Quella foto della trisavola… Elucubrazioni settembrine su un occasionale reperto di fine Ottocento

di Marcello Gaballo

Di tanto in tanto è utile variare sul tema. Ci siamo mai posti il perché di quelle fotografie enormi, anche 70×100, che esistono in casa dei nonni o dell’anziana zia? Mi riferisco ai ritratti degli antenati defunti che un tempo campeggiavano sulle bianche pareti tinteggiate a calce, tramessi in eredità da padre in figlio per diverse generazioni. Tutti con pesante cornice in noce, vetro alquanto spesso, pose ieratiche, comunque sempre di grandi dimensioni. Belli o brutti, giovani o anziani, talvolta anche umili pose di contadine con la pelle bruciata dal sole o con volti marcatamente segnati dalle rughe. Difficilmente invece si notavano persone in tenera età, graziose fanciulle, coppie di amanti, figlioletti in triciclo, bimbe con la “pupa”, come è più naturale che fosse.

Nel modestissimo bilancio familiare, tante volte mi son chiesto, perché investire in un grande ritratto dell’avo? Forse per mantenere vivo il ricordo? E in tal caso non sarebbe forse bastata una piccola foto da inserire, accanto alle tante altre, sul comodino o fermarla nell’intercapedine tra lo specchio e la cornice del comò? Reminiscenze degli antichi Lares, direbbe qualcuno, proprio come quegli spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale. Forse.

Credo però di aver trovato il vero motivo e mi piace condividere l’ipotesi con i lettori.

E’ di questi giorni una insolita usanza del popolo salentino emersa da una occasionale visita in casa di amici, che mi hanno invitato ad esplorare il magazzino dell’abitazione ereditata dai nonni.

Tra le varie cianfrusaglie, alcune delle quali mi è piaciuto fotografare prima dell’irrimediabile perdita nella pubblica discarica, una in particolare mi ha colpito e mi ha permesso di ragionare sulla premessa.

Un quadro ottagonale di circa 90×50 cm conteneva sotto il vetro protettivo una corona di fiori interamente realizzata in lamina di ferro. Fiorellini abilmente lavorati in delicata porcellana spiccavano su una base di foglie metalliche di quercia, tutte colorate al naturale, seppur sbiadite dal tempo e in parte ossidate, nonostante la protezione ermetica garantita dal vetro e dalla cassa in cui era disposto il tutto.

Attorno alla composizione era disposto un nastro merlettato nero su cui erano attaccate delle lettere realizzate con cartone dorato: A Rolli Anna Maria- il marito.

La disposizione della ghirlanda era tale da racchiudere nella parte centrale un foglio di carta, ormai tarlato e consunto in più parti, su cui ancora si leggevano alcune parole sopravvissute al tempo. Facile intuire che si trattava di una lettera dedicatoria, scritta in bella grafia,  che il marito e i desolati figli avevano composto dedicandola alla perduta moglie e madre, che aveva lasciato tutti prematuramente. Siglava il testo un teschio con le ossa femorali incrociate, evidentemente ripreso dalla classica iconografia cimiteriale.

il contenitore svuotato dell’addobbo

Una corona funebre! Ma non riuscivo a spiegarmi perché mai potesse trovarsi in quel magazzino anziché nel cimitero, dove era naturale fosse ospitata a imperitura memoria, accanto alle spoglie mortali della povera donna.

Intanto la datazione del nostro reperto. L’amica, oggi settantenne, mi riferisce trattarsi di un omaggio funebre che suo nonno aveva tributato alla moglie, deceduta in giovane età, subito dopo aver partorito la seconda figlioletta. Facendo un po’ di calcoli dobbiamo far risalire il manufatto alla seconda metà dell’800.

Era uso, in quei tempi e fino ad un cinquantennio addietro, portare questo quadro nel cimitero in occasione dell’Ottavario dei Defunti e lì lasciarlo per tutto il periodo, per poi riprenderselo in casa. Veniva appeso in una stanza del cimitero, a sinistra entrando, con molti altri dello stesso genere, quasi a voler rispolverare la memoria degli astanti su quanti avevano lasciato questa terra.

particolare con le rose in porcellana

Appositi artigiani realizzavano su commissione questi lavori. Il falegname avrebbe preparato la cassa, in base alle possibilità e gusto del richiedente, consigliando una meno costosa forma quadrata o rettangolare, sino alle più lussuose forme esagonali o ottagonali. Il pubblico scrivano  avrebbe scritto la lettera sulla base delle essenziali indicazioni fornite dal familiare, riportando i nomi dei congiunti in formule stereotipate, scelte tra le più strazianti in base all’età del defunto e del dolore causato dalla sua perdita. Lo stagnino avrebbe realizzato la composizione floreale e, su una base standardizzata di foglie, aggiungeva i fiori di maggior gradimento da parte del committente: rose e gelsomini (come nel nostro caso), margherite, iris, crisantemi (i più costosi), tutti sapientemente fissati con sottile fil di ferro, come ho potuto notare osservando il retro della composizione. Con gusto ai fiori si alternano foglie di edera e di rosa.

frammenti della lettera dedicatoria

Dopo aver incluso la lettera e sistemato a dovere il nastro messciu Pici sigillava con vetro spesso, affinché resistesse ai sobbalzi del “trainu” (carro) con cui si trasportava annualmente il pesante e ingombrante omaggio.

Intervistato qualche altro anziano a proposito di tale pratica, qualcuno mi ha confermato l’usanza e mi ha riferito che, oltre a questo tipo di composizione, si era soliti portare nel cimitero, sempre nell’Ottavario dei Defunti, i ritratti delle persone più care. Le quattro pareti della stanza venivano dunque ricoperte da quadri di ogni misura, evidentemente grandi per poter essere notati da tutti i visitatori, visto che venivano appesi a diverse altezze. I miei interlocutori però ricordano solo fotografie, non corone funebri come quella ritrovata, essendo la fotografia privilegio di pochissimi e ancor più elitario il ritratto dipinto. Ecco dunque svelato (o almeno così son portato a credere) il mistero di quelle enormi foto che hanno sempre dato tanto fastidio a noi moderni, che non sappiamo mai dove relegare.

Un’usanza del tutto sconosciuta a chi scrive. Sarebbe interessante raccogliere eventuali ricordi e testimonianze di tale pratica, forse adottata in molti altri comuni salentini, probabilmente sfuggita agli etnologi.

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