di Alessio Palumbo
In questi giorni, la sentenza di chiusura di alcuni reparti dell’Ilva di Taranto e le proteste scaturitene, ha catalizzato l’attenzione di media, esperti e semplici lettori. Si è dipanato così un dibattito vasto e composito che, di volta in volta, anche su questo blog, ha posto il focus su alcuni problemi specifici: dall’inquinamento alle politiche del lavoro, dall’indotto ai danni apportati alla qualità della vita dei tarantini, etc. etc. Un rapido viaggio nella storia del centro siderurgico tarantino forse permetterà di avere una visione più vasta e completa dei problemi, dei retroscena, delle speranze e delle delusioni che per decenni si sono abbinati a questo “drago d’acciaio”.
Nel secondo dopoguerra, lo sviluppo in Italia della siderurgia pubblica si è legato, fondamentalmente, alla figura di Oscar Sinigaglia. È infatti alla sua mentalità fordista che si deve la nascita e la crescita di un’industria pubblica dell’acciaio basata sulla riduzione della dipendenza dal rottame, sulle grandi dimensioni degli stabilimenti e sulla produzione di lotti standardizzati[1]. Molteplici ragioni