Il bersaglio morbido

di Pietro Gigante

Quel lunedì mattina i bambini dell’asilo infantile “Principessa Ildegarda” trovarono ad attenderli, come al solito, suor Cunegonda. Ma non un sorriso dal suo visone, non una parola di benvenuto o di incoraggiamento per la lunga settimana che iniziava. Anzi, agli squillanti “buon giorno” dei bimbi o a quelli sonori dei genitori che si sostituivano ai vergognosi figlioli seguiva in risposta un flebile monosillabo emesso a bocca chiusa ed intraducibile.

Le mamme si meravigliarono dello strano comportamento della suora, tornarono a casa prima; l’usuale logorroico scambio di notizie, quel mattino, non ci fu. Fu udito solo qualche dialogo fra signore avente per tema: l’umore delle nubili donne consacrate.

I bambini non dettero peso a quel clima, presero subito a giocare per impiegare al meglio il tempo prima della preghiera e delle attività scolastiche. Sembrava, anzi, che suor Cunegonda non udisse i naturali ed alti schiamazzi dei suoi alunni, non un richiamo, non un urlo per attirare l’attenzione ed imporre il silenzio.

Tutto quel chiasso, però, attirò l’attenzione della Superiora che si diresse verso l’aula trovando sull’uscio la consorella in lacrime, la quale, appena la intravide, finalmente aprì bocca ed affermò:

– Madre dovete far cambiare gli occhiali a suor Alfonsina, oppure diamo l’incarico della cucina ad un’altra sorella. Essa è troppo vecchia per questo incarico, non vede più, scrivete alla Madre Generale per mandarla all’ospizio.

Noci, via porta barsento, palazzo de luca-resta oggi sede dell’istituto delle figlie di sant’ Anna (ph Sandro Montinaro)

Cosa era successo?

Da successive indagini abbiamo appurato che: il giorno prima, domenica, suor Alfonsina, cuoca incaricata, aveva preparato il ragù usando abbondantemente la conserva che l’estate precedente la comunità aveva fatto in casa; era venuto un sugo denso e saporito, da leccarsi i baffi.

Quella saporita ambrosia era stata gustata da tutte: da chi aveva neri peli superflui fra il naso e la bocca ed alla punta del mento; da chi, rubiconda, aveva un viso sferico più liscio di una palla da biliardo e da chi, pur con viso emaciato, divorava tutto ciò che era commestibile, senza mai ingrassare. Ci fu chi fece la scarpetta; in particolare suor Cunegonda, approfittando del fatto che quel giorno c’era “deo gratias” (cioè c’era più libertà: niente lettura durante il desinare e dialogo sottovoce) si pulì bene il piatto usando forchetta e dita. Aveva da poco messo in bocca un bel pezzo di pane con la mollica tutta impregnata rossa, quando masticando, con le ganasce a caduta libera, incocciò in una pietruzza che le spaccò un dente, proprio un incisivo. Il male fu tremendo, l’imprecazione assente, ma uno sguardo fulminante colpì l’ignara cuoca che per la sua miopia non vide niente e non capì niente.

Suor Alfonsina aveva sempre cucinato, era andata via di casa perché la madre tesseva, a lei era assegnata la cucina e tutto il resto della casa, ma dopo il noviziato e già prima dei voti, invece, aveva solo la cucina.

Il pranzo di suor Cunegonda terminò lì, stoicamente resistette al dolore e nessuno capì per quale motivo la consorella avesse lasciato nel piatto le polpette d’uova[1], servite per secondo e avesse messo in tasca qualcosa.

La monaca non aveva in cella specchi per verificare il danno subito, si fidò della lingua che batteva sempre sul dente scheggiato, ferendosi a sua volta. Ella pensò che ormai la sua immagine era sfigurata e che tutte avrebbero guardato a quel mezzo dente, per giunta nero per la contusione.

Ma tornando al lunedì, la nostra storia prosegue così: la Superiora non capì niente; cioè non sapeva perché la suora piangesse e perché ce l’avesse tanto con la brava suor Alfonsina indicata con “essa”, né aveva notato alcunché di diverso sul volto della suora. Con la sua dolce voce e con un tono ancor più mellifluo disse:

– Sorella ci vuole pazienza, si confidi con me, il pronome essa si usa per indicare una cosa non una consorella, cosa è successo?

– È successo che per colpa di quell’Alfonsina sono sfregiata, mi ha fatto rompere un dente qui davanti – e lo mostrò con l’indice della mano destra – perché m’ha fatto mangiare una pietra, questa, Madre! – e mostrò il minuscolo sassolino.

La Superiora vide il dente scheggiato ad un angolo, perché dall’insieme di un giallo compatto emergeva un angolino bianco, e guardò anche l’oggetto, causa della differenza cromatica dei denti, quindi prendendo le mani della suora nelle sue disse:

– Sorella, perdoni come ci ha insegnato nostro Signore; forse quella pietruzza stava nel sale e non si è sciolta nell’acqua della pasta, lo diremo al tabaccaio quando andremo a comprare l’altro sale, e, per il dente, cerchi di lavarseli con il bicarbonato, se non ha lo spazzolino, gliene do io uno, così non si noterà la differenza di colore; altrimenti parleremo con il nostro medico.

Suor Cunegonda che voleva sempre avere l’ultima parola pur nel rispetto della gerarchia (chi ha il grado più alto una Superiora o una Direttrice della Scuola dell’Infanzia?), chiuse il discorso con:

– La pietra stava nel ragù, e nel sugo si mette il sale fino dopo averlo pestato nel pisasale[2], Madre i bambini aspettano, sia lodato Gesù e Maria!

I bambini mentre giocano, pur intenti in questo loro lavoro, hanno cento occhi e cento orecchi. Uno di essi, che aveva visto la pietruzza, si avvicinò alla suora e chiese:

– Mi dai la pietruzza perché mi serve? Io e mio cugino le raccogliamo e le conserviamo perché vogliamo fare come i nostri fratelli più grandi che la stagione passata[3] le lanciavano dalla nostra terrazza nei piatti di salsa che stavano al sole in quella dirimpetto. Mio fratello ha vinto per due a uno! È bello vedere i sassolini bianchi che affondano piano piano in quei piattoni tutti rossi.

Le due monache si guardarono in faccia; il bambino ebbe uno scappellotto dalla superiora che divenne più amara del fiele; il padre dell’alunno fu convocato per quanto prima possibile, tanto abitava di fronte…

GARE-GENTI-TOPI


[1] Per dispinguerle da quelle con la carne; in questo caso si impasta con le uova formaggio, pan grattato e aromi sminuzzati, quindi si friggono.

[2] Forma dialettale per indicare il pestello del sale.

[3] L’estate scorsa. In dialetto la stagione per antonomasia è la stagione calda.

Tempi di guerra

Noci, monumento ai Caduti

di Pietro Gigante

La guerra continuava e la sua funesta azione portava lutti, distruzione, fame e miseria: bisognava arrangiarsi per sopravvivere il meno peggio possibile. In ogni paese di questa zona c’era un distaccamento di truppe, più o meno consistente a seconda del numero degli abitanti e l’importanza strategica del luogo. Queste truppe erano considerate d’occupazione dalla popolazione, perché occupavano le case migliori del paese; non si considerava affatto che fossero alleate, nemiche, ex alleate o ex nemiche.

Il mondo continuava ad alternare le notti ai giorni, gli uomini alternavano pensieri a preoccupazioni: il come procurarsi il cibo ed il vestiario cedeva spesso il posto a come far durare un bene il più a lungo possibile. Le case erano piccole ed i ragazzi per avere un po’ di spazio erano per strada; essi per rendere interessante la vita pattugliavano ogni angolo del paese e conoscevano tutto di tutti, specialmente i depositi dell’esercito.

Nel paese[1] dove hanno luogo gli avvenimenti che andiamo a raccontare era dislocato un drappello, a quel tempo il narratore non aveva alcuna cognizione militare e non sapeva quali funzioni questi militari avessero, udiva quello che i compagni di gioco dicevano e riferiva ad altri quello che aveva udito. Però sapeva che il comando di quello che per lui era l’esercito occupante aveva requisito ed occupato una casa patrizia appartenente a ricchi proprietari terrieri i quali volenti o nolenti si erano sistemati nella loro villa-masseria non lontano dal paese. La truppa, invece, aveva occupato il nuovo edificio scolastico intonso, come un libro di lettura, da poco licenziato dalle maestranze edili. Questi militari per la sistemazione, per il trasporto del vettovagliamento e per le pulizie si erano serviti e si servivano di gente del paese. Queste persone, forse per essere estremamente operative, forse per loro motivi, forse … non lo so, avevano impresso nella loro mente la pianta dettagliata dei luoghi, le vie di fuga ed ogni particolare, meglio di una esperta spia nemica. Tutto ciò che ai più sembrava essere un segreto, lo era di Pulcinella, perché negli incontri con amici e parenti tutti ci tenevano a far confidenze per stare sempre più nell’intimità, ma il tema obbligato era la guerra, quella che si combatteva (si fa per dire data la presenza dei militar-soldati) in casa cioè nel paese. Quello che succedeva al fronte interessava solo chi aveva un parente o un amico arruolato.

Anuccio[2] e Uccio[3] avevano avuto la soffiata: zio Catallo[4], che faceva il vastaso[5], aveva loro detto che aveva scaricato un camion di scatoloni che racchiudevano scatolette di carna bif[6] e di marmellata; poi c’era anche altra merce che egli non sapeva. Egli era certo di quelle derrate perché il

La nemesi

di Pietro Gigante

Se “Parigi tenesse il mare…[1] con quel che segue, però anche noi, qui, avevamo in-sedicesimo la “corte dei miracoli”.

Tutti notavano che Brusario[2] si era fatto i soldi[3]. Specialmente quando faceva caldo[4], partiva e mancava per tanto tempo. I più informati sostenevano che andava alla montagna, che tradotto in termini geografici significa che si recava in Lucania ed in Calabria, certamente non in villeggiatura sul Pollino o in Sila o in Aspromonte, ma in quei paesi che, arroccati su cocuzzoli, sembrano paesaggi quasi inaccessibili, la cui peculiare caratteristica è sempre riprodotta nei presepi. Ma cosa facesse Brusario in quei reconditi luoghi, non era dato sapere. L’unica diceria che

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