Il liceo musicale Tito Schipa di Lecce e l’affidamento ai Negramaro.

di Mauro Marino
Giorni fa su La Gazzetta del Mezzogiorno, una mia riflessione sul Tito Schipa e l’affidamento ai Negramaro.
Il 2023 si è chiuso con la notizia dell’affidamento per un anno, da parte dell’Amministrazione della Provincia di Lecce, dell’ex Liceo Musicale Tito Schipa, ai Negramaro. Un tema delicato quello degli spazi legati alle politiche culturali, in un territorio che, a partire dagli anni Novanta del Novecento ad oggi ha liberato notevolissime energie creative, in particolare in ambito musicale.
Il compito dato, al gruppo guidato da Giuliano Sangiorgi, è quello di comporre a Lecce, una canzone per dare visibilità al territorio salentino ferito nella sua più intima identità culturale e produttiva e nella sua bellezza dal flagello della Xylella.
Nobile intento, ma ahimè – lo sappiamo tutti – una canzone non basta a salvare gli ulivi e, la visibilità, figlia dell’idea di un marketing territoriale spesso vampiresco, non è certo utile oggi al Salento che al contrario, a mio avviso, avrebbe bisogno di sottrazione, di decantare l’eccesso di visibilità a cui è esposto per ridare senso alle sue necessità di rigenerazione. Diventare incubatore di se stesso questo serve al Salento per prospettarsi, nel futuro, orfano del suo paesaggio.
Il Tito Schipa, che nel novembre 2023 ha compiuto i novant’anni della sua esistenza, è un’istituzione cittadina, da tempo al centro di problematiche legate alle sua valorizzazione. Il liceo, voluto e finanziato dal celebre tenore a cui è intitolato, fu inaugurato nel 1933, divenne sede del Conservatorio e poi dal 1980, dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Lecce. Dopo un breve insediamento della società di Trasporti Sud-Est fu dichiarato inagibile per l’alto livello di deterioramento dell’intera struttura. Nell’ultimo frangente della sua vecchia storia per un brevissimo periodo – per volontà della amministrazione provinciale guidata da Giovanni Pellegrino – fu sede della Casa delle Donne. Nel 2009 il finanziamento di un milione e mezzo di euro con fondi FAS dalla Regione Puglia in sinergia con la Provincia di Lecce per il recupero della struttura con la volontà di farne uno spazio aperto alle contaminazioni culturali.
Oggi, a recupero ultimato, c’è da scegliere, ma spesso si sceglie di non scegliere rifugiandosi nel glamour, nell’ultima tendenza, magari per comunicare con i “giovani” si sceglie la band più in vista ed è fatta, tutti contenti e pacificati, meglio lo spettacolo che la politica. Ma scegliere – specie se a dover scegliere è un’amministrazione pubblica per destinare un bene pubblico – significa ascoltare i desiderata della comunità che si amministra. La fila delle possibili consultazioni non è lunghissima, gli eredi Schipa-Carluccio da sempre attenti al destino di quello spazio, gli orchestrali leccesi che ad ora non hanno sede stabile per le loro prove, il Conservatorio Musicale, le altre Istituzioni culturali cittadine, i musicisti, gli operatori culturali, volendo i cittadini.
C’è poi un’urgenza e una priorità formativa (questa sì riguarda i giovani), riguarda la vicinanza del Tito Schipa con il Palmieri, liceo classico con indirizzo musicale.
Nei mesi scorsi, su queste pagine, fu riportata la necessità del liceo di reperire aule utili ad ospitare gli studenti, la soluzione fu trovata dislocando ben nove classi negli spazi della Biblioteca Bernardini in Piazzetta Carducci, la domanda sorge spontanea: non potrebbe essere il Tito Schipa la sede naturale delle necessità del Palmieri? Certo lo spazio non è tanto ma significherebbe ridare, a quel luogo, la sua vocazione originaria.
C’è da riflettere insomma e la “bega” dell’ascolto andrebbe fino in fondo perseguita per decidere il destino di un bene della comunità.
Un anno passa presto, la speranza è che, in questo tempo di attività, l’intelligenza di Sangiorgi e dei Negramaro sappia essere motore di un aggregato capace di lasciare una traccia significativa nella storia del Tito Schipa. La loro residenza sia, oltre che un atto creativo, l’avvio di un percorso di individuazione e di formazione di un nucleo di gestione dello spazio che necessariamente dovrà garantire un alta capacità di competenza ma soprattutto di attenzione e di apertura. La complessità del movimento della musica nel Salento merita uno spazio di ascolto e di messa in opera dove poter garantire il confronto delle esperienze e dove la formazione diviene pratica e consapevolezza di stile, di quella identità che la Xylella ha minato ma non totalmente azzerato.
(per gentile concessione dell’Autore. Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 5 gennaio 2024)

Novoli: che fine ha fatto il Bambino?

di Armando Polito

Il  titolo di  oggi sembra una rivisitazione salentina del film Che fine ha fatto Baby Jane? del  1991. L’inziale maiuscola di Bambino, però, ci fa capire che la parola in questione è un nome proprio. E, allora, si tratta del trafugamento di qualche statua o pittura da qualche chiesa di Novoli? Dico subito che il divino non c’entra, ma il di vino sì …

Joseph De Rovasenda, Essai d’une ampelographie universelle p. 30, Coulet Montpellier e Delahaye & Lecrosnier, Paris, 1881 p. 30:

 

Se l’abbreviazione Bic. è ampiamente sciolta e definita sufficientemente  nello stesso testo (Bicocca. Località situata a Verzuolo, distretto di Saluzzo, dove si trova la collezione di viti dell’autore. Le uve di questa collezione e di molte altre saranno descritte ulteriormente, in gran parte, nel corso dell’opera, e classificate), qualcosa in più va detto su Mend., abbreviazione di Mendola. Antonio Mendola, nato a Favara (Girgenti) nel 1827 ed ivi morto nel 1908, di nobili origini (barone), ebbe come interesse principale quello della viticoltura, tant’è che impiantò nelle sue terre vitigni di ogni parte del mondo. Il primo catalogo di tale collezione fu da lui pubblicato nel 1868 in appendice al periodico Il coltivatore di Casalmonferrato. Consapevole del collegamento tra produzione vinicola e tecnica enologica, inventò la parola ampelenologia (dal greco àmpelos=vite+òinos=vino+logos=studio).

Colgo l’occasione del Bambino di Novoli per riportare dallo stesso libro le parti riguardanti vitigni salentini. Così a p. 18 leggo:

a p. 4:

 

a p. 138:

7

 

A proposito di Negro amaro: la prima attestazione del nome datata al 1887 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/04/negro-amaro-la-parola-alla-storia/) va, dunque, retrodatata al 1881.

a p. 13:

 

Qui compare una generica indicazione di provenienza (Province meridionali dell’Italia) ma ho ritenuto opportuno riportare la scheda per via delle varianti Bambino/Bombino/Bommino.

Ma siamo sicuri che debbano veramente essere considerate varianti? E la parola di partenza è Bombino (diventato poi per assimilazione Bommino) con riferimento alla forma degli acini o ad una particolare predilezione per loro delle api1? E Bambino, infine, è deformazione di Bombino o voce autonoma?

Oggi mi sento già ubriaco senza aver assaggiato neppure un goccio di vino …, perciò passo la parola ai competenti e sobri.

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1 Dal glossario del Du Cange riporto un lemma  che mi ha fatto pensare a tale ipotesi:

(BOMBUM, Sorbello. Glossario  glossa ad Isidoro.  Rispetto a questa voce Grevio: Il sorbello è un brodetto o qualsiasi liquido che viene succhiato: dagli scrittori del basso latino è detto anche sorbizio. Niente dunque per bombum. Indovinino altri più svegli che cosa significhi tutto questo).

Non pretendo certo di collocarmi tra i candidati più svegli, però mi meraviglio che un filologo del calibro del Grevio (1632-1703), pur nei limiti della filologia del suo tempo, non abbia colto il rapporto tra le api, il loro ronzio [in greco è βόμβος  (leggi bombos; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/)] e il sorbire il succo dell’acino, bollando la glossa come incongruente.

Lo stesso glossario poco dopo:

(BOMBIRE o BOMBILARE, si dice delle api che mangiano il bombo …)

 

Vini DOC Terre del Negroamaro. Salento che cresce, Salento che accoglie

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di Giuseppe Massari

Il Salento, concepito nella sua accezione geografica, storica e territoriale più ampia come Penisola salentina,  comprende l’intera provincia di Lecce, quasi tutta quella di Brindisi e parte di quella di Taranto. Sempre da un punto di vista geografico, rientrano nel territorio della Penisola salentina alcuni comuni della Valle d’Itria: Martina Franca (TA), Alberobello e Locorotondo (BA), Cisternino e Fasano (BR) ed alcuni comuni a Nord di Taranto: CrispianoMassafra.

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In questa vasta area, la produzione vitivinicola, da sempre, ha ricevuto forti impulsi economici e commerciali e anche riconoscimenti a livello internazionale, nazionale e regionale. Forse anche troppi se ci si riferisce alle denominazioni d’origine controllata riconosciute ai vini. Una pletora spalmata, quasi, su ogni paese, eludendo potenzialità territoriali o complessi produttivi più estesi, più storici, più importanti.

In Italia, forse, contravvenendo alle normative europee, le DOC o le DOP sono state elargite, non per motivi strettamente economici, ma elettorali, politici, di convenienza, di opportunità, per una sorta di egoismo o campanilismo così come si costruivano ospedali in ogni città. Di questo fenomeno sono stati interpreti e protagonisti la Puglia e il Salento in particolare.

Basta sfogliare il testo di Donato Antonacci: I vitigni dei vini di Puglia, edito da Adda il 2004, per rendersi conto quante sono state località e interi territori geografici, con i loro vitigni singoli e associati, che hanno chiesto ed ottenuto DOC e Indicazione geografica tipica (IGT). Vale la pena fare l’elenco in ordine alfabetico, sia per quanto riguarda la valorizzazione d’origine che per quella geografica tipica. DOC dei vini di “Alezio”, disciplinare di produzione pubblicato sulla G.U del 26 settembre 1983; DOC dei vini “Brindisi” con disciplinare di produzione del 23 aprile 1980; il 29 gennaio 1977, la G.U. pubblicava il disciplinare di produzione dei vini “Copertino”; ai vini DOC di “Galatina”, il disciplinare di produzione fu concesso con decreto del Ministero del Risorse Agricole, il 24 giugno 1997; sulla G.U del 28 marzo 1997 veniva pubblicato il disciplinare di produzione che riguardava i vini di “Leverano”; con decreto del presidente della Repubblica del 21 dicembre 1988, i vini di “Lizzano” entravano nella grande famiglia DOC; di DOC viene insignito il vino “Martina” o “Martina Franca”.

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Siamo nel luglio del 1990 quando la G.U., il 17 di quel mese pubblica il decreto del Presidente della Repubblica firmato il 9 febbraio dello stesso anno, in sostituzione del Dpr del 10 giugno 1969; per il vino “Matino”, il disciplinare di produzione viene emesso il 19 maggio 1971 e pubblicato il 24 luglio dello stesso anno sulla G.U.; DOC per il vino di “Nardò” riconosciuta con Dpr del 6 aprile 1987; la G.U. n. 83 del 28 marzo 1972 pubblica il disciplinare di produzione per i vini di “Ostuni”; al “Primitivo di Manduria” viene riconosciuto il disciplinare di produzione per la DOC, il 30 ottobre 1974; la DOC per il “Salice Salentino” viene assegnata il 6 dicembre 1990, data in cui il Presidente della Repubblica firma il decreto in sostituzione di quello precedente sottoscritto l’8 aprile 1976; ultimi, in ordine alfabetico, i vini “Squinzano”, la cui DOC è stata sancita con il decreto pubblicato sulla G.U. del 31 agosto 1976. Per quanto riguarda la Indicazione geografica tipica dei vini del “Salento”, il decreto sul disciplinare di produzione fu firmato dal ministro delle Risorse agricole il 20 luglio 1996.

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Tanti, troppi frammenti e molta dispersione di forze ed energie. Questo il quadro più o meno completo che delinea la vastità di vini a denominazione controllata, molti dei quali prodotti con le stesse qualità di vitigni , in misura percentuale diversa: maggiore o minore, a seconda della incidenza qualitativa e quantitativa del prodotto da vinificare. Da questo spaccato storico e geografico emerge un dato: la impossibilità di riconoscere la varietà e la bontà del prodotto. La qualità, forse, viene penalizzata o racchiusa nell’ambito dell’orticello campanilistico che non serve né a far crescere il territorio e né la stessa qualità del prodotto.

Nell’ottica di quella che deve essere la globalizzazione intelligente e non selvaggia dei movimentisti arcobaleno; nell’ottica di quella che deve essere la rete solida e solidale, fuori e lontana da certi egoismi, soprattutto nei rapporti commerciali, economici, politici e territoriali, si impone la ricerca di strumenti più idonei per vincere certe sfide, per essere al passo con i tempi, senza restare indietro o guardare come il progresso ci passi davanti senza fermarsi o senza che venga acchiappato. Una delle ipotesi progettuali, una pista su cui lavorare, potrebbe essere quella riferita all’iniziativa Premio Terre del Negroamaro.

Giunta, quest’anno, alla sua ottava edizione, la rassegna di Guagnano, organizzata e promossa unitamente al Gal Terra d’Arneo e destinata ad affermarsi come momento di riflessione e di vetrina per uno sviluppo compatibile con le esigenze del territorio, deve portare ad un solo e vincente risultato: una DOC unica per tutti i vitigni delle Terre del Negroamaro, DOC Terre del Negroamaro. Nel mentre, tra l’altro, ogni anno questa parte nord del Salento è capace di mobilitare attenzioni ed interessi culturali, racchiusi in quella parte di storia conservata nel Museo del Negroamaro.

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Soprattutto, perché questo vitigno ha una sua nobile storia, ripresa proprio da chi scrive e fatta oggetto di un precedente contributo su queste pagine del blog. Una storia secolare di tutto rispetto, di tutto pregio, di notevole interesse e spessore cultuale Perciò, anche per questo, è bene, è un bene per tutti coalizzarsi; unirsi nella rete di un sistema, per fare sistema, per essere forti e competitivi. Non sembri una proposta dirompente, una provocazione estemporanea.

Non suoni penalizzante per chi ritiene di aver acquisito certi privilegi e a questi non vuole rinunciare. Quelle conquiste identitarie, di etichetta, forse, sono state delle forzature. Magari, frutto di imbrogli e di inganni da parte di chi doveva dimostrare di essersi impegnato nell’ambito del proprio collegio elettorale. Per fortuna, il tempo cammina con le gambe di un medico che sana lacerazioni, ferite, divisioni, create, artatamente.

L’evoluzione, oggi, è tale che ci fa capire come il territorio cresce, deve crescere, viene valorizzato nella misura in cui viene identificato nella sua interezza e nella sua essenza e non nel conventicolo rapporto di una comunità costretta, poi, a confrontarsi con altre identità che, invece, galoppano, facendo passi irraggiungibili.

Uscire dalle secche del provincialismo paesano, per trasformare quel prodotto della terra in un vero prodotto nostrano e regionalizzato; nostrano e nazionalizzato. Questo ci insegna la storia e la nascita dei Gal; questo ci ha insegnato e ci insegna la straordinaria esperienza della Taranta. Non più o non solo patrimonio di Melpignano, ma di tutto il Salento, di tutta l’Italia; quella che potrebbe, addirittura, avanzare una formale richiesta per farla inserire e riconoscere quale patrimonio immateriale dell’umanità.

Negro amaro, la parola alla storia (II^ parte)

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di Giuseppe Massari

Per continuare e completare l’analisi e la ricerca storica sul Negro amaro, si deve sempre partire e considerare quanto scritto dal professore Michele Vitagliano nel testo: “Storia del vino in Puglia”, Editori Laterza, Bari 1985. Scrive, infatti, l’illustre accademico: “Alla fine del secolo XIX la provincia di Lecce, detta anche Terra d’Otranto si estendeva su tutto il territorio che oggi comprende anche le province di Brindisi e di Taranto, occupava una superficie di 685.205 ettari di cui 659.688 destinati a produzione agraria e forestale. Questa provincia, producendosi in essa mediamente oltre 1.500.000 hl di vino, era la terza del regno per importanza vitivinicola essendo preceduta da quella di Alessandria e di Bari. Anche allora il vitigno maggiormente coltivato, fra le uve nere, era il Negrl amaro, seguito in ordine d’importanza, dal Cuccipannello, noto pure con i nomi corrotti di Cuccimanniello, Zuzumaniello, Sussumaniello nelle varie zone della Puglia, dalla Malvasia nera, dal Nero dolce, dal Primitivo, dall’Uva di Troia, dallo Zagarese, dall’Aleatico, ecc…”

Avendo precisato, in precedenza, quale era la zona interprovinciale, quella che, in sostanza, è stata e tutt’ora viene definita, denominata e riconosciuta con il nome di Penisola salentina, è su questa che deve concentrarsi l’attenzione per definire, nei dettagli, le zone di produzione del Negro amaro. Per continuare il viaggio nel tempo di ieri, confermato, per certi aspetti, anche nella contemporaneità dei tempi attuali, con alcune piccole varianti, considerando, soprattutto, le condizioni ambientali del Salento, iniziando da Brindisi, secondo Vitagliano, il territorio brindisino interessato al Negro amaro può essere suddiviso in 7 zone. “la prima zona, grosso modo, comprende il tenimento di Brindisi estendendosi a nord fino alla stazione di S. Vito dei Normanni, a ovest, includendo parte del tenimento di Mesagne, e a sud, parte del comune di Tuturano.

Museo del Negroamaro Guagnano
Museo del Negroamaro Guagnano

 

La seconda zona, a sud-ovest della precedente, comprende il rimanente territorio dei comuni di Mesagne e di Tuturano e si estende fino a nord di S. Pietro Vernotico.

La terza, la quarta e la quinta zona includono i comuni al confine con la provincia di Lecce; più precisamente la terza zona comprende il comune di Torchiarolo il più orientale verso il mare Adriatico, la quarta zona comprende gran parte del comune di S. Pietro Vernotico, la quinta Cellino S. Marco. S. Donaci e parte del comune di S. Pancrazio.

La sesta zona comprende il comune di Latiano. Infine la settima ed ultima zona comprende parte del comune di San Pancrazio e i tenimenti di Erchie, Torre S. Susanna, Oria e Francavilla Fontana; è la zona più occidentale del Brindisino e confina per gran parte con il Tarantino”.

Museo del Negro amaro Guagnano
Museo del Negroamaro Guagnano

 

Spostandosi più a sud, nel cuore del Leccese, dove il Negro amaro, in base alle sue caratteristiche organolettiche e chimiche, ha ricevuto maggiore investimento produttivo, sempre secondo lo studio, la ricerca e la pubblicazione del professore Vitagliano, le zone di incidenza sono 8. “la prima zona, immediatamente a sud del confine con il Brindisino, è la zona di Squinzano, il centro più importante, e interessa, oltre che la parte sud di questo comune, la part nord è investita ad oliveto, Campi Salentina, Villa Baldassarri e Guagnano.

La seconda zona, ad occidente della precedente, anch’essa confinante con il Brindisino, è quella di Salice Salentino che abbraccia i comuni di Salice, Novoli, Veglie, Carmiano, Arnesano e Monteroni.

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La terza zona ha per capitale Copertino e comprende il comune di Leverano e parte del tenimento di Nardò.

La quarta zona è costituita dal territorio amministrativo di Nardò.

La quinta zona corrisponde a quella che ha per centro più importante Galatina e comprende anche i limitrofi comuni di Cutrofiano, Galatone Aradeo, Sogliano, Neviano e Seclì.

galatina

La sesta zona è quella di Gallipoli; comprende anche i comuni di Alezio, Tuglie e S. Nicola.

La settima zona è quella di Matino o del basso Leccese; comprende oltre il comune che le dà il nome, Collepasso, Parabita e Casarano.

Infine l’ottava ed ultima zona vitivinicola del Leccese è quella di Melissano; comprende i territori comunali, oltre che di Melissano. Di Taviano, Alliste, Racale ed Ugento”. Così, sommariamente, quanto riportato, oltre trent’anni da Vitagliano nel suo volume.

GRAPPOLO DI NEGRO AMARO

Forse, attualmente, alcune cose sono cambiate; alcune realtà sono state stravolte o connotate da altre peculiarità vitivinicole. Intento di questo scritto era fermare il tempo, se così è possibile esprimersi, per focalizzare, storicamente la vita di un prodotto, di questo prodotto derivante dall’uva, identità di una terra, intesa come territorio vasto. Giusto, però, per completare l’orizzonte di partenza e di arrivo su questo argomento, è bene fare riferimento ad un’altra pubblicazione, più recente rispetto a quella usata fin’ora.

Si tratta di: “I vitigni dei vini di Puglia”, di Donato Antonacci, Adda Editore, Bari 2004. Nella seconda parte del testo di Antonacci, quello relativo alle schede descrittive dei vitigni e dei vini di Puglia, a proposito del Negro amaro, l’autore lo riconosce e lo identifica sotto due specie: Negro amare precoce, Negro amaro cannellino, riportando quello che, già nel 1999, Antonio Calò aveva scritto, dopo analisi e attenti studi sulla viticoltura italiana.

“Nel 1994, nell’ambito del programma di miglioramento genetico della viticoltura del Salento condotto dall’Istituto Sperimentale per la viticoltura, è stato individuato. In un vigneto di Negro amaro, un ceppo che presentava un evidente anticipo dell’invaiatura e della maturazione rispetto agli altri ceppi del vigneto”.

negramaro

In conclusione, “possiede una precocità di maturazione talmente marcata (di almeno 20 giorni) da influenzare in modo decisamente positivo anche la componente chimica dell’uva al momento della raccolta” La cosa importante e da non sottovalutare è proprio la preminenza economica e distribuzione geografica. di questa variante di prodotto. Secondo l’Istituto per la Viticoltura in Puglia e precisamente nel Salento, questo vitigno” è iscritto fra i vitigni idonei alla coltivazione in tutte le province pugliesi ad eccezione di Foggia”.

 

La prima parte può leggersi qui:

Negro amaro, la parola alla storia

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/04/negro-amaro-la-parola-alla-storia/

A Parigi: La Puglia suona, l’Italia balla…

di Gianni Cudazzo

“LES POUILLES JOUENT, L’ITALIE DANSE”

Concerto della nuova scena musicale pugliese e italiana a Parigi

23 giugno 2012, Place d’Italie a Parigi

Nidi d’Arac

La Place d’Italie sarà in festa a Parigi, dal 22 al 27 giugno, in occasione della 12a edizione della Settimana Italiana del 13°: “Italia…maintenant ?”.

Cultura, letteratura, arte, cinema (da segnalare l’eccezionale presenza del

Intervista al salentino Andrea Padova, interprete e compositore

 

Dialogo tra un musicista assai filosofo e un filosofo per nulla musicista

 

di Andrea Padova e Pier Paolo Tarsi  

 

Partiamo dalla fine, cioè dal suo ultimo lavoro. Altrove ha affermato che in esso vi è molto della sua terra, il Salento. Potrebbe rendere in parole il senso di tale presenza, indicare cioè brevemente la natura di questo legame che ha voluto esprimere nella composizione musicale?

“Arancio Limone Mandarino” è innanzitutto un disco che nasce dal Salento. Basta scorrere i titoli dei singoli brani per ritrovare il nome di alcuni luoghi (“Verso Leuca”, “Porto Selvaggio”) o di alcune persone (come Renata Fonte), di alcune suggestioni musicali (“Pizzica Tarantata”) o per riconoscere alcuni versi di Vittorio Bodini (“La pianura di rame”, “Il cielo è bianco”). Il titolo stesso dell’album è sia l’inizio di una filastrocca popolare che i bambini associano al gioco con la corda, sia un verso che Bodini usa come refrain in una delle sue poesie più belle. Posso aggiungere che per me, come per moltissimi altri, il Salento è il luogo dove sono nato e dove sono tornato, dopo aver vissuto anche altrove. Come appunto per Bodini e tanti altri, per me è proprio questo essere stato altrove che permette di vivere in maniera diversa questa terra. Direi quasi con un progressivo lento riavvicinamento che porta ad una maggiore non vorrei dire consapevolezza, ma senz’altro intensità.

Al di là di questo amore per il Salento che impregna anche il suo ultimo lavoro, bisogna tuttavia riconoscere che, finora, i più importanti riconoscimenti, sia come interprete che come compositore, le sono giunti soprattutto dall’estero, fuori dal Salento e dall’Italia in genere, sebbene anche in ambito nazionale goda di ampio favore della critica. Sullo scenario internazionale le viene rivolta grande attenzione, sin da quando, nel 1995, si è aggiudicato la vittoria al prestigioso “J.S. Bach Internationaler Klavierwettbewerb”. Ha un ampio e attento pubblico in diverse parti d’Europa ed è fortemente apprezzato anche al di là dell’Atlantico. Negli Stati Uniti è chiamato regolarmente ad esibirsi sui palchi più importanti, la critica le ha dedicato numerosi encomi su giornali come il New York Times e il Washington Post. È apprezzato e invitato insomma nei vari angoli del globo come uno dei migliori pianisti viventi, persino in Estremo Oriente, in Giappone per citare un caso. Qualcuno – forse in un momentaccio della sua vita – disse che nessuno è profeta in patria. Lei è più ottimista in proposito? O dubita della riconoscenza di questa terra che tuttavia lei onora ampiamente celebrandola nei templi sacri della musica mondiale?

Per carattere mi interessa molto più il fare che l’apparire: intendiamoci, non si tratta di un atteggiamento ascetico o particolarmente nobile, anzi è una forma piacevole e innocua di egoismo che finisce semmai per diventare altruismo: l’altruismo di non volerci essere sempre ed a tutti i costi. Più seriamente, il poter convertire in studio e tempo per la riflessione e la creazione le energie che oggi tanti, anche nel Salento, dedicano a un tentativo di onnipresenza, è un privilegio che è più facile coltivare a Lecce che a Milano o New York. Ho iniziato a tenere regolarmente recital nel Salento attorno ai sedici anni, e dai ventitre ho suonato con una certa frequenza come solista con l’Orchestra che oggi chiamiamo ICO. Non ho nulla di cui lamentarmi e forse non mi lamenterei comunque. Sicuramente non desidero riconoscenza. Oggi, con più di trent’anni di carriera alle spalle, sono io che non sento il bisogno di suonare a Lecce ogni anno o più volte l’anno. E dato che ogni regola comporta delle eccezioni, ovviamente suonare anche nel Salento i pezzi di questo nuovo album che sono nati nel e dal Salento è una cosa che mi interessa e sarò felice di fare. Anche se la presentazione del cd e il primo concerto saranno a Londra l’8 Febbraio…

Il suo repertorio come compositore è piuttosto variegato e ampio: spazia nel paesaggio sonoro dal classico, al Jazz, senza arroccamenti nella musica colta, non mancano infatti aperture alla spontaneità della musica popular. Vorrei sapere, che rapporto ha con la musica popolare salentina, in senso ampio? E cosa pensa in particolare del fenomeno “Notte della Taranta”?

Duplice: mi fa piacere che con la “Notte della Taranta” il Salento abbia raggiunto una notorietà internazionale e soprattutto trasversale ed interessi sia fasce d’età che appassionati di generi assai diversi tra loro. Mi rattrista un po’ vedere invece che il Salento venga identificato solo con la pizzica e soprattutto mi rattrista vedere che, tra coloro che si dedicano allo studio e all’esecuzione di testi e musiche legate al fenomeno del tarantismo, i pochi bravi e seri siano una esigua minoranza. È interessante e ha un aspetto quasi comico notare come lo spirito di trance e di stordimento siano passati dal senso e dalla pratica di quella musica alla capacità di percezione del grande pubblico, che sotto l’etichetta generica di Pizzica oggi si lascia servire davvero di tutto: in larghissima parte musica molto brutta e per di più molto mal suonata.

 

 

Musica di qualità e celebrità. Che relazione sussiste tra le due in Italia, ammesso che vi sia? E all’estero, cambia qualcosa in tal senso?

Posso rispondere per quelle che sono le mie impressioni e naturalmente, quindi, la mia risposta vale soprattutto per la musica classica e contemporanea, più che per jazz, pop e rock il cui mondo mi è meno noto. L’Italia come sappiamo è un paese di individualisti inguaribili (in quanto compositore e pianista, devo inserirmi automaticamente nella lista!) e le

Gnorumàru, negro amaro, Negramaro

(da http://www.cantinadefilippo.com/img/negramaro.gif)

di Armando Polito

Gnorumàru è il nome di un vitigno tipico del Salento. Il corrispondente italiano, divenuto ormai simbolo nel mondo della produzione enologica salentina, è negro amaro/negramaro, inteso come composto da negro (dallo spagnolo negro, a sua volta dal latino nigrum) e amaro (dal latino amàrum); in realtà si tratta di una paretimologia giacchè gnorumàru risulta composto sì da gnoru (stessa etimologia di negro), ma il secondo componente non è amàrum bensì màurum=della Mauritania, africano (dal greco màuros=nero), a sottolineare in un sol colpo  il colore nero violaceo del frutto e il luogo d’origine. L’italiano, perciò, nel trascrivere correttamente la voce neritina, avrebbe dovuto dare vita a negromauro/negromoro. E’ nato invece, come sappiamo, negramaro, alla faccia di quanti vorrebbero che la lingua venisse costruita dagli addetti ai lavori nella speranza, forse anche così vana, di non incorrere in fraintendimenti ed errori. Ma la lingua è fatta dai parlanti: senonchè non tutti i parlanti sono filologi, anche se tutti i filologi sono parlanti; è stato così da sempre e perciò non è certo il caso di scandalizzarsi più di tanto: in fondo negramaro è solo la consacrazione ufficiale di un’errata “traduzione” dalla lingua originale e anche se la voce fosse stata creata da un filologo potremmo sempre confortarci pensando che quel tale era sotto l’effetto dello gnorumàru.

Dagli effetti sconvolgenti del vino a quelli coinvolgenti della musica il passo è breve: così negramaro è diventato anche il nome di un complesso musicale salentino affermato a livello nazionale e non solo.
E magari qualche critico musicale, mettendo il suo sigillo autorevole sull’errore paretimologico, arriverà ad affermazioni del genere: “La musica de i Negramaro è già tutta contenuta nel nome: magico mix di tristezza soul e di tragica amarezza mediterranea”. Dovrei ridere, ma mi vien da piangere… ottima scusa per consolarmi pensando che “non mi resta che allacciare un paio d’ali alla mia testa/e lasciare i dubbi tutti a una finestra1”; lo faccio bevendo un bicchiere di negramaro: alla salute!

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1 La finestra, dall’omonimo album del 2007.

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Marcello Gaballo
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