Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (II parte)

Cimitero di Nardò, progetto del nuovo cimitero

Le cappelle gentilizie costruite tra fine ‘800 e primi ‘900

 

di Gabriella Buffo

Il cimitero, ideato e costruito come un’ideale città dei morti, cinto dalle nuove mura, si isolava così dalla realtà circostante, anche se dal punto di vista morfologico richiamava paradossalmente l’immagine stessa della città dei vivi con i viali, le piazzette, i palazzi isolati e i blocchi condominiali a cui si aggiungono anche tutte quelle norme, regolamenti e prescrizioni che regolano ogni sistema sociale. E, come avviene nel tessuto urbano, anche qui si presenta la zonizzazione per classi sociali: gli spazi riservati agli infettivi – relegati nella parte più retrostante del camposanto – , ai non cattolici, ai non battezzati, al campo della pietà o cimitero dei poveri, in cui la nuda croce rileva appena il nome, alle cappelle di confraternite, infine gli spazi più rilevanti alle edicole gentilizie.

Cimitero di Nardò – cappella Rizzo particolare della clessidra con le ali spiegate

Infatti, sul finire del XIX secolo e nei primi anni del XX secolo, alla crescita della città borghese corrisponde il proliferare di un’architettura funeraria che, seppure in miniatura, ripropone in scala ridotta le medesime soluzioni formali impiegate nelle architetture urbane.

Le famiglie benestanti, l’intera borghesia, ormai consolidatasi nel potere politico ed economico, vogliono esprimere, anche attraverso la costruzione funeraria, il segno del proprio passaggio su questa terra e, dopo aver fatto costruire il proprio palazzo in città e la villa in campagna e al mare per la villeggiatura, commissionano agli stessi ingegneri la loro edicola funeraria con quello stesso gusto eclettico tanto allora di moda.

Le famiglie, ma anche le congreghe, si affrettano a presentare all’amministrazione comunale le loro richieste di acquisto di suolo (in concessione perpetua) per l’edificazione delle tombe private.

Cimitero di Nardò, progetto cappella gentilizia

Nelle richieste, secondo il Regolamento, devono essere specificati i materiali scelti e allegati i grafici dei progetti (alcuni sono firmati da noti progettisti quali Quintino Tarantino, Gregorio Nardò, Luigi Tarantino, Giuseppe Sambati, Benito Leante).

Cimitero di Nardò, progetto della cappella Tarantino

Come avviene per l’architettura civile e religiosa ottocentesca così anche per quella funeraria la ricerca stilistica utilizza l’antichità per trarre motivi e forme architettoniche semantiche e comunicative, tutti gli stili architettonici costituiscono modelli di riferimento da utilizzare in base alle differenti esigenze di rappresentatività. Ogni civiltà conosciuta, ogni forma di conoscenza, acquisita attraverso gli scavi archeologici e la letteratura dei viaggi, fornisce,quindi, tutti quegli elementi stilistici che, in un certo senso, soppiantano i simboli delle catacombe cristiane, le quali avrebbero dovuto, invece, essere il referente più vicino alla cultura religiosa italiana oltre ad essere quello più raccomandato dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma l’Ottocento, sappiamo, è stato il secolo di affrancamento dal “dominio religioso”, di istanze politiche di laicizzazione e modernizzazione dello stato, secolo anticlericale per eccellenza, più vicino alle correnti di pensiero europee.

Cimitero di Nardò, progetto del tumulo Zuccaro Tommaso

Lungo tutto il perimetro del vecchio cimitero, una accanto all’altra le cappelle delle famiglie più in vista della città neretina ripropongono un vero revival di stili: dal gotico al rinascimento al barocco a forme dell’architettura classica o a quella di civiltà egiziane e mesopotamiche.

Cimitero di Nardò, progetto della cappella per la congrega dell’Immacolata

Alcune sono posizionate come fondali prospettici, quale punto estremo della crux viarum. Infatti, entrando dall’ingresso del vecchio cimitero al termine del viale a sinistra svetta la cappella in stile neogotico, costruita dall’ing. Antonio Tafuri nel 1902. Sopraelevata su un basamento scalinato e fastosamente decorata con archi ogivali e rosoni, è il sepolcro della famiglia Tafuri, baroni di Persano e Melignano, la cui arme è effigiata al di sopra della porta di ingresso. A pianta quadrata si struttura su ordini e termina con un grappolo di pinnacoli. Il secondo piano è alleggerito da ampie bifore con vetrate colorate.

Cimitero di Nardò – sepolcro Tafuri in stile neogotico

Neogotica è anche la cappella del barone Francesco Personè, il cui prospetto, tripartito da pilastri poligonali, è ritmato da ogive traforate e lateralmente da fiaccole rovesciate con ali.

Cimitero di Nardò – cappella Personè -Bianchi

Un tempio greco-romano, con un pronao sorretto da colonne corinzie e sovrastato da timpano, si trova realizzato nella cappella Gioffreda.

Cimitero di Nardò, cappella Gioffreda

Neorinascimentale è invece la cappella del Capitolo della Cattedrale di Nardò.

Cimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale in stile neorinascimentale

Quasi assente, poiché poco apprezzato dalla storiografia di quegli anni, lo stile Barocco, rinvenibile soltanto in una cappella con il frontone curvilineo e il portale con un arco a doppia voluta in chiave.

Altre tombe si ergono assumendo l’aspetto di piccoli mausolei, come la cappella Conte-Filograna,la cui costruzione fu autorizzata dalla Commissione edilizia del Comune di Nardò nel 1929. Altre non sono altro che palazzi in miniatura, come la cappella Bove, in cui la scala, a doppie rampe contrapposte, con balaustra a pilastrini, conduce al piano sopraelevato.

Cimitero di Nardò, cappella Conte-Filograna
Cimitero di Nardò – cappella Bove

A volte si presentano edicole con compresenza di più stili, veri e propri pastiches architettonici eclettici e retorici, in cui la significazione ridondante di indici escatologici si dibatte tra sacro e profano; ne è un esempio la tomba della famiglia Dell’Abate-De Pandi-Zuccaro- Giulio, dove elementi prettamente neogotici – apertura ogivale con arco trilobato – si uniscono ad elementi neoegizi, quali le colonne angolari fasciate a metà circa della loro altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro.

Cimitero di Nardò – cappella Giulio-Zuccaro – particolare colonna angolare fasciata a metà altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro

Lo stile egizio, molto in voga sul finire del XIX, è limitato solo ad alcuni elementi architettonici, probabilmente perché non incontra il gusto della committenza neretina, a differenza degli altri cimiteri del Salento (per esempio a Galatina, dove neoegizia è la cappella delle famiglie Galluccio, Venturi, Candido, Greco, Romano) e di Lecce (tombe di M. Piccinni, Stampacchia, Fumarola), in cui “figure quali la piramide, l’obelisco, la mastaba, che hanno conservato nel tempo i propri caratteri originari senza grossi cambiamenti, assumono il valore di elementi astratti, posti al di sopra della storia: simboli eterni dalle forme semplici e solenni”[22]. Sono i resoconti delle spedizioni e i rilievi eseguiti in Egitto da viaggiatori inglesi settecenteschicome Norden, Pocock o Dalton, quindi divulgati attraverso specifiche pubblicazioni in tutta Europa, che contribuiscono alla diffusione di elementi decorativi e architettonici “all’egiziana”[23].

Cimitero di Galatina, cappella Venturi – 1916 – in stile neoegizio

 

Negli anni del XX secolo, accanto agli ornati e logori stilemi dettati dall’Eclettismo, viene a convivere il linguaggio del Modernismo, un nuovo stile che sintetizza l’essenzialità della forma architettonica attraverso volumi puri, carichi di potere evocativo già nella forma geometrica. Qui le suggestioni della pietas cristiana sono enfatizzate dalla morbidezza delle linee decorative del liberty floreale, a cui si aggiunge la forza evocativa della scultura.

La cappella dei baroni Personè, a pianta quadrata, si presenta come un blocco geometrico puro delicatamente decorato, altamente simbolico, con i quattro angoli della terra e le quattro direzioni cardinali, che rimandano sia alla condizione terrena dell’uomo sia alla eternità. Un nastro, intagliato con serti di foglie e fiori, avvolge l’edifico modellandolo e la stessa funzione svolge la finestra laterale in cui un cordone orizzontale definisce l’immagine di un sole che sta per tramontare.

Fiori e foglie, legati dal lenisco, decorano l’ingresso della cappella simboleggiando la vittoria sulle tenebre e sul peccato.

Come nelle loro dimore civili, anche sul prospetto delle cappelle delle famiglie Personè, Baroni di Ogliastro, Carpignano Salentino, Castro e Pallio [24], si osserva un tentativo di ribadire lo status sociale imprimendo nella pietra lo stemma nobiliare “spaccato di azzurro e di verde e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di Mercurio con il motto et pace et bello”.[25]

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia, particolare con l’uroboro

La simbologia

Nel cimitero di Nardò, come in tutti gli altri del Salento, non è il prezioso marmo la materia prima decorativa delle tombe ma la pietra leccese che diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte, tanto eloquentemente rappresentata dallo scheletro con la falce. È un simbolo, questo, creato dall’uomo, che andrebbe indagato perché lo si colga in tutto il suo significato. La falce è il simbolo della morte che recide la vita, come si recide l’erba o il grano. Essa è il simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini. Se la falce in sé richiama l’idea della falciatura del grano, la morte con la falce rimanda a una suggestione di raccolto, di traguardo di un ciclo naturale che inizia con la semina, continua con la fioritura, poi con la maturazione del frutto destinato ad essere raccolto per finire con la morte del grano ormai secco dal quale si estrae la spiga.

Cimitero di Nardò – cappella della congrega di San GiuseppeCimitero di Nardò – cappella Caputo particolare

Altri elementi caratteristici delle edicole funerarie in oggetto sono poi le tibie incrociate, la clessidra, simbolo del lento scorrere del tempo infinito, le ali aperte a simboleggiare la capacità di sollevarsi dal peso della vita, le fiaccole che indicano la redenzione e la speranza nel buio della morte (sei fiaccole ornano il fastigio della cappella della congregazione dell’Immacolata), le ghirlande di fiori e foglie quali segno incorruttibili di fede e di giustizia, i tralci di vite e l’uva simboli eucaristici che indicano il sacrificio e la redenzione.

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia con portale neosettecentesco con arco a doppia voluta in chiaveCimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale – particolare con attributi sacerdotali inseriti nel fregioCimitero di Nardò – cappella Tarantino, particolare degli acroteri

E ancora gli insetti quali l’ape, simbolo dell’anima, segno di sopravvivenza dopo la morte – nella cappella del barone Personè tre api sono intagliate sulla cornice che separa la parte superiore da quella inferiore del prospetto architettonico ;gli animali delle tenebre come il gufo e la civetta con la loro capacità di vedere nel buio e ancora l’uroboro, il serpente che si morde la coda, metafora espressiva della riproduzione ciclica, simbolo ambivalente che collega la vita alla morte, il pesce il cui termine greco Ichthys è l’acrostico di Iesous Cristos Theou Hyios Soter cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare dell’ape

 

Tra le più scenografiche è la cappella della famiglia Tommaso Zuccaro. Il progetto, firmato dal noto ing. Quintino Tarantino, si avvale di un ricco repertorio simbolico.

Il colore è bandito, resta solo il colore neutro della pietra. Un timido accenno di colore possiamo intravedere nella facciata della cappella Borgia, su cui sono dipinte fasce orizzontali bianche e grige.

Cimitero di Nardeò – cappella Tarantino

 

Il motivo delle fasce bicrome viene mutuato dall’architettura civile, per esempio villa Lezzi a S. Maria al Bagno di Nardò, dove però i colori usati sono quelli caldi del rosso e del giallo ocra più  appropriati ad abitazione di villeggiatura.

Certamente nella realizzazione di queste cappelle gentilizie gli architetti, gli ingegneri e le maestranze del tempo si avvalsero dei vari repertori a stampa che subito dopo l’Unità d’Italia iniziarono a circolare su tutto il territorio nazionale. In special modo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, fiorì una serie di scritti e raccolte iconografiche sull’architettura cimiteriale.

L’Arte Funeraria Italiana, raccolta di tavole fotografiche, pubblicata a Milano, rappresentò per i professionisti del tempo il manuale del pratico operare dal quale attingere nuove soluzioni formali e stilistiche. Preziosa guida nell’ambito della progettazione fu anche il Manuale dell’Architetto, in cui l’autore Daniele Donghi aveva dedicato una consistente sezione all’architettura cimiteriale corredata di fotografie e planimetrie dei maggiori cimiteri italiani e stranieri. È anche pregevole l’opera di G.B. Savio Lapidi e monumentini funerari. Progetti con piante e particolari n.40 tavole, edita a Torino da l’Artista moderno.[26]

Cimitero di Galatina, cappella Greco in stile neoegizio

 

In definitiva il cimitero di una città rappresenta la summa degli stili e degli stilemi che si sono stratificati nell’architettura del centro abitato, ed è perciò che non si può fare a meno, al fine di un’analisi esaustiva del tessuto culturale di un territorio, di tenere nella massima considerazione anche queste propaggini, questi luoghi della contiguità fra fisica e metafisica, e dunque ontologicamente affatto lontani dai non-luoghi augeiani [27], i quali son di solito poco reputati dalle trattazioni storico artistiche. Scrive Anna Belardinelli:  “Mai ho visitato un paese  senza cercare di aggiungere al suo mosaico una tessera particolare: quella del luogo riservato ai morti. Spesso questo si è rivelato il tassello risolutivo per ricomporre in un disegno comprensibile tutto ciò che avevo visto fino ad allora. Sempre trovavo l’incastro giusto con tasselli che sembravano appartenere a scene di tutt’altro genere: del tempo operoso, delle relazioni sociali, dei bisogni elementari, dei desideri, in definitiva della vita. Sempre ho riportato dalla visita a questi luoghi speciali e appartati una ricca messe di informazioni e, nello stesso tempo, un’emozione forte, la sola mistura che può produrre conoscenza, entrarti dentro e modificarti”[28].

Cimitero di Nardò – cappella Caputo – particolare dei capitelli

 

È anche molto interessante la prospettiva di sfruttamento economico di queste ulteriori sorprendenti risorse culturali. Nella città di Milano è statisticamente acclarato che, dopo il Duomo, il Cimitero Monumentale (costruito su progetto presentato nel 1860 dall’architetto Carlo Maciachini)  rappresenta la seconda meta frequentata dai turisti stranieri, con “oltre 10 mila visitatori nel periodo marzo 2003 / giugno 2004”[29] .

I cimiteri salentini, opportunamente restaurati, possono, dunque, a buon diritto essere inseriti nel più ampio circuito degli itinerari culturali che, com’è noto, attirano nel nostro lembo di terra migliaia di turisti affascinati dalle straordinarie ricchezze storico artistiche che questa terra conserva.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.

Taranto. Nel passato è esistito un ponte ad ovest della città?

Taranto. Ponte di Pietra (1935)

di Daniela Lucaselli

La questione è tuttora discutibile. Fra gli scrittori locali c’è chi sostiene l’esistenza, in antico, di un ponte ad ovest della Città, nei pressi di quello attualmente denominato di Porta Napoli; c’è chi lo nega supportato da proprie  argomentazioni o da quanto presente nel Platone in Italia. Gli antichi scrittori, come Strabone,  Polibio e Livio, e i più recenti come Filippo Cluverio, Viola, Dal Lago, Wuilleumier lo ammettono.

Il noto Lenormant sostiene che l’imperatore Niceforo Foca per la prima volta fece costruire il ponte a sette archi sul canale di Mar Piccolo, “come si può rilevare dai pilastri che presentano tutti i caratteri della costruzione bizantina”. Tale tesi risulta molto discutibile in quanto l’archeologo e storico, che per la parte topografica ha attinto dagli scrittori locali, doveva dimostrare che prima della costruzione bizantina il ponte non ci fosse. Pertanto, per supportare tale affermazione risulta insufficiente sostenere semplicemente che sui pilastri sono presenti i segni della costruzione bizantina.

Dato certo è comunque quello che ai tempi di Niceforo Foca, quando fu “terrapienata” l’Acropoli, si costruì “quel” ponte (distrutto  nel 1883) e che i pilastri presentavano le tracce della costruzione bizantina.

La questione ora da chiarire è un’altra: il ponte che i Bizantini edificarono dopo la distruzione da parte dei saraceni, verificatasi quarant’anni prima, fu ubicato nello stesso luogo in cui si trovava precedentemente o, per effetto del “terrapienamento” della Acropoli, fu eretto in altra zona? La risposta, qualunque essa sia, deve essere sostenuta da una dimostrazione.

Taranto. Ponte di Pietra – Bagni di Venere (1935)

La tesi del Lenormant che sostiene che il ponte sia stato edificato “per la prima volta” dai Bizantini, se fosse stata completata con la frase  “in quel sito”, non

Le mani sulla Sarparea: le Osservazioni del CTP di Nardò

Dopo il recente post, dal titolo “Nardò (Lecce). Le mani sulla Sarparea”, apparso il 14 Settembre u.s., il Comitato per la Tutela del Paesaggio di Nardò si è reso gentilmente disponibile a pubblicare i contenuti dei loro elaborati presentati in Regione. Ricordiamo che le “Osservazioni”,  ad integrazione della Valutazione Ambientale Strategica (VAS), presentate al competente ufficio regionale, contribuiranno al giudizio di compatibilità ambientale del piano di lottizzazione della Sarparea. Prossimamente nuovi aggiornamenti sulla vicenda.

a cura del Comitato per la Tutela del Paesaggio di Nardò

Masseria Sarparea de' Pandi (ph. F. Politano)
Masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Politano)

NOTIZIE STORICHE SULLA LOCALITA’ “SALPAREA” E SULL’OLIVETO IVI PRESENTE*

Le Pergamene del Monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), ed. A. Frascadore, in “Codice Diplomatico Pugliese”, XXV, Bari 1981, doc.n° 27, pp. 114-122. Il documento riguarda l’inventario patrimoniale dell’Ospedale di Santa Caterina di Galatina e, quindi, dei beni ricadenti nel casale di Agnano e di pertinenza di detto Ospedale. L’inventario fu redatto il 20 luglio 1443 nello stesso casale di Agnano, «quod est hospitalis Sancte Ecaterine de Sancto Petro de Galatina» (p. 115). Il passo riferentesi alla località Sarparea, collocata in un più ampio contesto confinante con masserie la denominazione delle quali non e più rintracciabile (dei fabbricati rustici non vi è più traccia) e con la masseria Sant’Isidoro provvista di torre, è il seguente: «[…] altera vero», vale a dire masseria, «que dicitur de li Mayri, est de feudo Puteivivi et de pheudo domini principis et currunt per limites et speclas, qui et que sunt versus massariam, que dicitur de li Tagano, et vadit per quondam parietem grossum […] usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Santi Ysideri, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fondata e costructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clasorium olivarum Carbasii […] et deinde vadit per viam rectam, usque ad massariam, que dicitur de Malecoris, inclusive, et massariam condam Nicolai Cursari […] et vadit per viam ecclesie Sancte Marie de Cisaria, inclusive, usque ad clausorium magnum curie dicti casalis Igniani […] et currit usque ad clausorium olivarum Guillelmi Quaglasierii […]» L’attuale torre cinquecentesca potrebbe essere (ma solo in via di ipotesi) il riutilizzo di un presistente; ad ogni modo, la presenza di una torre non costituisce, un fatto nuovo.

Sarparea, l'antica "viam ecclesie Sancte Marie de Cisaria" (ph. F. Suppressa)
Sarparea, l’antica “viam ecclesie Sancte Marie de Cisaria” (ph. F. Suppressa)

Il toponimo Carbasi ricorre anche negli atti della Visita Pastorale di mons. Ludovico de Pennis eseguita nel corso degli anni 1452-1460. Si tratta di una

Libri/ Gianluigi Plantera e Il mistero di Lecce

di Paolo Vincenti

Dopo “Il segreto di Otranto” (2006) e “Il tesoro della Grecìa” (2007), ecco che Gianluigi Plantera pubblica, a coronamento di un lavoro articolato ma completo e coinvolgente, “Il mistero di Lecce” , edito, come gli altri due, dalla galatinese Edit Santoro (2008), e recante, come gli altri due, una puntuale Presentazione di Alessandro Laporta, Direttore della nostra Biblioteca Provinciale “N. Bernardini”.

Sembra che con l’archeologia ed il mistero ci abbia preso gusto l’autore, ricercatore leccese, laureato in Conservazione dei Beni Culturali. L’archeologia ed il mistero infatti impastano questo, come i precedenti romanzi d’avventura a sfondo storico, a cui ci ha abituato questo novello Dan Brown o, meglio,questo nostrano Indiana Jones, come lo definisce Alessandro Laporta.

Il romanzo è ambientato nel Salento, come è chiaro dal titolo dell’opera, in una Lecce fantastica e più misteriosa di come siamo abituati a conoscerla noi che dalla provincia la veniamo a trovare di giorno, e che presi dalla frenesia dei mille impegni cui dobbiamo assolvere prima di ritornare a casa per pranzo o per cena, non ci accorgiamo di quella sottile malia che una città come questa

Aurei rimedi popolari per far passare l’orzaiolo

da http://www.amicopediatra.it/

di Marcello Gaballo

Secondo la tradizione popolare salentina l’orzaiolo, volgarmente detto “rasciulu”, si manifesta dopo aver assistito a scene particolarmente piacevoli (tra gli esempi: una bella donna, una tavola imbandita, oggetti preziosi).

La fastidiosissima infezione batterica delle ghiandole palpebrali procura arrossamento del margine della palpebra, bruciore, fastidio alla luce, con la sensazione di corpo estraneo nell’occhio.
Il disturbo può durare anche dei giorni, finchè non compare al centro dell’orzaiolo un puntino giallognolo, che poi si rompe spontaneamente con riduzione o scomparsa del dolore.
Per curarlo oggi si ricorre alle pomate antibiotiche, ma un tempo, quando queste ultime non erano ancora disponibili, le nostre nonne applicavano sull’occhio dolente un impacco tiepido contenente semi di lino preventivamente bolliti in poca acqua lasciata poi raffreddare.
Era questo uno dei rimedi validamente consigliati dal medico curante o dal farmacista di fiducia, cui non sempre ci si rivolgeva per una così apparentemente banale infezione.
Il popolo più sprovveduto, come mi raccontava mia nonna, ricorreva allora ad una tecnica di cui non si conosce l’epoca di adozione e che consisteva nello strofinare per 3-5 volte sul bordo della palpebra il dorso della fede nuziale, d’oro.
Il ricordo do questo metodo empirico, da me stesso ritenuto del tutto inutile e senza logica, mi è sovvenuto oggi, scorrendo le agenzie di stampa medica che riportano testualmente:

Letteratura Scientifica

Cerotti con nano-filamenti d’oro riparano il cuore infartuato
Creati dei ‘cerotti’ capaci di riparare il cuore colpito da infarto grazie a dei piccolissimi filamenti d’oro, che migliorano la trasmissione dell’impulso

Villaggio Tramonti, Salento. Lu purpu di Enrico e la ricetta di papà

di Tommaso Esposito

Lo confesso: ho ancora il piacere che i miei pargoli più che ventenni stiano con me nel mio tempo salentino.
Eh già, questo posto gli piace e pure a me piace.
Enrico si diletta, tra un tuffo e l’altro, a pescare tra gli scogli.
E fa a gara con Tommaso, mio omonimo amico e suo maestro di pesca in apnea tentata, ah ah!
Devo dire, a mio dispetto però, che le immersioni son fruttifere.
Sarà il mare pescoso, ma questi qua ogni volta riemergono con la preda.
Oggi polpi di scoglio veraci.
Quelli con le due file di bottoni lungo le ‘ranfie.
All’opera dunque.
Affido la crudele pratica della battitura del polpo a loro.
Ho il cuore tenero e preferisco non guardare.
Penso a Napoli, però,  per questo cefalopode.
La ricetta salentina la lascio a Romualdo.
In verità Allan Bay direbbe che questo mio piatto è senza confini.

Ingredienti:

Polpi veraci pescati da Enrico nel mare di Porto Cesareo
Pomodorini maturi di Nardò
Aglio uno spicchio
Olive nere una manciata

La colonia estiva

villa tabor

di Elio Ria

Un venerdì del mese di luglio dell’anno 2011, durante la lettura della  Repubblica, il titolo “Colonie: sport, musica e niente cellulare, bimbi in vacanza come una volta attira la mia attenzione.

Va letto! Mi piace quel “come una volta”, a significare l’importanza delle cose di una volta.

Rovisto nella memoria e quanto sono riuscito a raccogliere ve ne parlo adesso, con la convinzione che se non vi annoierò, vi  avrò almeno resi partecipi di qualcosa che fa piacere ricordare. Nulla di speciale, soltanto semplici cose… di una volta.

I giorni della colonia, quei giorni ormai lontani erano belli. Negli anni Settanta, con un corredo fatto di piccole ed essenziali cose mi allontanavo dai miei genitori per trascorrere a Villa Tabor, località Cenate di Nardò,  un mese  di vacanza con altri ragazzi.

All’inizio tutti eravamo tristi e impacciati, ma con il passare delle ore ritrovavamo il sorriso e quel luogo sconosciuto si apriva lentamente per offrirci il meritato divertimento estivo. C’erano le regole da rispettare: l’alzabandiera mattutina, il canto, la preghiera, il silenzio, la messa.

La villa era gradevole, immersa nel verde con alberi di pino dritti e dalla chioma fluente; un viale conduceva alla chiesa e tutt’intorno uno spiazzo immenso delimitato da un muretto che non infastidiva ma proteggeva la  nostra permanenza. Si respirava serenità simile all’aria fresca e dolce di un mattino di primavera. Quando il sole alto s’apprestava a discendere sugli alberi, dileguandosi lentamente, con discrezione, e nel cielo apparivano i colori del tramonto, sedevo sul muretto a immaginare  respiri di luna.

Alle undici di mattina andavamo a Santa Caterina, scortati dalle signorine che in certe situazioni facevano fatica a contenere la nostra esuberanza.

Non eravamo abituati all’abbondanza delle cose; la fanciullezza era scandita da tante rinunce e quando riuscivamo ad avere qualcosa –  che comunque ci

La “carpìa”, ovvero il sedicente intellettuale sfaticato e zozzone…

di Armando Polito

 

Di solito la parte di pavimento occupata dal letto è, per motivi facilmente comprensibili, quella meno soggetta ad una quotidiana pulizia, nonostante la presenza sul mercato di aspirapolvere dotati, tra gli accessori, anche di testa ultrasottile, snodabile, magari con telecamera incorporata, a fare concorrenza ad un endoscopio di ultima generazione. Basta, perciò, che questo attrezzo trascuri la zona in questione per una decina di giorni perché, sollevando le reti, si noti la presenza di una inconfondibile formazione, una sorta di peluria  grigio cenere, leggerissima1: è la carpìa, voce usata a Nardò, S. Cesarea Terme, Cutrofiano (in quest’ultimo centro anche col significato di insieme di pagliuzze), Gallipoli, Montesano, Muro Leccese; scarfìa a Bagnolo, Calimera, Castrignano dei Greci, Lecce, Martano, Sternatia; al plurale scarfìe a Calimera, Melpignano, scarfèi a San Cesario di Lecce, per il Leccese; per il Brindisino scarfìi a Mesagne. Tutte le varianti riportate sono tratte dal vocabolario del Rohlfs, il quale alla voce carpìa, dopo aver ricordato che “anche in Toscana carpìa=peluria nella Versilia” rinvia a scarfìa, dove replica questa informazione, senza fornire, dunque, proposta etimologica.

Va preliminarmente detto che la voce in questione non è esclusivamente toscana o pugliese, ma alla sua ampia diffusione non ha corrisposto la sua registrazione nei comuni dizionari della lingua italiana, sicché a tutt’oggi

Taranto. Ancora sul ponte Punta Penna – Pizzone

di Daniela Lucaselli

Gli scrittori locali affermano che esistesse in passato un ponte in muratura grandissimo e bellissimo, collocato tra il promontorio della Penna e quello del Pizzone. Alcuni attestano che sia di epoca messapica, altri di età greca, in particolare del periodo del maggiore splendore di Taranto.

C’è chi sostiene che esso fosse stato distrutto prima della venuta di Annibale, e chi, invece, attribuisce ad Annibale il suo uso. Chiariamo subito un primo aspetto. E’ insostenibile l’ ipotesi che attribuisce un ponte in muratura ai Messapi, “che avrebbero così avuto la possibilità di recarsi dalla Città al contado al nord della Penna”. Questa gente viveva in case, la cui copertura era costituita da canne o da rami di alberi, amalgati da una malta di fanghiglia, che costituivano un villaggio. Come avrebbe potuto costruire questo popolo indigeno, privo di mezzi adeguati, un imponente ponte in muratura?

Passiamo ad un secondo punto. Il Carducci parla indiscutibilmente dell’uso di questo ponte in muratura, durante la seconda guerra punica, da parte di Annibale.  A sostegno di questa affermazione lo storico tarantino offre diverse argomentazioni:

1)      In primo luogo fa cenno a quanto riportato da Polibio che, pur non adducendo l’esistenza di questa grande opera di ingegneria, riferisce una nota importante. Egli asserisce infatti che la distanza fra la città e le vicinanze del Galeso, dove mise il campo Annibale, dopo aver conquistata la città, è di circa 40 stadi.  Il Carducci desume da questo dato che Annibale, per questo suo spostamento, utilizzò il ponte esistente trala Penna e il Pizzone, in quanto la

Libri/ Leucasia e le due sorelle. Storie e leggende del Salento

di Paolo Vincenti

Con Leucasia e le Due Sorelle  Storie e leggende del Salento (Mancarella Editore 2008), il poeta Carlo Stasi ritorna alla scrittura narrativa, racchiudendo in questo prezioso volume alcuni racconti fantastici, a metà fra storia e leggenda, ai quali da almeno un quindicennio ci ha abituato questo scrittore, nato ad Acquarica del Capo ed approdato, dopo un lungo girovagare fra Lombardia e Salento, in quel di Lizzanello, luogo della sua attuale residenza. Chi legge le cose di Stasi, infatti, sa che egli, oltre alla scrittura in versi ed alla sperimentazione verbo visiva delle sue prove in volume, ama raccogliere fiabe, filastrocche, modi di dire, aneddoti, cunti, che poi dispensa nei suoi interventi su svariati fogli e riviste locali. In questo libro, Stasi riprende un storia molto bella e affascinante, quella di “Leucasia”, ripubblicando ed ampliando quanto già aveva scritto nel libro omonimo del 1993 (che ha avuto altre 3 ristampe fino al 2001), come a voler rivendicare la paternità di questa storia fantastica della quale molti altri si sono occupati nel corso degli anni. “Di nuova alchimia.

Una terra trasformata in miti”: questa la materia del libro, mutuando il titolo

Maria Teresa Sparascio, staffetta partigiana salentina

sparascio
http://www.salogentis.it/2009/05/04/maria-teresa-sparascio-lunica-staffetta-partigiana-salentina/

di Gianni Ferraris

Il 16 ottobre 1906 nasce a Caprarica, comune di Tricase, Maria Teresa Sparascio. Cresce e vive nel basso Salento, nel comune dell’immensa quercia vallonea che ancora troneggia fra Tricase e il mare.

Nel 1932 nella caserma di Tricase arriva il carabiniere Licheri Efisio Luigi. E’ sardo di Villamar (Ca) ed dal1920 hatrovato il suo lavoro nell’arma, lui è nato nel 1901. I due sud si incontrano e si innamorano. Il 28 agosto del1934, inpieno regime fascista, si sposano a Lecce. Un incontro fra due sud, storia comune in fondo.

Ma lui è carabiniere, viene trasferito in Emilia, prima a Farini D’Olmo (Pc), poi a Langhirano (Pr). Intanto nascono Maria D’Itria nel 35, Irene nel 36, Antonietta nel 38 e Giacomo nel 42. Tutto sommato stanno bene, sono alloggiati nella caserma del Carabinieri. La situazione precipita l’8 settembre del 43. Lui diventa appuntato ma rimane fedele alla patria e si congeda dall’arma, sbanda e diventa partigiano nella brigata Pablo con il nome di “Torino”.

Nel luglio del 44 Langhirano subisce rastrellamenti e la ferocia prima della X mas, poi dei nazisti. La provincia di Parma è martoriata come tutto il nord Italia dalla violenza nazi fascista, i consuntivi parlano di 1675 civili caduti dall’inizio della guerra alla liberazione, di questi 506 erano donne, molte ammazzate senza pietà e senza motivi apparenti, come Adele Nardi, colpita da un proiettile nazista mentre giocava con la sua figlioletta in strada.

Maria Teresa intanto aiutava come poteva il marito e la resistenza era staffetta e basista.

Quel maledetto 26 settembre 1944 Efisio era fuori, lei era in casa con la figlia Maria D’Itria che così ricorda gli avvenimenti:

“… Ricordo che mentre si affrettava a mettere a posto alcuni documenti che il marito le aveva affidato per motivi che non potevo conoscere ma che intuivo, e poi a sistemare indumenti di noi bambini e infine a raccogliere da terra, presso al finestra, le scarpe della figlioletta più piccola, mi invitava a tenermi pronta per andare a ripararci anche noi  insieme all’altra sorellina Irene. Dopo qualche minuto una fucilata partita da un mitra piazzato di fronte alla nostra abitazione la colpiva ferendola a morte. Io, che stavo dietro di lei, fui salva per miracolo. Loro, i nemici tedeschi, avevano raggiunto il loro scopo: erano venuti per punire…”*

Maria Teresa, unica partigiana salentina,  morì il 7 ottobre 1944 all’ospedale di Parma, ferita mortalmente ad un polmone.

Scrive Nello Wrona che in prossimità del 50° anniversario della morte di Maria Teresa si spinse a Langhirano per fare ricerche:

“… Non ricordava il sindaco, ma promise ricerche: non ricordava l’arciprete… non ricordavano gli uomini della Resistenza, rintracciati e scovati sotto i nomi di battaglia, sempre disponibili, mai reticenti, spesso sorpresi: “La moglie di Torino? Si, successe qualche cosa, qualcuno sparò – i tedeschi, certo, durante una puntata – ma se fu per vendetta o per errore o per delazione non saprei dire” … Nella capitale del prosciutto la rimozione era totale, quasi fisica.

E così, di questa donna, morta di piombo tedesco per essere stata porta ordini e moglie di partigiano, si può solo scrivere una storia a togliere. E levando di scena tutto, tranne la morte e le origini. Solo in questo modo la sua storia ha un senso. Nella misura in cui Langhirano e Tricase sono sulla stessa latitudine antropologica: “cafoni” da una parte, “scariolanti” dall’altra; mercato della braccia a Lecce come a Faenza o a Parma; la stessa malaria; la stessa staffa di cavallo dietro la porta; gli stessi abiti di cotonina, lo stesso volto rugoso di aceto e tabacco, sotto lo stesso velo nero delle donne…. Così morire a Langhirano o a Tricase, ha solo un valore incidentale, perché il sud è sempre un meridione planetario, sempre uguale quando la storia la scrivono gli altri. Colpisce solo il silenzio di quarant’anni, quando la storia, a scriverla, è una donna, e una donna meridionale….” *

*Da: Maria Teresa Sparascio – Staffetta partigiana salentina. A cura di Francesco Accogli e Massimo Mura Ed. dell’Iride – dicembre 2004 –

San Sabino patrono di Gravina?

a cura di Giuseppe Massari

(Mentre la città di Gravina in Puglia si appresta a festeggiare san Michele Arcangelo, suo santo protettore, come sancito dalla Bolla papale di Clemente X del 10 marzo 1674, contestualmente siamo venuti a conoscenza di uno scritto  del professore Ieva, che di seguito riportiamo nella sua versione integrale, tratto da “Il Campanile, periodico di informazione e cultura, anno XVII, n. 1, Gen- Feb. 2009, in cui si afferma, sia pure in forma dubitativa, interrogativa e deduttiva, che san Sabino potrebbe essere, oltreché  patrono di Canosa, anche di Gravina. San Michele, quasi come un qualsiasi inquilino, potrebbe essere sfrattato? Questo, se fosse accertato, soprattutto dagli storici, significherebbe stravolgere l’intera storia di una comunità che ha basato la sua fede, la sua tradizione religiosa verso il principe della Milizia celeste sin dal suo apparire alle pendici del Gargano, e anche oltre, giungendo a convivere con la non distante Lucania. Noi, naturalmente, sic et simpliciter, non possiamo sposare la tesi del professore Ieva, se non altro perché è molto debole e non supportata da prove storiche e documentali attendibili. Riteniamo, però, che il suo contributo possa far nascere un serio e sereno dibattito finalizzato all’approfondimento e ad una ulteriore ricerca. Può essere considerata una buona e sana “provocazione”per poter confermare, smentire o riscrivere una nuova pagina di storia. Ai posteri, storici sinceri e non, l’ardua, l’ardita,  la faticosa, la provvisoria, la confermativa, definitiva o innovativa sentenza (g.m).

 

 

 

“Liberata Gerusalemme da Goffredo di Buglione, i Latini costituirono Nazareth Metropoli. Ma in seguito la Palestina fu ripresa dai Saraceni e il 2 ottobre 1187 il sultano d’Egitto Saladino entrò trionfante nella città, dopo che il suo

Luoghi dell’anima: Castrum Minervae

Punta Mucurune

di Rocco Boccadamo

Castro, fulgida perla del meraviglioso Salento, si pone alla stregua di sublime crogiolo, fantastico concentrato di bellezze e tesori, fra angoli d’incanto, fondali cristallini, luminosi soppalchi d’azzurro vivo.

Tale e tanto insieme, immerso in un’atmosfera che avvolge, accarezza e rigenera lo spirito, alleviandone ambasce, debolezze e sfinimenti.

E’ un sito di sogno, Castro, che si fa ammirare sotto un moto irresistibile, un bene, un tesoro che si lascia amare e preservare.

Intorno ai bastioni possenti e alle mura di cinta del Borgo, alle chiazze verdeggianti e profumate degli orti, giardini e frutteti in declivio verso la marina, al palpito che aleggia e si muove silenzioso nelle piazzette raccolte e lungo i vincoli trasudanti storia e testimoni di vestigia lontane, si avverte la sensazione di essere più lievi e insieme più pieni. Si riscoprono ricordi ed emozioni, si compongono pensieri positivi, si vivono autentici stacchi rispetto al vortice e ai sobbalzi del quotidiano, ai malesseri della realtà, agli affanni nell’attesa del divenire.

In termini diversi, ciascuno ha agio di tirar fuori la propria anima autentica, magari a lungo negletta, nella semplicità dell’accontentarsi dell’essenziale, come dire dei valori veri.

Solo in apparenza, insomma, limitazioni e rinunce, mentre, nella realtà, si avverte, invece, appagamento, anzi gioioso appagamento.

A seguire, quali e quanti misteri di sogno, spunti  d’immaginazione e d’estasi nel rimirare le onde di Castro, nel trattenere lentamente lo sguardo  a ridosso degli sviluppi – in su e giù, va e vieni – dei suoi confini di rocce brune, lunga  e tratteggiata collana di tonalità scura e dolce.

E’ bello, conferisce gioia, sebbene sotto un alone di mistero, il lontanissimo impatto del pugno di legni condotti dal troiano Enea di fronte agli scogli, al minuscolo falcato seno da riparo e  al promontorio di Castro.

Canto unico e senza confronto, poesia nel poema, i versi del terzo capitolo dell’Eneide:

 

Le brezze sperate
rinforzano, ormai vicino si
schiude un porto e sulla rocca si
profila il tempio di Minerva.
I nostri ammainano le vele e
volgono a riva le prue.
Il porto si inarca curvato dalle
onde d’oriente; una barriera di
roccia biancheggia di spume
salate e lo ripara; scogliere
turrite lo presidiano
con duplice abbraccio,
e il tempio arretra da riva.

Una sorta di singolare battesimo per una creatura senza pari, come, fuor d’ogni esagerazione, si può definire Castro.

E dopo l’antichissimo approccio dell’eroe esule, sullo scorrere del tempo e dei millenni, una ridda di altre immagini storiche, una lunga catena di personaggi, eventi e accadimenti grandi e minuscoli, che hanno lasciato segni e orme nell’habitat d’intorno e, soprattutto, fra i respiri di quanti c’erano e vivevano, volti e voci a loro volta perpetuatisi, idealmente ma inequivocabilmente, nelle albe che si sono susseguite e levate sino ai calendari presenti.

Ci vuole poco per sognare, per richiamare, dal profondo, il meglio di sé, per scoprire, dentro, un altro io, un’essenza migliore.

Come dire, l’umile moderno cantore di Castro non smette mai di volgere gli occhi verso Punta o Pizzo Mucurune, lingua naturale che si colloca fra i più conosciuti simboli della località; oltre a indirizzare lo sguardo,  sofferma la mente sulla gran parte dell’estensione del promontorio, che, pur ricca di vegetazione che spontaneamente  nasce e resiste  nel tempo, di strati verdi che si rinnovano ad ogni primavera, di rovi riarsi e secchi quando il bacio del sole estivo diventa rovente, tuttavia, forse, non è mai stata calpestata da essere umano,  è rimasta così come si trovava millenni fa.

Deriva, da ciò, il ritorno a mondi per un verso lontani e distanti, e però vivi e vicini almeno sottoforma di speciali pensieri che si rincorrono, in particolar modo nelle calde e intriganti notti  estive.

Godere di simili spettacoli ed effetti nutre meglio di qualsiasi sontuoso banchetto, è il cibo ideale per ogni animo sensibile, amante del bello e dell’autentico, amante della natura.

Un dialogo sulle pagine di “Piccoli seminaristi crescono”: Luciano Provenzano e l’autore Alfredo Romano sui ricordi e il significato di un’esperienza che li accomunò

Parte prima: recensione di Luciano Provenzano

E dunque, “lu vinu se lu futtira tuttu iddhi (…)!” (pag. 52)
Dato però che “un bicchiere di vino rosso” veniva dato ai seminaristi “nei giorni di festa grande” (pag. 48), e che di quel vino era stata fatta “offerta” al seminario, potrebbe essere che il vino di suo padre lo abbia assaggiato anche “Alafridus”1 (pag. 88), autore della storia, e che quindi non se lo siano bevuto “tuttu” soltanto “iddhi”!
Ogni narrazione ha inclusa una mistificazione, che è in fondo il punto di vista di chi la sviluppa, e che può essere disvelata nel suo porsi come assoluto scritturistico – o narrante -, mediante l’apporto di uno diverso ad essa strettamente collegato ma non coincidente.
Narrazione esilarante, l’intero libro, di mano esperta nel tessere l’insieme della vicenda biografica dell’autore adolescente, con sottili dettagli di nomi e circostanze, comprensibili nel loro essere ripresi e riportati così vividamente in luce a distanza di mezzo secolo considerando il diario – “il quaderno” (pag. 67) – che meticolosamente l’autore deve aver vergato in quegli anni.
Implacabile verso il sistema di regole e metodi che la vita di seminario implicava, pur con tentativi di rivalutare al fondo l’esperienza: “Se sono quel che sono lo debbo anche al Seminario (sempre annotato con una reverenziale maiuscola nel libro) per cui ne parlo e ne scrivo con tenero affetto” (pag. 9), e addirittura: “Se tornassi indietro rifarei lo stesso percorso”(pag. 9), e ancora: “Niente è stato inutile” (pag. 88). Pur tuttavia la critica più radicale di fatto è costituita dalla scelta dell’autore di essere “non più credente” (pag. 20): cinque anni di seminario, che avrebbero dovuto contribuire a forgiare un pastore di anime, di fatto non hanno forgiato neppure un’anima credente, che appare come dichiarazione del più completo fallimento di quella esperienza!

La ferrea disciplina delle regole in vigore e della severità di chi preposto a farle

Sud e Magia. La tradizione magico-astrologica nel Rinascimento Meridionale

Domenica 25 settembre 2011, presso la Sala Conferenze di Palazzo Risolo di Specchia (LE), alle ore 18.00, si terrà il Convegno
 

Sud e Magia. La tradizione magico-astrologica nel Rinascimento Meridionale

Il convegno è organizzato dall’Associazione culturale denominata Officine filosofiche di Terra d’Otranto, nata con lo scopo di promuovere iniziative culturali concernenti il pensiero filosofico in Terra d’Otranto, con particolare attenzione al Rinascimento, che nell’occasione presenterà il programma delle sue attività.
L’evento vedrà la partecipazione di rinomati studiosi provenienti dal mondo universitario, nonché di giovani studiosi emergenti del panorama culturale salentino. Aprirà i lavori Vincenzo Santoro, responsabile dell’Ufficio Cultura dell’Anci, presidente dell’Associazione.
Nel corso dell’evento verrà presentato inoltre il sito Accademia Hydruntina. Enciclopedia filosofica del Rinascimento in Terra d’Otranto, diretto da Donato Verardi e con la partecipazione di un prestigioso comitato scientifico internazionale.
Interverranno Marco Santoro (Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Donato Verardi (Officine Filosofiche di Terra d’Otranto), Luana Rizzo (Università del Salento), Adele Spedicati (Università del Salento), Francesco Giannachi (Università del Salento).
È inoltre prevista la presenza di Simona Manca (Vice Pres. e Ass. alla Cultura della Provincia di Lecce e di Valerio Stendardo (Assessore alle Politiche Giovanili del Comune di Specchia).


Programma

Sud e magia. La tradizione magico-astrologia nel Rinascimento meridionale

Specchia (Le), sala conferenze di Palazzo Risolo
25 settembre, ore 18

Interverranno:
Vincenzo Santoro, Presidente Officine Filosofiche di Terra d’Otranto
Sud e Magia. Le ragioni di un convegno

Marco Santoro, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Il Rinascimento meridionale. Ragioni e prospettiva di ricerca

Luana Rizzo, Università del Salento
Matteo Tafuri mago e astrologo di Terra d’Otranto

Donato Verardi, Officine Filosofiche di Terra d’Otranto
Le immagini celesti nella “Magia naturalis” di Giovan Battista Della Porta

Francesco Giannachi, Università del Salento
Da Casole a Zollino. Divinazione ed Astrologia in Terra d’Otranto tra Medioevo e Rinascimento

Adele Spedicati, Università del Salento
Il tema della magia nelle “Opere magiche” di Giordano Bruno

Porteranno i loro saluti Simona Manca, Vice Presidente e Assessore alla Cultura della Provincia di Lecce, Valerio Stendardo, Assessore alle Politiche Giovanili del Comune di Specchia

Nel corso dell’evento verrà presentato il sito
Accademia Hydruntina. Enciclopedia filosofica del Rinascimento in Terra d’Otranto (www.accademiahydruntina.it)
a cura di Donato Verardi

con il patrocino di
Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale
Dipartimento di Filologia Classica e di Scienze Filosofiche dell’Università del Salento
Assessorato alla Cultura della Provincia di Lecce
Comune di Specchia

segreteria organizzativa: officinefilosofiche@gmail.com

Gallipoli. Luca Giordano e il dipinto di Maria SS.ma della Purità

Luca Giordano: documento inedito del dipinto di Maria SS.ma della Purità di Gallipoli

 

di Antonio Faita

Nella seconda metà del Seicento la pittura napoletana rinnovò il suo linguaggio in modo moderno e maturo grazie alla presenza e all’attività di due artisti: Mattia Preti e Luca Giordano.

Interpreti felici della pittura barocca, i due artisti dettero inizio alla loro carriera con un’adesione sentita e partecipata al naturalismo caravaggesco. I termini maggiormente utilizzati per definire Luca Giordano sono libertà espressiva, energia creativa, rapidità dell’esecuzione, vastità della produzione. La libertà espressiva fu ciò che lo contraddistinse sin da giovane, quando, allievo di Mattia Preti, apprese soprattutto lezioni di metodo. In tal modo iniziò a dar corpo al suo giovanile desiderio di rinnovamento, dettato da quell’energia creativa che lo accompagnò durante tutto il suo lungo percorso formativo.

Luca Giordano diede vita ad un numero ingente di opere con una rapidità nell’esecuzione ineguagliabile al punto che gli valse, secondo quanto riportato dal biografo Bernardo de Dominici, il soprannome di “Luca fa presto”.

Anche Gallipoli, la bella città jonica, può vantare una testimonianza del grande pittore napoletano. Trattasi del dipinto su tela del grande altare marmoreo del ‘6001, raffigurante “Sancta Maria Puritatis”, ubicato in una delle più interessanti chiese della città, la chiesa a lei intitolata, un vero gioiello che raggiunge le tonalità più alte dell’arte plastica figurativa2.

Il dipinto è un autentico capolavoro, uno dei pochi quadri del  pittore napoletano, siglato in basso sulla destra, con le lettere L. G., intrecciate e seguite da una F (Luca Giordano fece). Da notare, inoltre, che nella

Anche Muro Lucano rivendica un posto nella santità di Benedetto XIII

di Giuseppe Massari

Giustamente, anche la città di Muro Lucano, in provincia di Potenza, essendo stata uno dei feudi della famiglia Orsini, rivendica un posto nel processo di beatificazione e nella futura gloria degli altari del servo di Dio, Benedetto XIII. Purtroppo, per noi, ma non è mai tardi per venire a conoscenza delle cose, a circa oltre un anno di distanza abbiamo appreso di un carteggio tra il comune di Muro e il vicariato di Roma. Infatti, il 3 giugno dell’anno scorso, così scriveva, il sindaco della cittadina lucana, Gerardo Mariani, al cardinale Vallini, vicario del papa per la città di Roma: “Eminenza Reverendissima, questa Amministrazione Comunale con grande esultanza ha appreso l’inizio del processo canonico di beatificazione per il papa Benedetto XIII, al secolo Pierfrancesco Orsini, in quanto da seminarista frequentò il seminario diocesano di Muro Lucano, della cui città gli Orsini erano feudatari. Il seminario vescovile, fondato nel 1565, è stato tra i primi in Italia. A tal fine mi permetto di sottoporre all’attenzione di Vostra Eminenza reverendissima che

Libri/ Le suppellettili in argento del museo diocesano di Brindisi

MUSEO DIOCESANO

GIOVANNI TARANTINI

BRINDISI

 

XXI  Colloquio  sui  Beni  Culturali  

 

Presentazione del libro di

GIOVANNI BORACCESI

Le Suppellettili in argento del museo diocesano “Giovanni Tarantini” di Brindisi

Foggia, Grenzi Editore, 2011.

 

 

 

Storie di lupi mannari. Dall’antica Grecia al Salento

SALVE, SONO IL LUPO CATTIVO!

di Paolo Vincenti

Nel 2006 Annu novu Salve vecchiu ha compiuto vent’anni. Sulla copertina del primo numero, un disegno di Vito Russo ritraeva una befana che volava nel cielo di Salve, illuminato da una bellissima luna piena, che era legata ad un filo da un fanciullo (forse il giovane pittore), il quale, seduto su una terrazza con due comignoli fumanti, voleva come tirar giù dalla luna, con la sua corda di aquilone, i sogni; e allo spettacolo assisteva sorniona una gatta, forse tramutazione di qualche invidiosa megera del paese1 .

Già dal primo numero, l’autore della copertina aveva voluto rappresentare Salve nel suo aspetto più nascosto e suggestivo, quello magico e misterioso dei miti e delle leggende di cui Salve, più di ogni altro paese del Capo di Leuca, è ricchissima.

A distanza di quasi dieci anni da quel primo numero, frutto più della scommessa di un gruppo di giovani amici e “ardimentosi” salvesi che di un calcolato progetto editoriale, nel 1995, Antonio Vantaggio dava alle stampe Salve-miti e leggende popolari (Edizioni Vantaggio), una summa di tutte le leggende popolari (arricchita da qualche racconto partorito dalla fervida fantasia del poeta Carlo Stasi) fino ad allora conosciute su Salve.

Anche in questi vent’anni di vita del periodico, numerosi e tutti pertinenti sono stati i contributi sulle tradizioni orali e sugli aspetti folklorici, magici e leggendari della terra di Salve, da parte dei collaboratori di Annu novu. Ricordiamo, allora, la leggenda della Vergine del SS. Rosario; la leggenda del ritrovamento dell’immagine della Madonna delle Gnizze; quella del

Castro Marina. Quando finisce l’estate?

#41
ph Vincenzo Gaballo

di Gianni Ferraris

Quando finisce l’estate? Domanda banale in fondo. Per i calendario termina il 21 settembre. Posto questo assioma, supponiamo che il 22 settembre ci siano 38 gradi, chi di noi uscirebbe con un maglioncino di lana, l’ombrello e un giubbino perché “l’estate è finita”? Soprattutto chi, se libero da impegni, non approfitterebbe per passare una giornata al mare?

Mi ponevo questa domanda  domenica 18 settembre rosolando al sole a Castro Marina. La temperatura era estiva nel senso più caldo del termine, e l’acqua piacevolmente fresca. Di solito frequentiamo spiagge libere, non certo perché ci fanno ribrezzo gli stabilimenti, anzi, sostanzialmente per abitudine, oltre che per la scelta di poterci spostare dove ci piace.

Oggi lo stabilimento, l’unico, di Castro marina era aperto  e senza cassa all’ingresso. Era diventato spiaggia libera.  Spariti ombrelloni, lettini, sdraio, sparite le docce sostituite poi da una gomma per annaffiare le piante, ed era stata smurata (letteralmente visti i frammenti di cemento pericolosi, pungenti e zozzi che stavano lì attorno) la scaletta che agevolava la risalita dall’acqua. Il chioschetto bar era rigorosamente chiuso e squallidamente era in pieno sole il gazebo di fronte al chiosco in quanto le coperture erano state tolte.

Semplicemente, banalmente, ironicamente, i gestori hanno stabilito che il 15 settembre l’estate era finita. Alla faccia di chi parla di destagionalizzare il turismo. Le centinaia di persone che affollavano   Castro erano praticamente allo sbando,  solo i bar della piazzetta funzionavano, ma quelli stanno aperti

Argenti salentini. Il tronetto eucaristico della cattedrale di Gallipoli

IL TRONETTO EUCARISTICO

NELLA CONCATTEDRALE 

DI  S. AGATA IN GALLIPOLI

di Francesco Cazzato

Quando Montesquieu, in una delle sue famose Lettres persanes, condannava l’oro e l’argento come “metaux d’eux-memes absolument inutile et qui ne son des richesses que parce qu’on les a choisis en etre les signes”, faceva torto al suo pur acutissimo senso storico, dal momento che trascurava di metter nel conto della nobiltà e “utilità” di quei metalli, la consistenza e il significato della lunga tradizione artistica alla quale essi sono collegati.

Meno raro dell’oro, meno diffuso del rame nel mondo antico, l’argento ha assecondato, da sempre, con la sua malleabilità e con la bellezza del suo bianco fulgore, la fantasia creativa dell’uomo, nell’inesauribile istinto di trasfondere un’idea di bellezza sugli oggetti consueti della vita quotidiana, non meno che sugli strumenti e i simboli delle manifestazioni religiose.

Ora, assodato il ruolo-guida demandato agli argenti per accrescere la solennità della liturgia, è da rilevare che tanto le statue e i busti dei santi, quanto gli apparati da utilizzare sugli altari concorrevano, insieme alle stoffe preziose, a riverberare il brillìo delle luci in un’atmosfera di forte misticismo, ma anche di teatrale rappresentazione.

Napoli, primi scorci del Settecento: trecentocinquanta e più botteghe di argentieri convertivano gli enormi quantitativi di argento provenienti dalla Spagna e da questa importati da Città del Messico, in splendidi oggetti per una committenza ecclesiastica e laica di alto rango, dalle illimitate disponibilità economiche e per una classe poco abbiente, ma spinta dalla cieca fede a generose offerte. Sono questi gli ingredienti che, all’alba del XVIII secolo, trasformarono una materia, un regno e un’attività artigianale, in una delle massime e qualificate espressioni artistiche della civiltà rocaille, fino a toccare vertici produttivi e artistici, talmente alti e vasti da non trovare riscontro in altri centri italiani ed europei.

Sul piano ecclesiastico, dopo la Riforma Cattolica, la creazione di un “tesoro” patrimoniale e devozionale era quanto veniva raccomandato ai vescovi all’atto della nomina, e soprattutto nel Regno di Napoli, questa indicazione venne eseguita senza reticenze, ma con molta convinzione.

Gallipoli, sede di cattedra vescovile da secoli, fu assorbita enormemente in questo vortice di munificenza e magnificenza dell’arredo ecclesiastico e i vescovi che si alternarono nel XVIII secolo, in una tacita emulazione, fecero a

Quando provare ad eliminare significa recuperare, ovvero il capitone e il compositore…

di Armando Polito

Chi, soprattutto tra persone della mia età avvezze da tempo all’uso del pc, non decide ogni tanto di fare un po’ di pulizia eliminando files obsoleti, programmi superati o mai usati e simili? La cosa è piuttosto frequente quando il materiale da eliminare si trova su un hard disk (anche perché, al di là dei tera di cui si dispone e dei dispositivi interni o portatili, arriva sempre il momento in cui lo spazio per memorizzare altro è insufficiente) ma quando esso è stato depositato a suo tempo  su un supporto non riscrivibile l’operazione viene sempre rimandata perché è fastidiosa (bisogna controllare il contenuto, il che richiede tempo e la richiesta diventa intollerabile quando del contenuto del supporto vale la pena salvare qualcosa), senza trascurare quelle motivazioni psicologiche (probabilmente distorte, forse un po’  meno di quelle di coloro che buttano via il cibo fresco o un paio di scarpe quasi nuovo… ) che spingono qualcuno come me in un eccesso di affettività a non sbarazzarsi di ciò che per gli altri (inclusa mia moglie…) è solo cianfrusaglia.

Recentemente son rimasto senza pc per una settimana e, siccome credo che anche un nano  (con tutto il rispetto) non sarebbe in grado di usare la tastiera del palmare di mia moglie senza premere almeno tre tasti contemporaneamente, ho rinunziato perfino a controllare con quello strumentino (tiè!…) la casella email. Per non annoiarmi ho deciso di fare un po’ di pulizia nella stanza in cui lavoro (anzi, gioco, sempre secondo mia moglie…) e solo nel riordinare (lungi da me l’idea di buttare qualcosa, anche perché bisogna prima controllare, ma senza pc come si fa?…) le pile di cd e dvd mi sono imbattutto in un cd con la dicitura (per mia sfortuna essa non compare in tutti) backup novembre 1999. Mi ha assalito un attacco di autovoyeurismo che ho potuto soddisfare solo l’altro ieri, al rientro del pc. Vi ho trovato, tra altre cose da buttar via, due che mi sono precipitato a memorizzare su un nuovo dvd (lascio alle mie figlie l’incarico di controllarlo prima di buttarlo…e la perversione continua ). Si tratta di un fotogramma tratto da una vecchia pellicola in super 8 in cui si vede mio cognato Giuseppe accanto a sua sorella (mia moglie Annarita) a sua madre (Concettina)  e al cognato Luciano che esibisce un capitone di notevoli dimensioni; io non compaio perché ero in quel momento l’operatore.  Quel fotogramma era destinato ad attestare la veridicità di quanto asserivo nel post Li  cicèri del 6 settembre u. s. ma, dopo averlo cercato inutilmente per più giorni, avevo rinunziato ad inserirlo. Lo faccio ora.

L’altro documento ritrovato è enormemente più importante, e non solo perché risale al 1575 e riguarda un compositore di Nardò.

Si tratta della copia digitale di una copia fotostatica, consultabile al CRSEC di Nardò, di un libro custodito nella Biblioteca Estense di Modena. Eccone il frontespizio.

Siamo in presenza di un’opera seriale, dal momento che ho notizia di un terzo1 libro del Serafico stampato nel 1581 sempre a Venezia ma, questa volta,  da Girolamo Scoto erede e custodito a Bologna  nel Museo Internazionale e Biblioteca della Musica. Va detto che pubblicazioni di tal genere fiorirono nella seconda metà del XVI° secolo e che il nostro autore probabilmente è un pigmeo (almeno rispetto alla quantità, sulla qualità, totalmente digiuno di cultura musicale, non ho l’incoscienza di dire la mia) rispetto a giganti come Giovanni Andrea Dragoni2 e, soprattutto, Filippo di Monte3.

Ma chi era Fra’ Benedetto Serafico? Mi ero posto questa domanda la prima volta che incontrai il testo in questione, ma riservai la risposta a tempi migliori; poi il destino ha voluto che essi coincidessero con l’avaria del pc.

Il suo nome non compare nel Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto (Lacaita, Manduria- Roma, 1999) e quest’assenza è giustificata solo in parte dal fatto che non ne conosciamo la casata, dal momento che Benedetto Serafico è il nome assunto nell’Ordine. Tutto ciò che è dato sapere sul suo conto è legato al contenuto delle dedica che di seguito riproduco e trascrivo fedelmente.

ALL’ILLUSTRISSIMO ET ECCELLENTISSIMO SIG. MIO E PADRONE OSSERVANDISSIMO Il Signor Nicolò Bernardino Sanseverino Prencipe di Bisignano.4

Nel dar in luce questo mio primo parto Illustrissimo & Eccellentissimo Sig. Ho voluto fare a quella guisa che ne’ Theatri sogliono far coloro, che della prospettiva non sono ignoranti, i quali le statoue (sic) e li segni che per alcuni mancamenti dubitano ch’a gli occhi de’ loro (corretto manualmente) riguardanti non abbiano da sodisfare nelle parti più alte, & estreme ripongono, accioche (sic) con la lontananza ricoprano il difetto di quelli. Perciò che vedendolo io già maturo, e che le mie forze non possono farlo più perfetto, e conoscendolo non essere così intiero nelle sue parti,come si devrebbe; ho voluto porlo alla vista de gli huomini discosto da ogni occhio nella lontananza, e sublimità della grandezza di V. E. rendendomi sicuro, che sì come il Sole col molto lume abbaglia talmente la vista di chi mira, che no’l lascia scerner le stelle (non che l’altre cose più oscure, che per lo cielo insieme con lui corrono;) così anco il molto lume ch’a questi miei Madrigali darà lo splendore del sangue, e della virtù di V. E. farà, che non siano visti da quelli, che con maligno occhio li riguardano. Ella li prenda in grado solamente, ch’a me basterà, ch’à lei non dispiacciano. Non starò a dire, che miri l’animo grande di servirla, non alla piccolezza delle cose mie, e del dono, che se l’appresenta. Perciò che la generosità dell’animo suo è tanto grande, che supplicandola di questo le farei torto. Onde baciandole humilmente le mani, e pregando nostro Signor che le dia ogni colmo di felicità, quì fò fine. Di Napoli. A l’ultimo d’Aprile 1575.

Di Vostra Eccellenza

Obbligatissimo Servitore 

F. Benedetto Serafico.  

Non aggiunge granché alla nostra conoscenza la pagina seguente dedicata ai lettori, che, tuttavia, riporto (e trascrivo) perché costituisce una, simpatica quanto inconsueta, precauzionale rivendicazione del diritto d’autore ante litteram, con l’applicazione di una sanzione esclusivamente morale, anche se gli strumenti notarili citati suppongono una sorta di registrazione dell’opera e non escludono un’eventuale richiesta di risarcimento per avvenuto plagio.

AI LETTORI IL SERAFICO

Sono già da quattro anni benignissimi Lettori ch’io diedi questo medesimo libro di Madrigali a cinque voci a M. Oratio Salviani Romano libraro in Napoli, perch’egli li mandase a stampare a Venezia. Poi havendomi detto il medesmo M. Oratio haverlo inviato a detto loco, et che si fusse smarrito, io mi posi di nuovo a copiarlo et darlo fuora, toltone però alcuni Madrigali che erano in quello, et aggiontone gl’altri che dopò (sic) era venuto componendo. E perche (sic) dubito, che qualch’uno (sic) non l’habbi occupato overo attribuito a se stesso, ho voluto di ciò avertirli (sic), accioche (sic) se ciò accadesse, o fusse accaduto possiate convincerlo di manifesto furto, et tornate le sue fatiche al proprio auttore far quella beffa di lui che fecero i Pavoni della sfacciata Cornacchia, e così l’insegnaste a tenersi dentro la sua pelle, come si suol dire, e chi a pieno vorrà di ciò certificarsi, potrà il tutto vedere in Napoli nella Curia di seggio di Nido per un’istrumento fatto per mano del (sic) egregio Notaro Coluccio Casanova ne l’anno 1571 nel dì diece, et nove di Maggio; et per un’altro (sic) nella Vicaria scritto li dì diece di Ottobre, ne l’anno 1573 per mano del magnifico Terracciano Maestro de atti di detta Vicaria, presente il Reverendo Don Francesco Orso di Cilano Stefano Felis, et il Magnifico Messer Tarquinio persona di Gallipoli mio Procuratore in detta causa, et con questo vivete lieti virtuosi Lettori, e rendetevi sicuri che il Serafico è più di voi che di se stesso, tanto più s’intenderà havrete aggradite, queste sue fatiche, il che facendo li darete animo a gustar dell’altri frutti che produrrà piacendo al Signore il giardino del suo, benche (sic) non molto fertile ingegno.      

Non domo per il mio fallimento come storico, mi avventuro ora su un terreno a me, almeno in teoria, più congeniale. Non esordisco felicemente neppure in questa parte perché per la definizione della parola madrigale cito passo passo quanto è riportato nel vocabolario Treccani on line:

madrigale s. m. [etimo incerto].

1. 

a. Componimento poetico di origine popolare, che compare in Italia almeno dal sec. 14°, consistente all’inizio in un breve quadretto di natura campagnola e pastorale, talvolta tendente all’epigramma, con uno schema metrico fisso (due o tre terzine di endecasillabi variamente rimati seguiti da 1 distico a rima baciata o 2 a rima alternata), più tardi di tono complimentoso e galante, in endecasillabi o settenarî. 

b. In musica, il termine indica sia le intonazioni a due o tre voci di madrigali trecenteschi, opera di musicisti italiani attivi nel sec. 14° e che appartenevano alla corrente stilistica dell’ars nova, sia la maggior parte delle composizioni polifoniche su testi profani non strofici scritte, soprattutto in Italia, a partire dalla prima metà del sec. 16° e che erano denominate madrigali indipendentemente dalla forma metrica del testo musicato (poteva trattarsi di madrigali cinquecenteschi, di stanze di canzone o di ballata, di ottave, di sonetti, ecc.): i m. di F. Landini, di C. Monteverdi, ecc. M. spirituale, madrigale poetico o musicale d’argomento sacro o devozionale. M. concertato, madrigale musicale scritto per un organico vocale e strumentale secondo la tecnica del basso continuo e molto diffuso nei primi decennî del Seicento. 

2. fig. Complimento galante, scherzoso o lezioso: si compiaceva nell’ascoltare i madrigali dei suoi ammiratori.  Dim. madrigalinomadrigalétto; spreg. madrigalùccio; accr., scherz.,madrigalóne.

È evidente che i madrigali scritti dal nostro rientrano in 1b, ma è altrettanto evidente che tutti i madrigali musicalmente intesi sono figli, per quanto riguarda il testo, di quelli letterari. A questo punto era fatale per me restare vittima della voglia di individuare le fonti testuali. Siccome, però, il risultato è piuttosto corposo, mi limito qui a proporre solo un saggio: un pezzo del Petrarca (XIV° secolo) ed uno del Sannazaro (XV°-XVI° secolo), ma il Serafico si serve anche di altri autori come l’Ariosto e il Bembo (XV°-XVI° secolo).

Francesco  Petrarca, Canzoniere, rime in morte di Madonna Laura, canzone XLVI, vv. 67-72

O voi che sospirate a miglior notti,

ch’ascoltate d’Amore o dite in rime,

pregate non mi fia più sorda Morte,

porto delle miserie e sin del pianto.

Muti una volta quel suo antico stile,

ch’ogni uom’attrista e me può far sì lieto. 

Jacopo Sannazaro, Rime, canzone V, vv. 13-18

O fere stelle, omai datemi pace;

e tu, fortuna, muta il crudo stile:

rendetemi a’ pastori ed alle selve,

al cantar primo, a quell’usate fiamme;

ch’io non son forte a sostenere la guerra

ch’Amor mi fa col suo spietato laccio.

Ho già detto della mia totale ignoranza della musica, ma gli spartiti appena riprodotti vogliono costituire un invito all’appassionato e al competente perché dia a questo post l’integrazione che il compositore di Nardò, comunque, merita.

________

1 Il secondo è definito perduto in Claudio Sartori, Enciclopedia della musica, Rizzoli-Ricordi, Milano, 1972-1974, v. IV°, pag. 298.

2 Di Giovan’Andrea Dragoni da Meldola maestro di capella di s. Gio. Laterano, il primo libro de madrigali a cinque voci, con un dialogo a otto nel fine,  Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1575.

Di Giovan’Andrea Dragoni da Meldola maestro di capella di s. Gio. Laterano, il secondo libro de madrigali a cinque voci, Venezia , erede di Girolamo Scoto, 1575.

Di Giovan’Andrea Dragoni da Meldola maestro di capella di s. Gio. Laterano, il terzo libro delli madrigali a cinque voci, con uno a sette nel fine, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1579.

Di Giovan’ Andrea Dragoni maestro di capella di s. Gio. Laterano, il primo libro de madrigali a quatro voci,Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1581.

Di Giovan’ Andrea Dragoni maestro di capella di s. Giovan Laterano, il primo libro de madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1584.

3 Il primo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1574

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà de l’imperatore Massimiliano secondo, il primo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1576.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il quarto libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1576.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci. – Venezia : erede di Girolamo Scoto, 1576.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il secondo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1576.

Di Filippo De Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il terzo libro delli madrigali a cinque voci, con uno a sette nel fine, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1578.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1580.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il primo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1582.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, iI secondo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1582.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il primo libro de madrigali a sei voci , Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1583.

Di Filippo De Monte, il primo libro de madrigali a quatro voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1586.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1586.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della sacra cesarea maestà de l’imperatore Rodolfo secondo, l’ottavo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1586.

Di Filippo Di Monte maestro di cappella della sacra cesarea maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1598.

4 (1541-1606), V° principe di Bisignano, figlio di Pietro Antonio e Irene Castriota Scanderbeg, sposò nel 1565 Isabella della Rovere, principessa di Urbino.

Nespole. L’ultimo frutto dell’estate

 

Col tempo e con la paglia maturano le nespole (Meddrhe – Mespilus germanica L.)


di Antonio Bruno

Mespibis germanica L. i Greci antichi lo chiamavano méspilon, Linneo pensava, sbagliando, che la Germania fosse l’area d’origine. Il caro amico Gigi, grande affabulatore, narratore del mondo che riesce a penetrare con le sue parole misteri altrimenti inesplicabili ha puntato il faro della sua sapienza sulle Meddrhe o Nespolo Comune costringendomi a ricordarlo e a farvelo ricordare.

Thre suntu le cose ca ti nnudacanu lu core: le meddrhe, li cutugni e le male parole” Traduzione “tre sono le cose che lasciano senza respiro il cuore: le nespole, i cotogni e le cattive parole”

Se l’agricoltura e il turismo vanno di pari passo ecco che nelle strutture di accoglienza appaiono gli alberi da frutto di cui sente parlare poco che producono frutti misteriosi e tra questi le “Meddrhe”, che poi sono le Nespole che vengono prodotte dal Nespolo Comune o Mespilus germanica. Era domenica scorsa quando Gigi Di Mitri sapientemente ha iniziato a parlare di ciò che nella vita conta, dei sapori e degli odori del Salento leccese ed è così che me l’ha ricordato durante una cena vegetariana a Zollino. Il caro amico Gigi, grande affabulatore, narratore del mondo che riesce a penetrare con le sue parole misteri altrimenti inesplicabili ha puntato il faro della sua sapienza sul Nespolo Comune costringendomi a ricordarlo e a farvelo ricordare.

Chi fa accoglienza rurale, e anche chi fa accoglienza in questi splendidi alberghi del Salento leccese, se offre agli ospiti il gusto di questo frutto ecco che riesce a dare un immagine di genuinità evocata da queste essenze arboree dell’ambiente antico del nostro Salento leccese che in tutti i tempi, e ora come allora, è stato attraversato dai popoli della terra che dal Nord andavano ad Est e che oggi da Sud arrivano in Europa.

I Greci antichi lo chiamavano méspilon e nespolo deriva dal latino Mespilium, tradotto dal greco mespilon, che si riferisce a biancospini orientali simili a questa pianta da frutto.
Le meddhre (Mespilus germanica) erano frutti consacrati al dio greco Crono e al Dio latino Saturno perché era considerato utile arma di difesa contro le energie negative degli stregoni.
Pare che il primo maggio, secondo la credenza, gli stregoni potevano privare la pianta del fogliame e renderlo sterile per non riprodurre i suoi frutti, ma solo se la pianta non era stata benedetta.
Anticamente i medici credevano che avesse il potere di regolare i flussi intestinali. Questa utilizzazione riprese all’inizio del secolo con una sperimentazione a livello ospedaliero da parte di un medico francese, il Dott. Mercier, che ottenne buoni risultati sulla regolazione delle diarree.
Nel Bollettino della Società dei naturalisti in Napoli è riportato uno scritto del Della Porta sulle varietà di nespolo (Mespibis germanica L.) che si coltivavano ai suoi tempi:
“I nostri nespoli sono di due specie, uno a frutto grande quasi quanto una mela, coi rami privi di spine, ed è coltivato e perciò ha perduto l’abito selvatico; l’altro, irto di spine, che nasce nelle selve e nei luoghi incolti , a frutto piccolo e più acerbo e che appena si può mangiare dopo che si è maturato lungo tutto l’inverno, e a Napoli lo chiamano niespolo canino. Ve n’è poi una terza specie, a frutto più stretto ed allungato, senza noccioli, che credo piuttosto un prodotto della coltura e della bontà del terreno, piuttosto che un genere diverso, perchè dallo stesso albero si hanno frutti rotondi con nòccioli e frutti oblunghi e senza noccioli”.
Quindi ci sono tre varietà di nespolo cioè il Mespilus germanica L., che corrisponde al nespolo canino; il M. g. apyrena, che è Vinternis ossihìis carens di Della Porta; e il M. g. fructìt maximo, che è quello descritto

E’ un un albero che ha avuto origine nella penisola balcanica sud orientale, nel Caucaso, in Crimea, nel Nord dell’Iran ed in Turkmenistan. Il nome germanica che fu adottato da Linneo riteneva da una presenza molto forte in Germania che fece pensare a Linneo che quella fosse l’area d’origine.
Era noto insieme al cotogno come frutto astringente; infatti Nicolas Alexander, benedettino, nel 1751 scrive: “lo si impiega all’interno ancor verde, nei flussi di ventre, la dissenteria, i vomiti, la nausea e in tutti i casi in cui le fibre rilasciate hanno bisogno di essere ristrette”.
Henry Leclerc medico francese 1870-1955 scrittore del libro Lineamenti di Fitoterapia fece uno sciroppo di nespolo che risultò efficace nelle diarree infantili.
L’albero può raggiungere l’altezza di 6 metri ed è caratterizzato quasi sempre da un tronco storto. Le foglie sono grandi e caratterizzate da una leggera peluria nella pagina inferiore e una seghettatura vicino alla punta, i fiori sono bianchi. Interessante la maturazione dei frutti: ricordate il vecchio adagio “col tempo e con la paglia maturano le nespole”? Bene, le nespole o meddrhe vengono raccolte in autunno e lasciate ammorbidire in un cesto mettendogli accanto un paio di mele per un paio di mesi. In questo modo diventano dolci altrimenti sono molto astringenti.
La decozione delle foglie e dei frutti è utile come gargarismo nei mal di gola.
La tradizione popolare conosceva l’impiego antidolorifico, in caso di mal di stomaco, dei frutti secchi polverizzati.
Il decotto dei frutti freschi, non ancora maturi, era somministrato nelle affezioni epatiche.
Forse ho scritto delle nespole, oltre che per la fortissima suggestione che mi ha dato domenica Gigi Di Mitri, perchè il tempo è galantuomo, lo riscontro in ogni circostanza e con il tempo “i muri si abbassano” come mi disse Rino De Filippi un vecchio ormai scomparso segretario di un vecchio e ormai estinto partito nel quale mi onoro tuttora di aver militato in giovinezza.
Bibliografia

Giancarlo Bounous, Elvio Bellini, Gabriele Beccaro, Laura Natarelli: Piccoli Frutti e Fruttiferi minori in montagna tra innovazione e tradizione
Markus Kobold:Liquori d’erbe e grappe medicinali
I Nostri frutti nelle TRADIZIONI POPOLARI e nella fitoterapia, Categoria Etnobotanica, Frutti, Tradizioni Popolari, Contributo al Convegno sui Frutti Dimenticati di Casola Valsenio http://www.etnobotanica.org/category/tradizioni-popolari/
Bollettino della Società dei naturalisti in Napoli 1914 http://www.archive.org/stream/bollettinodellas26soci/bollettinodellas26soci_djvu.txt
Henry Leclerc : Lineamenti di Fitoterapia
Elvio Bellini – Edgardo Giordani: Riscopriamo i fruttiferi minori

Taranto, Ponte Punta Penna Pizzone. Realtà o fantasia?

 

di Daniela Lucaselli

“Anche a non essere mai esistito, bisogna inventarselo il ponte che alcuni studiosi di antichità tarantine dicono congiungesse la Penna al Pizzone”

                                                                 (Vito Forleo, Taranto dove lo trovo)

Non tutto ciò che affermiamo è documentato come dato certo… spesso c’è traccia di leggenda…

E allora scopriamo e cerchiamo di saperne di più di questa città. Una prima disquisizione interessa il Ponte Punta Penna Pizzone.

Scrittori antichi e moderni hanno trattato o accennato all’antico ponte di Taranto. Esaminiamo insieme questi aspetti che risultano interessanti ed intriganti.

Ponte di Punta Penna Pizzone, visto dal lato Punta Pizzone

Il Merodio (1), nella sua  Historia tarentina parla dell’esistenza di un ponte fra Punta Penna e il Pizzone. Testualmente così scrive: “Però si vede chiaramente che il gran sito dell’antica città prima che fusse soggiogata da Fabio Massimo, poiché si vede il principio delle fosse della lama di S. Giovanni, luogo ormai distante dalla città 5 miglia circa, come anco hanno osservato li nostri antichi. Nel luogo dove oggi si dice il Pozzone era il Myonceo, come scrive Polibio (libro VIII), vicino al quale vi era il poggio detto di Apolline Giacinto alla riva del Mar Piccolo; dove anco era la famosissima porta chiamata Temenida dalla quale cominciava un superbo ponte sotto il quale scorreva detto mare e terminava alla riva opposta detta la Penna, dove era un gran borgo abitato dalli Piscatori, e guardato da una forte torre, per lo che fu detto Turripenna”.

Tale dato, riportato quasi esclusivamente da scrittori locali, lascia spazio a tanti quesiti, in quanto ci domandiamo come un’opera tanto determinante in

Suoni di pietra: indagine del Cnr nella chiesa grotta di San Michele

 

Gravina. San Michele delle Grotte

 

di Giuseppe Massari

Le chiese rupestri di Gravina in Puglia continuano a suscitare sempre di più e nuovi interessi da parte di studiosi e ricercatori, assetati e affamati di storia vera, autentica e genuina. O più esattamente, sempre più desiderosi di accostarsi alle fonti primordiali di una storia sacra che ha lasciato i suoi segni indelebili con le pitture murali, sottoforma di affreschi, ora bizantini, ora medioevali, ora tardorinascimentali.

Dopo l’intenso periodo di lavoro, durato circa 15 giorni e di cui abbiamo già scritto su questo sito, vissuto dall’ équipe di giapponesi, provenienti dall’Università di Kanazawa, guidata dal professor Miyashita, ecco che la città, situata sull’orlo del burrone e torrente da cui prende il nome, viene nuovamente “presa di mira”, con un nuovo progetto denominato: “Suoni di Pietra”.

Suoni di pietra è un progetto promosso dal Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari, dedicato alla caratterizzazione acustica di alcune chiese rupestri dislocate in diverse zone della regione: fra esse anche la Grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo sul Gargano.

Ingresso alla chiesa di San Michele

Scopo principale del progetto, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia, è lo studio, la catalogazione e la fruizione dell’ambiente sonoro delle chiese, al fine di valorizzare le caratteristiche acustiche e ricreare in realtà virtuale le atmosfere delle celebrazioni sacre dei secoli medievali.

Anche Gravina è stata inserita nell’iniziativa grazie al coinvolgimento, come storico locale, della prof.ssa Marisa D’Agostino, presidente dell’Associazione Amici della Fondazione E. Pomarici – Santomasi, incaricata di fornire un supporto storico alla ricerca, relativamente al sito preso in considerazione.. Infatti, nei giorni scorsi e quasi contestualmente alla missione giapponese, un gruppo del Cnr si è messo a lavoro,  per conto del Politecnico, per effettuare alcune prove tecniche e rilievi con il laser scanner all’interno della chiesa grotta di San Michele, la più rappresentativa del patrimonio rupestre gravinese. Dai dati che emergeranno, frutto di due giorni di permanenza in questa cavità naturale, potrebbero essere coinvolte anche altre chiese di ugual natura che insistono sul territorio,  ma potrebbero essere coinvolte anche alcune  scuole cittadine, soprattutto quelle medie  di secondo grado. Mentre la stessa chiesa, alcuni giorni fa è stata fatta oggetto da parte di vandali, incoscienti e criminali, di quell’atto sacrilego e blasfemo culminato nel trafugamento della corona dal capo della statua di san Michele.

Mentre da ogni dove vengono segnalati analoghi atti di insipienza umana, culturale, di aberrante inciviltà contro alcune testimonianze storiche e patrimoni culturali, che, comunque sono stati, purtroppo segnalati, nella speranza di sensibilizzare quanti e tutti a recuperare una dimensione di tutela, salvaguardia, vigilanza e fruizione, dall’altra si notano segnali positivi di ripresa di studi, di ricerche, finalizzati a far conoscere i misteriosi valori e potenzialità che questi tesori posseggono e conservano  e mai esplorati fin d’ora.

Tutto quello che è avvenuto, nel più stretto rigore scientifico, di competenza, di passione, di professionalità, può essere soltanto l’inizio di un interesse ridestato da parte di chi, facendo cultura tutti i giorni, è capace di dimostrare quanto siano importanti certi studi.

Quanto sia importante, non solo ai fini della conoscenza, non fermarsi nello scrutare ciò che non è mai un bene abbastanza definito o conosciuto. La internazionalizzazione, da una parte, con i docenti e gli alunni universitari di Kanazawa; la regionalizzazione o localizzazione, dall’altra, con il Politecnico di Bari, produrranno i loro frutti. Le loro risultanze saranno un’altra tappa  fondamentale nel cammino di ricerca, ma soprattutto, di nuovi strumenti da fornire ai visitatori, ad altri studiosi, ai turisti non distratti e non superficiali che interagiranno con le stesse realtà storiche già conosciute, ma con nuovi risvolti, con gli arricchimenti che la tecnologia più avanzata è stata capace di mettere e mettersi a servizio dell’uomo contemporaneo, frastornato, forse,  negativamente dai bombardamenti del tecnologismo abusato, incontrollato e non da quello positivo che lascia i suoi segni per riscrivere nuove e fresche pagine di storia.

San Mauro con il tetto rosa

di Gianni Ferraris

L’uomo ha raccolto tutta la saggezza dei suoi predecessori,

e guardate quanto è stupido

(Elias Canetti)

San Mauro con il tetto rosa. Parto dal bell’articolo pubblicato oggi, sabato 17 su Paese Nuovo, a firma Francesco Pasca (il sorriso rosa di San Mauro)  per comprendere, almeno per tentare di farlo. “Spero in un inizio di questo tipo se si vorrà raccontare un luogo. E’ così che vorrei iniziasse la nuova storia dell’abbazia di San Mauro… nella fattispecie di quel che oggi è un composto rudere onorato dal restauro posto “ieri” da altre motivazioni sulla Serra Salentina, sul gigante millenario che non è dato, né curato mai tingersi di verde, di spontanea macchia mediterranea…” prova ne siano le (artatamente) bruciacchiate sterpaglie attorno alla chiesetta che possono preludere ad un tentativo di cementificazione ulteriore della costa salentina.  E termina l’articolo con parole di liberazione autentica “Potessi farei tinteggiare di rosa il mondo, per ripulirlo con il Nuovo che non è questo Nuovo.”

I giovani, plurale,   arduo e troppo complesso per una sola persona, foss’anche un artista delle tinteggiature, hanno osato sfidare ed hanno dato visibilità, oltre che suscitare l’indignazione collettiva, ad una chiesetta abbandonata nonostante restauri fatti negli anni, hanno osato osare l’impossibile. Confesso

Il rosa di San Mauro

di Elio Ria

sanmauro-pink

La chiesa di San Mauro, austera, solitaria e guardinga. Un monoblocco di cristiane speranze, scarno, allocato sulla “rupe dritta”, fra sassi secolari e sterpi spinosi. Il Sud ha tanto da raccontare di chiese e di santi. Sciocchi noi a non sapere ascoltare. Stupidi a non apprezzare la bontà di una chiesa così singolare e umile. L’attrazione del mare è più forte e la chiesa vive il tempo dell’eternità, sconquassato nei mesi estivi dai rumori della discoteca sita a valle, sulla strada  Sannicola-Lido Conchiglie.

Questa chiesa che per secoli ha vissuto nell’anonimato di un luogo, fra tante difficoltà, ha saputo resistere all’incuria degli uomini. Oggi però è alla ribalta della cronaca per un atto vandalico perpetrato da ignoti disonesti.

Quando ho letto sul sito Spigolature salentine la notizia che il tetto della chiesa era stato imbrattato da vernice rosa, istintivamente ho sorriso. Ciò non sia inteso però come atto d’irriverenza. Ho invero ritenuto il gesto inusuale e inaspettato e sotto certi aspetti simpatico, perché colorare di rosa il tetto di una chiesa è in sé un fatto originale. Ovviamente  questa mia riflessione è da condurre alle concezioni e forme proprie  della mia poetica e non vuole in nessun modo giustificare l’atto. Quanto è stato fatto alla piccola chiesa è deplorevole e inqualificabile. Forse l’autore del gesto voleva lasciare una traccia di sé, un segno che potesse soddisfare la sua voglia di testimoniare qualcosa, come a volere dire “io ci sono”, “sto qui”.  Forse ha voluto emulare qualcuno che solo pochi giorni fa si è distinto a Roma per un altro gesto simile. È necessario capire e intervenire per aggiustare meccanismi perversi di rappresentazioni di follie individuali e collettive.

Ora la chiesa di San Mauro è in sofferenza, e solo Dio nella sua infinita bontà può perdonare l’uomo che ha sfigurato il monumento e il paesaggio rupestre. Gli uomini facciano il proprio dovere, attivandosi immediatamente per riportare le cose come erano prima, affinché la chiesa possa continuare a perpetuare il sentimento religioso di quei monaci basiliani che intesero tanti secoli fa erigere con la pietra dura e forte della terra del sud.

L’abbazia di San Mauro il giorno dopo

panorama dall’abbazia di San Mauro. Sullo sfondo la città di Gallipoli

di Marcello Gaballo

Non mi dò pace. Inutilmente cerco di darmi una spiegazione sul gesto inconsulto commesso nella giornata del 15 settembre ai danni del monumento insigne che da secoli domina il bellissimo tratto di costa ionica tra Gallipoli e Lido Conchiglie.

Alla cura meticolosa e sacra dei monaci italo-greci di rito bizantino che vi hanno officiato per secoli subentrò l’abbandono per oltre un secolo. Qualificati mercanti nel frattempo strappavano alcuni dei bellissimi affreschi che la decoravano. Finalmente il recupero da parte dell’amministrazione di Sannicola, nel cui territorio ricade il bene, con tentativi di rivitalizzazione dell’ameno luogo. Denaro speso per proteggerlo, per restaurarlo nelle parti più

San Mauro. Il Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto si costituisce parte civile

 

a cura del Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto 

 

All’indomani della denuncia contro ignoti presentata dal Comune di Sannicola (Le) proprietario dell’abbazia bizantina di San Mauro, nel tratto costiero S. Maria al Bagno – Gallipoli, a seguito dell’ignobile atto vandalico che ha colpito la chiesa abbaziale tingendone il tetto e le murature di vernice rosa, il Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto esprime tutta la propria indignazione per il grave gesto, che testimonia ancora una volta lo stato d’emergenza in cui versano i beni culturali della Nazione.

Da tempo denunciamo ripetutamente lo stato di abbandono e negligenza di chi, pur avendo l’obbligo di provvedere alla cura e salvaguardia dei monumenti, di fatto non reputa necessario procedere ad azioni all’uopo mirate, e che costituisce la base su cui si sviluppano gli atti vandalici che tristemente registriamo in maniera ripetuta.

Augurandoci che le forze di pubblica sicurezza concludano nel tempo più breve le indagini e si giunga all’identità dell’attentatore, sin d’ora comunichiamo la nostra intenzione a costituirci parte civile nel processo a

Poesie al santo di Copertino

LEVITAS VOLAT

di Maria Grazia Anglano

E’ stata una particolare esperienza quella del calarsi nella vita di Giuseppe Desa da Copertino. Il santo dall’eccezionale carisma della profusione completa, di corpo e spirito, nel Verbum Dei, sino a sollevarsi in volo.

Tutti i suoi accadimenti sono diventati per me come una seconda pelle, da cui permeare le difficili vicissitudini della sua vita. Ad iniziare dalla sua fanciullezza passata in solitudine a causa della sua salute, passando poi alla sua, spesso ribadita, inettitudine. Senza poi tralasciare il suo particolare attaccamento all’immagine della Madonna della Grottella. Nella quale probabilmente, sublimava il mancato affetto di sua madre Franceschina, donna parca di effusioni, dal carattere duro.

Le poesie che qui seguono nascono, e si ascrivono, all’interno di una

Il canto della terra di Uccio Aloisi

a cura di Stefano Donno

Questo lavoro, che si compone di un libretto e un CD audio, vuole essere un omaggio alla memoria di Uccio Aloisi, una delle personalità più emblematiche della cultura popolare salentina. Riflessioni e ricordi di chi a vario titolo ha conosciuto e frequentato Uccio s’intrecciano e tessono il profilo umano e artistico del grande cantore, del maestro senza cattedra, “l’ultimo depositario di un alfabeto popolare fatto di tamburelli e canti d’amore, che ha messo a disposizione la sua sapienza, per accompagnarci qui, sotto il palco aperto di un Salento postmoderno” (Milena Magnani).

Contadino, cavatore d’argilla, bracciante, Uccio ha già 50 anni quando la ricerca etnomusicologica si accorge di lui: è del 1978 la prima incisione di quattro brani eseguiti a Cutrofiano da Uccio Aloisi e dal suo compagno di canto Uccio Bandello: di quest’ultimo colpiva la potenza della voce, di Aloisi la

Incredibile scelleratezza nei confronti dell'abbazia di San Mauro!

 

 

 

VIOLATA L’ABBAZIA SAN MAURO!

 

di Danilo Scorrano

L’antica abbazia bizantina di San Mauro la scorsa notte è stata imbrattata da vernice rosa shocking.

Il tetto completamente dipinto e le facciate esterne rigate dalle scolature è questa la sconcertante scena presentatasi davanti agli occhi dei carabinieri di Sannicola e degli assessori del comune accorsi sul posto appena ricevuta la segnalazione. Prontamente si è provveduto a denunciare l’episodio alla

Fra un sole d’estate e un’ombra di settembre

di Elio Ria

lunacalante

Non sopporto le ombre fragili del salice piangente che seppure delicate e innocue appaiono superbe per ingannare il sole di settembre in crogiuoli cromatici di arcobaleni e m’annoio di illusioni di autunno che sempre tra l’estate se ne sta e morire mi fa l’attesa di un guizzo d’inverno.

Ora me ne starò buono a comporre l’epilogo del sole che nell’ assopirsi consente alla notte di governare i destini e assoggettare a sé lune disperate.

Scirocco con le labbra di miele ad est del mare dello Ionio accudisci onde ribelli e nelle ore del desio accomodi lune infeconde. In disubbidienza alle stelle ti inventi notti dal passo lento per ritardare avvenire di giorno.

Rivelerò i miei versi nell’ora dell’addio alla musa che sopportò e tacque e immaginò per me giardini di serenità strappati ai demoni dell’inquietudine che mal sopportarono l’idea di un altro demone a dominare su di loro e nelle ore del pianto comprenderanno d’essere stati stolti.

 

da www.elioria.com

Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (I parte)

La città dei morti tra storia e memoria del passato.

Un esempio salentino: il cimitero di Nardò.

di Gabriella Buffo

“E’ da un pezzo che la Filosofia ha intimato il bando alle sepolture, e ai cimiteri non solo fuori delle chiese, ma anco fuori delle città, e lungi dall’abitato per la semplice ragione, che i morti non debbono ammorbare i vivi. Se le nostre Chiese sono pavimentate di cadaveri, qual maraviglia il trovarci spesso desolati da tante malattie pestilenziali”[1].

Così scriveva Francesco Milizia, teorico e critico di Oria, nel suo trattato Principi di Architettura Civile (1781), rilevando il grosso problema igienico sanitario legato alla consuetudine di tenere esposti i morti per lungo tempo nelle chiese e seppellirli poi sotto i loro pavimenti o nei cortili degli ospedali e delle confraternite.

Se il diritto funerario romano aveva respinto, per secoli, con la decima legge delle XII Tavole [2] (homine mortum in urbe ne pepelito neve urito) le sepolture fuori dalle mura delle città, per preservare la sanctitas delle abitazioni è “con il Cristianesimo che avviene il passaggio dalla negazione alla familiarità della morte che porterà in epoca medioevale all’inurbamento dei luoghi di sepoltura”[3].

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare fiaccole con ali e globo terrestre

Nei primi secoli dopo Cristo, infatti, si afferma la pratica delle sepolture ad sanctos o martyribus sociatus, affinché fosse più facile il cammino del defunto verso la resurrezione: in Christianis mors non est mors, sed dormitio et somnus appellatur, così afferma S.Girolamo nella XXIX epistola, secondo il quale la morte non può più far paura perché è vista come sonno eterno.

Le chiese accoglievano le sepolture dei nobili in ambienti ipogei posti in prossimità o davanti alle cappelle laterali di patronato di una certa famiglia; il clero, invece, aveva sepoltura in un unico ambiente sotterraneo, posto in prossimità del presbiterio e dell’altare maggiore; i popolani erano ammucchiati uno sopra l’altro senza cassa, avvolti solamente in un sudario, all’interno della navata centrale lungo due o più corridoi sotterranei ovvero in fosse molto larghe.

“Il posto più ricercato, e quindi più costoso, che si pagava generalmente tramite lasciti testamentari per le preghiere, era il coro ovvero vicino al punto in cui si celebra la messa e dove sono conservate le reliquie del santo. La scelta del posto di sepoltura da parte dei testatori restava subordinata comunque all’approvazione del clero. Ed era quasi sempre una questione di denaro”[4].

Nelle chiese conventuali  trovavano sepoltura i frati ivi dimoranti e, in linea di massima, eventuali benefattori mentre, nelle chiese confraternali, erano ubicate le sepolture per i confratelli della congrega di pertinenza. In ogni paese, per sovvenire alle esequie dei poveri, c’era quasi sempre una confraternita della Buona Morte (spesso delle Anime Purganti) che provvedeva ai funerali e a fornire una cassa da usarsi solo per il trasporto (una sola cassa per tutti i beneficiati).

Il processo di separazione tra cimiteri e città inizia ad avviarsi già nel 1765 con un decreto promulgato dalle autorità civili parigine e, immediatamente dopo il 1787, con una disposizione austriaca nel Lombardo Veneto.

I Francesi, durante l’occupazione napoleonica (1809-1814), con la loro visione illuministica, che aspirava a rimodellare le città secondo criteri di ordine, bellezza e igiene, misero al bando la pratica medievale della sepoltura ad sanctos o apud ecclesiam.

L’Editto Napoleonico di Saint Cloud del 12 giugno 1804, nell’occuparsi di molti aspetti di convivenza, entrò nel merito delle sepolture imponendo l’obbligo di seppellire i morti in appositi spazi recintati, fuori dall’abitato, allestiti per cura delle amministrazioni pubbliche, (art. 75, 76 e 77) e introducendo un controllo sulle iscrizioni funerarie, che dovevano essere consone allo spirito della rivoluzione francese e, pertanto, non contenere iscrizioni nobiliari. Le sepolture dovevano essere anonime e la collocazione della lapide era relegata ai margini dei cimiteri. La legge venne estesa all’Italia Meridionale con decreto del 5 settembre 1806.

Questa legge, senz’altro valida secondo il più freddo razionalismo, incontrò forti resistenze, perché lesiva di pratiche religiose profondamente sentite ma che impediva anche – come scriveva Ugo Foscolo nel carme dei Sepolcri (composto nel 1806) – quella “corrispondenza d’amorosi sensi” togliendo all’uomo l’illusione che egli potesse sopravvivere almeno nel ricordo dei suoi cari.

“Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando nel suo povero tetto educò un lauro  con lungo amore, e t’appendea corone”; così polemizza il Foscolo a proposito della disumana normativa sulle iscrizioni funebri che non permise al poeta Parini di essere sepolto con una lapide che ne tramandasse almeno il nome.

Cimitero di Nardò, cappella della confraternita delle anime purganti. Sopra la porta il Chrismon costantiniano formato dalle iniziali greche di Cristo

 

Lo stesso disagio culturale è, nel contempo, accusato da una intera generazione poetica europea a partire dall’anglosassone Thomas Gray con l’opera Elegy written in a country churchyard, a Edward Young nei Night Thoughts alle Meditations among the tombs di James Hervey per passare poi agli intellettuali francesi come Jacques Delille.

Sino al 1814 nei cimiteri è prescritta la costruzione di monumenti sepolcrali; successivamente a questa data nuovi emendamenti regoleranno il rilascio delle autorizzazioni per le sepolture private .

Durante il periodo della restaurazione borbonica nel Regno delle Due Sicilie determinante fu l’emanazione della legge nr. 653 dell’11 marzo 1817, che stabiliva la costruzione in ogni Comune di un camposanto fuori dell’abitato “in modo da servire ad un tempo a garantire la salute pubblica, ad ispirare il religioso rispetto dovuto alle spoglie umane, ed a conservare le memorie onorifiche degli uomini illustri”. La legge dava, inoltre, facoltà ai Decurionati di individuare i fondi di proprietà pubblica o privata idonei a tale destinazione procedendo là dove necessario all’esproprio.

Alla legge seguì il Regolamento di attuazione del 21 marzo 1817 che all’art. 2 prescriveva: “la figura dei campisanti sarà un quadrato, o un parallelogramma, avrà una sola porta d’ingresso, chiusa da un forte rastello di ferro, o di legno, e che la posizione sia scelta in un sito a circa un quarto di miglio lontano dall’abitato, nella direzione dei venti settentrionali in modo da evitare gli effetti sgradevoli dei miasmi”[5].

Purtroppo le disposizioni di legge tardarono ad essere applicate. Forti opposizione sia da parte del clero, timoroso di una diminuzione delle “pie elargizioni dei suffraganti”, sia dei ceti popolari, restii ad abbandonare la prassi della tumulazione apud ecclesiam, faticavano a far nascere i cimiteri extraurbani avallando la comune pratica di tumulare all’interno delle chiese con grave detrimento della salute pubblica anche considerando le ricorrenti epidemie di colera, si pensi alla terribile epidemia di colera asiatico del 1836, che flagellò il Regno. A ciò si aggiungeva  una quale inerzia amministrativa e la penuria di fondi per la costruzione dei camposanti.

Cimitero di Nardò, cappella della congrega di S.Giuseppe

Il cimitero in Terra d’Otranto: il caso di Nardò

Il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840 fu reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840. Con la nota del 25.1.1840 sullo “stato progressivo de’ lavori de’ Campisanti” l’Intendente Marchese Della Cerda comunicava  ai Sindaci la “definitiva chiusura delle tombe nelle chiese dell’abitato” e “sollecitava ancora l’edificazione delle città dei morti” [6].

“Il Comune di Lecce non si fa cogliere impreparato e si attiva giungendo a un risultato concreto con la predisposizione di una serie di documenti fondamentali: il primo e più importante di questi è datato 19 febbraio 1840 e contiene la relazione descrittiva del Progetto de’ lavori che occorrono per la costruzione del Cimitero nel locale di S. Nicola in Lecce con allegato lo Stato Stimativo firmato dal suo estensore nonché progettista delle opere, l’ing. Benedetto Torsello[7]. Il cimitero fu aperto ufficialmente il 1° gennaio 1845  ma il popolo leccese, ancora non convinto della necessità ed utilità di questo impianto extraurbano, nel 1848 manifestò aspramente il proprio dissenso con l’abbattimento delle porte e dei muri del Cimitero e con la dispersione delle croci”[8].

Cimitero di Galatina, cappella Galluccio in stile neoegizio

 

Nel territorio salentino il Comune di Galatina nel marzo del 1886 aveva ultimato i lavori per la realizzazione del cimitero ma, già nel 1894, approvava il progetto di ampliamento, presentato dall’ing. Giuseppe Greco, per la costruzione di nuove cappelle gentilizie nell’area prospiciente l’ingresso[9].

Analoga era la situazione a Gallipoli, dove l’ing. Luigi Pinto aveva già redatto nel 1868 un progetto di ampliamento del preesistente camposanto.

“Non manca di Cimitero il Comune di Nardò che si trova provveduto sin dal 1840 ed è posto in apposita località fuori l’abitato, i cadaveri vi si seppelliscono per inumazione ed anche tumulazione essendo permessa la costruzione di tombe particolari. Manca solo il Regolamento […] e quindi vengono adottati gli antichi del 1817” così scriveva il sottoprefetto di Gallipoli il 16 ottobre 1870 alla Prefettura di Lecce[10], alla quale spettava l’obbligo di vigilare sulla salute pubblica[11].

Al 1847 risale, comunque, un tentativo di spostarlo in altra area della città: una relazione, datata 17 gennaio, presenta all’amministrazione comunale il progetto di un nuovo campo santo “da costruirsi ad uno dei lati del Monastero dei P.P. Cappuccini, distante dalla città un terzo di miglio mentre l’attuale Campo Santo è d’un quarto ed alla medesima direzione di Nord Ovest. [   ] Inoltre li P.P. Cappuccini abbraccerebbero quest’occasione per loro peculiare interesse, cederebbero, forse, gratis, parte del di loro giardino pel Campo Santo”[12].

Ma la scelta del luogo è subito contestata dai neretini, come si legge in una missiva, datata 21 dicembre 1847, di un cittadino portavoce, il quale scrive all’Intendente della Provincia di Terra d’Otranto che “l’unica delizia che offre questa Nardò, si è incontrastabilmente il passeggio sulla via che mena al Convento dei PP. Cappuccini, ed al Capoluogo del Distretto, ove la popolazione si accalca, specialmente nei mesi estivi. Ora cercasi avvelenare questo pubblico ed innocente sollazzo ed collocare colà il Campo Santo e rendere così mesto e luttuoso quel luogo che oggi è ridente ed ameno. Né il pubblico diletto è il solo che debbasi tener presente”.[13]

L’antico impianto architettonico del cimitero neretino era tipologicamente definito da uno spazio geometrico regolare in cui due viali perpendicololari dividevano l’aia cimiteriale in quattro parti .

Planimetria del vecchio cimitero di Nardò

Il muro del recinto interno del camposanto, come disponeva l’art.10 dello stesso Regolamento, fu diviso in sezioni per essere acquistato, “ad un prezzo da determinarsi a favore del Comune, dalle famiglie le quali colà avrebbero potuto erigere monumentini, lapidi con bassorilievi ed epigrafi, cippi commemorativi al fine di conservare le memorie onorifiche dei loro trapassati”[14].

Inizialmente il cimitero era limitato da un “puro e semplice muro di cinta di determinata altezza con apposito ingresso su di un pubblico cammino, con dentro un infelice locale coperto con volta semicilindrica a cui dato il nome di Cappella. Tutto ciò praticato mancava non solo di quella decenza dovuta ad uno stabilimento di simil fatta, ma ancora di un locale per la custodia , e di altro pel provvisorio deposito dei cadaveri fino all’ora della inumazione”, così si legge in una relazione dell’arch. Gregorio Nardò.[15].

Incaricato “d’invigilare alla esecuzione delle regole prescritte sul modo della inumazione”[16] era il custode, di certo già in servizio nell’anno 1842, in quanto in una missiva, datata 8 maggio dello stesso anno, il sindaco di Nardò Gian Vincenzo Dell’Abate chiedeva all’intendente di Terra d’Otranto l’autorizzazione ad anticipare di giorni 15 la somma di denaro dalla Cassa Comunale, quale paga per il custode sig. Giuseppe Gioffreda, il quale si trovava in difficoltà economiche[17].

Pianta del vecchio cimitero di Nardò

Alla costruzione del cimitero seguì presto il progetto, datato 10 aprile 1844 e firmato dall’ing. Benedetto Torsello, dei lavori che occorrevano “per la costruzione della nuova strada che dall’abitato di Nardò mena al Campo Santo, uscendo dalla nuova porta sul filo detto Boccaporto”[18].

Cimitero di Nardò. Prospetto dell’antico cimitero

Il 2 maggio 1844 l’Intendente approvò l’esecuzione dei lavori per la realizzazione della strada per la spesa preventiva di 260 ducati cioè ducati 70 di lavori a farsi e ducati 182 di compenso ai proprietari e di ducati 8 per competenze dovute allo stesso ingegnere.

Nella relazione di verifica, datata 8 aprile 1848, l’ing. delle Acque e Strade Vincenzo Fergola accertò che “l’inumazione nel Pio Stabilimento fu incominciata in febbraio 1840 e che fin ad allora vi erano n. 2834 cadaveri e che vi rimaneva ancora un’aia capace a potervi continuare l’inumazione fino a tutto luglio prossimo”[19].

Progetto del nuovo cimitero di Nardò

 

Ma già in una relazione dell’Ufficiale Sanitario Comunale del 13 marzo 1911 si evidenziava che il cimitero era insufficiente ai bisogni del paese e che necessitava di un ampliamento e anche di un nuovo fabbricato con l’alloggio del custode, la cisterna e i locali richiesti dai Regolamenti, nonché di una nuova cappella per le funzioni religiose. La nuova cappella “in cui i fedeli nel giorno della commemorazione dei morti potranno recitare gli uffizi di pietà”, fu costruita al centro del muro opposto all’ingresso “di croce greca come quella che occupando lieve spazio meglio di qualunque altra figura […] nell’esterno saravvi un prospetto di stile greco”[20].

Il 9 gennaio 1915 l’ing. Gaetano Bernardini di Monteroni presentò il progetto di ampliamento del vecchio cimitero “che così ampliato e fornito di tali opere verrebbe a sostituire in parte l’antico, il quale resterebbe destinato in gran parte a tombe gentilizie ed in parte ad inumazione ordinaria”[21].

La zona di ampliamento fu individuata a lato dell’antico muro di cinta a ovest, interessando i fondi del cav. Giovanni Colosso e Benedetto Trotta. Essa confinava a nord con la via nuova detta Carignano, a est con l’antico cimitero, a sud con la proprietà Colosso e a ovest con la via vecchia vicinale Scapiciara. L’intera zona espropriata copriva una superficie totale di metri quadri 11537,98.

Il progetto di Bernardini, già approvato dalle Autorità Superiori il 6 luglio 1915, fu successivamente modificato dall’Ing. Luigi Tarantino.

Il 4 giugno 1916 fu contratto un mutuo di £. 30.000 con la cassa dei Depositi e Prestiti di Roma per l’esecuzione di nuovi lavori nel Cimitero.

Il Comune di Nardò, con delibera del 23 febbraio 1923, affidava i lavori di costruzione delle fondazioni dei muri di cinta del cimitero alla cooperativa dei muratori fascisti, il cui presidente era Vaglio Ermenegildo, anche al fine di contrastare la disoccupazione, che in quel periodo affliggeva gli operai del posto.

 (continua)


[1] F. MILIZIA, Principj di architettura civile, Milano 1847, 289-290.

[2] Le leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges) è un corpo di leggi compilato nel 451-450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico. Rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano, se si considerano le più antiche mores e lex regia. Sotto l’aspetto della storia del diritto romano, le Tavole costituiscono l’unica redazione scritta di leggi dell’età repubblicana.

[3] L. BERTOLACCINI, Diritto d’asilo e sepolture nelle città medievali, in “I servizi funerari”, n. 4 , Rimini, ottobre-dicembre 2000.

[4] Ibidem

[5] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III,  428-429.

[6] A.S.L, Intendenza di Terra d’Otranto, affari generali, busta 35 fascicolo 718.

[7] G. CATALDO, Il ‘Campo Santo’ di Lecce, ……, pag. 153.

[8] V. MATRANGOLA, Il giardino degli addii, Lecce 2005.

[9] Delibera del Consiglio comunale del 5.12.1893. A.S.L., Prefettura, serie II versamento III busta 24 fasc.307. Sul Cimitero di Galatina cfr. Percorso extraurbano alla riscoperta dei più bei monumenti funebri in “Galatina da scoprire… con la guida degli alunni del Liceo Scientifico Statale “A. Vallone” di Galatina,” Galatina 2004, pp. 11-25.

[10] A.S.L., Prefettura, II serie I versamento fascicolo 44 – 45 busta 37.

[11] La prima legge sanitaria del Regno d’Italia è contenuta nel Regolamento per l’esecuzione della Legge sulla sanità pubblica presentato dal Governo Lanza e approvato con Regio Decreto n. 2322 dell’8 giugno 1865, il quale fissava le responsabilità dei Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci in merito ai problemi riguardanti la sanità pubblica .

[12] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[13] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[14] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III, pp. 428-429.

[15] Archivio Storico Comune di Nardò (ASCN), Progetto per la nuova Cappella ed Ingresso al Camposanto di Nardò.

[16] Art. 11 della Legge 11/03/1817, in P. Petitti, Repertorio…., op. cit, p. 430.

[17] A.S.L., Prefettura II serie I versamento fascicolo 44 busta 35.

[18] A.S.C.N.

[19] A.S.L., Prefettura II serie I versamento busta 37.

[20] A.S.C.N., Progetto per la nuova Cappella ed ingresso al Camposanto di Nardò.

[21] A.S.C.N.

[22] A. MANTOVANO, Il Cimitero Monumentale di Lecce, in V. Cazzato – S. Politano, Architettura e Città a Lecce. Edilizia privata e nuovi borghi fra Otto e Novecento, Galatina 1997, 32.

[23] L. BERTOLACCINI, Sepolture individuali e tombe di famiglia. Immagini e simboli della morte, in “I servizi funerari”, n.1, Rimini, gennaio-marzo 2001

[24] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò 1996.

[25] Ibidem

[26] O. GHIRINGHELLI, I repertori a stampa fra Ottocento e Novecento, in L’architettura della memoria in Italia,  253.

[27] M. AUGE’, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità,  Milano, 2005.

[28] A. BELARDINELLI, Lo specchio non effimero, in L’architettura del cimitero tra memoria e invenzione, Perugia 2005, 75.

[29] COMUNE di MILANO, Monumentale Museo a cielo aperto – le migliori 100 foto del concorso, Milano 2004.

Libri/ Solo per ricordare, di Aldo de Bernart

SPIGOLATURE STORICHE DI ALDO DE BERNART

 

di Paolo Vincenti

 

Solo per ricordare, di Aldo de Bernart (Tipografia Inguscio e De Vitis, Ruffano), è una piccola plaquette che raccoglie una serie di contributi sparsi, scritti con la acribia e la grande preparazione alle quali ci ha da una vita abituato questo ottuagenario studioso, esperto di storia patria e cultura salentine.

Questa plaquette, stampata fuori commercio in un numero limitato di copie (149), fa parte della collana “Memorabilia” nella quale, da qualche anno a questa parte, il professor de Bernart raccoglie una serie di piacevoli e sempre interessanti chicche, spigolature su avvenimenti di storia locale o su personaggi minori se non minimi e dimenticati del nostro Salento, tranche de vie che sanno sempre catturare la nostra attenzione.

Lavoro pregevole, questo, svolto disinteressatamente, con la sola passione della ricerca e dell’approfondimento, che il de Bernart mette a disposizione di tutti coloro che amano il nostro Salento o sono interessati a scoprire aspetti inediti della storia di Terra d’Otranto.

Il primo contributo è “Nel settantesimo anniversario della morte di Antonio Bortone. 1938-2008”, che riprende un analogo scritto apparso qualche anno fa su NuovAlba, rivista di storia e cultura parabitana di cui de Bernart è assiduo collaboratore. Questo scritto ci fa ricordare la figura di un grande artista salentino del passato, Antonio Bortone da Ruffano, il “mago salentino dello

Achille Vergari, medico, filantropo, bibliofilo

di Marcello Gaballo

 

Volentieri ripropongo parte di quanto ha scritto pochi anni fa Bruno Achille Vergari, discendente dell’illustre medico ed autore del volume: Achille Vergari, problematiche filosofico – scientifiche in campo medico, edito dall’Editore Congedo di Galatina. Il testo è inserito nel volume “Incunaboli e cinquecentine della Biblioteca Comunale “A. Vergari” di Nardò, edito dalla stessa casa editrice.

ritratto di Achille Vergari

Achille nasce l’8 aprile 1791 a Nardò, dal medico Bonaventura e da Agnese Caselli.

Dopo aver frequentato le scuole primarie, entra in seminario avendo avvertito una profonda vocazione al sacerdozio; ma una legge di Giuseppe Napoleone del 1806, limitante il numero di sacerdoti per ciascuna diocesi del Regno, lo costringe a lasciare il seminario nel 1809. Segue, allora, le orme paterne e inizia a Nardò gli studi di medicina che completerà a Napoli nel 1813. Vivrà la sua vita secondo la primitiva vocazione sacerdotale e non tornerà mai più a Nardò, ma conservando sempre vivo nel cuore il ricordo della terra natia.

Nel 1815, previo concorso, è medico nell’ospedale delle carceri di S. Francesco di Paola e vi resterà fino al 1861, anno del suo pensionamento.

Nel 1817, a soli ventisei anni, apre una scuola di insegnamento medico elementare e dà inizio a una serie di pubblicazioni che faranno parte del suo “Corso di studi medici”. Come ricercatore, collabora con il famoso professore Antonio Miglietta, anch’egli salentino, nella ricerca sui vaccini. Nel 1826 viene nominato Segretario Generale del Regio Ufficio del Protomedicato del Regno di Napoli, che sovrintendeva a tutta l’attività medica e farmaceutica del territorio del Regno. Dal gennaio 1839 al marzo 1844 svolge funzioni  di archiatra del Regno.

I suoi studi hanno riguardato specialmente la vaccinia e ha inventato uno strumento indolore per vaccinare i bambini; oltre gli impegni di ricerca e protomedicali, notevole è stata la sua attività professionale e lodevole specialmente nel 1836-37, al tempo coleramorbo di Napoli.

Visse sempre all’ordine e teneva per epigrafe nella sua biblioteca Ordo est anima rerum.

Nel suo studio di Napoli v’erano duemila volumi che lasciò alla sua città, Nardò, e costituiranno il primo nucleo della costituenda biblioteca che, dopo varie vicissitudini, troverà una definitiva sistemazione così come appare attualmente.

Intensa è stata la sua produzione scientifica, ed è un vero peccato che nella biblioteca di Nardò non sia presente nessuna delle sue opere; esse, invece, si trovano tutte nella Biblioteca Nazionale di Napoli, e qui di seguito riporto i titoli delle stesse:

–         Osservazioni su la norma da tenersi nel fare la relazione di una malattia al perito dell’arte per conseguire il suo avviso – Napoli 1814, Società Tipografica.

–         Nuovo stromento per vaccinare – Napoli 1818, Società Tipografica.

–         Norma per ben ricettare – Napoli 1819, Stamperia della Società Tipografica.

–         Nuovo trattato sulla vaccinia – Napoli 1822, Società Tipografica.

–         Nozioni generali di clinica – Napoli 1825, Società Filomatica.

–         Igiologia – Napoli 1822, Società Tipografica.

–         Preliminari allo studio della scienza salutare – Napoli 1828, Società Filomatica.

–         Patologia generale – Napoli 1830

–         Procedura medica – Napoli 1830, Società Filomatica – impressa tre volte e nel 1840 fu stampata anche a Bologna.

–         Clinica – Napoli 1836, Società Filomatica – due edizioni nello stesso anno.

–         Tarantismo – Napoli 1839, Società Filomatica.

–         Memoria – quattro volumi – Biblioteca Nazionale di Napoli.

–         Ricordi per gli eredi – Biblioteca Nazionale di Napoli.

–         Notizia del Protomedicato Generale del Regno di Napoli – Napoli 1864, Tipografia Tizzano.

Nel 1845, al VII Congresso degli scienziati italiani che si tenne in Napoli, fu incaricato dalla città di Nardò a rappresentarla, e Gaetano Giucci scrisse di lui in “Degli scienziati italiani formanti parte del VII Congresso in Napoli nell’autunno 1845”: Notizie bibliografiche, 1845, p.59, Tipografia Parigina di A. Leban – Napoli.

Muore in Napoli l’11 febbraio del 1875.

1581. Accordi per la sorveglianza del territorio salentino

di Marcello Gaballo

Nel 1581 Marco Antonio Bello di Galatone ed Annibale Causularo, residente a Nardò, stipulano una convenzione con il sindaco dei Nobili dell’ epoca, Filippo Sambiasi, ed il sindaco del popolo Girolamo Burdo per il servizio della scorta a cavallo in la marina di detta città per un anno continuo, dal 15 ottobre in poi.

In primis si conclude che se i due guardiani omettessero di saltare un turno di giorno o di notte, come prevedeva l’ ordine regio, i sindaci avrebbero potuto nominare al loro posto “dui altre persone a cavallo per fare detta scorta”, a loro spese.

Il compenso pattuito è di quattro ducati ciascuno per ogni mese.

L’ anno successivo gli stessi Sindaci stipulano un’ altra convenzione con Camillo Gaballo e Paolo Russo alias Calabrese, entrambi di Nardò, i quali si impegnano a guardare et custodire tutto il territorio di detta città di Nardò per dui miglia intorno alla città a patto che non si faccia danno alcuno alle seminate et possessioni fruttifere et soi cittadini o abitanti, pena il pagamento da parte degli stessi guardiani a eventuali danni causati.

Dalla custodia sono escluse le masserie del territorio, tanto che se i due si renderanno conto di danni a tali strutture, non abbiano obblighi di denuncia al proprietario delle stesse.

Il compenso pattuito è di 7 ducati ognuno per ciascun mese di guardiania, a cominciare dall’ 11 gennaio e per un anno.

L’Islam e la Puglia/ 4. Sino a Lecce

Per i nostri lettori uno studio inedito di Vito Salierno, uno dei massimi esperti di islamistica in Europa. Oggi la quarta ed ultima parte dedicata alla cartografia ottomana della Puglia.

 

Otranto nella mappa di Piri Reis

di Vito Salierno

L’ultimo attacco turco in grande stile fu quello dell’agosto 1620 contro Manfredonia, che fu conquistata e tenuta per alcuni giorni dai soldati della flotta di ‘Ali Pascià. Durante quella razzia i turchi rapirono da un convento una ragazza, Giacometta Beccarino, che dopo varie peripezie diventò la moglie del sultano Ibrahim il Pazzo, al quale diede il primo erede maschio, ‘Osman. Nel settembre 1644,  Zafira, questo il nome turco di Giacometta, e il figlio si recarono alla Mecca per compiere il pellegrinaggio, ma la nave e il convoglio di scorta furono attaccati dai Cavalieri di Malta lungo il viaggio. Zafira e l’erede furono condotti a Malta, dove Zafira morì senza abiurare alla sua nuova fede islamica. L’erede ‘Osman fu allevato dai Cavalieri di Malta nella fede cattolica, prese poi i voti diventando fra’ Domenico Ottomano, incaricato di missioni diplomatiche in Francia dal pontefice Alessandro VII. Nominato Priore e Vicario Generale dei Conventi di Malta, il frate che non fu sultano morì il 25 ottobre 1676, in odore di santità, durante la peste a Malta, curando gli ammalati.

Due carte sono dedicate alla Terra di Bari: Trani (qal’e-i Trani), Bisceglie (qal’e-i Pezaye), Molfetta (qal’e-i Malfatta), Giovinazzo (qal’e-i Giovinaso), Bari (qal’e-i Pari), Monopoli (qal’e-i Monapoli). Le altre quattro relative alla costa della penisola salentina sono le più belle e le più accurate: era il tratto che più interessava la marineria ottomana e di sicuro la mèta di numerosi viaggi di Piri Reis e dello zio Kemal.

Piri Reis

Brindisi, denominata città (shehr-i Brindis), è raffigurata con il porto interno chiuso da catene, con ai lati le torri di guardia, e il castello fortificato (burj-i Brindis) su un isolotto all’imboccatura; lungo la costa le isole Pedagne e la torre del Cavallo: “È bene sapere che, in tutte queste coste di Puglia di cui abbiamo parlato, non c’è porto più famoso di Brindisi (Brindis, Pirendis). Infatti, davanti alla città, c’è un bellissimo e grandissimo porto naturale che può dare asilo a trecento o quattrocento navi. Fra questo porto e Valona (Avlona, in Albania) ci sono cento miglia, e da Valona ad Otranto (Otorante) sessanta miglia. Da Brindisi ad Otranto ci sono quaranta miglia. Alla bocca del porto c’è un’isola rocciosa sulla quale è stato costruito un piccolo castello fortificato da cannoni. Le navi straniere non possono entrarvi; fra l’altro la bocca del porto è chiusa da catene. Ai capi delle catene sorgono due grosse torri con sentinelle e difensori. Non potendo dunque alcuna nave entrare, ci si lega con le cime alla sponda che dà a maestrale e ci si àncora. Dato che le navi straniere non possono penetrare nel porto a causa dell’ottima guardia che fa l’isola col castello dalla parte del mare, le navi che stanno fuori si ancorano senza dover guardarsi dai nemici. Quest’isola fortificata col piccolo castello si chiama Isola di Sant’Andrea (Santa Andriya). Le grandi barça possono passare da questo stretto, essendo esso molto profondo verso la costa di nord-ovest, distante mezzo miglio. Sulla riva dello stretto ci sono tre isolette che chiamano Pedagne (Pedanye)”.

Otranto (qal’e-i Otorante) è inserita nel suo contesto naturale: da nord a sud, Lecce (qal’e-i Leç) con il suo scalo (iskaliya Leç), il borgo di Roca Vecchia (qal’e la Roqa), Otranto, il borgo di Tricase (qal’e-i Triqaze) con l’omonimo scalo (iskaliya Triqaze) e il capo di Santa Maria di Leuca (qavo Santa Marya): “Fra i borghi di Otranto e Brindisi, cioè a venticinque miglia da Brindisi, c’è la torre (pirgos) di San Cataldo (San Qatalde) in un luogo per caricar le navi che sta sotto il borgo di Lecce (Deleç) situato a sette miglia nell’interno. È ragionevole chiamare questi luoghi ancora Puglie. C’è un muro pronto, fatto già in tempi antichi. La parte avanti a questa torre è riempita di sassi a fare da molo. Verso il mare ci sono delle secche che non si vedono e alle quali bisogna prestare attenzione. La zona, che va da queste secche al molo, è rocciosa. A sud-est del molo c’è il borgo di Roca (Roqa) che un tempo era una grande città, e ora c’è solo poca gente”.

“Da questo borgo verso sud-est si trova, a cinque miglia, Otranto, che è un borgo sulla riva del mare situato verso nord-est. Sulla punta che sta dalla parte est del borgo c’è una torre (pirgos) detta “fano” ed è chiamata anche Pian Qolsode [forse la Torre del Serpe]. Di fronte a questa torre c’è un’isoletta, e dalla parte di sud-ovest c’è il porto della detta Otranto, ma in realtà non è un vero porto, ed è adatto solo per piccole navi che legano le gomene al molo e si ancorano nel mare. Da quel porto alla città di Valona, che gli sta di fronte ad est, un quarto a nord-est, ci sono sessanta miglia. Inoltre a trenta miglia a sud-est del detto borgo di Otranto c’è il Qavo Santamaria; fra i due, a due miglia all’interno, c’è un borgo chiamato Tricase (Triqara o Triqaze) che significa tre case”.

“Sulla costa, in corrispondenza di Tricase, c’è un qargador [il porto di Tricase]; lì si caricano le navi. È un molo e, verso sud-est, c’è un alto monte che chiamano Monte Santa Maria. A sud-est di quel monte c’è una punta bassa con bassifondi che chiamano Qavo Santamaria perché sulla parte superiore di quella punta c’è una chiesa denominata di Santa Maria. Poi, a quaranta miglia verso ovest dal Capo Santa Maria, c’è Gallipoli di Puglia (Puliye Kalibusi). Su questa via ci sono molte secche, rocce e sassi che si protendono per tre miglia verso il mare, e bisogna fare molta attenzione; e su queste coste ci sono rocce a forma di porto di fronte alle quali, a tre miglia nell’entroterra, c’è un borgo che chiamano Losenti (Ugento). Da questo borgo a Gallipoli di Puglia ci sono otto miglia verso occidente”.

La città, che Piri Reis chiama sempre Gallipoli di Puglia (nella nostra carta shehr Puliye Kalibusi e altrove Puliye Gelibolusu) per distinguerla dalla Gallipoli (Gelibolu) di Turchia, la sua città natale, è riprodotta e descritta in maniera dettagliata: è collocata al centro di un promontorio proteso nel mare Ionio e di un’isoletta congiunta alla terraferma da un ponte. Durante la guerra d’Otranto subì un assedio dei Turchi, ma non fu conquistata; non poche furono le scorrerie barbaresche – una è citata nel testo di Piri Reis: “Gallipoli di Puglia, verso sud, sta su una punta bassa. Questa punta è in realtà un’isola, ma dalle rive alla detta isola c’è un ponte sul quale si passa, e fra le due c’è il mare e il porto. Ad ovest del ponte le barça possono ancorarsi bene. […] Questo borgo si allunga nel mare per un miglio e intorno è tutto mare. Nella parte nord del borgo ci sono due piccole isole. Alcune imbarcazioni viandanti legano le gomene a quelle isolette e gettano le ancore nel mare; ma, ad un miglio verso sud, quel castello ha un’isoletta bassa e allungata che è un buon ancoraggio. [Le barça] legano le gomene alla detta isoletta e gettano le àncore verso ovest-nord-ovest in venticinque tese d’acqua e si ancorano così verso nord-ovest. È un buon ancoraggio e le barça escono ed entrano da due parti”.

L’itinerario pugliese si conclude a Taranto (qal’e-i Tarente), collegata allora da un solo ponte, con il golfo del Mar Grande delimitato dalle isole Cheradi: al centro, la città con il castello quadrangolare costruito alla fine del Quattrocento; ad est, il Capo San Vito (qavo Santa Vi) con l’omonimo santuario, le due isole di San Paolo e San Pietro, e ad ovest il convento dei Cappuccini: “Il borgo di Taranto (qal’e-i Tarente) circonda da tutte le parti un’isola bassa. Dalle sponde a nord di Taranto alla città ci sono sei miglia; verso est le due parti sono collegate da rocce, ma c’è uno stretto attraverso il quale possono passare le kadïrga [navi a venticinque banchi con quattro uomini ogni remo]. Un altro stretto è ad ovest: su questo, fra il borgo e la costa di Rumelia, c’è un ponte su cui passa la gente. Oltre il ponte, c’è un mare simile ad un lago; le navi non possono passare dietro il castello e si ancorano nel mare di fronte al borgo con àncora doppia, un’àncora di fronte al castello, l’altra verso sud-ovest. A quattro miglia a sud del castello ci sono tre isole, ma fra due di esse le navi non possono passare a causa delle secche. Solo navi corsare vi si ancorano. Presso la punta verso nord-ovest dell’isola più grande che sta ad ovest, si allunga verso ovest una fila di rocce dalle quali bisogna guardarsi. Dal borgo di Taranto a Brindisi, per via di terra, ci sono trentacinque miglia”. (4. fine.

 

mappa di Piri Reis

Per concessione del quotidiano Il Paese Nuovo di Lecce.

 

La tre precedenti parti sono state pubblicate:

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/03/31/l%e2%80%99islam-e-la-puglia1/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/07/28/l%e2%80%99islam-e-la-puglia-2-nel-paese-di-puliye/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/04/lislam-e-la-puglia-3-nel-segno-di-piri-reis/

Chiese rupestri: il ritorno degli studiosi giapponesi

Gravina in Puglia. Chiesa di san Vito vecchio. Cristo Pantocratore

di Giuseppe Massari

Una promessa mantenuta che rinvigorisce l’orgoglio di essere gravinesi. La visita effettuata nell’agosto 2010 dall’équipe italo-giapponese che curerà lo studio delle “Tebaide del Sud Italia” era solo di ricognizione, ma adesso il progetto entra nel vivo con l’avvio della campagna di indagini.

La delegazione di studiosi nipponici, guidata dal prof. Takaharu Miyashita, docente di storia dell’arte occidentale all’Università di Kanazawa e italiani rappresentati dagli architetti toscani Carlo Battini e Massimo Chimenti, è così composta: professori Masaaki Omura, Nozomu Eto, Shigaru Sanada, Shinichi Igarashi; dai tecnici ricercatori dott.sa Mitsumi Miyashita, dott.sa Mutsuyo Miyashita, dott.sa Shigemi Shimomura, dal ricercatore coordinatore dott. Daisuke Kamiguchi e dagli studenti universitari Mariko Oso, Tomohisa Sekiya, Hitomi Kimura, Kota Kawakubo.

Le giornate di studio e catalogazione, iniziate il 5 settembre scorso, verteranno sulle pitture rupestri delle chiese di San Vito Vecchio, San Michele e Padre Eterno, dureranno fino al 16 settembre e si articoleranno in rilievi ad alta definizione tridimensionale, attraverso scanner laser, nel seguente modo:

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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