La chiesa di S. Michele Arcangelo a Neviano

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto (ph. F. Suppressa)

 

di Fabrizio Suppressa[1]

L’attuale chiesa matrice intitolata a San Michele Arcangelo fu edificata ab imis fundamentis tra gli anni 1859-1875 in sostituzione dell’antico sacello cinquecentesco costruito, secondo alcune fonti, per volontà del barone Gio. Lorenzo Brayda con il concorso di tutta la popolazione[2].

La volontà della comunità di ingrandire la parrocchiale si attesta già nel 1730, laddove in un documento di “introiti ed esiti” redatto dalla locale Universitas è annotata la voce di 140 ducati riscossi “da sindaci passati pertinenti i medesimi per rifare e ingrandire la Chiesa Madre”[3]. Comunità che, stante il desiderio d’ampliamento, non rinunciava tuttavia ad ornare il tempio, dacché nello stesso documento è registrata la spesa di 50 ducati “per la statua di S. Michele Arcangelo Protettore, fatta venire da Napoli” e 12 ducati per “due fonti di marmo”, provenienti sempre dalla capitale partenopea[4], i quali par di riconoscere in quelli ancora esistenti nell’ingresso laterale dell’attuale parrocchiale.

In ogni caso, le esigue risorse della collettività furono da sempre un problema rilevante per i fedeli, dato che qualche anno prima, durante la visita pastorale di mons. Sanfelice del 1719, il sindaco in carica dovette scusarsi col presule per l’irrisoria offerta di “sei scudi” a motivo della “povertà delle casse comunali”[5].

Simile ristrettezza si riscontrava anche nelle casse della parrocchiale e del locale Capitolo, dato che nel Catasto Onciario del 1743 sono annotati per entrambi i soggetti giuridici la dicitura che le “uscite superano le entrate”.

Le esosità baronali furono per la popolazione un pesante fardello per lo sviluppo del casale, ma con l’abolizione della feudalità decretata tra il 1806 e il 1808 da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, tutte le giurisdizioni baronali e le relative proventi passarono alla sovranità nazionale. Fu istituita una magistratura particolare, la Commissione Feudale, per dirimere il contezioso tra i baroni e le università (comuni). Infatti, nel corso dei secoli i baroni del Regno di Napoli si erano attribuiti illecitamente il diritto di esigere la decima, oltre che sui prodotti agricoli, anche su attività o consuetudini produttive.

Finalmente con la sentenza del 3 ottobre 1809[6] l’ex barone di Neviano, il principe Cicinelli, fu obbligato tra i vari patti stabiliti dal tribunale ad astenersi nella decima della calce, nel richiedere “6 ducati e 20 grana” a titolo dell’emungimento dell’acqua nei pozzi, a pretendere la prestazione a titolo di erbatica (tassa per gli animali da pascolo). Tuttavia venne assolto dalla restituzione dell’indebito riscosso fino ad allora, e fu stabilita la divisione dei demani tra il principe e il comune, il quale finalmente poté lottizzare i terreni per esser concessi agli abitanti poveri che ne facevano richiesta.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, vista laterale (ph. F. Suppressa)

 

Ed infatti nell’Ottocento, con le rinnovate condizioni giuridiche ed economiche, si assistette ad un rapido aumento della popolazione dai 700 di inizio XIX secolo ai circa 1800 abitanti registrati all’Unità d’Italia. Significativo a riguardo, un decreto, il n. 5346, emanato il 25 maggio 1839 da Ferdinando II, in cui il sovrano napoletano “nella mira di far divenire l’abitato del comune di Neviano in Terra d’Otranto atto a contenere l’aumentata popolazione del medesimo” autorizza il comune medesimo a cedere a “Donato Cuppone, Pasquale di Oronzo, Angelo Candido, Domenico Blasio e Francesco Colace” i tratti di suolo pubblico da ciascheduno occupati dietro pagamento di un annuo canone[7]. Il decreto inoltre prescriveva che “le nuove case a costruirsi sieno regolarmente piantate, ed abbiano al possibile una certa uniformità e ricorrenza di linee all’esteriore, e non meschini abituri”[8].

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto, a sinistra lo stemma del vescovo Vetta, a destra quello della comunità di Neviano (ph. F. Suppressa)

 

Pertanto, con queste rinnovate condizioni economiche Neviano necessitava di un tempio più ampio e capace di accogliere tutti i suoi fedeli, e non a caso nel 1847, l’arciprete Giuseppe De Franchis, relazionava alla diocesi di Nardò che la navata è “incapace a contenere non più che il quarto della popolazione”, lamentando contemporaneamente “dell’umido” presente nel vecchio tempio, pur tuttavia concludendo che la sua manutenzione “è piuttosto lodevole”[9].

Il documento fondamentale per ripercorrere l’iter edificatorio della nuova parrocchiale è la relazione dal titolo “Notizie storiche intorno alla riedificazione dell’attuale chiesa parrocchiale di Neviano”, redatta dal parroco mons. Roberto Napoli in occasione della santa visita del 1878 fatta da mons. Michele Mautone, vescovo di Nardò.

Da questa importante dichiarazione si rileva come il promotore dell’intervento fu mons. Luigi Vetta, vescovo della Diocesi di Nardò tra il 1849-1873[10], come tra l’altro ricorda l’iscrizione dedicatoria e lo stemma in facciata. Il Vetta è una figura particolare per il travagliato periodo che precede l’Unità d’Italia, infatti, di dichiarata fede borbonica fu costretto anche all’esilio dalla diocesi neretina per cinque anni all’indomani dell’unificazione della penisola. Vescovo che tuttavia si contraddistinse sul territorio per il mecenatismo ecclesiastico, commissionando opere quali il rifacimento del seminario diocesano e della chiesa matrice di Noha (all’epoca ricadente nella Diocesi di Nardò), anch’essa dedicata a S. Michele Arcangelo.

Nel 1859, essendo parroco don Salvatore Chirivì, si dette inizio ai lavori grazie ad una sovvenzione dell’Amministrazione Diocesana di 400 ducati. Altrettanto interessante è la figura dell’arciprete, sicuramente degli stessi ideali politici del vescovo Vetta, come si può dedurre da un’informativa della Prefettura di Lecce, nella quale è definito “uno schifoso borbonico clericale”, aggiungendo che “non compie operazione che non sia reazionaria. Si è sempre rifiutato a solennizzare le feste nazionali”[11].

Infatti fu inquisito per “complicità nel brigantaggio” avendo fornito denaro tra il 1864-1865 alla banda del brigante Francesco il Funerario[12], lo stesso che assieme a Pasquale Aspina (D’Ospina) e altri, fu colpevole di “eccitare il malcontento contro l’attuale Governo” in Seclì tra il 1861-1862[13].

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, interno negli anni Cinquanta del Novecento (archivio parrocchiale di Neviano

 

Nell’edificazione della chiesa concorse tutta la comunità mediante l’ausilio nel trasporto di acqua e pietre da costruzione, finanche la legna per la realizzazione di “grandi forni calcinatori”, mentre il suolo per l’ampliamento fu donato dalla famiglia Dell’Abate, facoltosi latifondisti della vicina Nardò. Progettista iniziale dell’intervento fu l’ing. Gregorio Nardò da Nardò[14], probabile figura di fiducia del Vetta in quanto artefice dei lavori commissionati dal vescovo sempre per il seminario e nella ricostruzione della parrocchiale di Noha.

Nel 1873, con la morte di mons. Vetta si arrestarono i lavori, giunti ormai a quasi due terzi dell’opera. Dalla relazione risultano essere state realizzate la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la crociera e parte della navata fino alla metà delle seconde cappelle. Di questo arresto dei lavori è ancora ben visibile sui prospetti laterali i segni dell’addentellamento della muratura. Tuttavia, con alcune somme lasciate a disposizione dal presule proprio per il completamento dell’opera, poterono proseguire i lavori.

Fu formata una nuova commissione, che includeva ora anche l’autorità municipale, che diede incarico all’ingegnere Quintino Tarantino da Nardò[15] per la redazione di un progetto di completamento e al contempo, con l’apposizione di una nuova tassa comunale, si raccolsero altri fondi per il prosieguo dei lavori.

Con la ripresa dei lavori si procedette alla demolizione dell’antica chiesa cinquecentesca, poiché sul suolo di questa andava costruita l’attuale navata. Intanto nel settembre 1877 si dette inizio alla realizzazione di “tutti i lavori in legno” mediante appalto dei lavori al fabbro-legnaio Salvatore Leucci da Scorrano, su “progetto d’arte” fatto dal perito Michele Rizzo da Alliste. Di tale intervento permane esclusivamente la robusta porta principale della chiesa e il telaio superstite di una vetrata semicircolare della seconda cappella sinistra, visibile solo dall’esterno poiché murata nel 1957. Finalmente il 4 aprile 1878 il nuovo vescovo di Nardò, mons. Michele Mautone, consacrò il novello tempio con rito solenne, come attesta l’epigrafe in facciata, mentre nel 1880 sono commissionate da famiglie locali l’erezione degli altari laterali, come attestano le epigrafi ivi collocate.

Nella seconda metà del Novecento una serie d’interventi ha contribuito a stravolgere lo stile dell’ottocentesca parrocchiale, non tanto in funzione dell’adattamento alle nuove norme del Concilio Vaticano II, quanto ad una costante ricerca di modernità e di materiali in voga. Infatti, come attesta una lapide nei pressi dell’uscita secondaria, i lavori si svolsero nel 1957, essendo arciprete don Salvatore Antonazzo e vescovo mons. Ursi.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto su via Pozzi Vecchi nel 1966 (fototeca Briamo, Brindisi)

 

In quest’occasione furono occluse le sei finestre semicircolari delle cappelle laterali, mentre quelle della stessa forma ma di dimensione maggiore della navata vennero modificate fino a diventare rettangolari e leggermente centinate. Similmente furono tamponate una finestra della cupola, una del timpano e due dell’abside. Il risultato fu un tempio snaturato della sua originale impostazione, con una netta diminuzione della luce interna che ne ha reso l’ambiente più scuro e poco contemplativo.

Il pavimento originale, di cui si ignora la consistenza, venne sostituito con una pavimentazione in marmettoni di scaglie di marmo, mentre per le cappelle laterali furono utilizzate comuni mattonelle in cemento. Largo uso di travertino fu adoperato per zoccolature, gradini e rivestimenti, mentre con pittura acrilica fu coperta l’ottocentesca decorazione in finto marmo che decorava le pareti interne della chiesa e delle cappelle, così come testimoniato da foto d’epoca e dai saggi in parte già eseguiti negli anni passati.

Nel 1972, in ossequio alle nuove disposizioni del Concilio Vaticano II, fu modificato il presbiterio mediante la demolizione dell’altare maggiore in pietra leccese, i cui frammenti furono in parte impiegati come decorazione nella recinzione dell’attiguo giardinetto a valle della navata. La cantoria, il coro, l’organo, il pulpito e alcuni arredi sacri, ritenuti antiquati, furono eliminati per dare posto ad un moderno organo elettrico. Tutta l’area presbiteriale e il coro fu rivestita con travertino e ceramica smaltata.

 

La primitiva chiesa cinquecentesca

Sono poche e frammentarie le notizie sull’antica chiesa cinquecentesca di Neviano, cancellata totalmente dall’edificazione dell’attuale parrocchiale. Nella visita pastorale di mons. Bovio del 1580 è descritta come “extra casale” mentre in quella del 1618 di mons. De Franchis è definita “in medio casalis” e “rimpetto la piazza”, accumunate entrambe dalla presenza dell’altare dedicato a S. Michele Arcangelo. Questa distinzione di localizzazione nelle visite pastorali, prima “fuori” dall’abitato e poi “nel mezzo”, ha portato Giovanni Cartanì ad ipotizzare che la primitiva parrocchiale fosse in realtà la cappella della Madonna della Neve esterna all’abitato di Neviano.

Neviano, castello nel 1966 (fototeca Briamo, Brindisi)

 

Personale ipotesi è che in realtà la parrocchiale non si è mai spostata, in quanto la distinzione tra “extra casale” e “in medio casalis”, è dovuta probabilmente alla crescita dell’abitato, la cui popolazione in quel periodo vede un repentino incremento dagli iniziali 11 “fuochi” del 1508 (circa 55 abitanti) ai 65 “fuochi” del 1595 (circa 325 abitanti)[16].

L’originale nucleo abitativo di Neviano doveva inizialmente addensarsi nei pressi del castello che degli Orsini del Balzo, poi con lo sviluppo della popolazione, l’abitato si espanse in maniera lineare verso sud-est lungo il costone roccioso, fino a circondare e superare la chiesa matrice.

Atlante Sallentino del Pacelli con Neviano e la diocesi di Nardò sul finire del Settecento

 

Uno spaccato di vita della parrocchiale si rileva nel testamento redatto il 17 gennaio 1626 dal notaio Sabatino Duca di Neviano[17], quando Isabella Tedesco di Galatone, moglie di Marcello Sinidoro di Neviano, lascia tutti i suoi beni, dopo la morte del marito usufruttario, alla chiesa parrocchiale di Neviano con l’obbligo di fondare una cappella in cui collocare un quadro con l’immagine della S.ma Annunziata. Morto il Sinidoro, il clero locale, composto dall’arciprete don Giov. Angelo Zizzari, don Angelo Bisci, il diacono Camillo Giordano, con il sindaco Giacomo Musticchi, previo assenso del vicario Granafei (atto del 4.12.1650 di notaio de Magistris), vendono un terreno della fu Isabella per 9 ducati ed 1 tarì, i quali vengono consegnati al pittore Giovanni de Tuglie di Galatone in acconto al quadro commissionato da Isabella “con le immagini della Madonna S.ma Annunziata, e Dio padre e degli angeli nella parte superiore”.

Ad un anno dalla morte, il clero di Neviano, in quanto legatario di Isabella, vende un altro immobile per il prezzo di 30 ducati, che verranno consegnati al pittore de Tuglie al fine di completare il dipinto.

Altre scarne notizie sulla parrocchiale possono essere rilevate dalle visite pastorali dei presuli di Nardò. In quella di mons. Sanfelice del 1719 la chiesa è descritta con battistero, sacrestia, torre campanaria, porta maggiore, e infine un altare dedicato S. Oronzo. Quest’ultimo era a carico dell’amministrazione comunale, come si rileva nella visita pastorale di mons. Lettieri.

Dai documenti consultati è pertanto facilmente individuabile l’area di sedime dell’antica parrocchiale, collocata tra il sagrato e la fine delle seconde cappelle laterali, con un orientamento liturgico pressoché coincidente con quello dell’attuale navata. E’ possibile dedurre quanto appena affermato dal fatto che:

  • Nel 1873 alla morte del vescovo Vetta era stata realizzata “la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la Crociera (leggi transetto), e parte della navata fino a metà delle seconde cappelle”.
  • Di questa interruzione è ancora visibile il segno degli addentellamenti della muratura sulle facciate laterali.
  • Per tutto il 1874 la chiesa cinquecentesca è ancora in piedi e in funzione, dato che il 13 dicembre 1874 il clero e i fedeli in solenne processione si recarono dalla matrice alla chiesa di S. Giuseppe al fine di traslocare i Sacramenti, il fonte battesimale e quant’altro necessario. A partire da questa data fino al 1878 la chiesa di S. Giuseppe è eletta temporaneamente a chiesa parrocchiale.
  • Nel 1874 secondo la relazione della visita pastorale del 1878 “si cominciò a demolire la vecchia chiesa” sul cui sedime doveva “piantarsi il resto della navata”.
Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, pianta, in rosso è evidenziata la sede della chiesa cinquecentesca (elab. arch. F. Suppressa)

 

Quindi è possibile escludere con certezza documentata che il sito dell’attuale transetto coincidesse con l’antica chiesa, come ipotizzato da molti. E’ inoltre da escludere la presenza di sepolture sotto il pavimento della chiesa, in quanto, alla data di ultimazione della chiesa era già entrato in vigore l’editto di Saint Cloud (1804) che vietava la sepoltura all’interno dei centri abitati (confermato poi nel 1865 dalla Prefettura), nonché per quanto è rilevabile dal registro parrocchiale dei defunti che a partire dal 1838 e fino al 1889 (anno di realizzazione del cimitero attuale) descrive il luogo di sepoltura come la chiesa fuori dall’abitato di S. Maria ad Nives.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, facciata laterale, particolare dell’innesto della navata, a sinistra la parte edificata fino al 1873, a destra quella tra il 1875 e il 1878 sulla sede dell’antica chiesa cinquecentesca (elab. arch. F. Suppressa)

 

 

Un enigmatico S. Cristoforo sulla facciata laterale

Sulla parete destra della chiesa, adiacente la porta laterale, è presente un grande dipinto murale a secco oramai quasi impercepibile, realizzato nella seconda metà dell’Ottocento, dove è rappresentato San Cristoforo con la classica iconografia desunta dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, ovvero con Gesù Bambino sulle spalle che regge il globo crucifero, bastone e piedi immersi nell’acqua nell’atto di guadare un fiume. Forse a causa delle degradazione della pittura, il soggetto fu replicato in ceramica smaltata al di sopra della porta laterale “per devozione di Mastore” negli anni Settanta del Novecento.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto laterale, rappresentazioni di San Cristoforo (ph F. Suppressa)

 

Questo Santo, uno dei quattordici ausiliatori (ovvero “che recano aiuto”), era invocato in passato come protettore dalla “morte improvvisa”, ed infatti vi era la credenza che chi avesse visto la sua immagine quel giorno non sarebbe morto. Per tale motivo, nel medioevo, era rappresentato all’esterno delle chiese e delle porte cittadine in proporzioni colossali, una tradizione molto viva un tempo specie nei paesi del Nord Europa.

Inoltre San Cristoforo era invocato anche dai pellegrini, viandanti e viaggiatori e questa rappresentazione potrebbe essere il segno che Neviano costituisse in passato una località di passaggio per pellegrini, forse diretti al santuario della Madonna di Leuca, luogo di culto che un tempo richiamava fedeli da tutta l’Europa. Un’ipotesi suffragata anche dal fatto che in un documento di “introiti ed esiti” redatto dall’Università di Neviano nel 1730 è riportata la somma di 62.56 ducati per varie “spese straordinarie” tra cui quelle per “elemosine a pellegrini”[18]. Un fenomeno che si riscontra per tutta l’antica Terra d’Otranto, come a Maruggio, Ginosa, Manduria, Montesardo, Parabita, dove erano presenti istituzioni caritatevoli o ospedali al servizio dei pellegrini.

Maruggio, dipinto di S. Cristoforo (da wikipedia)

 

Note

[1] La presente relazione storico-architettonica è tratta dal progetto di restauro approvato dalla Soprintendenza B.A.P. di Lecce il 06/04/2020.

[2] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 53.

[3] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 265.

[4] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 266.

[5] ASDN Visita pastorale di mons. Sanfelice 1719, A/22, f. 108; G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 98.

[6] S.A., Commissione Feudale di Napoli, Bullettino delle sentenze emanate dalla Suprema commissione per le liti fra i già baroni ed i comuni, n. 10, anno 1809, Tipografia Angelo Trani, Napoli 1809, p. 29-37.

[7] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.

[8] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.

[9] ASDN Corrispondenza tra Neviano e la curia vescovile di Nardò, anno 1847.

[10] Nacque ad Acquaviva Collecroce (CB) nel 1805. Trentaduesimo vescovo di Nardò, nominato dal pontefice Pio IX, in carica dal 20 aprile 1849. Morì a Nardò il 10 febbraio 1873, sepolto nella chiesa di S. Maria Incoronata.

[11] Documento riportato in una ricerca dei ragazzi dal titolo “Sulle nostre strade” della 1° classe della Scuola Media dell’Istituto Comprensivo di Neviano, A.S. 2005/2006.

[12] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1278.

[13] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1275.

[14] Gregorio Nardò da Nardò è in realtà un perito agronomo, così come definito nell’Annuario d’Italia (S.A., Annuario d’Italia, Calendario Generale del Regno, 1896, Anno XI, p. 2135). Questi è soprattutto attivo come agrimensore, specie in contenziosi amministrativi sul territorio del comune nativo, come cui vengono commissionati nel 1851 elaborati planimetrici quali la “N. 3. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta La Pila Nuova” “N. 1. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Impestati” , “N. 2. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Tarantina in Monte Cafuori”, (ASLe, Consiglio di Intendenza di Terra d’Otranto, Processi del contenzioso amministrativo, busta 37, fasc. 62.8). Mentre nel 1865 produce “Pianta topografica del fondo via di Neviano o Guardia in agro di Aradeo” (ASLe, Tribunale Civile di Terra d’Otranto, Perizie, busta 93, fasc. 587) per un contenzioso di confinazione.

[15][15] Quintino Tarantino è stato un ingegnere e urbanista nato a Nardò nel 1842, formatosi dapprima come matematico presso l’Università di Napoli (1866). Dal 1877 fu incaricato dall’amministrazione comunale del paese natìo per vari interventi urbanistici di espansioni al di fuori del fossato, ormai colmato e trasformata in asse stradale. L’opera per cui è maggiormente riconosciuto è il teatro comunale di Nardò nell’attuale corso Vittorio Emanuele, il cui progetto fu preferito rispetto a quello dell’ingegnere Gregorio Nardò (che lo aveva previsto nell’attuale piazza Salandra), morì a Nardò nel 1919 (D. G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori, Besa, Nardò 2001, pp. 100-101. Nell’ambito del restauro si segnala il progetto del 1867 dell’intera demolizione della cattedrale di Nardò (B. Vetere, Città e monastero: i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, p. 198), cui seguì la “Risposta al voto emesso dal Consiglio superiore dei LL. PP. sul progetto della nuova Cattedrale di Nardò” edita a Lecce nel 1890 per i tipi “Tip. G. Campanella e figlio”, e i lavori di consolidamento della chiesa dei SS. Medici, fuori il centro urbano di Nardò (F. Suppressa, Un continuo cantiere. Sette secoli di vicende della chiesa di Santa Maria del Ponte in Nardò, in La chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Nardò già di Santa Maria del Ponte, a cura di M. Gaballo, Congedo, Galatina 2018, p. 55-74).

[16] Si confronti i dati in: M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale, Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988. L’andamento cambia radicalmente nel corso della prima metà del Seicento, dove una crisi generale porta ad una diminuzione del 40% della popolazione, dato che nel 1627 i fuochi passano a 25 (125 abitanti), Neviano quindi subisce il più forte decremento tra i centri di Terra d’Otranto (A. Bulgarelli Lukacs, La popolazione del Regno di Napoli nel primo Seicento (1595-1648), in “Popolazione e Storia” n. 1/2009, p. 105). D’altronde la produzione media di cereali passa dai 600 tomoli degli anni 1585-88 ai 328 tomoli nel biennio 1623-24 (M.A. Visceglia, Rendita feudale e agricoltura in Puglia nella età moderna (XVI-XVIII secolo), in “Società e storia”, n. 9, 1980, p. 547). Nei Relevi presentati alla camera della Sommaria tra la fine del Cinquecento e gli anni ’40 del Seicento Neviano fornisce un reddito di 1571 ducati nel 1616 quasi quanto Parabita o Trepuzzi (M. A. Visceglia, L’azienda signorile in Terra d’Otranto, in “Quaderni storici” vol. 15, n. 43 (1), 1980, pp. 39–60).

[17] G. Cosi, Il notaio e la pandetta, Congedo, Galatina 1992, p. 129.

[18] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 266.

Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (II parte)

Cimitero di Nardò, progetto del nuovo cimitero

Le cappelle gentilizie costruite tra fine ‘800 e primi ‘900

 

di Gabriella Buffo

Il cimitero, ideato e costruito come un’ideale città dei morti, cinto dalle nuove mura, si isolava così dalla realtà circostante, anche se dal punto di vista morfologico richiamava paradossalmente l’immagine stessa della città dei vivi con i viali, le piazzette, i palazzi isolati e i blocchi condominiali a cui si aggiungono anche tutte quelle norme, regolamenti e prescrizioni che regolano ogni sistema sociale. E, come avviene nel tessuto urbano, anche qui si presenta la zonizzazione per classi sociali: gli spazi riservati agli infettivi – relegati nella parte più retrostante del camposanto – , ai non cattolici, ai non battezzati, al campo della pietà o cimitero dei poveri, in cui la nuda croce rileva appena il nome, alle cappelle di confraternite, infine gli spazi più rilevanti alle edicole gentilizie.

Cimitero di Nardò – cappella Rizzo particolare della clessidra con le ali spiegate

Infatti, sul finire del XIX secolo e nei primi anni del XX secolo, alla crescita della città borghese corrisponde il proliferare di un’architettura funeraria che, seppure in miniatura, ripropone in scala ridotta le medesime soluzioni formali impiegate nelle architetture urbane.

Le famiglie benestanti, l’intera borghesia, ormai consolidatasi nel potere politico ed economico, vogliono esprimere, anche attraverso la costruzione funeraria, il segno del proprio passaggio su questa terra e, dopo aver fatto costruire il proprio palazzo in città e la villa in campagna e al mare per la villeggiatura, commissionano agli stessi ingegneri la loro edicola funeraria con quello stesso gusto eclettico tanto allora di moda.

Le famiglie, ma anche le congreghe, si affrettano a presentare all’amministrazione comunale le loro richieste di acquisto di suolo (in concessione perpetua) per l’edificazione delle tombe private.

Cimitero di Nardò, progetto cappella gentilizia

Nelle richieste, secondo il Regolamento, devono essere specificati i materiali scelti e allegati i grafici dei progetti (alcuni sono firmati da noti progettisti quali Quintino Tarantino, Gregorio Nardò, Luigi Tarantino, Giuseppe Sambati, Benito Leante).

Cimitero di Nardò, progetto della cappella Tarantino

Come avviene per l’architettura civile e religiosa ottocentesca così anche per quella funeraria la ricerca stilistica utilizza l’antichità per trarre motivi e forme architettoniche semantiche e comunicative, tutti gli stili architettonici costituiscono modelli di riferimento da utilizzare in base alle differenti esigenze di rappresentatività. Ogni civiltà conosciuta, ogni forma di conoscenza, acquisita attraverso gli scavi archeologici e la letteratura dei viaggi, fornisce,quindi, tutti quegli elementi stilistici che, in un certo senso, soppiantano i simboli delle catacombe cristiane, le quali avrebbero dovuto, invece, essere il referente più vicino alla cultura religiosa italiana oltre ad essere quello più raccomandato dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma l’Ottocento, sappiamo, è stato il secolo di affrancamento dal “dominio religioso”, di istanze politiche di laicizzazione e modernizzazione dello stato, secolo anticlericale per eccellenza, più vicino alle correnti di pensiero europee.

Cimitero di Nardò, progetto del tumulo Zuccaro Tommaso

Lungo tutto il perimetro del vecchio cimitero, una accanto all’altra le cappelle delle famiglie più in vista della città neretina ripropongono un vero revival di stili: dal gotico al rinascimento al barocco a forme dell’architettura classica o a quella di civiltà egiziane e mesopotamiche.

Cimitero di Nardò, progetto della cappella per la congrega dell’Immacolata

Alcune sono posizionate come fondali prospettici, quale punto estremo della crux viarum. Infatti, entrando dall’ingresso del vecchio cimitero al termine del viale a sinistra svetta la cappella in stile neogotico, costruita dall’ing. Antonio Tafuri nel 1902. Sopraelevata su un basamento scalinato e fastosamente decorata con archi ogivali e rosoni, è il sepolcro della famiglia Tafuri, baroni di Persano e Melignano, la cui arme è effigiata al di sopra della porta di ingresso. A pianta quadrata si struttura su ordini e termina con un grappolo di pinnacoli. Il secondo piano è alleggerito da ampie bifore con vetrate colorate.

Cimitero di Nardò – sepolcro Tafuri in stile neogotico

Neogotica è anche la cappella del barone Francesco Personè, il cui prospetto, tripartito da pilastri poligonali, è ritmato da ogive traforate e lateralmente da fiaccole rovesciate con ali.

Cimitero di Nardò – cappella Personè -Bianchi

Un tempio greco-romano, con un pronao sorretto da colonne corinzie e sovrastato da timpano, si trova realizzato nella cappella Gioffreda.

Cimitero di Nardò, cappella Gioffreda

Neorinascimentale è invece la cappella del Capitolo della Cattedrale di Nardò.

Cimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale in stile neorinascimentale

Quasi assente, poiché poco apprezzato dalla storiografia di quegli anni, lo stile Barocco, rinvenibile soltanto in una cappella con il frontone curvilineo e il portale con un arco a doppia voluta in chiave.

Altre tombe si ergono assumendo l’aspetto di piccoli mausolei, come la cappella Conte-Filograna,la cui costruzione fu autorizzata dalla Commissione edilizia del Comune di Nardò nel 1929. Altre non sono altro che palazzi in miniatura, come la cappella Bove, in cui la scala, a doppie rampe contrapposte, con balaustra a pilastrini, conduce al piano sopraelevato.

Cimitero di Nardò, cappella Conte-Filograna
Cimitero di Nardò – cappella Bove

A volte si presentano edicole con compresenza di più stili, veri e propri pastiches architettonici eclettici e retorici, in cui la significazione ridondante di indici escatologici si dibatte tra sacro e profano; ne è un esempio la tomba della famiglia Dell’Abate-De Pandi-Zuccaro- Giulio, dove elementi prettamente neogotici – apertura ogivale con arco trilobato – si uniscono ad elementi neoegizi, quali le colonne angolari fasciate a metà circa della loro altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro.

Cimitero di Nardò – cappella Giulio-Zuccaro – particolare colonna angolare fasciata a metà altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro

Lo stile egizio, molto in voga sul finire del XIX, è limitato solo ad alcuni elementi architettonici, probabilmente perché non incontra il gusto della committenza neretina, a differenza degli altri cimiteri del Salento (per esempio a Galatina, dove neoegizia è la cappella delle famiglie Galluccio, Venturi, Candido, Greco, Romano) e di Lecce (tombe di M. Piccinni, Stampacchia, Fumarola), in cui “figure quali la piramide, l’obelisco, la mastaba, che hanno conservato nel tempo i propri caratteri originari senza grossi cambiamenti, assumono il valore di elementi astratti, posti al di sopra della storia: simboli eterni dalle forme semplici e solenni”[22]. Sono i resoconti delle spedizioni e i rilievi eseguiti in Egitto da viaggiatori inglesi settecenteschicome Norden, Pocock o Dalton, quindi divulgati attraverso specifiche pubblicazioni in tutta Europa, che contribuiscono alla diffusione di elementi decorativi e architettonici “all’egiziana”[23].

Cimitero di Galatina, cappella Venturi – 1916 – in stile neoegizio

 

Negli anni del XX secolo, accanto agli ornati e logori stilemi dettati dall’Eclettismo, viene a convivere il linguaggio del Modernismo, un nuovo stile che sintetizza l’essenzialità della forma architettonica attraverso volumi puri, carichi di potere evocativo già nella forma geometrica. Qui le suggestioni della pietas cristiana sono enfatizzate dalla morbidezza delle linee decorative del liberty floreale, a cui si aggiunge la forza evocativa della scultura.

La cappella dei baroni Personè, a pianta quadrata, si presenta come un blocco geometrico puro delicatamente decorato, altamente simbolico, con i quattro angoli della terra e le quattro direzioni cardinali, che rimandano sia alla condizione terrena dell’uomo sia alla eternità. Un nastro, intagliato con serti di foglie e fiori, avvolge l’edifico modellandolo e la stessa funzione svolge la finestra laterale in cui un cordone orizzontale definisce l’immagine di un sole che sta per tramontare.

Fiori e foglie, legati dal lenisco, decorano l’ingresso della cappella simboleggiando la vittoria sulle tenebre e sul peccato.

Come nelle loro dimore civili, anche sul prospetto delle cappelle delle famiglie Personè, Baroni di Ogliastro, Carpignano Salentino, Castro e Pallio [24], si osserva un tentativo di ribadire lo status sociale imprimendo nella pietra lo stemma nobiliare “spaccato di azzurro e di verde e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di Mercurio con il motto et pace et bello”.[25]

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia, particolare con l’uroboro

La simbologia

Nel cimitero di Nardò, come in tutti gli altri del Salento, non è il prezioso marmo la materia prima decorativa delle tombe ma la pietra leccese che diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte, tanto eloquentemente rappresentata dallo scheletro con la falce. È un simbolo, questo, creato dall’uomo, che andrebbe indagato perché lo si colga in tutto il suo significato. La falce è il simbolo della morte che recide la vita, come si recide l’erba o il grano. Essa è il simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini. Se la falce in sé richiama l’idea della falciatura del grano, la morte con la falce rimanda a una suggestione di raccolto, di traguardo di un ciclo naturale che inizia con la semina, continua con la fioritura, poi con la maturazione del frutto destinato ad essere raccolto per finire con la morte del grano ormai secco dal quale si estrae la spiga.

Cimitero di Nardò – cappella della congrega di San GiuseppeCimitero di Nardò – cappella Caputo particolare

Altri elementi caratteristici delle edicole funerarie in oggetto sono poi le tibie incrociate, la clessidra, simbolo del lento scorrere del tempo infinito, le ali aperte a simboleggiare la capacità di sollevarsi dal peso della vita, le fiaccole che indicano la redenzione e la speranza nel buio della morte (sei fiaccole ornano il fastigio della cappella della congregazione dell’Immacolata), le ghirlande di fiori e foglie quali segno incorruttibili di fede e di giustizia, i tralci di vite e l’uva simboli eucaristici che indicano il sacrificio e la redenzione.

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia con portale neosettecentesco con arco a doppia voluta in chiaveCimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale – particolare con attributi sacerdotali inseriti nel fregioCimitero di Nardò – cappella Tarantino, particolare degli acroteri

E ancora gli insetti quali l’ape, simbolo dell’anima, segno di sopravvivenza dopo la morte – nella cappella del barone Personè tre api sono intagliate sulla cornice che separa la parte superiore da quella inferiore del prospetto architettonico ;gli animali delle tenebre come il gufo e la civetta con la loro capacità di vedere nel buio e ancora l’uroboro, il serpente che si morde la coda, metafora espressiva della riproduzione ciclica, simbolo ambivalente che collega la vita alla morte, il pesce il cui termine greco Ichthys è l’acrostico di Iesous Cristos Theou Hyios Soter cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare dell’ape

 

Tra le più scenografiche è la cappella della famiglia Tommaso Zuccaro. Il progetto, firmato dal noto ing. Quintino Tarantino, si avvale di un ricco repertorio simbolico.

Il colore è bandito, resta solo il colore neutro della pietra. Un timido accenno di colore possiamo intravedere nella facciata della cappella Borgia, su cui sono dipinte fasce orizzontali bianche e grige.

Cimitero di Nardeò – cappella Tarantino

 

Il motivo delle fasce bicrome viene mutuato dall’architettura civile, per esempio villa Lezzi a S. Maria al Bagno di Nardò, dove però i colori usati sono quelli caldi del rosso e del giallo ocra più  appropriati ad abitazione di villeggiatura.

Certamente nella realizzazione di queste cappelle gentilizie gli architetti, gli ingegneri e le maestranze del tempo si avvalsero dei vari repertori a stampa che subito dopo l’Unità d’Italia iniziarono a circolare su tutto il territorio nazionale. In special modo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, fiorì una serie di scritti e raccolte iconografiche sull’architettura cimiteriale.

L’Arte Funeraria Italiana, raccolta di tavole fotografiche, pubblicata a Milano, rappresentò per i professionisti del tempo il manuale del pratico operare dal quale attingere nuove soluzioni formali e stilistiche. Preziosa guida nell’ambito della progettazione fu anche il Manuale dell’Architetto, in cui l’autore Daniele Donghi aveva dedicato una consistente sezione all’architettura cimiteriale corredata di fotografie e planimetrie dei maggiori cimiteri italiani e stranieri. È anche pregevole l’opera di G.B. Savio Lapidi e monumentini funerari. Progetti con piante e particolari n.40 tavole, edita a Torino da l’Artista moderno.[26]

Cimitero di Galatina, cappella Greco in stile neoegizio

 

In definitiva il cimitero di una città rappresenta la summa degli stili e degli stilemi che si sono stratificati nell’architettura del centro abitato, ed è perciò che non si può fare a meno, al fine di un’analisi esaustiva del tessuto culturale di un territorio, di tenere nella massima considerazione anche queste propaggini, questi luoghi della contiguità fra fisica e metafisica, e dunque ontologicamente affatto lontani dai non-luoghi augeiani [27], i quali son di solito poco reputati dalle trattazioni storico artistiche. Scrive Anna Belardinelli:  “Mai ho visitato un paese  senza cercare di aggiungere al suo mosaico una tessera particolare: quella del luogo riservato ai morti. Spesso questo si è rivelato il tassello risolutivo per ricomporre in un disegno comprensibile tutto ciò che avevo visto fino ad allora. Sempre trovavo l’incastro giusto con tasselli che sembravano appartenere a scene di tutt’altro genere: del tempo operoso, delle relazioni sociali, dei bisogni elementari, dei desideri, in definitiva della vita. Sempre ho riportato dalla visita a questi luoghi speciali e appartati una ricca messe di informazioni e, nello stesso tempo, un’emozione forte, la sola mistura che può produrre conoscenza, entrarti dentro e modificarti”[28].

Cimitero di Nardò – cappella Caputo – particolare dei capitelli

 

È anche molto interessante la prospettiva di sfruttamento economico di queste ulteriori sorprendenti risorse culturali. Nella città di Milano è statisticamente acclarato che, dopo il Duomo, il Cimitero Monumentale (costruito su progetto presentato nel 1860 dall’architetto Carlo Maciachini)  rappresenta la seconda meta frequentata dai turisti stranieri, con “oltre 10 mila visitatori nel periodo marzo 2003 / giugno 2004”[29] .

I cimiteri salentini, opportunamente restaurati, possono, dunque, a buon diritto essere inseriti nel più ampio circuito degli itinerari culturali che, com’è noto, attirano nel nostro lembo di terra migliaia di turisti affascinati dalle straordinarie ricchezze storico artistiche che questa terra conserva.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.

Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (I parte)

La città dei morti tra storia e memoria del passato.

Un esempio salentino: il cimitero di Nardò.

di Gabriella Buffo

“E’ da un pezzo che la Filosofia ha intimato il bando alle sepolture, e ai cimiteri non solo fuori delle chiese, ma anco fuori delle città, e lungi dall’abitato per la semplice ragione, che i morti non debbono ammorbare i vivi. Se le nostre Chiese sono pavimentate di cadaveri, qual maraviglia il trovarci spesso desolati da tante malattie pestilenziali”[1].

Così scriveva Francesco Milizia, teorico e critico di Oria, nel suo trattato Principi di Architettura Civile (1781), rilevando il grosso problema igienico sanitario legato alla consuetudine di tenere esposti i morti per lungo tempo nelle chiese e seppellirli poi sotto i loro pavimenti o nei cortili degli ospedali e delle confraternite.

Se il diritto funerario romano aveva respinto, per secoli, con la decima legge delle XII Tavole [2] (homine mortum in urbe ne pepelito neve urito) le sepolture fuori dalle mura delle città, per preservare la sanctitas delle abitazioni è “con il Cristianesimo che avviene il passaggio dalla negazione alla familiarità della morte che porterà in epoca medioevale all’inurbamento dei luoghi di sepoltura”[3].

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare fiaccole con ali e globo terrestre

Nei primi secoli dopo Cristo, infatti, si afferma la pratica delle sepolture ad sanctos o martyribus sociatus, affinché fosse più facile il cammino del defunto verso la resurrezione: in Christianis mors non est mors, sed dormitio et somnus appellatur, così afferma S.Girolamo nella XXIX epistola, secondo il quale la morte non può più far paura perché è vista come sonno eterno.

Le chiese accoglievano le sepolture dei nobili in ambienti ipogei posti in prossimità o davanti alle cappelle laterali di patronato di una certa famiglia; il clero, invece, aveva sepoltura in un unico ambiente sotterraneo, posto in prossimità del presbiterio e dell’altare maggiore; i popolani erano ammucchiati uno sopra l’altro senza cassa, avvolti solamente in un sudario, all’interno della navata centrale lungo due o più corridoi sotterranei ovvero in fosse molto larghe.

“Il posto più ricercato, e quindi più costoso, che si pagava generalmente tramite lasciti testamentari per le preghiere, era il coro ovvero vicino al punto in cui si celebra la messa e dove sono conservate le reliquie del santo. La scelta del posto di sepoltura da parte dei testatori restava subordinata comunque all’approvazione del clero. Ed era quasi sempre una questione di denaro”[4].

Nelle chiese conventuali  trovavano sepoltura i frati ivi dimoranti e, in linea di massima, eventuali benefattori mentre, nelle chiese confraternali, erano ubicate le sepolture per i confratelli della congrega di pertinenza. In ogni paese, per sovvenire alle esequie dei poveri, c’era quasi sempre una confraternita della Buona Morte (spesso delle Anime Purganti) che provvedeva ai funerali e a fornire una cassa da usarsi solo per il trasporto (una sola cassa per tutti i beneficiati).

Il processo di separazione tra cimiteri e città inizia ad avviarsi già nel 1765 con un decreto promulgato dalle autorità civili parigine e, immediatamente dopo il 1787, con una disposizione austriaca nel Lombardo Veneto.

I Francesi, durante l’occupazione napoleonica (1809-1814), con la loro visione illuministica, che aspirava a rimodellare le città secondo criteri di ordine, bellezza e igiene, misero al bando la pratica medievale della sepoltura ad sanctos o apud ecclesiam.

L’Editto Napoleonico di Saint Cloud del 12 giugno 1804, nell’occuparsi di molti aspetti di convivenza, entrò nel merito delle sepolture imponendo l’obbligo di seppellire i morti in appositi spazi recintati, fuori dall’abitato, allestiti per cura delle amministrazioni pubbliche, (art. 75, 76 e 77) e introducendo un controllo sulle iscrizioni funerarie, che dovevano essere consone allo spirito della rivoluzione francese e, pertanto, non contenere iscrizioni nobiliari. Le sepolture dovevano essere anonime e la collocazione della lapide era relegata ai margini dei cimiteri. La legge venne estesa all’Italia Meridionale con decreto del 5 settembre 1806.

Questa legge, senz’altro valida secondo il più freddo razionalismo, incontrò forti resistenze, perché lesiva di pratiche religiose profondamente sentite ma che impediva anche – come scriveva Ugo Foscolo nel carme dei Sepolcri (composto nel 1806) – quella “corrispondenza d’amorosi sensi” togliendo all’uomo l’illusione che egli potesse sopravvivere almeno nel ricordo dei suoi cari.

“Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando nel suo povero tetto educò un lauro  con lungo amore, e t’appendea corone”; così polemizza il Foscolo a proposito della disumana normativa sulle iscrizioni funebri che non permise al poeta Parini di essere sepolto con una lapide che ne tramandasse almeno il nome.

Cimitero di Nardò, cappella della confraternita delle anime purganti. Sopra la porta il Chrismon costantiniano formato dalle iniziali greche di Cristo

 

Lo stesso disagio culturale è, nel contempo, accusato da una intera generazione poetica europea a partire dall’anglosassone Thomas Gray con l’opera Elegy written in a country churchyard, a Edward Young nei Night Thoughts alle Meditations among the tombs di James Hervey per passare poi agli intellettuali francesi come Jacques Delille.

Sino al 1814 nei cimiteri è prescritta la costruzione di monumenti sepolcrali; successivamente a questa data nuovi emendamenti regoleranno il rilascio delle autorizzazioni per le sepolture private .

Durante il periodo della restaurazione borbonica nel Regno delle Due Sicilie determinante fu l’emanazione della legge nr. 653 dell’11 marzo 1817, che stabiliva la costruzione in ogni Comune di un camposanto fuori dell’abitato “in modo da servire ad un tempo a garantire la salute pubblica, ad ispirare il religioso rispetto dovuto alle spoglie umane, ed a conservare le memorie onorifiche degli uomini illustri”. La legge dava, inoltre, facoltà ai Decurionati di individuare i fondi di proprietà pubblica o privata idonei a tale destinazione procedendo là dove necessario all’esproprio.

Alla legge seguì il Regolamento di attuazione del 21 marzo 1817 che all’art. 2 prescriveva: “la figura dei campisanti sarà un quadrato, o un parallelogramma, avrà una sola porta d’ingresso, chiusa da un forte rastello di ferro, o di legno, e che la posizione sia scelta in un sito a circa un quarto di miglio lontano dall’abitato, nella direzione dei venti settentrionali in modo da evitare gli effetti sgradevoli dei miasmi”[5].

Purtroppo le disposizioni di legge tardarono ad essere applicate. Forti opposizione sia da parte del clero, timoroso di una diminuzione delle “pie elargizioni dei suffraganti”, sia dei ceti popolari, restii ad abbandonare la prassi della tumulazione apud ecclesiam, faticavano a far nascere i cimiteri extraurbani avallando la comune pratica di tumulare all’interno delle chiese con grave detrimento della salute pubblica anche considerando le ricorrenti epidemie di colera, si pensi alla terribile epidemia di colera asiatico del 1836, che flagellò il Regno. A ciò si aggiungeva  una quale inerzia amministrativa e la penuria di fondi per la costruzione dei camposanti.

Cimitero di Nardò, cappella della congrega di S.Giuseppe

Il cimitero in Terra d’Otranto: il caso di Nardò

Il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840 fu reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840. Con la nota del 25.1.1840 sullo “stato progressivo de’ lavori de’ Campisanti” l’Intendente Marchese Della Cerda comunicava  ai Sindaci la “definitiva chiusura delle tombe nelle chiese dell’abitato” e “sollecitava ancora l’edificazione delle città dei morti” [6].

“Il Comune di Lecce non si fa cogliere impreparato e si attiva giungendo a un risultato concreto con la predisposizione di una serie di documenti fondamentali: il primo e più importante di questi è datato 19 febbraio 1840 e contiene la relazione descrittiva del Progetto de’ lavori che occorrono per la costruzione del Cimitero nel locale di S. Nicola in Lecce con allegato lo Stato Stimativo firmato dal suo estensore nonché progettista delle opere, l’ing. Benedetto Torsello[7]. Il cimitero fu aperto ufficialmente il 1° gennaio 1845  ma il popolo leccese, ancora non convinto della necessità ed utilità di questo impianto extraurbano, nel 1848 manifestò aspramente il proprio dissenso con l’abbattimento delle porte e dei muri del Cimitero e con la dispersione delle croci”[8].

Cimitero di Galatina, cappella Galluccio in stile neoegizio

 

Nel territorio salentino il Comune di Galatina nel marzo del 1886 aveva ultimato i lavori per la realizzazione del cimitero ma, già nel 1894, approvava il progetto di ampliamento, presentato dall’ing. Giuseppe Greco, per la costruzione di nuove cappelle gentilizie nell’area prospiciente l’ingresso[9].

Analoga era la situazione a Gallipoli, dove l’ing. Luigi Pinto aveva già redatto nel 1868 un progetto di ampliamento del preesistente camposanto.

“Non manca di Cimitero il Comune di Nardò che si trova provveduto sin dal 1840 ed è posto in apposita località fuori l’abitato, i cadaveri vi si seppelliscono per inumazione ed anche tumulazione essendo permessa la costruzione di tombe particolari. Manca solo il Regolamento […] e quindi vengono adottati gli antichi del 1817” così scriveva il sottoprefetto di Gallipoli il 16 ottobre 1870 alla Prefettura di Lecce[10], alla quale spettava l’obbligo di vigilare sulla salute pubblica[11].

Al 1847 risale, comunque, un tentativo di spostarlo in altra area della città: una relazione, datata 17 gennaio, presenta all’amministrazione comunale il progetto di un nuovo campo santo “da costruirsi ad uno dei lati del Monastero dei P.P. Cappuccini, distante dalla città un terzo di miglio mentre l’attuale Campo Santo è d’un quarto ed alla medesima direzione di Nord Ovest. [   ] Inoltre li P.P. Cappuccini abbraccerebbero quest’occasione per loro peculiare interesse, cederebbero, forse, gratis, parte del di loro giardino pel Campo Santo”[12].

Ma la scelta del luogo è subito contestata dai neretini, come si legge in una missiva, datata 21 dicembre 1847, di un cittadino portavoce, il quale scrive all’Intendente della Provincia di Terra d’Otranto che “l’unica delizia che offre questa Nardò, si è incontrastabilmente il passeggio sulla via che mena al Convento dei PP. Cappuccini, ed al Capoluogo del Distretto, ove la popolazione si accalca, specialmente nei mesi estivi. Ora cercasi avvelenare questo pubblico ed innocente sollazzo ed collocare colà il Campo Santo e rendere così mesto e luttuoso quel luogo che oggi è ridente ed ameno. Né il pubblico diletto è il solo che debbasi tener presente”.[13]

L’antico impianto architettonico del cimitero neretino era tipologicamente definito da uno spazio geometrico regolare in cui due viali perpendicololari dividevano l’aia cimiteriale in quattro parti .

Planimetria del vecchio cimitero di Nardò

Il muro del recinto interno del camposanto, come disponeva l’art.10 dello stesso Regolamento, fu diviso in sezioni per essere acquistato, “ad un prezzo da determinarsi a favore del Comune, dalle famiglie le quali colà avrebbero potuto erigere monumentini, lapidi con bassorilievi ed epigrafi, cippi commemorativi al fine di conservare le memorie onorifiche dei loro trapassati”[14].

Inizialmente il cimitero era limitato da un “puro e semplice muro di cinta di determinata altezza con apposito ingresso su di un pubblico cammino, con dentro un infelice locale coperto con volta semicilindrica a cui dato il nome di Cappella. Tutto ciò praticato mancava non solo di quella decenza dovuta ad uno stabilimento di simil fatta, ma ancora di un locale per la custodia , e di altro pel provvisorio deposito dei cadaveri fino all’ora della inumazione”, così si legge in una relazione dell’arch. Gregorio Nardò.[15].

Incaricato “d’invigilare alla esecuzione delle regole prescritte sul modo della inumazione”[16] era il custode, di certo già in servizio nell’anno 1842, in quanto in una missiva, datata 8 maggio dello stesso anno, il sindaco di Nardò Gian Vincenzo Dell’Abate chiedeva all’intendente di Terra d’Otranto l’autorizzazione ad anticipare di giorni 15 la somma di denaro dalla Cassa Comunale, quale paga per il custode sig. Giuseppe Gioffreda, il quale si trovava in difficoltà economiche[17].

Pianta del vecchio cimitero di Nardò

Alla costruzione del cimitero seguì presto il progetto, datato 10 aprile 1844 e firmato dall’ing. Benedetto Torsello, dei lavori che occorrevano “per la costruzione della nuova strada che dall’abitato di Nardò mena al Campo Santo, uscendo dalla nuova porta sul filo detto Boccaporto”[18].

Cimitero di Nardò. Prospetto dell’antico cimitero

Il 2 maggio 1844 l’Intendente approvò l’esecuzione dei lavori per la realizzazione della strada per la spesa preventiva di 260 ducati cioè ducati 70 di lavori a farsi e ducati 182 di compenso ai proprietari e di ducati 8 per competenze dovute allo stesso ingegnere.

Nella relazione di verifica, datata 8 aprile 1848, l’ing. delle Acque e Strade Vincenzo Fergola accertò che “l’inumazione nel Pio Stabilimento fu incominciata in febbraio 1840 e che fin ad allora vi erano n. 2834 cadaveri e che vi rimaneva ancora un’aia capace a potervi continuare l’inumazione fino a tutto luglio prossimo”[19].

Progetto del nuovo cimitero di Nardò

 

Ma già in una relazione dell’Ufficiale Sanitario Comunale del 13 marzo 1911 si evidenziava che il cimitero era insufficiente ai bisogni del paese e che necessitava di un ampliamento e anche di un nuovo fabbricato con l’alloggio del custode, la cisterna e i locali richiesti dai Regolamenti, nonché di una nuova cappella per le funzioni religiose. La nuova cappella “in cui i fedeli nel giorno della commemorazione dei morti potranno recitare gli uffizi di pietà”, fu costruita al centro del muro opposto all’ingresso “di croce greca come quella che occupando lieve spazio meglio di qualunque altra figura […] nell’esterno saravvi un prospetto di stile greco”[20].

Il 9 gennaio 1915 l’ing. Gaetano Bernardini di Monteroni presentò il progetto di ampliamento del vecchio cimitero “che così ampliato e fornito di tali opere verrebbe a sostituire in parte l’antico, il quale resterebbe destinato in gran parte a tombe gentilizie ed in parte ad inumazione ordinaria”[21].

La zona di ampliamento fu individuata a lato dell’antico muro di cinta a ovest, interessando i fondi del cav. Giovanni Colosso e Benedetto Trotta. Essa confinava a nord con la via nuova detta Carignano, a est con l’antico cimitero, a sud con la proprietà Colosso e a ovest con la via vecchia vicinale Scapiciara. L’intera zona espropriata copriva una superficie totale di metri quadri 11537,98.

Il progetto di Bernardini, già approvato dalle Autorità Superiori il 6 luglio 1915, fu successivamente modificato dall’Ing. Luigi Tarantino.

Il 4 giugno 1916 fu contratto un mutuo di £. 30.000 con la cassa dei Depositi e Prestiti di Roma per l’esecuzione di nuovi lavori nel Cimitero.

Il Comune di Nardò, con delibera del 23 febbraio 1923, affidava i lavori di costruzione delle fondazioni dei muri di cinta del cimitero alla cooperativa dei muratori fascisti, il cui presidente era Vaglio Ermenegildo, anche al fine di contrastare la disoccupazione, che in quel periodo affliggeva gli operai del posto.

 (continua)


[1] F. MILIZIA, Principj di architettura civile, Milano 1847, 289-290.

[2] Le leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges) è un corpo di leggi compilato nel 451-450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico. Rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano, se si considerano le più antiche mores e lex regia. Sotto l’aspetto della storia del diritto romano, le Tavole costituiscono l’unica redazione scritta di leggi dell’età repubblicana.

[3] L. BERTOLACCINI, Diritto d’asilo e sepolture nelle città medievali, in “I servizi funerari”, n. 4 , Rimini, ottobre-dicembre 2000.

[4] Ibidem

[5] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III,  428-429.

[6] A.S.L, Intendenza di Terra d’Otranto, affari generali, busta 35 fascicolo 718.

[7] G. CATALDO, Il ‘Campo Santo’ di Lecce, ……, pag. 153.

[8] V. MATRANGOLA, Il giardino degli addii, Lecce 2005.

[9] Delibera del Consiglio comunale del 5.12.1893. A.S.L., Prefettura, serie II versamento III busta 24 fasc.307. Sul Cimitero di Galatina cfr. Percorso extraurbano alla riscoperta dei più bei monumenti funebri in “Galatina da scoprire… con la guida degli alunni del Liceo Scientifico Statale “A. Vallone” di Galatina,” Galatina 2004, pp. 11-25.

[10] A.S.L., Prefettura, II serie I versamento fascicolo 44 – 45 busta 37.

[11] La prima legge sanitaria del Regno d’Italia è contenuta nel Regolamento per l’esecuzione della Legge sulla sanità pubblica presentato dal Governo Lanza e approvato con Regio Decreto n. 2322 dell’8 giugno 1865, il quale fissava le responsabilità dei Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci in merito ai problemi riguardanti la sanità pubblica .

[12] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[13] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[14] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III, pp. 428-429.

[15] Archivio Storico Comune di Nardò (ASCN), Progetto per la nuova Cappella ed Ingresso al Camposanto di Nardò.

[16] Art. 11 della Legge 11/03/1817, in P. Petitti, Repertorio…., op. cit, p. 430.

[17] A.S.L., Prefettura II serie I versamento fascicolo 44 busta 35.

[18] A.S.C.N.

[19] A.S.L., Prefettura II serie I versamento busta 37.

[20] A.S.C.N., Progetto per la nuova Cappella ed ingresso al Camposanto di Nardò.

[21] A.S.C.N.

[22] A. MANTOVANO, Il Cimitero Monumentale di Lecce, in V. Cazzato – S. Politano, Architettura e Città a Lecce. Edilizia privata e nuovi borghi fra Otto e Novecento, Galatina 1997, 32.

[23] L. BERTOLACCINI, Sepolture individuali e tombe di famiglia. Immagini e simboli della morte, in “I servizi funerari”, n.1, Rimini, gennaio-marzo 2001

[24] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò 1996.

[25] Ibidem

[26] O. GHIRINGHELLI, I repertori a stampa fra Ottocento e Novecento, in L’architettura della memoria in Italia,  253.

[27] M. AUGE’, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità,  Milano, 2005.

[28] A. BELARDINELLI, Lo specchio non effimero, in L’architettura del cimitero tra memoria e invenzione, Perugia 2005, 75.

[29] COMUNE di MILANO, Monumentale Museo a cielo aperto – le migliori 100 foto del concorso, Milano 2004.

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Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

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