L’abbaglio della cicerchia

 

di Giorgio Cretì

Periodicamente, nel corso della storia della cucina hanno avuto luogo movimenti per il  ritorno ai prodotti naturali e periodicamente si è ricaduti nell’errore di puntare più sulla moda che sulla genuinità. All’epoca di Apicio non c’era piatto che non contenesse il garum, ci fu poi un tempo in cui ogni pietanza era sommersa dalle spezie orientali, oggi siamo nell’era del dado, del glutammato monosodico.

Avviene poi che qualcuno si ribella, e torna alla cucina contadina, o perlomeno in essa cerca ispirazione per la propria arte, a volte prendendo anche lucciole per lanterne. L’ulltimo grande abbaglio, secondo me, è costituito dalla cicerchia, passione di molti giovani chef di grido, dal Nord al Sud. E chi non segue il modello non si sente trend. Si vuole spacciare una civaia disprezzata dai nostri nonni per un legume povero ch’entrava nella dieta, povera, di tutti i giorni. Niente di più falso.

A memoria mia e di altra gente anche più vecchia di me, nata nel Sud dove in un periodo in cui i legumi, al pari degli ortaggi e delle erbe spontanee, erano cibo quotidiano, a memoria d’uomo la cicerchia detta anche dolega era un legume al quale si ricorreva soltanto quando non c’era altro da mangiare ed anche allora lo si mandava giu con una certa fatica. E se questa memoria diretta non convincesse i sacerdoti di questo recente mito gastronomico, per convincerli ricorriamo alla letteratura, scritta e non scritta.

La cicerchia non compare nella cucina di Apicio, ci sono soltanto gli altri nostri legumi. Il modenese Giacomo Castelvetro, che agli inizi del Seicento si trovava esule in Inghilterra e si struggeva al ricordo dei bei sapori della sua terra, a proposito della cicerchia dichiarava:  “Ancora abbiamo noi altro legume appellato cecerchia, ma viene da poche persone stimato, essendo cibo grossolano, ventosissimo e generante sangue grosso, e fuor di modo la malinconia nudrisce.”

Oggi, addirittura, nell’Italia Centrale – da dove qualche anno fa partì  la campagna per le lenticchie “migliori del mondo” ed ora è partita la crociata in favore della cicerchia – hanno istituito feste e sagre così come in molte altre zone, per invogliare il flusso turistico, sono nate sagre delle focacce, delle lumache, delle rane e chi più ne ha più ne metta. Sono tutte bellissime e lodevoli manifestazioni, ma questa della cicerchia, ripeto, secondo me, è un equivoco.

La cicerchia (Lathyrus sativus è il suo nome botanico) ormai era quasi scomparsa ed ora costa più delle lenticchie. E’ una pianta annuale che somiglia alla veccia e nei suoi legumi contiene semi ovali, più grossi dei piselli, un po’ schiacciati, quasi come i lupini. Questi semi si consumano secchi.

Oggi, però – alla luce di studi molto importanti compiuti in Etiopia, India, Bangladesh, Nepal – appare chiaro perché i nostri contadini la scansassero, perché la aborrissero. Le sue proteine erano dannose. Nei paesi del “Terzo Mondo”, dove il consumo di cicerchia è generalizzato, la gente si ammala di latirismo (una terribile malattia che prende il nome dalla cicerchia) e muore.

Ecco come la malattia viene presentata dalla Third World Research Foundation:

«Per secoli prima dell’era cristiana, il gelido soffio della Morte ha alitato sopra lande desolate dove cresceva soltanto la cicerchia: Lathyrus sativus.
La cicerchia alligna nelle peggiori condizioni ambientali dove nessun’altra specie botanica sopravvive. Pianta particolarmente resistente, è stata storicamente il cibo a buon mercato di certe aree in via di sviluppo. Le conseguenze tragiche del suo consumo sembra fossero già note nel quarto secolo a.C., ma non a coloro che per sopravvivere erano costrette a cibarsene.
La cicerchia riempie gli stomaci affamati di gustose e ricche proteine, cotte come ortaggi, pestate e fatte a polenta o macinate per ricavarne pane. In cambio vuole un terribile pedaggio e attacca il sistema nervoso centrale producendo spasticità irreversibile. I primi sintomi si manifestano con difficoltà motorie, dolorosissimi crampi e debolezza nelle gambe. Per ultimo arriva la paralisi totale e la morte.»
 

Ad ogni modo, per chi volesse togliersi il gusto per una volta, riportiamo una ricetta contadina facile da realizzare, basta sostituire i fagioli cannellini con la cicerchia.

Fagioli  cannellini con le cozze tarantine

Gr. 300 di fagioli bianchi, kg. 1 di cozze nere, 3-4 pomodorini da salsa, 1 costa di sedano nano, 1 cipolla, 1 spicchio d’aglio, 2 foglie di alloro, ml. 80 di olio extravergine d’oliva,  sale q.b., pepe o peperoncino a.p.

Mettere a cuocere i fagioli, dopo averli lasciati a mollo in acqua leggermente salata per almeno mezza giornata (meglio se tutta la notte).

Dopo qualche minuto di ebollizione scolare l’acqua ed aggiungerne dell’altra bollente.

Aggiungere gli aromi e regolare di sale.

Cuocere a fuoco dapprima moderato e poi dolce per almeno un’ora e mezza.

Nel frattempo pulire bene le cozze, aprirle a caldo o anche a freddo (che è meglio) e conservare sia i frutti che la loro acqua.

In una casseruola far rosolare uno spicchio d’aglio nell’olio  ben caldo.

Versarvi i frutti delle cozze e far cuoce a fuoco vivo per un paio di minuti, quindi aggiungere i fagioli già cotti e parte dell’acqua delle cozze filtrata.

Lasciar insaporire il tutto per un altro paio di minuti.

Per ultimo spruzzare generosamente di pepe o di peperoncino in polvere.

(Provincia pavese, mercoledì 4 febbraio 2004  p. 33).

 

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2 Commenti a L’abbaglio della cicerchia

  1. Ci si allevavano i colombi, spariti i colombi, sparita la cicerchia. Dannosissima è in particolare per quei popoli che la consumano in forma di farina, quelli che la usano come legume, tenendola a bagno per oltre 24 ore e cambiando l’acqua abbassano di molto i rischi del latirismo.

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