline appiccicose, i cìciche e si divertivano poi a tirarle contro i capelli delle ragazze che uscivano dalla chiesa le quali, fingendo di disapprovare, erano in cuor loro compiaciute. Tale tradizione si intensificava man mano che si avvicinava il giorno della ricorrenza e raggiungeva il culmine alla vigilia, intorno al falò, e per l’intera serata ci si divertiva così: in fondo era una delle poche opportunità che i ragazzi e le ragazze avevano per stare insieme.

Non molto diversa è l’usanza in altre zone della Puglia. Spostandoci nel panorama del Subappennino Dauno  ad esempio nella cittadina di Sant’Agata di Puglia, apprendiamo che qui tutti i devoti con abbondante anticipo si preparavano per la festa. Sarti, calzolai, lavandaie erano impegnati per esaudire le molteplici richieste.

Un’usanza antichissima in auge fino a tempi recenti era quella di riempire i cesti di frutta fresca e fiori con grossi fazzoletti annodati come bandiere svolazzanti, portati a braccia dai ragazzi più corpulenti lungo la strada alternandosi  e regolando gli sbalzi con le funicelle annodate alla punta dei cesti.

All’alba si muoveva un corteo formato dal popolo che partiva dalla chiesa dell’Annunziata ed arrivava al castello.

La processione era seguita da sette confraternite vestite di bianco con la mozzetta di colore diverso con la croce distintiva del proprio Ordine. Seguivano schiere di fanciulle vestite di bianco con fasci di gigli e fiori che sfilavano tra i confratelli a fiancheggiare il Santo preceduto dal Clero e seguito dai graziati. In ultimo seguiva il popolo a piedi nudi che recitava il rosario seguito dalle donne anch’elle scalze seguite dai fanciulli che inneggiavano al Santo.  Via via che sfilava la processione le case lungo le strade erano ornate di gigli e dai piani superiori sventolavano le coperte di seta in onore del Santo.

In questo giorno sin da tempi remoti, ogni attività di mietitura era sospesa. Non farlo avrebbe significato suscitare l’ira del Santo che avrebbe fatto incendiare il mietuto.

Altra usanza devozionale tuttora praticata era la distribuzione del pane benedetto nel giorno della sua ricorrenza.  Ad esso erano attribuite proprietà taumaturgiche, come quando cotto e condito con olio era applicato sui seni  delle mamme per aiutare la produzione di latte.

La tradizione narra che questo rito del pane sia legato ad un miracolo: una madre ottenne dal Santo la resurrezione del figlioletto annegato con la promessa di dare ai poveri tanto grano quanto fosse il peso del figlio. Perciò fu eletto protettore dei bimbi e degli orfani. Fino a tempi recenti era in uso o per grazie ricevute o per porre il bimbo sotto la protezione del Santo vestire i bimbi con il saio dei monaci “munecacièrre”. La durata del voto era di tredici mesi e al termine del periodo il vestitino o si bruciava o lo si donava ai monaci.

Il Santo è anche protettore delle messi per due miracoli compiuti: nel primo liberò un campo di grano dagli assalti degli stormi di passeri e nel secondo assicurò una rigogliosa mietitura  al padrone di un campo, a risarcimento del danno arrecato dal calpestìo dei fedeli che si recavano ad ascoltare la sua predicazione. Alcuni giorni dopo la festa si sfilava in processione verso il ponte, dove rivolgendo la statua verso la pianura, si benedicevano i campi.

Bibliografia essenziale

Bertoldi Lenoci L. e Rauzino T. M.  (a cura di), AA.VV. Chiesa e religiosità popolare a Peschici, Centro Studi Martella, Vieste 1999.

Campanile A., Peschici nei ricordi, Centro Studi Martella, Foggia 2000.

Letterio R., Momenti di Religiosità popolare a Sant’Agata di Puglia, C.R.S.E.C., Foggia 2001.

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