Prima di offrire una birra pensateci bene…

socrate

di Pier Paolo Tarsi

Ora immagina di portarti uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi per un’uscita serale con gli amici, anzi, osiamo, addirittura il padre stesso della filosofia occidentale, il buon vecchio Socrate. Ecco cosa accadrebbe. “Socrate prendiamo na birra, te la offro io cussì te rilassi” Ma lui “E’ giusto che sia tu a offrirla? Che cosa è giusto?” “Va bene, nu cuminciare, paga tie”. “Se la offro io, che forma d’amicizia sarà mai la nostra? Costruita sull’utile? Che cosa è mai la vera amicizia?” “Va bene Socrate, ognuno si catta la sua, ok?” “Ma se ognuno comprasse la sua birra, non sussisterebbe la gratuità del dono, di cui l’autentica amicizia si nutre”. “Vabbè Socrate, ce ammu fare?” “Vedi quel fiumiciattolo, sediamoci lì accanto, e proviamo insieme a districare la questione” “Senza nemmeno na birra?” “Certo, la prenderemo quando avremo compreso cosa sia giusto fare”. “Ok, Socrate, ane annanzi che arrivo subito, spetta eh, arrivo sicuro”. Morale: lasciate il filosofo che è in voi a casa, e pure i filosofi che non sono in voi, se volete godervi un po’ la vita.

Dalle strade del mondo in Salento, “a Cappello”

di Francesco Greco

A cappello 2

L’arte di strada nasce con l’uomo. Quando un bambino di Atene si mise a fare capriole nell’agorà, un altro a giocare col “curuddhru” (cerchio) nelle piazze dell’Urbe, un altro ancora si dipinse in fronte il terzo occhio a Calcutta. Nei millenni questa arte povera ha attraversato le favelas, il barrio, le bidonville, i suk di ogni meridiano e paralello. Per giungere sino a noi conservando intatte la capacità di emozionare e stupire.

E’ la forma d’arte più vera e immediata, senza accademia, business, manager. Nessuna lacerazione semantica: l’arte per l’arte, allo stato puro, restituita alla primitiva etimologia. Non deve cercare il pubblico con le astuzie del marketing, soggiogandolo con la falsità dei moderni incantatori di serpenti, subdoli messaggi subliminali: ma lo trova dove decide che val la pena fermarsi e, col passaparola, convocare ogni artista che vuol mostrare al mondo la sua abilità.

L’idea di arte di strada si associa subito al mangiafuoco di Piazza Navona, l’illusionista indiano a Piazza di Spagna, il violinista all’angolo di piazza San Venceslao, l’omino delle bolle di sapone a Montmartre. Non costa niente, solo qualche “monetina, monetina!”, o “monetona!”, come dice sorridendo la ragazza che col cappello fa il giro del cerchio degli spettatori. Da qui questa forma d’arte nobile, sublime, poetica ha preso il nome di “A Cappello”.

A Cappello 3

Anche quest’anno il Carro di Tespi sbarca in Salento col suo carico di stupori e meraviglie. Gli artisti provengono da tutto il mondo e si sono dati appuntamento a Gagliano del Capo (nel Leccese, a due passi dal mare da sogno di Santa Maria di Leuca) per celebrare la Va edizione di “A Cappello” (Festival dell’Arte di Strada) il 17 e 18 agosto nel dedalo di vicoli tra Palazzo Ciardo, Palazzo Daniele e la chiesa di San Rocco (il protettore, festeggiato in quei giorni).

“Se la modernità è per voi una forma di eccezione – dice Matteo Greco (info: 329-4433924) – se amate solo le storie che vi portano lontano, se cercate nel profondo lo stupore, trasferitevi tutti a Gagliano, perché quest’anno il festival raddoppia il suo carico di meraviglia…”. E infatti Gagliano si veste di cosmopolitismo: con gli artisti in arrivo da tutto il mondo diventa una babele di lingue, popoli, etnie, intreccia arazzi di culture, arabeschi di vissuti, tesse le trame delle esperienze più varie. Per donare a grandi e piccoli allegria e stupore, emozioni intrecciate con la materia dei sogni, performance che incantano grandi e piccoli. “Due serate – aggiunge Greco– di performance e attrazioni con artisti di calibro internazionale che mostreranno al pubblico. Gli incroci si fanno musicali, le piazze diventano quelle di tutto il mondo e portano canzoni dall’Irlanda, l’America, le isole tropicali. E alla fine della notte si sale in mongolfiera…”.

Ecco gli artisti dell’evento: Alberto Cacopardi, “Et nunc” (spettacolo di teatro, danza e acrobazia scenografica); Delia De Marco e Valentina Elia, “Rotolandia” (attraversano le strade del paese in un folle viaggio sopra i materassi); Monsieur Cocò (promette grandi prove di fachirismo); il Grande Lebuski (sfreccia spericolato per le piazze sulla sua microbicicletta); i Los Minchios, gruppo cult messican-pugliesi doc (interpellano grandi e piccoli con le loro clownerie musicali); i corti cinematografici di Scratch (Festival internazionale di animazione); le storie cantate tratte dal repertorio popolare di Elisabetta Mazzullo e Evarossella Biolo; le magie di Robertino; la parata dei Galli trampolieri; il lancio delle mongolfiere di El Globo de Papel; le divagazioni comiche sul potere di Don Corleone; da Milano i Portugnol Connection, gruppo patchanka (liriche in italiano, spagnolo, francese, portoghese): autentico meltingpot musicale; da Taranto gli El Folk con la loro ossessiva musica irlandese; da Firenze, guest star, i Martinicca Boison che col folk elegante hanno incantato il pubblico italiano e dei Paesi del Mediterraneo: “Le canzoni del Trimarano”, terzo lavoro, ha scalato le classifiche delle radio indipendenti. E dunque, che la festa cominci, e che grandi e piccoli facciano “ooh!” spalancando gli occhi per lo stupore…

Volti delle donne di un tempo, a Parabita

Spettacolo teatrale “Volti delle donne di un tempo”

Domenica 11 agosto, ore 21,30 – Piazza Umberto I, Parabita (Le)

 

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Il Comune di Parabita (Le) in collaborazione con l’Associazione ‘emergenze sud – cantieri culturali aperti’ di Parabita e l’Associazione Regionale Pugliesi di Milano  promuove lo spettacolo teatrale “Volti delle donne di un tempo”, scritto e diretto da Paolo Rausa.

Tratto dalla raccolta di racconti “Volti di carta, Storie di donne del Salento che fu” di Raffaella Verdesca, rappresenta attraverso la storia di 6 donne esemplari, vissute fra le due guerre e nel periodo postbellico, il percorso faticoso delle donne del sud per emanciparsi dalla fatica, dalla violenza e dalle intimidazioni, alle quali queste donne coraggiose rispondono con determinazione e grande dignità. Questi esempi rappresentano le donne  mediterranee e in particolare del nostro Sud, il Salento, la “Porta d’Oriente” come lo definisce l’autrice di questa raccolta di racconti che possiamo definire una vera e propria epopea.

Sono ritratti i volti vivi di Vincenzina, operaia in una fabbrica di tabacco, di Nunziata, moglie di emigrante, di Teresina, contadina violata nel corpo e nello spirito, di Immacolata, curiosa e desiderosa di apprendere la cultura diversa degli ebrei, sfuggiti alla deportazione e che trovano al sud un momentaneo luogo di pace in attesa di raggiungere la terra promessa, di Uccia la mammana, che vive donando la vita e alla fine viene premiata con una vita trovata e adottata, e infine di Caterina, resa vedova per una diagnosi sbagliata, mortale per il marito, e che ora non si dà pace e lavora giorno e notte per assicurare il cibo e un futuro ai figli.

Donne di un tempo, ma che ritroviamo nelle tante donne acrobate di oggi che lottano per la vita nel nostro Sud e nel Mediterraneo, discriminate e oggetto di violenza, ma imperterrite nell’affermare il diritto al lavoro, all’istruzione e agli affetti.

Lo spettacolo è stato presentato in prima assoluta il 26 dicembre 2012 alla Casa di Riposo “Capece” di Nociglia (Le) in versione ridotta e successivamente la notte del 31 dicembre, ovvero alle 5 di mattina del 1° gennaio 2013, in versione completa al Faro della Palascìa (Otranto) nell’ambito della manifestazione l’Alba dei Popoli, organizzata da Legambiente in collaborazione con il Comune di Otranto, l’8 di marzo al Palazzo della Cultura di Poggiardo (Lecce) e il 12 marzo allo Spazio Oberdan-Cineteca Italiana di Milano.

L’ingresso è gratuito fino ad esaurimento posti.

Il Sansificio di Spongano

        Sansificio old 2

 di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1926 l’ingegnere Francesco Rizzelli impiantò a Spongano un opificio per l’estrazione dell’olio dalla sansa, residuo solido della molitura delle olive.

L’impianto raccoglieva la sansa dei frantoi vicini e, all’inizio, estraeva un olio di scarsa qualità, avendo circa il 40% di acidità, che veniva utilizzato come combustibile (olio lampante) o come substrato nei saponifici.

La ragione di questa scarsa qualità era legata alla tecnologia e in particolare al solvente usato, la trielina. Con il tempo, utilizzando il benzene come solvente, si ottenne un olio migliore, con una acidità ridotta al 15%. Quest’olio veniva acquistato da alcune industrie del nord, fra cui la Costa di Genova e un’altra grande azienda di Firenze (forse la Carapelli), dove veniva ulteriormente raffinato per uso alimentare e immesso sul mercato.

L’attività dell’impianto, durata per circa cinquant’anni, fu anche funestata da diversi incidenti in uno dei quali, il 24 novembre 1927, lo stesso fondatore, l’ingegnere Francesco Rizzelli, perse la vita carbonizzato in un incendio. L’opera fu continuata dal fratello, l’ingegnere Raffaele, che apportò anche importanti modifiche tecnologiche tali da consentire di prolungare per tutto l’anno il ciclo produttivo, prima riservato alla sola stagione olivicola.

Una delle innovazioni più importanti fu il progetto di un grande silos dove la sansa veniva stipata dopo l’essiccazione, consentendo un ridotto utilizzo del solvente ed una maggiore resa in termini di qualità e di quantità.

deposito di sansa nel sansificio di Spongano
deposito di sansa nel sansificio di Spongano

La sansa, proveniente dai frantoi che adottavano la spremitura a freddo delle olive, veniva accumulata in un’area dell’opificio e prelevata da un sistema di secchielli per essere poi convogliata nell’essiccatore. Da qui, asciutta e priva di impurità, poteva essere depositata nel silos o versata direttamente nell’estrattore, dove veniva riscaldata a temperature elevate (circa 100°) e quindi sottoposta a vaporizzazione di solvente (benzene), ottenendo finalmente il prodotto da distillare.

Nello stabilimento erano collocati tre estrattori, ognuno dei quali poteva trattare quarantacinque quintali di sansa, in un ciclo lavorativo di circa sette ore, che richiedeva quasi sette litri di benzene. Una maggiore umidità avrebbe fatto aumentare la quantità di solvente necessario per il procedimento, per questo l’efficienza produttiva era maggiore con la sansa essiccata e depurata.

L’olio ottenuto con tale procedimento veniva poi distillato, con una resa finale di circa sette quintali rispetto ai quarantacinque  di sansa, pari dunque a circa il 13%.

Il residuo della lavorazione, la sansa esausta, veniva riutilizzato come combustibile sia per le caldaie e i fornelli degli essiccatoi dello stesso stabilimento, sia per altri scopi, fra tutti l’utilizzo nelle carcare di Taurisano, fornaci dove venivano cotte zolle di pietre calcaree per ottenere la calce. A Spongano, ma anche in altri comuni del Salento, la sansa veniva usata anche per rendere più morbido il fondo dei campi da calcio in terra battuta.

Traini

Negli anni Ottanta lo stabilimento fu dismesso, in parte per il rischio dovuto all’uso di grandi quantità di solventi portati ad elevate temperature, ma anche per l’ubicazione in pieno centro abitato e per l’inquinamento che derivava dai processi lavorativi.

Forse, però, la ragione più importante è da ricondurre al progresso tecnologico che, intanto, aveva cambiato i presupposti produttivi per quel tipo di opificio. Iniziavano, infatti, ad essere attive le cosiddette mulinova: impianti a ciclo continuo, con un procedimento di molitura delle olive da cui si ottiene  una sansa di qualità diversa.

Nella spremitura a freddo, infatti, la pasta, ottenuta dalla frangitura delle olive, viene distribuita su fiscoli, diaframmi di corda, in fibra naturale (cocco) o sintetica (naylon), che poi vengono impilati e sottoposti a spremitura per mezzo di presse idrauliche. Nella spremitura con il sistema delle mulinova la frangitura può essere fatta con le tipiche mole che macinano le olive nella vasca oppure da un frangitore a martelli. La pasta ottenuta passa in una macchina detta gramolatore che agevola la rottura dell’emulsione di acqua e olio per la successiva fase di estrazione. L’estrazione, in questo caso, avviene in una macchina a centrifuga detta decanter che, sfruttando la forza centrifuga e una temperatura più alta rispetto alla molitura a freddo, separa la parte solida, sansa, dal mosto di olio e da un residuo acquoso, detto morchia. La sansa che viene ottenuta è sbriciolata e meno sfruttabile per l’estrazione di nuovo olio.

Quando lo stabilimento sponganese era ancora attivo, si spargeva nei dintorni un odore acre, particolare, liberando nell’aria un pulviscolo che creava non pochi disagi ai residenti, per qualche problema respiratorio, e alle massaie, disperate per il bucato messo ad asciugare.

Molto interessante, a proposito, è il racconto La manna dei cieli maledetti di Corinna Zacheo che per anni ha vissuto vicino all’opificio e che descrive bene cosa significava vivere accanto a questo “pachiderma brontolone”.

Il racconto inizia così:

 

“Era con questa citazione letteraria che noi, scherzosamente, parlavamo della pioggia continua di fuliggine nera che si posava sulle lenzuola immacolate di bucato, stese ad asciugare; che si infilava in casa da qualsiasi fessura; che forzava il blocco del paravento per disporsi in sottili filari ai lati estremi di porte e finestre.

Te la trovavi dappertutto.

Sulle terrazze poi, si accumulava in tutti gli angoli, dove il vento ci giocava a disegnarvi curiose dune ma che mani irrequiete usavano per tutt’altro divertimento […] che ci stava a fare lì tutta quella sabbia nera che sporcava l’acqua piovana che andava dritto in cisterna e serviva a dissetarci e a liberarci dall’arsura di estati torride?”[1]

 

Il racconto descrive anche piccoli momenti di vita quotidiana di chi ci lavorava, soffermandosi particolarmente sulla motivata preoccupazione degli operai in occasione del difficoltoso ingresso dei cavalli nell’opificio, costretti a varcare la soglia in liccisu, leggermente scoscesa e scivolosa. L’autrice ricorda anche la montagnola di sansa, depositata prima dello stoccaggio nei silos, sulla quale “transitavano una coppia di buoi che tirava avanti e indietro una specie di rullo perché schiacciasse e comprimesse il cumulo, di modo che non franasse”[2].

Sull’alta ciminiera, di forma tronco-piramidale, era situato l’unico parafulmine del paese, quanto mai necessario per impedire che una qualsiasi saetta potesse scaricarsi sul deposito dei solventi infiammabili.

Ma il maltempo spingeva comunque a prendere le dovute precauzioni, staccando l’energia elettrica, interrompendo il lavoro con l’allontanamento delle maestranze fino alla normalizzazione delle condizioni atmosferiche, rammentando agli astanti e a quanti risiedevano nelle immediate vicinanze che tutti si era in continuo pericolo.

Infatti chi abitava vicino all’opificio viveva con la paura di dover scappare ad ogni rumore particolarmente sospetto, anche di notte, in pigiama con una coperta addosso.

Per la popolazione, però, lo stabilimento non era solo un inquinante o una sorta di bomba. Era anche una risorsa non solo per chi ci lavorava.

La miseria dei tempi e le tristi condizioni di vita venivano alleviate di tanto in tanto quando veniva concesso agli operai ed ai paesani di portarsi in casa un secchio di quella sansa incandescente che, riposta in capaci contenitori in metallo, consentiva di cuocere una pignatta di legumi o riscaldare le abitazioni umide e fatiscenti.

Continua ancora la Zacheo:

 

“…nelle ore di punta, poi, l’orario in cui il portone s’apriva per il cambio di turno degli operai, era consuetudine vedere gente accalcarsi, far la fila, litigare per qualche precedenza carpita prima del dovuto. […] Ciascuno era attrezzato con qualche vecchio secchio ammaccato, con qualche mezzo bidone, o con qualche bacinella di ferro smaltato ai cui bordi era legato un filo di ferro filato per agevolar la presa, a mo’ di manico […] e la genialità del popolo era imprevedibile nel trasformare qualsiasi rudere in un comodo contenitore. Guadagnato l’ingresso a forza di gomitate e qualche volta a suon di “secchiate” o di capase o di qualunque altra ferraglia […] che servisse a farsi largo, il “fortunato” ne usciva e si allontanava orgoglioso, col suo caldo bottino …. di  fuoco … e che importa se procedeva affumicato ed asfissiato? Erano gli scarti della sansa combusta e fumigante, che bisognava lasciar fuori di casa, sul limitare, per strada, perché la brace decantasse e smettesse di fumare. I più raccomandati erano i vicini, e perché non reclamassero avevano un trattamento particolare…”[3]

 

Collegata allo stabilimento, ma indipendente dal ciclo produttivo, funzionava una ghiacciaia per la produzione di blocchi di ghiaccio. Quel ghiaccio, che mia nonna chiamava ancora nive, serviva a bar e ristoranti, specie in estate, ma anche in casa per alcune cerimonie o per preparare deliziose granite e veniva custodito in cassapanche di legno, avvolto con sacchi di juta e paglia. Anche dalla ghiacciaia, come in inverno con la sansa incandescente, qualche vicino e qualche paesano cercava di ottenere in regalo qualche pezzo di ghiaccio in estate quando frigoriferi non ce n’erano.

Là dove sorgeva l’opificio, demolito negli ultimi mesi del 1982, oggi c’è piazza della Repubblica; un parcheggio, un giardinetto e un mercato dismesso hanno soverchiato quella che fu fiorente realtà industriale sponganese.

Del sansificio resta solo uno sbiadito ricordo nei più grandi e nulla nei più giovani che non hanno conosciuto l’odore acre della sansa surriscaldata e la fuliggine che si spandeva per l’aria, “manna dei cieli maledetti”, così come ci è stata raccontata da Corinna Zacheo .

 

Si ringraziano di cuore, per la gentile collaborazione, Raffaele Gravante, Claudio Miccoli, Marcello Bramato e Giorgio Tarantino.

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

 


[1] C.ZACHEO, Manna dei cieli maledetti

[2] Ibidem

[3] Ibidem

Candidatura della Terra d’Otranto a Capitale Europea della Cultura 2019

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Egr. Presidente Regione Puglia

Egr. Presidente Provincia di Brindisi

Egr. Presidente Provincia di Lecce

Egr. Presidente Provincia di Taranto

Egr. Sindaco di Brindisi

Egr. Sindaco di Lecce

Egr. Sindaco di Taranto

OGGETTO: Lettera aperta per candidatura della Terra d’Otranto a Capitale   Europea della Cultura 2019.

 

 

Egr. Rappresentanti delle Istituzioni,

il prossimo 20 settembre scadranno i termini per la candidatura di una città a Capitale Europea della Cultura 2019.

Sarebbe un importante riconoscimento se la scelta di chi dovrà esaminare le varie proposte premiasse il nostro territorio che da  decenni ha iniziato un percorso di rivalutazione delle proprie peculiarità storiche, culturali e paesaggistiche.

Il Salento, però, è anche una vasta area con  grossi problemi relativi alla tutela ambientale che vede negli insediamenti industriali di Taranto e Brindisi i picchi di un inquinamento dagli effetti che superano notevolmente i relativi ambiti provinciali.

Merita un’osservazione più attenta Taranto balzata agli onori della cronaca internazionale per la “questione ILVA” e per le ripercussioni economiche, sociali ed ambientali che si potrebbero avere per la città con le scelte che si prenderanno.

Come più volte sottolineato da “ARCI-Biblioteca di Sarajevo” è necessario trovare il punto di equilibrio tra difesa del posto di lavoro e difesa dell’ambiente, del territorio e del paesaggio proprio come sono state trovate delle idonee soluzioni a problemi analoghi in altre parti dell’Europa.

Proprio il carattere internazionale di questa emergenza e l’importanza che assume la scadenza del  20 settembre dovrebbero spingere  le Istituzioni ad unirsi superando logiche localistiche, o peggio ancora campalinistiche, presentando una candidatura che vada nel segno della rivalutazione culturale e sociale di un vasto territorio comprendente le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Sarebbe significativo, perciò, che queste tre città capoluogo venissero sponsorizzate insieme con la candidatura della Terra d’Otranto a Capitale Europea della Cultura 2019. Fu l’unità territoriale la spinta che portò a fare dell’Università di Lecce la nuova Università del Salento interessando le tre province citate e tale, secondo noi, dovrebbe essere lo spirito animatore anche in questa occasione.

La candidatura così proposta spingerebbe ad una maggiore coesione, non solo sotto il profilo culturale, e rappresenterebbe un volano per il rilancio dell’economia che stenta a decollare concentrando tutti gli sforzi tesi a portare la nostra terra in una vetrina internazionale di primaria importanza.

Questo è l’auspicio che “ARCI-Biblioteca di Sarajevo” esprime perché simile candidatura potrebbe rafforzare le speranze di una scelta che darebbe un giusto riconoscimento al lavoro di associazioni, cittadini ed Istituzioni che, al di là del loro colore politico, negli anni hanno perseguito la strada del rilancio culturale della Puglia come crocevia e punto di incontro dei popoli del Mediterraneo.

 

Maglie, 02 agosto 2013

 

Il Segretario

Giancarlo COSTA CESARI

L’umile “scèsciula” (giuggiolo/giuggiola) protagonista nella letteratura moderna e contemporanea

di Armando Polito

 

Chi avesse interesse a conoscere questa pianta sotto un taglio decisamente diverso da quello del titolo può andare al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/17/qualche-altra-cosetta-sulla-scesciula-giuggiola/.

Qui, invece, mi limiterò a riportare in ordine cronologico le più significative testimonianze letterarie, non senza anticipare che, a parziale compensazione della considerazione, tutto sommato scarsa, attribuita a questa pianta, mi aspettavo che almeno qualcuno avesse celebrato ciò che ad un attento osservatore non può sfuggire: il verde delle sue foglie, non tanto per l’intensità, quanto per la brillantezza: sembrano lucidate con la cera e non si sporcano minimamente nemmeno quando qualche pioggia riduce le nostre macchine come se fossero reduci da qualche safari. Nel corso della mia ricerca, dopo la delusione delle prime testimonianze, Grazia Deledda, come vedremo più avanti, ha reso il giusto onore a questo dettaglio, nonché al frutto. Le foto relative, una volta tanto, sono tutte mie.

 

Antonio Bonciani (XV secolo), Rime, II:

Ciriegi buondì, amareni e marchiani,

acquaiuol, duracini belli e freschi,

e  giuggioli  e pistacchi e melagrani

Bernardo Giambullari (XV secolo), Una curiosità canviviale:

e  giuggiole  che son tutte rossigne.

Domenico di Giovanni detto il Burchiello (XV secolo), Rime, CCXC:

Prugne, avellane, e le  giuggiole  ancora:

Luigi Alamanni (XVI secolo), Della coltivazione, Libro I: Lavori di Primavera:

E lo spinoso e vil, dal vulgo offeso

giuggiol  negletto, che salubre forse

più che grato sapor nel frutto porta;

….

Dopo le precedenti, sbrigative ed incolori (a parte rossigne …) citazioni precedenti, qui in tre versi il poeta riesce a condensare la contrapposizione tra la scarsa considerazione riservata a questa pianta (negletto) e il suo sapore, non tanto per la sua gradevolezza quanto per le proprietà salutari.

Iacopo Sannazzaro (XVI secolo), Arcadia, IX, 19-21:

….

Cantiamo a prova, e lascia a parte il ridere;

pon quella lira tua fatta di giuggiola ;

Montan potrà nostre question decidere.

….

Qui giuggiola è assunta come metafora di canto sdolcinato; non escluderei, comunque, pensando al maschile, al legno certamente inadatto a realizzare una cetra, per cui l’invito a smettere il canto sarebbe legato non solo alla stucchevolezza della musica che l’accompagna ma anche alla qualità costruttiva dello strumento in sé.

A questo punto debbo ricordare Guglielmo detto il Giuggiola, un poeta del XVI secolo del quale abbiamo parecchie poesie, in nessuna delle quali, però, compare né l’albero né il frutto; non è da escludere che il probabile fastidio derivantegli dal soprannome (dovuto ad una poesia considerata di poco spessore o troppo sdolcinata?) lo abbia spinto a guardarsi bene dal ricordare, nel bene o nel male, la giuggiola o il giuggiolo in qualche suo componimento. Colgo l’occasione per ricordare che giuggiolone è l’appellativo riservato ad una persona stupidotta e bonacciona e, meno comunemente, giuggiolino è il bambino simpatico e grassottello (il riferimento credo sia alla forma tondeggiante del frutto, più tozzo di un’oliva).

Lascio respirare un po’ i poeti per dire che nel Rinascimento gli eruditi raccolsero in appositi repertori, per lo più corredati di immagini, tutti gli elementi che in passato avevano avuto un valore simbolico. Tra questi repertori quello di Cesare Ripa, anche se non fu il primo ad essere realizzato, ebbe particolare successo con un numero incredibile di edizioni protrattesi anche per decine di anni  dopo la morte dell’autore. Nella prima edizione autorizzata di Iconologia, overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi uscita per i tipi degli Eredi di Giovanni Gigliotti a Roma nel 1593, a pag. 267 c’è la scheda relativa alla Tardità: Donna, vestita di Berettino; haverà la Faccia, & la Fronte grande, starà a cavallo sopra una gran Testudine, la quale regga ancor con la briglia, & sarà coronata di Giugiolo, albero tardissimo à dar il Frutto.

Ritorno ai poeti:

Traiano Boccalini (XVII secolo), Ragguagli di Parnaso, LXXVI: … Talete milesio ricordò che alcuni ghiottoni, che vendevano i lupini e le  giuggiole, usavano certi scudellini tanto piccioli, che era uno scandalo gravissimo il non provedervi …

Ippolito Nievo (XIX secolo), Confessioni di un italiano, II: … Giuggiole! non ci voleva altro!  ; XXI: … Giuggiole! Credo che ci sian corsi sopra vent’anni!

Qui la voce, partendo dal significato traslato di cosa di poco valore, sciocchezza è diventata un’interiezione.

È tempo di concederci una pausa di … saggezza rifacendoci ai proverbi:

Giuseppe Giusti (XIX secolo), Dizionario dei proverbi italiani (l’opera uscì postuma a cura di Gino Capponi a Firenze nel 1853, per i tipi di Le Monnier), pag. 191: Quando il giuggiolo si veste, e tu ti spoglia; quando si spoglia, e tu ti vesti. Tra le tante vittime dei cambiamenti climatici in atto ci sono anche i proverbi; e neppure questo si sottrae …

Emanuele Barba (XIX secolo), Proverbi e motti del dialetto gallipolino, Stefanelli, Gallipoli, 1902, pag. 178.

 

 

Nell’immagine che segue è riprodotta la scheda del detto 159, tratta proprio dall’edizione del 1902.

 

È la sintesi della religiosità contadina, il cui utilitarismo qui è spinto ad un limite estremo che per qualcuno magari supera la blasfemia e che per me, invece, mostra un’ironia che al sommo detentore di ogni potere, per chi ci crede, dovrebbe piacere. In fondo il nostro arguto villano non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze con una battuta finale liberatoria e scevra da ogni ipocrisia la filosofia che ha sempre sotteso la struttura della preghiera pagana (e non solo), struttura che prevede tre parti temporalmente consequenziali, la prima e la seconda senza soluzione di continuità, la terza a distanza di qualche tempo dalle precedenti: 1) ricordo alla divinità dei sacrifici offerti e delle preghiere innalzate:  il ricatto è già nell’aria …; 2) richiesta della protezione o della grazia; 3) ringraziamento per la preghiera esaudita o, in caso negativo, ritorno al n. 1 nei casi più composti; ma il nostro villano non rientra in questa casistica …

Dopo i proverbi un ritorno alla poesia con Grazia Deledda (XIX-XX secolo), Cinquanta centesimi, in Sole d’estate, Treves, Milano, 1933, pag. 4: … Ecco il cortile del nonno, prima che il padre di Giulio emigrasse e facesse anche una certa fortuna in città: il cortile è ingombro di laterizi, perché anche il nonno è capomastro: ma in mezzo sorge un albero bellissimo, con le foglie di un verde come ritagliato in una seta tinta col vetriolo:  e tra una foglie e l’altra innumerevoli frutti piccoli e scarlatti, che sembrano duri e invece a mangiarli sono dolci e teneri, d’una tenerezza un po’ resistente che si prolunga, che si fa succhiare, si concede a poco a poco per farsi meglio godere. È l’albero delle giuggiole … 

Vi ricordate la mia sortita sulla polvere del safari?  Io sì, e me ne vergogno …

E, dopo il gallipolino Emanuele Barba, chiudo con un’altra testimonianza salentina, L’albero delle giuggiole1 (Kowalski, Milano, 1911) il primo romanzo di Mietta (Daniela Miglietta), la nota e brava cantante tarantina.

 

____________

1 Come titolo è piuttosto inflazionato; per esempio: M. Gabry Conti, L’albero delle giuggiole, Lulu.com, s. l., 2007; Giulio Preti, L’albero delle giuggiole, OEO, s. l., 2013.

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