Gli impieghi della Ruta tra medicina popolare e magia

di Gianfranco Mele

 

La Ruta è pianta tipica e originaria dell’ Europa meridionale, presente sulle rupi, sui muri, nelle garighe, nelle macchie.

Il botanico ottocentesco Martino Marinosci riporta, nella sua ricerca sulla flora salentina, la presenza di due specie di Ruta nel Salento, la bracteosa (sin.: chalepensis) e la graveolens. Le proprietà sono simili; la prima fiorisce in maggio, la seconda in giugno. Lo studioso salentino accenna nella sua opera alle proprietà emmenagoghe, antiisteriche, sudorifere, abortive, vermicide della pianta. Descrive poi gli impieghi dell’aceto di Ruta bracteosa e Canfora, come farmaco utile a contrastare i deliqui (perdita dei sensi), il tifo, i mal di denti; parla inoltre delle fumigazioni a base di Ruta, come rimedio alle malattie della vista.[1]

Era ritenuta, in Salento come altrove, pianta dalle molteplici virtù medicinali e magiche, e si impiegava per svariati scopi (“La ruta ogni male stuta”: la ruta ogni male spegne).[2] Una variante di questo detto, comunissimo in Puglia, è: “la ruta sette mali stuta”.

L’ infuso di foglie era utilizzato per ottenere azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente[3]

Si utilizzava per calmare i vermi intestinali, con cataplasmi posti sull’addome; inoltre si curava l’otite con un infuso mescolato nel latte.[4] Dalla macerazione delle foglie in olio di oliva si otteneva un unguento atto ad alleviare i dolori reumatici; con lo stesso unguento, e l’aggiunta di un pizzico di zolfo e bucce di limone, veniva curata la scabbia.[5]. Dalla pianta essiccata si otteneva una polvere utilizzata per disinfestare i giacigli degli animali. [6] Il decotto, assunto in piccole dosi era utilizzato per facilitare la digestione e il flusso mestruale; ad alte dosi era utilizzato a scopi abortivi (in quanto ha l’effetto di provocare contrazioni uterine) o anche veleniferi (infiammazione dell’apparato gastroenterico e genitale). [7]

Anche a causa della forma a croce del fiore aperto, si credeva che avesse la capacità di tenere lontani i demoni e il malocchio.[8] Questa credenza ha, in ogni caso, radici antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni. Nel Rinascimento, questa pianta veniva chiamata Herba de fuga demonis.[9] Una usanza tipicamente abruzzese della ruta come erba “anti-streghe” era quella di cucire le foglie di ruta in un borsellino da portare nascosto nel seno: erano ritenute ancor più efficaci, le foglie su cui una farfalla avesse depositato le uova.[10]

Sempre in riferimento alla capacità della ruta di tenere lontani gli spiriti maligni, nell’ Iconologia del Ripa la Bontà è raffigurata come una

“donna vestita d’oro, con ghirlanda di ruta in capo, e con gli occhi rivolti al Cielo, in braccio tenga un Pelicano con li figliuolini, e a canto vi sia un verde Arboscello alla riva d’un fiume”.[11]

 Il Ripa spiega il significato della ruta in questa raffigurazione:

“stà con gl’occhi rivolti al Cielo per esser intenta alla contemplatione Divina, e per scacciare i pensieri cattivi, che di continuo fanno guerra. Per questo ancora si pone la ghirlanda di ruta, havendo detta herba proprietà di esser fuggita da gli spiriti maligni, e ne habbiamo autentici testimonij. Ha ancora proprietà di sminuir l’amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l’amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l’armonia di quest’organo che suona con l’armonia di tutte le virtù”.[12]

 

In ambito magico-medicinale, era raccomandata contro l’epilessia e contro la vertigine: si usava appenderla al collo pronunciando una formula con la quale si rinunciava al diavolo e si invocava Gesù (secondo il Cattabiani questa usanza ha radici pagane e il rito qui descritto è un esempio di cristianizzazione del rituale più antico).[13]

La Ruta era utilizzata anche come deterrente per tener lontani i topi, in quanto si riteneva che non ne sopportassero l’odore.[14]

Era molto utilizzata come antidoto per il veleno dei serpenti e di altri animali. Anche questo tipo di impiego risale a tradizione molto antica, e Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con vino “in dose di un acetabolo” (recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068); applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:

“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”. [15]

 

Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]

Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una

Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17]

 

Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca (in basso a destra nel disegno), che:

della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]

 

Si comprende anche da qui, l’impiego della ruta contro il malocchio: il Basilisco era considerato l’animale per eccellenza portatore di fascinazione con il suo sguardo.

Una raffigurazione della Ruta dai testi del Mattioli

 

Forse proprio a causa di questa sua “capacità” di tener lontani gli animali considerati velenosi e di fungere da antidoto ai veleni, era utilizzata anche nei rituali del tarantismo. La Caggiano nel 1931 descrive un rituale nel tarantino, in cui è presente questa pianta:

tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [19]

 

Teriaca e Mitridazio[20], antichi farmaci contenenti entrambi la Ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[21], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. O inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[22]

Il Mattioli annovera la Ruta con l’ Aceto e la Ruta presa col vino tra i rimedi semplici indicati anche da Dioscoride per la cura dei morsi dei falangi in genere. Ruta Salvatica pesta, o bevuta nel vino, è indicata per i morsi delle scolopendre, degli scorpioni, delle vipere.[23]

La Ruta veniva utilizzata anche dagli esorcisti (decotta in acqua o tramite fumigazione) per liberare gli indemoniati; tuttavia, al pari di altre erbe magiche, risulta ambivalente negli impieghi, come vedremo nelle descrizioni a seguire.

Negli Atti del Tribunale del Santo Officio di Oria si legge di una unzione che causa la morte di una donna. In questa unzione sono presenti la Ruta ed altre erbe non specificate. Petronilla Carbone racconta agli inquisitori di una fattura di morte procurata dalla masciàra Antonella Teppi, di Torre S. Susanna, nei confronti di sua sorella Rosata Carbone (fattura confermata dall’ arciprete di Torre S. Susanna, il quale tenta invano di guarire la donna affatturata con la lettura degli Evangeli). La masciàra viene pregata di far guarire la Carbone da una fattura subita in precedenza (e forse operata, anche quella, dalla stessa Teppi), ma il risultato è un aggravamento della donna, sino alla morte:

Un giorno io con mia sorella Rosata ce la chiamammo dicendoli per amor di Dio che   vedesse di farla guarire ed essa rispose che non poteva fare niente, e pregatala molte volte, disse che vedrà di aggiustarla, e così se ne andò, la sera notte poi verso hore due venne in casa mia e disse che io dovesse abbuscare un pignatino di oglio da nove persone, sotto pretesto che doveva allumare la lampa alla Madonna ed io per desiderio della salute della suddetta mia sorella buon anima, l’andai a trovare con patto che non dovesse parlare a niuno né all’altra mia sorella né anche a mia madre e buscato che ebbi l’oglio, essa Antonella se lo portò in sua casa e tenutolo ventiquattro hore me lo portò un terzo di quello che era con molte erbe, che vi aveva poste dentro, le quali non conosco altro che la Ruta e mi disse che ne ungesse detta mia sorella à tutte le giunture, e le spalle, e alli nudi delle mani e questo lo doveva fare per nove giorni, tre volte al giorno. […] Cominciò ad andar dal corpo quattro capelli biondi, e ristinco, e nell’altra unzione ne andò sei, à mezzogiorno poi andò un ciciro, e siccome io la ungeva così essa ancora faceva piaghe in quella parte dove toccava l’oglio”. [24]

 

Dopo pochi giorni, Rosata muore in preda a dolori e piaghe procurate dall’unguento. Secondo alcune testimonianze siciliane, la Ruta era utilizzata anche per un unguento che permetteva di volare: la mistura era preparata utilizzando olio d’oliva, Ruta, e il sangue di un uomo. [25]

L’ambivalenza della Ruta è tipica di altre erbe utilizzate a scopi magici: al tempo stesso veleno e farmaco, erba funesta ed erba benefica, era inoltre considerata afrodisiaca per le donne e anafrodisiaca per gli uomini.

Negli atti del processo di una strega bresciana, Benvegnuda Pincinella, ricompare la Ruta utilizzata per una liturgia di guarigione, che si apre proprio con una invocazione a “Madonna Ruta” e con una serie di preghiere rivolte all’ erba.[26]

Nella sua opera “Ricettario delle streghe”, il tossicologo Enrico Malizia raccoglie una selezione di antiche ricette da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800. In tale ricettario, essenza di ruta insieme a: cinnamomo, radice di eringio, radice di pastinaca agreste, mirra, essenza di prezzemolo, polvere di zafferano mescolati con sciroppo di artemisia, fanno parte di un elettuario per favorire le mestruazioni.[27] Una variante di questo elettuario comprende, oltre a essenza di ruta, cinnamomo e mirra: succo di eringio, seme di nigella, essenza di calendula, succo di salicornia, succo di puleggio, essenza di sabina.[28]

In un ricettario marchigiano del ‘500, di autore anonimo, sono descritte le varie virtù dell’ olio di ruta insieme alla sua preparazione: “recipe frondi di ruta e ponile in acqua in tamburlano, e duecento libre di frondi farà un’oncia d’olio”.[29] Successivamente sono indicati gli impieghi dell’olio così preparato: una goccia, è indicata per sanare infallibilmente “qualsivoglia puntura o morsicatura d’animali”. L’olio è poi indicato anche come rimedio contro la pleurite e contro dolori reumatici vari. “Una goccia” vale anche a sanare congiuntiviti e a tonificare la vista. Due gocce messe nell’orecchio, a sanare il ronzio e ridare vigore all’udito. Inoltre, l’olio di ruta è consigliato come rimedio alla cattiva circolazione del sangue. Ancora, nel suddetto ricettario, ritrovato dal Pezzella, l’olio di ruta va unto sul grembo della gestante per ridare al feto la giusta posizione nel grembo.[30]

Il succo ottenuto dalla spremitura di una libbra di ruta insieme a una libbra di scordio, una di capraria e una di cedro insieme a un’oncia di teriaca erano utilizzati, dopo distillazione, contro febbri, tifo e peste.[31]

L’ “erba ruta ben polverizzata” deve essere data da bere inoltre come rimedio “a chi perde l’intelletto”.[32]

Ungere i piedi “con l’ erba ruta intrisa d’olio” serve “a non stancarti camminando a piedi”.[33]

Ruta ben tritata con miele, serviva come applicazione su ginocchi infiammati.[34]

La ruta è impiegata anche in un procedimento “per conoscere se una persona è affatturata”: si dovevano impiegare aceto, salvia, ruta, savina perforata (valeriana rossa) e una palma benedetta: “falle friggere in olio comune e fallo benedire et onge il capo del patiente e vedrai l’effetto”.[35]

Contro le fatture, si riteneva che la ruta, insieme a succo d’assenzio, funzionasse anche a livello preventivo, difatti “per non essere stregato, farai benedire il sugo d’assenso e ruta e lo darai a bevere ad alcuno che non potrà mai essere ammaliato”.[36]

La Ruta è anche ingrediente dell’ Aceto dei quattro ladroni, ricetta contro-veleno della peste, che la tradizione vuole originaria della Francia (in un periodo tra il XIV e il XVIII secolo) e che si estese in tutta Europa. Era composta (in una delle sue numerose varianti) di aceto, menta, ruta, lavanda, aglio, rosmarino.[37]

Il medico e ricercatore ottocentesco Paolo Mantegazza descrive così la Ruta:

Pianta del mezzodì dell’Europa coltivata negli orti, condimento ricercatissimo degli antichi, che le attribuivano infinite virtù e fra le altre quella di domare le passioni erotiche. Ora è piuttosto rimedio popolare contro i vermi, l’epilessia e le convulsioni che un vero alimento nervoso. Va però messo fra questi, perchè in Germania si mangia col pane come stomachico e fra noi serve ad aromatizzare l’acquavite”.[38]

 

Nel medioevo, la scuola medica salernitana affermava che “Giova la ruta agli occhi, fa la vista assai acuta, e scaccia la caligine. Nell’uom Venere affredda, e nella Donna assai l’accende, e fa l’ingegno astuto. E affinchè non vi dian le pulci tedio, ella, o donne, è ottimo rimedio”.

Il Cattabiani riferisce di un antico detto “Ruta libidinem in viris extinguit, auget in foeminis” (la ruta estingue la libido negli uomini, e l’aumenta nelle donne).[39]

Nell’iconologia del Ripa la ruta è presente anche in riferimento alla castità matrimoniale:

“Una donna, vestita di bianco, in capo avrà una ghirlanda di Ruta, nella destra mano tenga un ramo di Alloro, e nella sinistra una Tortora. La ruta ha proprietà di raffrenare la libidine, per l’acutezza del suo odore, il quale essendo composto di parti sottili per la sua calidità risolve la ventosità, e spenge le fiamme di Venere, come dice il Mattiolo nel 3. lib. de’ suoi Commenti sopra Dioscoride.”[40]

 

Nella antica Roma, i semi della Ruta erano impiegati per la preparazione di una bevanda soporifera a base di oppio.

La Ruta graveolens, secondo gli studiosi che si occupano di droghe, ha sospette proprietà psicoattive, allo stato della ricerca non compiutamente dimostrate.[41]

Nel mito, la Ruta è legata ad Afrodite e a Medea attraverso una storia singolare e dai risvolti cruenti: poiché le donne dell’ isola di Lemno avevano trascurato di omaggiare Afrodite, la Dea si vendicò condannandole ad emanare un odore ripugnante (simile a quello della Ruta): così, gli uomini dovettero abbandonare le loro spose, ma supplirono a tale mancanza procurandosi delle concubine straniere. Le donne tradite uccisero così tutti gli uomini. Un’altra versione del mito racconta della maga Medea protagonista del singolare incantesimo: navigando difatti al largo dell’ isola di Lemno insieme agli Argonauti, fu spinta da un desiderio di vendetta nei confronti di Issipile, una principessa di Lemno, che aveva amato il suo Giasone. Così, Medea inquinò le acque del mare di Lemno con la Ruta, che infestò di maleodore le donne che vi si bagnavano.

Secondo alcuni botanici la Ruta graveolens è la mitica erba moly descritta da Omero nell’ Odissea[42] (altri l’hanno identificata nella Mandragora, altri ancora nell’ Allium victorialis).

 

Note

[1]Martino Marinosci, Flora Salentina compilata dal Dott. Martino Marinosci da Martina, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, Vol. 1, pag. 208

[2] Giuseppe Cassano, Ràdeche vecchie Proverbi moti frasi indovinelli dialettali credenze e giochi popolari tarantini, Stab. Tipografico Ruggieri, Taranto, 1935 , pag. 21

[3]Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117

[4]Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta, Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, centro di Studi salentini, Lecce, 2012, pag. 400

[5]Ibidem

[6]Ibidem

[7]Ibidem

[8]Ibidem

[9]Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ried. 2016, pag. 230

[10]Alfredo cattabiani pag. 230

[11]Cesare Ripa, Iconologia di Cesare Ripa Perugino, Libro Primo, Venezia, Tomasini, 1645, pag. 72

[12]Ibidem

[13]Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 232

[14]Domenico Nardone et al. op. cit., pag. 400

[15]Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 132-133

[16]Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 231

[17]Cesare Ripa, op. cit., pag. 147

[18]Cesare Ripa op. cit., pag. 148

[19]Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72

[20]Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi

[21]Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105

[22]A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57

[23]Pietro Andrea Mattioli, Discorsi nei sei libri di Dioscoride Pedacio Anazarbeo Della materia medicinale, Venezia, Pezzana, 1744, pp. 833-837

[24]Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie ai tempi di Monsignor Labanchi, denuncia contro Antonella Teppi di Torre S. Susanna, in data 19 maggio 1723, accusata di essere masciàra, ff. 6-7

[25] Macrina Marilena Maffei, La danza delle streghe: cunti e credenze dell’arcipelago eoliano, Armando Editore, 2008, pag. 143

[26] Erika Maderna, La ruta, erba di maghe e streghe. Usi magici da Medea a Benvegnuda Pincinella, marzo 2018, Wall Street International, Website

[27]Enrico Malizia, Ricettario delle streghe, Edizioni Mediterranee, 2003, pag. 203

[28]Enrico Malizia, op. cit., pag. 204

[29] Il tamburlano è un arnese in metallo che serve alla distillazione; “duecento libre di fronde” sta per sette chili di ramoscelli di ruta; un’oncia sta per circa 30 grammi

[30] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1°, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989 , pp. 30-31

[31] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pag. 71

[32] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pag. 65

[33]Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pp. 90-91

[34] Salvatore Pezzella, Magia delle Erbe, vol. 1 (cit.), pag. 95

[35] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 2°, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989, pp. 62-63

[36]Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 2 (cit.), pp. 66-67

[37]Enrico Malizia, op. cit., pag. 184

[38] Paolo Mantegazza, “Quadri della natura umana – Feste ed ebbrezze”, 1871, Milano, Bernardoni Edit. ,Vol. II, pag. 660

[39]Alfredo Cattabiani, op. cit, pp. 232-233

[40]Cesare Ripa, op. cit., , pag. 87

[41]Gianluca Toro, Flora psicoattiva italiana, Nautilus, 2010 pag. 117

[42]Alfredo Cattabiani, op. cit., pp. 228-229

La ruta e la malva, due farmacie a cielo aperto

di Armando Polito

nome scientifico:  Ruta graveolens L.       nome scientifico: Malva silvestris L.

nome italiano e dialettale neretino: ruta  nome italiano: malva

nome dialettale neretino: marva

Ruta è dal latino ruta(m), dal greco rytè che potrebbe essere connesso con rytér=protettore (con riferimento alle sue proprietà), a sua volta dal verbo rýomai=proteggere1. Graveolens (da grave=pesante+olère=mandar odore) significa di odore acuto.

Malva è dal latino malva(m) connesso col suo nome greco malàche, a sua volta collegato con malaké=morbida, tenera (con riferimento alle sue proprietà emollienti). Silvestris significa selvatica; la voce neretina presenta il passaggio –l->-r– (dalla liquida sonora alla vibrante sonora).

La ruta ogni mmale stuta2 (La ruta spegne ogni male).

La marva ti ogni mmale ti sarva (La malva ti salva da ogni male).

Questi due vecchi proverbi la dicono lunga sulle proprietà medicinali delle due piante e rappresentano la continuazione di conoscenze antiche che ne facevano quasi due erbe gemelle, dal momento che, come vedremo, molto spesso sono loro attribuite proprietà terapeutiche contro la stessa malattia. Non è un caso, perciò,  il fatto che a ciascuna di loro un naturalista come Plinio (I° secolo d. C.) dedichi esclusivamente un intero capitolo, senza contare le altre notizie fornite in ordine sparso.

Comincerò dalla ruta che vedremo proposta (lo stesso sarà per la malva) come rimedio contro un numero impressionante di malattie, dall’herpes zoster al mal di pancia, dalla dissenteria alle fratture, oltre che come anticoncezionale.

Essa fa la sua timida comparsa nel capitolo 37 del libro XIX: “Credono che

Oppio e oppiacei nella tradizione popolare di Terra d’Otranto

  
Jenny Lind in “La Sonnambula”

 

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

IL SONNAMBULISMO E TUTTE LE FORME LINGUISTICHE

INERENTI L’USO DELL’OPPIO E DEGLI EFFETTI OPPIACEI

LA PAPARINA (LA PAPAVERINA)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

(…) Non appena il sonnambulo  – impressionante nell’atonia dei suoi occhi sbarrati – sgusciava fuori dal letto come risucchiato dall’urgenza di compiere un’azione – peraltro imprevedibile in quanto determinata da interferenze oniriche -, un familiare, o persona amica appositamente rimasta a vegliarlo, si metteva sui suoi passi, attento a sincronizzarsi nei tempi di andatura al fine di mantenere una certa distanza cautelare: per un’improvvisa inversione di marcia, il sonnambulo non si sarebbe così scontrato col suo pedinatore, evitando quel risveglio improvviso i cui effetti si temeva fossero letali. Seguendolo, era infatti di regola agire con la massima delicatezza, tenendo presente che più di una volta occorreva arginarlo in azioni rese pericolose dal suo stato di non lucidità: poteva mettersi a tirare acqua dal pozzo, arrampicarsi su un albero, salire su una grondaia, camminare sull’estremo ciglio di un fosso, o inoltrarsi in un campo non suo e venire aggredito da qualche cane da guardia.

Per fortuna, se il contatto fisico – involontario o voluto che fosse – creava dei timori, nessuna preoccupazione sussisteva per ciò che riguardava rumori, voci, grida, sicché la persona che lo seguiva poteva liberamente parlare a voce alta, in tal modo prendendo due piccioni con una fava: da una parte ciò gli consentiva di svolgere l’azione terapeutica, che – come già accennato – consisteva in una reiterazione di messaggi, dall’altra, proprio in virtù di questo suo alto e continuo vociare, dava legalità all’inconsueto incedere notturno, comunicando in tempo a eventuali intercettatori che non si trattava di un malintenzionato ma solo di nnu sunnàmbulu a ppassìu (un sonnambulo a passeggio). Nessuno infatti avrebbe  mai potuto malignare udendo l’avvitarsi di quel monologo, inequivocabile peraltro anche a considerevole distanza per via della particolare cadenza: un litaniare lento nella pronuncia, ma forte nel tono e coreograficamente sostenuto dal costante tendere dei palmi verso la nuca del malato, gesto se non di vera e propria irradiazione, quanto meno di convogliamento della volontà.

Va da sé che la volontà era quella di riportare il sonnambulo nel suo letto, in pari tempo convincendolo a non ritentare l’esperienza di quell’assurdo deambulare, per cui, nel chiaro intento di forzarne la sfera psichica, alle frasi si dava misura lapidaria, forgiandole in termini di confronto fra ordine e disordine e offrendole come chiave di rientro nella normalità: “Spranga li farcùni e ttorna a llu chiasciòne prima ca lu castariéddhru si nni ccorge.” (“Chiudi gli occhi e ritorna nel lenzuolo prima che il gufo se ne accorga.”); “No ss’à ddurmire tisi, s’à ddurmire stisi.” (“Non si deve dormire in piedi, si deve dormire stesi.”); “Lu sciùrnu a mmiénzu all’erva, ma la notte intra,a llu liéttu.” (“Di giorno fra l’erba, ma la notte nel letto.”); “Uécchi piérti a llu sole li bbinitìce  Ddiu; uécchi piérti ti notte li rranfa la cuccuàscia.” (“Occhi aperti di giorno li benedice Dio; occhi  aperti di notte per sonnambulismo li graffia la civetta.”).

A questi messaggi, che il tramando orale definiva “palòre ti cugnu” (“Parole cardine”), spesso venivano a sommarsi “Li palòre scange” (“Le parole non regolamentari”), frasi fantasiosamente improntate da quanti, trovandosi per caso a  incrociare il patetico passìu e forse curiosi di vedere come andavano a finire le cose, facevano gruppo alle spalle del sonnambulo.

Cchiù mmànure sprùanu l’aulìe / cchiù mprima  si àe a llu trappìtu.” (“Più sono le mani che brucano le olive / più presto si va al trappeto [prima si ha l’olio].”), dicevano questi avventizi a giustificare la loro intromissione, analogicamente facendola valere come provvidenziale rafforzamento dell’azione terapeutica e quindi capace di determinare un più rapido “ssugghimiéntu ti nnùbbiu”.

     Questo identificare la guarigione del sonnambulo in uno scioglimento da nùbbiu (annebbiamento) – la cui valenza semantica era specificatamente volta a indicare l’effetto oppiaceo – svela un’indubbia trasposizione di segno nella logica, non essendo accettata, neppure a livello di diagnosi contadina, un’oggettiva correlazione fra stato sonnambolico e azione narcotica. Il perché dell’improprio accostamento va quindi cercato nella sfera delle trascrizioni associative, innestandosi in quella particolare dialettica mentale le cui coniugazioni raramente sottostavano alla legge dei rilievi matematici, interessate com’erano a cogliere i riflessi di ipotetiche derivanze e interferenze.

A tale scopo, occorre necessariamente rifarsi al parlato quotidiano, cioè vedere quali erano in pratica le occasioni di riporto all’effetto oppiaceo e se e quanto l’applicazione linguistica variasse nell’eventuale passaggio dal dichiarato al sottinteso.

L’oppio, per il suo essere prodotto dei campi e quindi più o meno alla portata di tutti, si può dire fosse il ritrovato più comune della farmacopea contadina, per cui, sempre in riferimento terapeutico, non si aveva nessuna remora nell’avallarne e caldeggiarne l’uso.

papavero bianco (“la papagna”) fotografato nel Salento da Ivan Lazzari

Ci uéi cu ddorma, tocca cu llu nnubbi.” (“Se vuoi che si addormenti gli devi propinare un po’ di oppio sciolto nel latte.”), si diceva a una giovane madre alle prese con un bambino restio ad addormentarsi; e se qualcuno lamentava dei dolori – fossero reumatici o mestruali – non ci si peritava di consigliare: “Nnùbbiate cu lla paparìna, accussì no ssuéffri.” (“Stordisciti con uno sciroppo a base di oppio, così non soffri.”).

  

Per quanto diffusa, la paparìna (papavero bianco, nel Salento quasi sempre rosaceo) non era erva ti scapìstru (erba priva di capestro, cioè proliferante) come le famose scàttule (papaveri rossi), per cui, nel suo nascere a ceppi isolati, richiamava l’attenzione dei bambini: “Stàtibbe alla larga ti la paparìna, no nci ficcati lu nasu, ca sinnò bbi nnùbbia.” (“Tenetevi alla lontana dalla corolla del papavero, non avvicinate il naso, altrimenti vi ottunde, vi addormenta.”).

In verità, quando al culmine della fioritura le capsule si gonfiavano accusando la presenza dell’oppio, anche gli adulti giravano al largo per evitarne le esalazioni; né mancava chi – marito geloso di una donna giovane e calda – le guardava in tralice, temendo che la moglie avesse poi a servirsene per narcotizzarlo, in tal modo assicurandosi libertà d’incontri durante la notte. Paura dettata dal comportamento di donne leggere, i cui tradimenti – a quanto si raccontava – erano stati agevolati dalla cummàre paparìna, ca sobbra’a lli corne nci mintìa l’ammàce ssicurànnu a lla mugghére nfitéle nnu marìtu gnorri e scuscitàtu (dalla comare papaverina, che copriva le corna con la bambagia, assicurando così alla moglie infedele un marito ignaro e tranquillo). Episodi che, per quanto sporadici, facevano testo nel ristretto ambiente paesano, malignamente alimentando quel linguaggio ironico-allusivo sempre gradito alle bocche maschili: vedendo un contadino presentarsi al lavoro mezzo addormentato o comunque tardo nei movimenti, i compagni non si lasciavano sfuggire l’occasione di chiedergli fra il faceto e il preoccupato: “Cce tt’à ffattu mugghérita stanotte, t’à nnubbiàtu?” (“Che ti ha fatto tua moglie questa notte, ti ha dato oppio?”).

papavero bianco (“la papagna”) fotografato nel Salento da Ivan Lazzari

E senza dare tempo alla risposta seguiva il collettivo nonché fraterno consiglio: “Anna sotta’a llu saccone, frate mia, e ci ttruéi scusa paparìna, scàngiala cu mmiéru ti putéa, ca nnu lliòne ale cchiùi ti nnu crapòne!” (“Cerca sotto il materasso, fratello mio, e se vi trovi dell’oppio, cambialo [commercialo] con vino di bettola, ché un leone [ubriaco  prepotente] vale più di un caprone [cornuto]!”).

Santa Apollonia in immaginetta devozionale

In realtà, cedendo alla lusinga  del quarto di vino da consumare in allegra compagnia, i contadini eleggevano le bettole a loro privilegiate banche di cambio, incoraggiati dalla bravura che gli osti avevano nel fare incetta di tutto. In tale quadro speculativo, un particolare interesse lo suscitava proprio l’oppio, vantaggiosamente ricollocabile presso gli speziali o i barbieri, usi questi ultimi ad adoperarlo come analgesico durante le loro prestazioni odontoiatriche. All’epoca, infatti, per calmare un forte mal di denti non si aveva altra alternativa se non quella di ricorrere ai buoni uffici o dei barbieri o degli apicultori, gli uni e gli altri esperti nel dare sollievo utilizzando quelli che il popolo definiva “mbàrsami scusi ti la criazziòne” (“lenimenti nascosti nella natura”).

     L’apicultore, condotto il paziente nei pressi di un’arnia, con destrezza catturava un’ape  in un bicchiere, sveltamente otturandone l’imboccatura con un’immaginetta di S. Apollonia la cui protezione contro il mal di denti era unanimemente riconosciuta.

Tàggiu scucchiàta la mégghiu apicéddhra…” (“Ti ho scelto la migliore ape…”), diceva correndo al rincaro del suo servigio, e opinando che più l’insetto si agitava, più veleno accumulava e quindi maggiore effetto aveva la puntura, aggiungeva: “Tàmule tiémpu cu ssi rràggia, ca cchiù si mbiléna mégghiu gghéte” (“Diamole il tempo d’invelenirsi, perché più s’invelenisce meglio è”). Solo quando vedeva l’insetto sbattere furiosamente contro il vetro e ne udiva il ronzare in forsennato crescendo si decideva a capovolgere il bicchiere sulla guancia dolorante, sfilando poi lentamente l’immaginetta e dando così all’ape la possibilità di conficcare il suo pungiglione.

Per l’azione velenifera e più ancora per il turgore che ne conseguiva, il poveretto registrava un rapido scemare del dolore, sicché se ne poteva  tornare subito al lavoro senza dover neppure attendere all’estrazione del pungiglione: trattandosi di ape mellifera, usa a posarsi soltanto sui fiori, non sussisteva rischio di infezione. Se preoccupazione sopravanzava, era solo quella di risarcire all’allevatore la perdita dell’ape (privato del pungiglione l’insetto era destinato a morire), un danno sulla cui entità non c’era da obiettare, soprattutto se si era in tempo di fioritura quando a ogne bbulu criscìa nna stiddhra ti mele (a ogni volo la produzione del miele aumentava di una stilla).

Meno laborioso e quasi più aristocratico il rimedio offerto dai barbieri, come s’è detto basato sull’oppio. “Tiémpu cu ssi mpìccia lu craòne e llu miràculu ete fattu!” (“Il tempo occorrente per accendere un carbone e il miracolo è bell’e fatto!”), promettevano a ogni avanzare di richiesta; e desiderosi di far colpo sulla semplicità contadina ostentavano mosse solenni nel mettere in campo il prezioso oggetto con il quale compivano il vantato ‘miracolo’: un fornello quadrato, quasi una scatola metallica, che voleva essere una pipa da terra, popolarmente soprannominata argiòla” (“gabbia”) e per associazione di meccanismo nonché di uso riportabile ai narghilé orientali.

Posta all’interno la dose dell’oppio, stabilito il calore necessario e inserita nell’apposito buco una rigida e lunga cannuccia, invitavano il paziente ad aspirare il fumo lentamente, raccomandandogli di trattenerlo il più a lungo possibile nel cavo orale affinché il dente malato avesse tempo cu ssi nnùbbia toce toce (di assorbire l’oppio dolcemente).

Pur se ammirata come oggetto di non comune possesso e celebrata in quanto mezzo risolutore di uno stato di sofferenza al quale prima o poi tutti si era costretti a soggiacere (senza cugni nasci, senza cugni muéri [senza denti si nasce, senza denti si muore]), la cargiòla  veniva guardata con un certo sospetto dal popolo, non ignaro che della stessa se ne servivano quanti usavano l’oppio, privatamente, a fine voluttuario; casi rarissimi, spesso semplicemente sospettati o comunque accertabili solo a distanza di tempo, cioè quando nell’assuefazione e conseguente rincaro delle dosi l’oppiomane ne dava conferma con il suo comportamento: delle azioni che compiva in stato di nnùbbiu non serbava memoria.     “Mancu ci gghete nnu sunnàmbulu! » (« Neanche fosse un sonnambulo a come si comporta!”) commentavano alle spalle quanti ne venivano a contatto, e fra questi non mancava chi, passando dal rilievo alla sentenza, impietosamente concludeva: “Tiscrazziàtu cinca lu nnùbbiu si lu cerca ti sulu!” (“E’un essere spregevole chi l’annebbiamento se lo procura volontariamente, cioè per vizio!”). Due frasi che pur se casuali nella proposizione e apparentemente disancorate fra di loro, si offrono a chiave d’interpretazione della definizione “Ssugghimiéntu ti nnùbbiu”, citata a proposito dell’azione terapeutica svolta a favore del sonnambulo.

Se la prima, situando i termini di confronto nell’azzeramento della memoria, fa strada alla ragione dell’improprio accostamento fra sonnambulismo ed effetto oppiaceo – qui focalizzato nella caratteristica di vizio -,  la seconda, calcando nel segno della riprovazione, lascia chiaramente intendere quanto lo stesso effetto oppiaceo – sempre in versione distruttiva – potesse avere origine dolosa. E poiché nùbbiu sostanzialmente stava per sonno indotto, nel momento che se ne parlava come di un negativo interferente, implicitamente lo si identificava in uno stato ipnotico malevolmente provocato da terzi, sia pure in modo indiretto, ovverosia tramite un’azione di affatturamento.

Proprio per questo suo battere sul versante della comminazione esoterica, punto nevralgico delle paure popolari, l’assunto veniva a porsi come certificazione d’immanenza nel vissuto quotidiano, per cui – sempre a livello di agito verbale – lo ritroviamo diluito in più superficiali applicazioni, fatto causa di un cattivo comportamento o decifrazione di un particolare stato d’animo. Tanto per fare un esempio, se una madre vedeva il figlio giovane farsi di colpo svagato e come disancorato dalla realtà, non esitava a dire “Quarche puttàna ti fémmina mi ll’à nnubbiàtu” (“Qualche malafemmina me lo ha rimbambito”), sposando così l’azione pratica del dare oppio a quella meno documentabile ma più temibile del plagio mentale.

Del resto per il popolo fra plagio, sortilegio e maleficio non correva acqua, l’uno innestandosi nell’altro in forza di un’unica matrice che si voleva demonica e perciò responsabile di tutto quanto  poteva capitare di sgradito, dannoso o sia pure semplicemente indecifrabile.

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con  la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 222-227

Curarsi con la cicoria selvatica (Cichorium intybus L.)

di Antonio Bruno

Cicoria selvatica oppure nel Salento leccese Cecora resta o ancora Cecureddhe per l’etnia dell’estremo Sud Salento. Cichorium intybus L. è conosciuta sin dal neolitico, raccolta dalle donne e usata come cibo ma anche come farmaco.

Dalla Nuova Zelanda semi da cui si ottengono Cicorie con alto contenuto delle sostanze medicinali.
Mio padre la comprava pagandola a caro prezzo e non la chiamava mai singolarmente cicoria selvatica ma al plurale: le cicorie selvatiche (cecore reste). Ricordo invece che mia zia Maria a Chiavenna, in provincia di Sondrio, armata di coltello ne raccoglieva, indisturbata, a borse. Le donne della valle le chiedevano perchè mai raccogliesse quell’erba e lei, schiva, diceva che era molto apprezzata dai suoi conigli, anche se, mia zia Maria, non ha mai allevato conigli in vita sua.

A Lecce si festeggia ogni anno la sagra di queste piante gustose e selvatiche “la Sagra della cecora resta” , anche se il mio amico Leonzio in quel di Frigole, le semina e le raccoglie e quindi gli strappa quel selvatico

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