di Armando Polito
Finita la festa, gabbato lo santo, recita un vecchio proverbio. Parafrasandolo mi vien da dire: Passata la paura dell’esame, poeta tornato nel dimenticatoio, complice anche la superficialità e lo scarso rispetto che in rete (provare per credere … per una volta non riporto i collegamenti ai siti relativi) si manifesta già con la ricorrente soppressione della virgola dopo gazza e, quindi, col passaggio ad un insulso e banale valore attributivo dall’originario predicativo di nera; non manca neppure E ride la gazza nera sugli aranci, unico dodecasillabo (di una poesia fatta tutta di endecasillabi) diventato tale grazie al trapianto di E preso dall’Ed iniziale del nome della raccolta (Ed è subito sera) di cui la nostra poesia fa parte (meno male che almeno la –d è stata, forse per puro caso …, eliminata); e che dire del cumulo di banalità e di paroloni tanto altisonanti quanto insensati che scandiscono i numerosi sviluppi del tema ministeriale?
Poeta nella mia parafrasi sta in senso stretto per Quasimodo, in quello lato per poesia. Non ho la presunzione di proporre strumenti che ridimensionino l’aspetto utilitaristico e, in un certo senso, terroristico del fenomeno (la poesia nelle scuole non dev’essere una tortura; al contrario, mi si passi l’ossimoro, dev’essere una gioiosa sofferenza della mente e del cuore) ma, nel mio piccolo, tento disperatamente con questo post di ritardare il progressivo affievolimento dei cerchi descritti dal sasso gettato come ogni anno nell’acqua, pur nella ristretta cerchia (i cerchi nella cerchia!) dei miei pochi affezionati lettori.
La gazza nel dialetto neretino è la pica, la ciòla e, per non farci mancare nulla, la pica ciòla. Comincio da pica che, in comune con l’italiano, è pure il nome scientifico del genere ed è dal latino pica(m). Trattandosi di un bisillabo è operazione avventata tentare di scarnificarlo alla ricerca di parentele, sicché potrebbe risultare un’analisi del DNA affrettata o sbagliata mettere in campo (è la prima cosa che mi viene in mente) pix/picis=pece, con riferimento al colore in qualche misura dominante del piumaggio.
Non mi illudo che le cose vadano meglio con ciòla quando nel vocabolario del Rohlfs leggo come proposta etimologica dal nome di donna Ciola? Cerco di spiegarmi non tanto il punto interrogativo finale quanto come sia balenata nella mente del Rohlfs l’idea, un po’ maschilista, della donna che addirittura dà il nome dialettale ad un uccello. Credo di aver trovato la risposta al lemma cola registrato nello stesso vocabolario per Manduria (TA) col significato di gazza ladra e nella forma replicata cola-cola a Palagiano (TA) e a Mesagne (BR) nel significato di gazza e con indicazione etimologica identico a Cola-Nicola. In qualche modo, forse, il Rohlfs considera Ciola femminile di Cola, ma bisognerebbe spiegare lo strano vocalismo –o->-io-. Proprio questa difficoltà di ordine fonetico mi spinge a credere che ciòla non sia altro che deformazione di ciàvola o ciàula (nome regionale centrale e meridionale della gazza). E, bella coincidenza!, se il titolo del post è pure il titolo-verso di una poesia di Quasimodo, Ciàula scopre la luna è il titolo di una famosa novella (fa parte della raccolta Novelle per un anno) di un altro grande poeta siciliano: Luigi Pirandello. E poco importa che Ciàula sia il soprannome di un ragazzo che imitava meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia, perché il buio di cui ha paura ha lo stesso colore dell’uccello di cui porta il nome ed egli rappresenta, in un certo senso, la metamorfosi dall’attivo (la gazza andrà forse fiera del suo nero, sicuramente non le spiace) al passivo (il nero del buio incute soggezione). Secondo me la trafila sarebbe stata questa: ciàvola (di origine onomatopeica)>*ciàola (sincope di -v-)>ciàula>ciòla. Il passaggio –au->-o-, poi, non pone problemi di sorta, essendo una tendenza già attestata per il latino, in cui, per esempio, oste è caupo ma anche copo e l’arcaico (di Plauto) ausculare=baciare diventerà il classico osculare.
Annego i dubbi filologici nella nostalgia ricordando che le voci pica e ciòla ai miei verdi tempi erano usate come varianti eufemistiche di pene (una sorta di specializzazione del generico italiano uccello usato nello stesso significato) e che pica era usato pure, questa volta in totale innocenza, in espressioni affettuose celebranti la loquacità di una bambina, come sinti la pica ti lu nonnu (sei la gazza del nonno); ma pure in nessi del tipo mi pari nna pica (mi sembri una gazza), sinti nna pica (sei una gazza) e simili, espressioni usate nei confronti di una donna pettegola. Per quanto riguarda quest’ultima immagine non abbiamo inventato nulla, perché la similitudine è già in Petronio (I secolo d. C.), Satyricon, XV, anche se, a parziale compensazione per le donne, riguarda un efebo: … flexit convitium in puerum et -Tu autem – inquit – etiam tu rides, pica cirrata? – (Volse il suo rimbrotto al ragazzo: -Tu poi, – disse – anche tu ridi, gazza ricciuta? -).