Per una storia della cartapesta leccese. Come nasce la cartapesta

cartapesta

di Cristina Manzo

 

Lecce, in su l’estrema punta d’Italia, è una piccola città molto interessante: belle chiese si ammirano di stile barocco, negozi eleganti risplendono come in una capitale e, quello che è più strano, vi suona una parlata che non è pugliese: pare toscana, ma senza aspirazioni. Che strano negozio è questo? Era la bottega di uno statuario. Per chi lo ignorasse, come io lo ignoravo, le statue delle immagini sacre sono una specialità di Lecce, che data da qualche secolo. Esse vanno per tutte le parti del mondo, Italia, Francia, Spagna, America. Così mi diceva con un certo orgoglio lo statuario. Altrove hanno provato a farle, e non sono riusciti. Sono quelle statue alla grandezza quasi naturale, ben drappeggiate, colorite splendidamente, ben fiorite. Sono quelle che noi vediamo sugli altari, specie delle chiese campestri. Questi santi e sante, immersi nella contemplazione del cielo, evidentemente ignorano i progressi dell’arte. Forse altri pensa, come io pensavo, che fossero di gesso. Macché! Sono di carta, e perciò molto commerciabili per la loro leggerezza, e nel tempo stesso resistentissime per anni ed anni. Nulla di più resistente della cartapesta, diceva lo statuario.”[…] Dunque santi di carta! E lo statuario mi indicava risme di carta grigiastra come quelle dei pacchi, che poi si mutano in statue dei santi. Con speciale processo questa carta diventa pastosa come creta; e si plasmano manti, chiome, come si vuole. Ho visto santi e sante in perfetto nudismo grigio, che poi vengono accuratamente vestiti e coloriti come in un istituto di bellezza.”[1]

 

Così si esprimeva Alfredo Panzini a proposito dell’arte della cartapesta leccese, un’arte le cui origini restano incerte e si perdono nella notte dei tempi.[2]

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Di fatto, come sostiene Panzini, non possiamo stabilire con estrema precisione quando, e chi,  iniziò a produrre la cartapesta nel Salento, anche se  parrebbe che alcune statue di cartapesta esistessero in Terra d’Otranto già attorno al quindicesimo secolo. Si potrebbe parlare quindi della prima metà del seicento. Infatti Sigismondo Castromediano, così ci tramanda:[3]

Se dovessi credere a certa tradizione caballinese, la quale asserisce che la madonna che ancora conservo in questo mio avito palazzo, venne ordinata da una mia avola, donna Beatrice Acquaviva, moglie del duca, Francesco de’ Castromediano Sanseverino Marchese di Caballino, direi che già esistesse fin dal secolo diciassettesimo, giacché la nobildonna morì nel 1647.”[4]

La giovane e gentile signora marchesa “donna Bice” aveva portato nel cuore da Napoli a Cavallino un particolare fervore devozionale per S. Domenico di Guzmàn, e facilmente convinse il marito a includere nei progetti edilizi anche la fondazione di un convento per ospitarvi i monaci Domenicani. Subito fu iniziata la costruzione del chiostro con licenza del padre rrovinciale dei Padri Predicatori, con consenso del Rev. Capitolo di Cavallino, con beneplacito di S. E. mons. Scipione Spina vescovo di Lecce. La chiesa del convento fu eretta sullo stesso sito della vecchia cappella di S. Nicolò; contiguo fu costruito il chiostro sul luogo di un vecchio palazzo e al posto di alcune casupole e nell’area di un cortile, di una stalla e di un pozzo. La facciata è piuttosto semplice, decorata da un gruppo scultoreo, ai lati del portale, raffigurante S. Omobono e S. Francesco di Paola, attribuibile all’artista salentino Mauro Manieri da Lecce. L’interno è a croce latina con una sola navata voltata a crociera. Accanto all’altare principale il marchese Francesco Castromediano, feudatario di Cavallino, nonché duca di Morciano e Cavaliere dell’Ordine di Calatrava, fece erigere nel 1637 una cappella di famiglia in origine dedicata a S. Benedetto. Al suo interno è ancora visibile il monumento sepolcrale del marchese e di sua moglie Beatrice Acquaviva d’Aragona. La leggenda narra che alla morte di Beatrice, Francesco decise di seppellirla nella cappella dei Castromediano all’interno della chiesa parrocchiale. In segreto, tuttavia, e d’accordo, con il parroco, ordinò che le fosse estratto il cuore per conservarlo in una grossa urna d’argento fino alla propria morte, quando i loro cuori sarebbero stati racchiusi in un’unica urna.[5] Ora, proprio questa piccola parentesi storica, legata al Salento, di cui siamo a conoscenza, parrebbe suffragare maggiormente, l’ipotesi secondo cui  Lecce acquisì la  preziosa e sublime tradizione  della cartapesta proprio da Napoli, tra il ‘600 e soprattutto il ‘700. Mentre a fondamento della veridicità del periodo, riscontriamo la stessa notizia che riguarda la statua posseduta da donna Bice, anche in uno scritto a cura di Franco Galli, “L’inizio della lavorazione della cartapesta leccese potrebbe risalire al secolo diciassettesimo, infatti, Castromediano riferisce che intorno al 1646, donna Bice Acquaviva possedeva una Madonna in cartapesta.”[6].

Una delle attrattive maggiori di questo nuovo materiale, era rappresentata dal fatto che la cartapesta riusciva ad apparire esteriormente alla stregua di materiali pregevoli, rari e costosi., ma al tempo stesso era facilmente maneggevole e plasmabile, cioè si modellava con estrema facilità, ed aveva un peso specifico a lavoro ultimato, molto inferiore agli altri materiali conosciuti ed usati sino ad allora, come la pietra, il marmo e il legno.

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A Napoli, dove era in uso già da tempo, veniva impiegata anche per le maschere, durante le recite teatrali, ed è  sempre qui che  nascono le numerose figure sacre di Santi, che ancora oggi si possono ammirare all’interno delle chiese o durante le processioni. Inoltre Napoli risulta essere stata la patria per eccellenza dei presepi in cartapesta. Il figuraro e il madonnaro nel diciassettesimo secolo erano diventati lavoratori specializzati incoraggiati dallo stesso re di Borbone, Carlo III, mentre la regina Amalia di Sassonia faceva lei stessa gli abiti per le statue.[7]

Ma sul rapporto con Napoli torneremo.

Tuttavia ci si potrebbe chiedere, per quale motivo i leccesi avvertirono l’esigenza di interessarsi a quest’arte? “La cartapesta – sosteneva Vittorio Bodini – è figlia della noia leccese. Basta solo vedere dove è nata, nelle botteghe dei barbieri…A Lecce il più glorioso capitolo scritto dai barbieri è la cartapesta.”[8]

Non possiamo negare che ciò corrisponda in parte a verità, perché furono davvero i barbieri a lavorarla tra i primi. I figari salentini ne fecero ben presto il passatempo preferito.

Ma è anche credibile quello che si domanda  il Ròiss, quando scrive “ Verso il 1841 la classe dei barbieri aveva preso a imitare e a copiare i lavori dei cartapestai, interessata ai guadagni  che essi procuravano?”[9]

In effetti uno dei motivi fu sicuramente questo; le richieste aumentavano, i guadagni non mancavano, i pagamenti erano in contanti e alla consegna, così molti furono i barbieri che diedero una svolta alla loro arte, cambiando attrezzi e mestiere. Era il periodo aureo della cartapesta, quello che il Ròiss chiama “dell’artigianato artistico, il più lungo, che va dalle origini sino al 1915.[10]

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Da alcune fonti storiche sembrerebbe che la cartapesta sia stata impiegata per la realizzazione degli archi eretti in onore della consorte di Ferrante Gonzaga, quando nel 1549 arrivò a Lecce, così come sembrerebbe essere stata impiegata ripetutamente per l’allestimento di addobbi e strutture apposite durante tutte le feste e le cerimonie  che popolavano anticamente la nostra Lecce Barocca.

Ma, anche in questi casi non si ha ancora una tecnica autonoma. Possiamo tuttavia affermare che a livello di domanda sociale c’erano invece tutte le condizioni affinché una tecnica del genere si sviluppasse: tra le fine del sedicesimo e per tutto il diciassettesimo secolo; infatti, la città diventa, dopo Napoli, il centro del Mezzogiorno più ricco di insediamenti religiosi.[11]

La definizione più esatta, di questa materia plastica, come la chiamano alcuni, continua ad essere quella più antica rinvenuta in un dizionario enciclopedico edito a Venezia nel 1830, “carta macerata in acqua e ridotta liquida o in pasta”[12].

In tutti i  dizionari linguistici: inglesi, francesi e tedeschi essa viene definita con un unico termine, uguale per ogni idioma: papier maché.

La cartapesta è nata come espressione di arte povera, essa infatti utilizzava solo materiali di scarto che non potevano influire in nessun modo sull’economia già povera degli umili artigiani che la lavoravano. I materiali erano la vecchia carta, il filo di ferro, la segatura, la paglia, stracci, colla fatta in casa e gesso.

La colla si otteneva mescolando in un pentolino acqua e farina, e cuocendo il miscuglio a fuoco lento fino ad ottenere un liquido trasparente. Una volta costruita l’anima del pupo e avergli dato forma con gli strati di carta pressata e la colla, si poteva decidere o di fiammeggiarne l’esterno, lasciando così l’opera al naturale, che assumeva una colorazione tra il verdastro e il marrone, oppure di colorarla con più colori.

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I coloranti erano ricavati da sostanze naturali, soprattutto di origine vegetale e animale che si trovavano e si trovano tutt’ora in natura, ma i costi erano molto elevati e la preparazione lunga e laboriosa, così come l’applicazione. Uno dei più costosi era  il colore blu. I pigmenti blu erano due: l’oltremare, che veniva ottenuto dai lapislazzuli, quindi molto prezioso, e l’azzurrite. Esso veniva usato maggiormente in quadri religiosi per rappresentare il cielo e la Madonna o le sante, e  la chiesa, a causa dei costi proibitivi era davvero l’unica a potersi permettere una tale spesa.

Le tonalità della  terra: ocre, marroni, giallini e un po’ di rossi, si  potevano creare con pochi elementi naturali facilmente reperibili e quindi erano nell’uso della tinteggiatura quelli più diffusi.

Per ottenere la brillantezza del colore si ricorreva a  piccoli frammenti di conchiglie, che venivano polverizzate e mischiate al pigmento colorato.

Con tali semplici e umili ingredienti artistici, quest’arte, oramai importantissima, è riuscita ad  acquisire un prestigio autorevole riconosciuto ormai in tutto il mondo. Abbiamo già detto che le chiese sono state per lungo tempo le maggiori istituzioni committenti delle opere di cartapesta. Uno dei motivi è sicuramente la leggerezza del composto, che diminuiva di molto il peso delle statue rispetto a quelle realizzate in legno, in ferro o in bronzo, e sicuramente anche la dolcezza delle espressioni dei volti e delle fattezze, che si potevano ottenere con un materiale così morbido da lavorare, così plasmabile. Gli artigiani, dunque, facendo di necessità virtù, cominciarono a specializzarsi, e ad affinarsi nella loro sottile maestria, per la realizzazione di statue di santi.

Negli animi dell’epoca, l’arte del sacro in cartapesta nasce come impegno religioso, come contributo personale al fiorire di un sentimento  che trova nelle nuove chiese cristiane il luogo privilegiato di espressione.

La realizzazione di numerosi lavori sacri in cartapesta ebbe la funzione di richiamo al culto dei fedeli attratti da vere e proprie opere nelle quali si riflettevano i tratti caratteristici della religiosità salentina.

Sin dai tempi più remoti l’uomo ha avvertito il bisogno di esternare il proprio credo  attraverso i riti e la realizzazione di simulacri con effigi di divinità alle quali veniva spesso attribuito un aspetto antropomorfo.

Con l’’iconoclastia  (dal greco εἰκόν – eikón, “immagine” e κλάζω – klázo, “distruggo”) che è stato un movimento di carattere politico-religioso sviluppatosi nell’impero bizantino intorno alla prima metà del secolo VIII, la cui base dottrinale era l’affermazione che la venerazione delle icone spesso sfociasse in una forma di idolatria, detta “iconolatria”[13], ci fu la convinzione di dover necessariamente distruggere tutto il  materiale iconografico. Solo in tempi più recenti, la chiesa cattolica ha fatto sì che arte e religione, bellezza e fede fossero  interdipendenti, e possiamo  ipotizzare che in occidente difficilmente avremmo avuto uno sviluppo dell’arte, una storia dell’ arte, una disciplina chiamata estetica, se il secondo concilio di Nicea[14] nel 787 non avesse approvato il culto delle immagini. Le immagini sacre non sono destinate, però, ad essere venerate come degli idoli, ma servono per richiamare alla memoria e per venerare il santo rappresentato. Bisogna pensare che una statua sacra, qualsiasi santo essa rappresenti, non possiede in sé la sacralità; è il rapporto tra essa e il credente che fa sì che l’oggetto, il simbolo, realizzato in un qualsiasi materiale acquisti contenuto spirituale. Non è, perciò, una questione di materia, o di struttura, ma di relazione tra il credente e la statua, tra l’uomo e l’oggetto che, senza la presenza del primo, non avrebbe alcun significato. Il simulacro in questo modo diventa l’oggetto che media, che si fa carico delle sofferenze e delle attese di quell’ umanità che ripone la speranza in esso, per un riscatto terreno e per una sopravvivenza eterna.

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La statua considerata così come confine di varco, come limes, diventa finestra tra visibile e invisibile, appartenendo a  due mondi: l’aldiquà e l’aldilà, è posta tra il tempo e l’ eternità.

Naturalmente, la maestria dell’artista sta nel far sì che l’immagine da lui plasmata riesca a rendere, espressivamente, il più possibile quei sentimenti idealizzati dal credente. Le effigi religiose perciò costituiscono oggetto di studio nel quale si intersecano aspetti e contenuti diversi.

Così la cartapesta, materia povera, si affermò come alternativa economica alle costose statue in legno o in pietra e, nelle mani degli artisti dell’Ottocento e del Novecento, assunse grandi possibilità plastiche e consentì la realizzazione di grandi opere ancora visibili in moltissime chiese della zona.

Molte furono le botteghe artigiane aperte nel capoluogo salentino a seguito del diffondersi della fama di quest’arte, e molte furono le zone dove gli artigiani del posto furono chiamati a fare dimostrazione della loro abilità.

All’inizio, parlando di territori al di fuori dell’Italia, fu l’Inghilterra il paese dove questo materiale riscosse maggiore successo, a partire dalla seconda metà del Settecento. Infatti, da quel momento, la cartapesta venne impiegata al posto dello stucco nelle decorazioni di soffitti e muri. Intorno al 1760, per i lavori di costruzione e rifinitura della chiesa di West Wycombe vennero chiamati operai italiani e questo evento fu una delle saldature fra la tradizione italiana più antica e le nuove diramazioni che l’attività sviluppò in Inghilterra successivamente[15].

Tornando  nel Salento, i primi tangibili riconoscimenti di quest’arte  si hanno alla fine del Seicento, quando in città viene realizzato in cartapesta il controsoffitto della chiesa di Santa Chiara, ad imitazione di quello in legno, più pesante e oneroso. Il soffitto di Santa Chiara fu realizzato in vari pezzi che vennero poi montati sul posto, nel 1738. Diverse fonti attribuiscono questo soffitto a Mauro Manieri che in quegli anni operava per conto del vescovo di Lecce in Piazza Duomo.

Abbiamo poi un’opera antica del  1782, firmata Pietro Surgente (1742-1827), detto mesciu Pietru te li Cristi, un nomignolo  che gli fu attribuito proprio per la sua attività: è un S. Lorenzo ubicato a Lizzanello nell’antica chiesa dedicata al Santo. Gli storici seriori, tra i quali Nicola Vacca (Appunti storici sulla cartapesta leccese, 1934), non riuscendo a collocare la cartapesta in contesti più generali, hanno cercato di nobilitare la materia rintracciandone gli incunaboli[16], ora in questa, ora in quest’altra opera seicentesca. Furono sforzi destinati al fallimento, minati alla base, non tanto da un inconcludenza metodica, quanto da errori valutativi veri e propri, perché, a scorrere gli inventari delle istituzioni ecclesiastiche o quelli post mortem dei salentini del diciassettesimo secolo, non si trova il minimo accenno a statue in cartapesta.[17]

Anche Pietro Marti avanzò l’ipotesi secondo la quale le origini della cartapesta leccese possono esser fatte risalire ai primordi del secolo diciassettesimo, quando il moltiplicarsi dei templi e delle fraterie e la universalità della Compagnia di Gesù, volendo dare sviluppo al culto esterno, domandarono alle arti una miriade di lavori, dovunque e comunque concepiti[18].

 


[1] Cit. da  Costumi, cartoline, cartapesta, a cura di A. Sabato, Lecce, 1993, pp177-18

[2] Mario De Marco, La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997, pp.5,6

[3] Idem, p.9

[4] Cit. da Sigismondo Castromediano, L’arte della cartapesta in Lecce, in “Corriere Meridionale”, IV, n 17, Lecce, 1893, p.2 ( la Madonna in cartapesta di donna Bice Acquaviva, di delicatissima fattura, è tutt’ora conservata nel palazzo ducale di Cavallino).

[5]  Don Francesco (1598-1663), segnò l’epoca più splendida del casato de’ Castromediano del ramo cavallinese, progredito con lo sfruttamento delle vaste proprietà terriere e dei residenti vassalli d’ogni ceto. Egli sin da giovane si esercitò con passione nell’equitazione competitiva e nell’uso delle armi.,dimostrò la sua abilità e perizia dapprima nel corso del servizio militare prestato con il grado di Capitano nell’esercito di re Filippo IV di Spagna, e poi nei tornei e nelle giostre che si organizzavano a Lecce, a Nardò, a Gallipoli, a Conversano, a Bari; alcune volte si recò sino a Napoli per cimentarsi a singolar tenzone con altri cavalieri in spettacolari incruenti duelli; e alla presenza di nobiluomini boriosi, di dame vanitose, di donzelle ammirate, il prode baroncino cavallinese si esaltava e riusciva molto spesso vincente. Era un giovane aitante e altero don Francesco, orgoglioso delle prerogative feudatarie, geloso dei privilegi della casata, fiero delle benemerenze degli avi, superbo della propria discendenza paterna e ora pure di quella materna, tanto che volle prendere per sé i due cognomi Castromediano e Sanseverino, e anche nello stemma di sua famiglia volle inquartare gli emblemi delle due casate. L’anno 1627 i residenti cavallinesi assistettero impressionati e compiaciuti a un avvenimento memorabile. Le settimane precedenti, guidati dai fattori del marchese, avevano ripulito le strade e le piazzuole del casale e incalcinato le facciate delle case; diretti da un architetto, avevano appeso ghirlande di fiori per le vie e innalzato archi di trionfo. Tutti vestiti a festa poterono vedere arrivare tutta la nobiltà di Terra d’Otranto: principi, conti, duchi, marchesi, baroni, cavalieri, con le rispettive consorti, che venivano a Cavallino per partecipare alle feste organizzate in occasione delle nozze di don Francesco Castromediano Sanseverino con la nobile damigella Beatrice, figlia diciottenne di don Giovanni Acquaviva d’Aragona dei Conti di Conversano e Duchi di Nardò. Notizie storiche tratte dal sito “ www.antoniogarrisiopere.it/28_c22_I—-Castr—–.html”

[6] L’ultima cartapesta, divagazioni su Lecce settecentesca ed una poesia di Vittorio Bodini, “Quaderni della Banca del Salento”, n. 1, a cura di Franco Galli, 1975.

[7] Natale, storia, racconti, tradizioni, Ed. Paoline,  2005, p. 105.

[8] Cit. da R. Barletta, Appunti e immagini su cartapesta, terracotta, tessitura a telaio, Fasano, 1981, p. 4

[9] Ròiss (Franco Rossi) Cartapesta e cartapestai, Maestà di Urbisaglia, Macerata 1983, cit. p.117

[10] Idem, cit. p. 84

[11] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta leccese. La storia, i protagonisti, la tecnica, il restauro, A cura di Mario Cazzato, Congedo editore,1993, pp.6,7

[12] A. Bazzarini, Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Francesco Andreola, Venezia 1830-1837.

[13] Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

[14] Il secondo concilio di Nicea fu convocato nel 787, su richiesta di papa Adriano I, dall’ imperatrice d Oriente Irene, per deliberare sul culto delle immagini, proibito nel 726 da un editto imperiale di Leone III l’Isaurico e dal concilio tenutosi a Costantinopoli nel 754, nonostante l’ opposizione di papa Gregorio III, che fu costretto a recarsi a Bisanzio e ritrattare. Il concilio negò l’ ecumenicità del concilio del 754 e dichiarò la liceità del culto delle immagini.

[15] L. VALGENTINA, Muse, De Agostini, Novara 1965, vol. III, p. 120.

[16] Con il termine incunabolo (o incunabulo) si definisce convenzionalmente un documento stampato con la tecnologia dei caratteri mobili e realizzato tra la metà del XV secolo e l’anno 1500 incluso. A volte è detto anche quattrocentina.

[17] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta…, cit., pp.5,6

[18] P. MARTI,  La modellatura in carta, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1894. (opuscolo)

Cartapesta e cartapestai tra Gallipoli e Lecce

Maccagnani e De Lucrezi: diatriba sul “Cristo morto” di Lecce e Gallipoli

di Antonio Faita

 

Maccagnani, Cristo morto (ph Antonio Faita)

 

Il crescente interesse degli ultimi anni nei confronti del fenomeno della produzione artistica in cartapesta mi ha spinto ad approfondire, nell’ambito dello studio della ritualistica locale, le committenze, soprattutto confraternali, e maestranze che a metà Ottocento gareggiarono nella produzione della statuaria in cartapesta. Della splendida città di Gallipoli è fin troppo nota la vicenda confraternale[1] iniziata in epoca medievale e sviluppatasi in età barocca, ma tuttora vivace e significativa in ambito pugliese e meridionale. Vicenda che ha lasciato il segno nella ritualistica tradizionale con le tipiche processioni devozionali e penitenziali nelle quali la statuaria aveva la funzione di umanizzare l’evento religioso trasformandolo con grande capacità espressiva in una mistica narrazione popolare.

De Lucrezi, Cristo morto di Gallipoli (ph Antonio Faita)

 

Tra il XVIII e il XIX secolo, la cartapesta leccese diventa la protagonista assoluta, soprattutto nell’800, quando ormai acquista una propria identità, rafforzandosi e diffondendosi moltissimo. Nella città di Lecce nascono così numerose botteghe. Fu il secolo dei grandi maestri, attorno ai quali si avvicendarono molti discepoli, che divennero a loro volta abili statuari.

E’ opinione diffusa in ambiente popolare gallipolino che quasi tutta la statuaria in cartapesta sia stata realizzata tra fine Ottocento e primi anni trenta del secolo successivo, quando operò a Gallipoli il noto laboratorio d’arte di Agesilao Flora[2]. Ed in verità pochi sono gli esemplari, diciamo così, di metà Ottocento presenti nelle chiese cittadine, tra i quali un bellissimo “Cristo morto” nella chiesa confraternale di Santa Maria degli Angeli, statua sulla quale ho voluto riservare una prima notazione d’archivio.

E’ stata attribuita, sulla scorta di quella esistente a Lecce nella chiesa di Santa Teresa, ad Antonio Maccagnani[3], notissimo cartapestaio leccese[4].

Essa presenta una chiara dipendenza dal volto del Cristo morto con i fluenti capelli raccolti sul lato sinistro, che Diego Villeros scolpì in legno sul finire del ‘600 ed oggi si può ammirare nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Gallipoli[5].

Diego Villeros, Cristo morto di Gallipoli, particolare (ph Antonio Faita)

Ma non al Maccagnani va assegnata il Cristo morto di Santa Maria degli Angeli di Gallipoli, bensì ad Achille De Lucrezi[6] che con l’ambiente gallipolino aveva intrattenuto rapporti già nel 1865 e che certamente aveva visto il Cristo morto in San Francesco d’Assisi[7].

Ne dà certezza una annotazione conservata nel “Libro dei conti” della confraternita di Santa Maria degli Angeli nel quale si legge: “Spesa pel Cristo morto= All’artefice Achille de Lucrezi di Lecce, per la statua del Cristo morto, pattuita D(ucati) 100, a dì 23 marzo 1866 si è dato a conto la somma d. 60”[8].

La minuta descrizione delle spese fatte per il trasporto della statua da Lecce a Gallipoli ci informa, anche, sul conto delle fatiche prestate dal maestro De Lucrezi per “lavorare la bara dorata… per ornare il letto del Cristo morto posto in un’urna uscita in processione nel Giovedì Santo”, il 29 marzo del 1866[9].

Stabilita, pertanto, e senza ombra di dubbio la paternità del Cristo morto di Gallipoli al De Lucrezi, resta da individuare l’autore della statua di Lecce che, senza alcun fondamento, viene invece generalmente attribuita ad Antonio Maccagnani[10].

De Lucrezi, Cristo morto di Gallipoli, particolare (ph Antonio Faita)

Il raffronto fotografico dei due lavori non lascia dubbio sull’unica matrice artistica, dovendosi peraltro annotare che apparirebbe insostenibile una più tarda replica in Gallipoli, da parte del De Lucrezi, dell’esemplare di Lecce. Ci soccorre a tal proposito la schematica ricostruzione delle vicende della statua leccese descritta il 10 settembre 1880 da mons. Salvatore Luigi dei Conti Zola nel corso della “Santa visita” eseguita alla confraternita del Calvario, che risulta eretta nel 1868 e formalmente riconosciuta il 9 ottobre 1869[11]. Tale confraternita si trasferì nel 1898 nella chiesa di Maria SS. Annunziata, accorpandosi con la confraternita dei SS. Medici. Nel 1919 e fino ai primi anni ’30 si stabilì in San Matteo mentre, dagli inizi degli anni ’50, fu in San Francesco della Scarpa e fino al 1973, anno in cui prese in consegna, dalla disciolta Arciconfraternita del SS. Crocefisso e Gonfalone, la chiesa di Santa Teresa, dove è attualmente collocata la statua del Cristo morto.

Maccagnani, Cristo morto di Lecce, particolare (ph Antonio Faita)

 

E’ evidente che è possibile così datare la statua leccese solo ad epoca successiva al 1868, anno in cui fu eretta la confraternita del Calvario, oggi in Santa Teresa e che, in conseguenza, non avrebbe potuto eseguirne una copia in Lecce se non lo stesso De Lucrezi. D’altronde  come avrebbe potuto il Maccagnani presentare in Lecce, cioè nello stesso ambiente artistico del De Lucrezi, una plateale replica di un soggetto che peraltro non è dimostrato abbia mai potuto vedere?

Il 1956 fu l’ultimo anno che la Confraternita portò in processione il simulacro del Cristo morto (del de Lucrezi) e l’Addolorata.
Il Vescovo mons. Biagio d’Agostino nel 1957 emanava un decreto che rivedeva e correggeva i riti della Settimana Santa fino ad allora vissuti nella più totale libertà senza alcun vincolo liturgico.
Un passo di detto decreto così recitava:
“Il diritto alla processione del Cristo morto il giorno del Venerdì Santo è della Confraternita del SS. Crocefisso. Le confraternite di Maria SS. degli Angeli e di Maria SS della Purità dovranno uscire all’alba del Sabato Santo alternativamente con il simulacro dell’Addolorata gli uni e della Desolata gli altri”.
La confraternita della Purità dopo l’attuazione dell’accordo declinò l’invito astenendosi dall’organizzare la processione, mentre la confraternita di S. Maria degli Angeli continuò a rispettare il decreto e ad uscire il Venerdì Santo, dietro la confraternita del Crocefisso con la propria statua dell’Addolorata, come accade ancora oggi.

[1] Cfr., E. PINDINELLI – M. CAZZATO, “Civitas Confraternalis. Le confraternite a Gallipoli in età barocca”, Ed. Congedo, Galatina 1997;

[2] Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese” a cura di M. Cazzato, Ed. Congedo, Galatina 1993: “Agesilao Flora (1863-1952), noto più come valente decoratore e apprezzato paesaggista che come cartapestaio. A 17 anni emigra a Roma dove si pone al seguito di Maccari e dell’Ing. Koch. Rientra a Lecce attorno al 1891 e frequenta subito l’ambiente artistico provinciale, soprattutto la bottega di Achille De Lucrezi. Fa le prime esperienze nel campo della statuaria collaborando con Luigi Guacci, dove conosce e sposa Anna Guacci nipote di Luigi. Nel 1907 si trasferisce a Gallipoli dove assieme al cognato Eugenio Guacci, impiantono uno studi d’Arte e un laboratorio di lavorazione di cartapesta”, Scheda a cura di E. PINDINELLI.

[3] Cfr., M. DE MARCO, “La cartapesta leccese”, Ed. Del Grifo, Lecce 1997: “Antonio Maccagnani (1809-1892), apprese i primi rudimenti dell’arte dal De Augustinis (altri dicono da Pietro Surgente). Col suo talento artistico operò il rinnovamento dell’arte della cartapesta, superando il manierismo e il convezionalismo che ai suoi tempi imperava a Lecce.  I suoi lavori suscitarono una vera e propria rivoluzione nel campo della modellatura in carta. Il Maccagnani ebbe ambìti premi e riconoscimenti”;

[4] In sede di restauro nel 1984, Antonio Malecore, l’attribuì ad Antonio Maccagnani e ne lasciò memoria con una iscrizione dipinta ai piedi della statua (!);

[5] E. PINDINELLI – M. CAZZATO, “Dal ghigno infernale… all’orrida bellezza. Il “Malladrone” di Gallipoli tra tradizione e cultura popolare”, Tip. Corsano, Alezio 1999;

[6] Cfr., M. DE MARCO, “La cartapesta leccese”: “Achille De Lucrezi (1827-1913), discepolo di Francesco Calabrese dove per i primi anni modellò la creta. Poi iniziò a lavorare col Guerra, ma per sottrarsi ad ogni convenzionalismo, andò a studiare a Lecce con Andrea Majola ed in Roma per venti anni con il pittore Filippo Cipolla. Le vicende politiche lo costrinsero a ritornare a Lecce dove impiantò la sua modesta bottega di statuario, e diede impulso quasi industriale all’arte della cartapesta. Il De Lucrezi non appartenne mai alla scuola del Maccagnani, che per breve periodo frequentò da bambino, e andarsene come tanti altri in quanto il maestro, geloso della sua arte, si nascondeva addirittura quando doveva compiere le fasi più delicate del lavoro” – Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese”, ”Tralasciando ogni convenzionalismo, il De Lucrezi, dette alle sue figure naturalezza, libertà e varietà di atteggiamenti ed alle linee delle pieghe maggiore morbidezza. Anche il De Lucrezi ebbe ambiti premi e riconoscimenti;

[7] E. PINDINELLI, “Cristina di Bolsena V. e M. nel culto e nella iconografia gallipolina”, Tip. Corsano, Alezio 1999;

[8] ACSMA, “Libro dei conti (1863-1980)”;

[9] Cfr., Ibidem, “allo stesso; cassa per trasportare la statua suddetta d.2,40. Allo stesso; paglia pel trasporto di detta statua, d.0,40. Allo stesso; pel il traino che trasportato la statua, d. 3,60. Allo stesso; strisce dorate per la bara di detta statua, d. 6,60. A primo aprile 1866. Complimenti pagati a Perruccio per la benedizione del Cristo morto e per la processione del Giovedì Santo”;

[10] Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese”;

[11] ACALecce, mons. Salvatore Luigi Zola, “Visita Pastorale” (10.09.1880), f.276.

 

 

Pubblicato su Il Bardo, Anno XI-2001, luglio-agosto, n°1.

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