di Massimo Negro
La storia della chiesa di San Biagio ha avuto sin dall’inizio della sua costruzione, nel 1507, una serie di difficoltà crescenti e, in particolare, a partire dall’800, una storia di privazioni e di spoliazioni.
La chiesa di San Biagio attraversa la storia come testimone e purtroppo vittima delle tensioni interne alla Chiesa e soprattutto vittima dello scontro tra il potere degli Imperi, degli Stati e la Chiesa Cattolica.
L’attuale chiesa e i locali attigui sono quello che resta di un complesso maestoso e imponente costruito dai padri Olivetani e conosciuto come S. Caterina Novella (detta Piccola).
Una storia complessa e antica che inizia con la “concordia” siglata il 1 giugno di quel 1507 tra gli Olivetani e i Francescani, grazie alla quale questi ultimi avevano potuto far ritorno presso la basilica di S. Caterina, nella quale si erano insediati dal 1494 gli Olivetano per benevolenza di Alfonso II.
La fabbrica della chiesa e del suo convento fu particolarmente complessa e soprattutto costosa. Durò circa centotrenta anni, sulla base di un progetto che vide impiegati Marcello da Lecce e un galatinese, Pietro Antonio Pugliese. Di quest’ultimo resta la sua “impronta” sul maestoso arco nei pressi dell’altare all’interno dell’edificio.
Anni durante i quali non mancarono anche controversi interne al clero, tanto che dovette intervenire anche il pontefice di allora, Urbano VIII, nel 1634, per chiedere che venisse appianata una controversia tra il chierico De Mico e l’abate Ilario per soldi prestati per il completamento della chiesa e non ancora restituiti.
La vita della chiesa subì una forte battuta d’arresto a partire dal 1805. A causa della riforma napoleonica, che modificò completamente l’ordinamento delle proprietà ecclesiastiche, il monastero e la chiesa furono completamente abbandonati. Invano le autorità ecclesiastiche chiesero di poter rientrare nel suo possesso. Nel 1808 l’arcivescovo Morelli chiedeva al Re di Napoli Gioacchino Murat che gli venisse concesso di poter abitare nel convento. In una successiva comunicazione, in cui si denunciava lo stato di degrado della struttura, si chiedeva di poter rientrare in possesso del frutteto (di cui rimane qualche albero alle spalle del convento) per poter così ricavare le somme necessarie alla sua manutenzione. Ma non si ebbe nessuna risposta. Dagli atti notarili si sa che la proprietà venne acquistata dalla famiglia Mezio da Galatina tra il 1819 e il 1821.
Dobbiamo giungere nel 1891, quando la chiesa venne ribattezzata dal popolo chiesa di San Biagio grazie alla fondazione della omonima confraternita sorta nello stesso anno e che vide una grande partecipazione di popolo, tanto che poteva contare in quell’anno ben 300 fratelli.
Del convento rimane ben poco. Da un disegno del Pietro Cavoti, ritrovato casualmente in una ex tenuta Galluccio Mezio in località Tabelle e ora in possesso della parrocchia conservato nei suoi archivi, si può vedere come il convento di sviluppasse su due piani e un’arcata congiungeva questo complesso con la chiesa. Il prospetto, inoltre, era adornato da uno splendido e imponente porticato.
Da una perizia fatta nel 1838, quando ormai il complesso era in stato di completo abbandono, risultavano ben 40 stanze tra il primo e secondo piano e altre 13 stanze diroccate, oltre a un capannone assegnato alla mensa vescovile di Gallipoli. Oggi del secondo piano non rimane traccia e lo stesso si può dire dell’antico porticato.
Delle colonne del porticato si racconta che furono dapprima portate sul finire dell’800 nel vecchio cimitero di via Guidano e poi utilizzate per la costruzione del Monumento dell’Impero che era situato in Piazza Alighieri sino alla sua distruzione avvenuta dopo la caduta del fascismo. E con il monumento andarono distrutte anche le antiche colonne.
La chiesa, fatta eccezione per l’attiguo ex convento, è giunta a noi nella sua struttura sostanzialmente integra ma, in quei primi tristi anni dell’800 venne completamente spogliata di ogni arredo e subì gravi danni. L’edificio era diventato così frequentemente teatro di furti che nacque addirittura un aneddoto conosciuto come “calo? cala”.
Infatti si racconta di un tipo che transitando di sera nei pressi della chiesa, sentì una voce proveniente dall’alto che diceva “calo?”. Il tipo non sapendo e soprattutto non vedendo bene a causa della poca luce chi fosse e cosa intendesse, in imbarazzo si sentì di rispondere “cala”. Si ritrovò così ai piedi un sacco pieno di preziosi arredi sacri e ducati. Capendo che trattavasi del frutto di un furto in corso, mise prontamente il sacco sull’asino con cui stava trasportando del pellame e se andò via di corsa lasciando i ladri a bocca asciutta.
Verso la fine dell’800 la chiesa fu utilizzata come fabbrica di alcool e la navata destra era utilizzata come deposito per la legna necessaria per far ardere i fuochi.
Durante la Grande Guerra venne più volte requisita per essere utilizzata come deposito e questo accadde nuovamente nel 1919 e nel 1920 per depositarvi, su ordine dell’Amministrazione Cittadina del tempo, benzina e petrolio.
L’area inoltre divenne una discarica di materiale edile e oggi la differenza tra il piano attuale della strada e gli antichi basamenti del sagrato è di sette gradini.
L’interno consta di una maestosa e ampia navata centrale. Le due navate laterali già nel ‘500 furono isolate con una tamponatura muraria. La navata destra in cui oggi sono esposte le statue in cartapesta fu venduta alla parrocchia nel 1972 dalla famiglia Bardoscia. Nel 1976 la famiglia Mezio vendette alla chiesa il residuo convento con il giardino interno e la navata sinistra.
Dopo tante traversie, e tocca giungere ai giorni nostri, finalmente la chiesa rientrò in possesso delle sue antiche proprietà o, per meglio dire, di quello che ne rimaneva.
Il primo intervento di restauro si è avuto nel 1976-77 per mettere in salvo la volta centrale che era pericolante e, successivamente nel 1990, si intervenne sul campanile.
Oggi la chiesa, pur nella semplicità dei suoi arredi, trasmette un senso di maestosità e di pienezza. La navata centrale è ricca di decorazioni in pietra così belle, ben proporzionate ed armoniche, tali da apparire come una sorta di ricco ricamo. Ogni volta che il mio sguardo si posa sulla volta mi vengono in mente quei ricami delle antiche doti a cui le nostre nonne erano così brave e ai quali dedicavano anni e anni della loro vita pur di lasciare un loro ricordo ai nipoti. Donne dalla vita difficile, che la mattina aiutavano i mariti in campagna e la sera si mettevano a lavorare ai ferri con tanto amore. La chiesa di San Biagio è la dote che è giunta a noi, dopo secoli di traversie, grazie alla fortuna, al buon cuore e alla ferrea volontà dei tanti che nel tempo e soprattutto recentemente si sono impegnati affinché diventasse un degno lascito per le comunità future.
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fonte: “Chiesa di San Biagio” – Don Salvatore Bello – Edizione Il Campanile
CARO MASSIMO, OLTRE AL TUOSCRITTO, QUESTE FOTO, E IL VIDEO RENDONO ATTO DEL TUO ATTACCAMENTO AL SALENTO E DELLA TUA CAPACITà DI CONTAGIARLO A CHI TI LEGGE (è VERO CHE TROVI UN TERRENO GIà PREDISPOSTO A QUESTO CONTAGIO CULTURALE…
UN CARO SALUTO E UNA BUONA SETIMANA ATE E AI TUOI CARI!