Ecco le terrecotte salentine

di Marcello Gaballo e Armando Polito

È tempo di passare agli oggetti più comuni messi in vendita ricordando che parecchi di loro sono riusciti a sopravvivere per l’indubbio pregio artistico (così da diventare oggetto d’arredamento, tanto più ricercato quanto più antico) ma anche per una reinvenzione del loro utilizzo e, in qualche caso, della loro forma, soprattutto nei dettagli decorativi.

 

CÀNTARU


Antenato del water (nella foto a sinistra due modelli “d’epoca” in quella a destra uno molto raffinato, di fattura moderna), fino agli anni cinquanta è stato il sanitario principale, se non unico, della stragrande maggioranza dei servizi igienici familiari ed etimologicamente appartiene a quella serie di vocaboli che son passati dalle stelle alle stalle, se si pensa che esso è dal latino càntharu(m), vaso da bere a larga apertura e larghe anse a forma d’orecchie, superanti, talora, l’orlo, a sua volta dal greco kàntharos.

 

CAPÁSA, CAPASÓNE e CAPASIÉDDHU


Vedi il post Capasòne è il capofamiglia, capàsa la mamma, capasièddhu il figlio su questo sito.

 

CÒFANU


Se il càntaru è l’antenato del water, il còfanu (usato anche nel senso metonimico di bucato nel nesso fare lu còfanu) lo può essere della lavatrice, almeno per quanto riguarda l’aspetto strettamente igienico del risultato finale e non certo l’impegno fisico che era notevole, tanto da coinvolgere l’intera famiglia che periodicamente era impegnata in un’attività quasi rituale, scandita da gesti attenti e rigorosi che durava almeno due giorni, sicché la foto a destra dell’archivio Alinari, a differenza della prima, del 1920 ne restituisce un’idea oleograficamente edulcorata. La voce è dal latino medioevale còphanu(m)5, dal classico còphinu(m)=cesta, dal greco kòfinos=cesta6.

E, dopo avere sistemato la questione etimologica, accenniamo rapidamente alle sequenze del “rito”: posto il còfanu su uno sgabello, se ne otturava il foro di scolo, si provvedeva a sistemare i panni da lavare avendo l’accortezza di mettere nello strato più basso quelli colorati, si copriva tutto con un panno bianco di tessuto rustico (lu cinniratùru7) avente la funzione di filtro, dal momento che su di esso si poneva uno strato di cenere8 (da qui il nome del panno) setacciata mista, talora, a gusci di uova; a questo punto si versava  l’acqua bollente riscaldata nel quatarottu (in italiano calderotto), una pentola di rame preventivamente messa sul fuoco. L’operazione di versamento e di scolatura dell’acqua bollente era ripetuta fino a quando dal foro posto in basso al cofanu non fuoriusciva pulita;  essa era raccolta nel limbu. Le ultime acque reflue, la lissìa9, erano riutilizzate per lavare gli abiti più scuri e, solo dalle donne, in acconcia diluizione, i capelli.

 

FURÒNE


Vedi il post Il furòne, ovvero quando un deposito di risparmio non costava nulla u questo sito.

 

LIMBA


Per il Rohlfs la voce è dal greco moderno limpa. L’appartenenza, però, dell’oggetto ad una categoria che annovera nella sua schiera altri dal nome molto antico ci fa sospettare che a questo non si sottragga limba.

E ci vengono in mente  alcune forme epigrafiche leggibili su alcune anfore pompeiane (LYMPAE10, LUMPAE11) e fuori d’Italia (LUMPHAE12 , LYMPHAE13, LYMFAE14). Al di là del probabile contenuto delle anfore resta il fatto che la dicitura si riferiva, comunque, a qualcosa di liquido o in cui la componente acqua15 non doveva essere irrilevante (laddove, nell’iscrizione, il nostro nome si accompagna all’aggettivo vetus=vecchio di certo l’anfora non conteneva acqua pura invecchiata, per cui limpha va interpretato come estratto, succo, con probabile riferimento o al vino o all’olio o al garum). Non ci sembra azzardato supporre, perciò, che questo nome possa essere passato a significare  per metonimia (dal contenuto al contenente) la nostra limba rispetto alla quale presenta, oltretutto, assoluta coerenza fonologica. Purtroppo, l’impossibilità di stabilire se la variante limma (usata in alcune zone del Leccese, del Tarantino e del Brindisino) deve –mm– ad assimilazione da –mb– (in tal caso sarebbe figlia di limba) oppure se, con assimilazione –mn->-mm–  deriva dal greco lìmne=stagno, lago, non escluderebbe, teoricamente, che proprio da quest’ultimo possa derivare pure il nostro limba per successiva dissimilazione –mm->-mb-; tuttavia, c’è da dire che si tratta di una probabilità piuttosto remota, dal momento che di regola il nesso –mm– di alcune varianti nasce sempre per assimilazione di –mb– (palummàru<palumbàru, palùmbu(m); mmile<mbile<(bo)mbýlion, etc, etc.).

 

LIMBU


Ha la stessa etimologia di limba, ma con cambio di genere in funzione di differenziazione dimensionale (in fondo il limbu è come una limba dalle pareti più alte). E come non ricordare la figura dello  cconzalìmbure16, artigiano ambulante  come il seggiàru (riparatore di sedie), lo mmulafuèrbici (arrotino) e l’umbrillàru (riparatore di ombrelli), che rimetteva in sesto i recipienti di terracotta17?

 

MBILE


Vedi il post Quella bizzarra terracotta dal collo stretto… su questo sito.

 

OZZA


Etimologia incerta, come quella delle voci corrispondenti italiane boccia e bozza, forse da un latino *bòccia(m) o bòttia(m), parenti, forse, del latino tardo butte(m), da cui botte.

 

PIGNÀTA


La voce, come la corrispondente italiana pignatta, è forse da un latino pineàta(m)=a forma di pigna. Curioso, poi, l’uso del maschile per indicare il tipo di cottura: purpu a pignàtu (polpo cotto nella pignatta); probabilmente è un ricalco su stufàtu (in italiano stufato) da stufàre, a sua volta da stufa, senza, però il passaggio intermedio pignatàre.

 

RINÀLE


Come il corrispondente italiano orinale è da orina, dal latino urìna(m), a sua volta dal greco uron; la voce dialettale, in più, presenta la deglutinazione della u di urina intesa come componente dell’articolo (l’urinale>lu rinàle).

 

UCÀLA

Ha la stessa etimologia del successivo ucàlu, ma con cambio di genere in funzione di differenziazione dimensionale, come abbiamo visto essere avvenuto in limba/limbu.

 

UCÀLU

Dal latino tardo baucàle(m)=vaso di terracotta per tenere fresco il vino, a sua volta dal greco baukàlion; l’italiano boccale deve –cc– ad incrocio con bocca.

 

URSÙLU


Come il corrispondente italiano orciolo dal latino urcèolu(m), diminutivo di ùrceus, che è dal greco urche= giara.

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1 La stessa trasposizione concettuale tra testa, cranio  e recipiente, ma in senso inverso, è avvenuto nel latino testa, da cui, poi, l’italiano testa e l’obsoleto testo=vaso o oggetto di terracotta (tièstu nel dialetto neretino ad indicare un tegame). Derivati poi da kottìs/kotìs sono kotuledòn=cavità in cui si inserisce il femore, ventosa  sul tentacolo del polpo, lobi della superficie della placenta, coppa (da esso l’italiano cotiledone voce botanica e anatomica) e kòttabos= gioco augurale che si svolgeva durante i simposi, consistente nel lanciare il vino rimasto in una coppa contro un bersaglio.

2 Còtile in italiano è anche termine anatomico sinonimo di acetabolo (cioè la cavità dell’osso iliaco in cui ruota la testa del femore; e l’immagine del contenitore continua, dal momento che pure acetabolo è dal latino acetàbulum=vasetto per l’aceto); lo spostamento d’accento rispetto al greco è assolutamente normale perché la voce italiana deriva dalla trascrizione  latina còtula (o còtyla o còtila) in cui l’accento sulla terzultima sillaba è indotta dalla quantità breve dell’originario ipsilon greco.

3 Continuante in latino con –mus/-ma/-mum; per esempio almus/a/um=che dà vita, dalla radice al– del verbo àlere=nutrire+il nostro suffisso.

4 Per esempio: ètumon=etimo è dalla radice eteo– di eteòs=vero+il nostro suffisso.

5 Da cui l’italiano cofano nei suoi molteplici significati per i quali si rinvia ai comuni vocabolari.

6 L’italiano cuffia vien fatta derivare dal latino tardo cùfia(m) considerato di probabile origine germanica e coffa dallo spagnolo cofa, a sua volta dall’arabo kuffa=cesta. Crediamo, però, per motivi semantici e fonetici che il padre di tutti sia da ravvisarsi nell’aggettivo greco kufos (da cui con l’aggiunta del suffisso è nato kòfinos) che significa leggero, vuoto, ma che al neutro sostantivato significa vaso, boccale: è il frutto della contrapposizione concettuale tra il contenuto, generalmente più pesante, e il recipiente che lo contiene più leggero (che senso avrebbe, infatti, trasportare acqua o vino in un contenitore di piombo?). L’aggettivo kufos, poi, continua nel dialettale kufu (a Lecce, a Nardò cùfiu) che designa il frutto che non ha avuto la possibilità di svilupparsi e, per traslato, il maschio infertile. Alla stessa radice ci paiono infine ricollegabili l’italiano coppa [dal latino cuppa(m), dal classico cupa] e il suo diminutivo coppino (voce settentrionale indicante la nuca) nonché il neretino cuppìnu designante il mestolo.

7 Da cènnire [come l’italiano cenere dal latino cìnere(m), con geminazione di n, forse di natura espressiva, come in scènnuma=mio genero, in cui, tuttavia, il raddoppiamento di n potrebbe essere dovuto pure alla seguente trafila (escludiamo l’enclitico possessivo –ma): gèneru(m)>genru(m) (sincope di –e-)>gennu (assimilazione –nr->-nn-)>scennu]+l’abituale suffisso indicante strumento, come in stricatùru=asse scanalato di legno su cui si strofinavano i panni per lavarli, ‘mbucciatùru=coperchio, tappo, etc, etc.

8 Quella che, ricavata dalla combustione della legna nel camino per cucinare o per riscaldarsi, era stata messa per tempo da parte.

9 Stessa etimologia dell’taliano lisciva o liscivia: dal latino lixìva(m), sottinteso cìnere(m)= (cenere) trattata con acqua bollente, con sincope di –v– e conservazione dell’accento originario, cosa non avvenuta nello stesso latino classico nella variante lìxia (attestata da Columella) dove la i, divenuta breve per posizione, ha dato vita ad una parola sdrucciola.

10 CIL, IV, 5611, 5612, 5613, 5616 e 5617.

11 CIL, IV, 5605, 5627 e 5628.

12 CIL, IX, 466

13 CIL, III, 6373; X, 6791.

14 CIL, V, 5648.

15 In latino lympha o lympha, nonché lumpa del “salentino” Pacuvio (II° secolo a. C.), hanno tutti  come significato fondamentale quello di acqua, in particolare di fonte o di fiume.

16 Parola composta da cconza (terza persona singolare del presente indicativo di ccunzàre, come l’italiano acconciare da un latino *adcomptiàre, composto dalla preposizione ad e da una forma verbale iterativa del classico  comptus, participio passato di còmere=unire, acconciare, composto da cum=insieme e èmere=comprare; il concetto originario di  unione tra proprietario e proprietà è poi passato a quello generico di cose messe insieme) e lìmbure, plurale collettivo  di limbu, che qui assume un significato estensivo ad indicare qualsiasi recipiente di terracotta.

17 La sua attrezzatura era costituita da un trapano (naturalmente, a mano) con il quale praticava nei pezzi da unire dei forellini attraverso cui faceva passare un sottile fil di ferro che poi stringeva con la tenaglia (pizzicalòra); alla fine le linee di sutura venivano cicatrizzate con stucco bianco in polvere opportunamente miscelato con acqua. Quest’artigiano trova la sua celebrazione artistica più famosa nel pirandelliano zi’ Dima de La giara, ma suggestivo è anche il racconto autobiografico contemporaneo di Francesco Aulizio leggibile all’indirizzo http://www.nelracconto.it/pdf/33_3.pdf

 

Lu furone, ovvero quando un deposito di risparmio non costava nulla.

di Armando Polito

Periodicamente, come tutti, ricevo il rendiconto del mio conto corrente e, una volta fatto il controllo sui prelievi e sui depositi (per i primi non si sa mai…), l’ultimo sguardo è rivolto al tasso di interesse attivo (quello passivo non mi interessa, perché da sempre sono abituato a fare il passo più corto della gamba). Spero di leggere O, Ō ma so già che non avverrà mai. Esasperato, infatti, dalla presenza di cifre come O, O12… che tre mesi dopo erano diventate O, OO1 e dopo altri tre mesi O, OOO1…, mi son recato in banca per chiedere che l’irreversibile processo venisse abbreviato e si passasse direttamente a O, Ō. La risposta dell’impiegato ha squarciato il velo della mia ignoranza e ingenuità perché ora so che mai potrò aspirare allo O, Ō perché in tal caso non ci sarebbero ritenute e banche e stato (lo scrivo volontariamente con l’iniziale minuscola…) non potrebbero sfruttare quella che potremmo definire come legge dei grandi numeri se essa non fosse stata già teorizzata da Bernoulli; la nostra potrebbe essere così riassunta: anche un solo centesimo di euro moltiplicato per 100 milioni (di clienti) dà un miliardo (di euro). Mi rendo perfettamente conto che non vivo in un’isola deserta e che proprio per questo i bisogni e i relativi costi sono direttamente proporzionali al numero di persone o istituzioni con cui debbo inevitabilmente rapportarmi. Sono così vittima senza scampo di un ingranaggio i cui movimenti, nonostante populistiche dichiarazioni anche a livello governativo, restano poco, anzi, niente affatto trasparenti. Conclusione: con un tasso simile un conto corrente in cui stazionino stabilmente cinquantamila euro non riesce con gli interessi a coprire le spese di gestione, mentre la banca può disporre a suo piacimento di quella somma  e, in caso di bilancio non soddisfacente, licenziare il suo manager non con un calcio in culo e con la richiesta di risarcimento del danno ma con una buonuscita degna di un faraone1. Solo nei film c’è la possibilità di un ritorno al passato che nel nostro caso sarebbe rappresentato dal classico materasso o dal mattone (inteso come nascondiglio e non come investimento) per le grosse somme e dal salvadanaio (per gli spiccioli).

Intendo qui parlare proprio di quest’ultimo, con riferimento alle forme dialettali salentine più correnti e annegare, così, la rabbia della prima parte nella nostalgia e nella filologia. Nel dialetto neretino il furone è un contenitore di creta che all’origine aveva una forma grosso modo simile ad una pigna (le dimensioni potevano variare) e nella parte superiore una fessura orizzontale attraverso la quale venivano inserite le monete.

Col tempo l’oggetto ha assunto forme diverse (quello del porcellino, della paperella, della botte, etc. etc.; l’ultimo raffigurato, addirittura dà pure un riscontro sonoro ad ogni moneta inserita…) e, a conferma del suo ormai prevalente carattere di oggetto di arredamento, nel fondo è comparsa anche un’apertura coperta da un tappo di plastica che ne consente lo svuotamento senza romperlo. Può sembrare paradossale in un’epoca dell’usa e getta, ma ancor più paradossale, secondo me, è il fatto che quel tappo ha conservato il furone ma distrutto il momento quasi magico della sua rottura, momento rituale che coronava un periodo più o meno lungo di affettuoso uso dell’oggetto e che liberava e da quei cocci faceva librare la realizzazione di un sogno pazientemente cullato… senza tener conto dei risvolti educativi del contatto diretto e non, come oggi, virtuale col risparmio.

Dopo avere ammazzato la rabbia con la nostalgia tenterò di ammazzare ora quest’ultima con la filologia. Al lemma furone nel vocabolario del Rohlfs leggo: “latino furo,-onis=ladro?”. Il punto interrogativo la dice lunga sulla perplessità che questo etimo a suo tempo suscitò nell’illustre studioso che lo aveva ipotizzato. La mia nasce da queste considerazioni: è vero che nel latino (medioevale, anche se il Rohlfs non lo specifica) furo/furònis (al posto del classico fur/furis) significa ladro e che dunque furòne potrebbe derivare dall’accusativo furònem; ma, se sul piano strettamente fonetico tutto va alla perfezione, su quello semantico non si capisce come si possa conciliare l’idea del risparmio e della sua custodia con quella del furto.

Per tentare di dipanare la matassa ricorrerò allo studio dei sinonimi (dando così, fra l’altro, un quadro più o meno completo delle denominazioni che l’oggetto in questione assume) e delle varianti (reali o presunte, come vedremo) di furòne. Raggrupperò i dati in tre sezioni.

La prima che mi accingo ad esplorare  (rapidamente, perché, in fondo, è irrilevante ai fini del punto focale dell’indagine) comprende i sinonimi, che sono: carùse (Ostuni), e carusièddhu (Casarano) (per la somiglianza con una testa tosata; in napoletano caruso significa capo tosato di fresco e nel dialetto neretino, per traslato, giovane); cippu (Casarano, Lecce, Martano, Novoli, Ruffano, Squinzano) (qui la somiglianza col cippo/ceppo è più vaga), cucùddhu (Alessano) [dal latino cucùllu(m)=cappuccio]; puddhu (Carpignano, Castrignano dei Greci, Cursi, Gagliano, Lecce, Maglie, Montesano, Patù, Spongano, Specchia, Vitigliano) e pùggiu (Tricase) [dal latino pullu(m)=giovane animale, bambino, per la somiglianza con la testa di un bambino]. È evidente che tutte queste voci da un punto di vista fonetico non hanno nulla a che vedere con furòne.

Questa seconda sezione comprende quelle che sicuramente sono varianti di furòne. Questa voce oltre che a Nardò è usata pure ad Aradeo, Alezio, Collepasso, Galatone, Gallipoli, Martano, Seclì, Latiano, Mesagne, San Vito dei Normanni, Pulsano. Furòni è usato a Carovigno, Erchie, Manduria e Sava), firòni a Brindisi, Francavilla Fontana e Oria, firòne ancora a Galatone e a Grottaglie, feròne a Carosino, Ceglie Messapico e Ostuni, frone a Martina Franca e a Massafra, furùne a Parabita e Ugento, fiuròne a Casarano e Melissano.

La terza ed ultima sezione registra questi dati: trùfulu a Seclì (la stessa voce indica una specie di fiasco di creta ad Alessano, Casarano, Corigliano, Castro, Gallipoli, Muro Leccese, Parabita, Salve, Tricase, Ugento; un uomo basso e tozzo a Mesagne), trifùddhi (per il Rohlfs probabile diminutivo del precedente) a Soleto, Zollino, Aradeo, Cutrofiano, Galatina e Sogliano.  Trùfulu appare connesso con il siciliano cutrùfu=caraffa, il napoletano cutrùfo=specie di bottiglia, l’antico provenzale cotòfle=bottiglia, nonché col neretino cutrùbbu=oliera (in basso disegno tratto da Ninina Cuomo Di Caprio, Ceramica rustica tradizionale in Puglia, Congedo editore, 1982, pag. 221)

e, per traslato, spalle, da cui anche scutrubbàtu=con le spalle piegate. Tutti questi ultimi potrebbero essere dal latino tardo chýtropus/chytròpodis=scodellino con manico usato come crogiolo, che è dal grecχυτρόπους/χυτρόποδος (leggi chiutròpus/chiutròpodos)=pentola con i piedi, composto da χύτρα (leggi chiutra)=pentola+πούς/ποδός (leggi pus/podòs)=piede. Trùfulu potrebbe perciò essere deformazione del diminutivo con aferesi di cutrùfu (cutrùfulu>trùfulu) del nominativo chýtropus inteso come appartenente alla seconda declinazione e non alla terza; lo spostamento dell’accento potrebbe trovare giustificazione nel fatto che sarebbe nato prima cutrùbbu (da un intermedio *chytròppus) e da questo cutrùfu.

Furone potrebbe costituire l’ultimo passaggio di questo tartassato lemma, nel senso che potrebbe essere accrescitivo, con aferesi,  di trùfulu (trufulòne>fulòne>furòne). Meno probabile che il fiuròne della seconda sezione sia collegato con i pumi de’ fiùri, i boccioli di fiori stilizzati, originariamente in creta, poi anche in metallo, che ancora oggi adornano a Grottaglie le estremità di ringhiere di finestre, terrazzini e balconi, e che, quindi furòne sia deformazione di fiuròne (grosso fiore).

E la rabbia, con la probabile sconfitta della filologia, ritorna a celebrare il suo trionfo dopo che era stata momentaneamente placata dalla nostalgia. Grr!!!

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1 Qualcuno in tv ha asserito che gli alti emolumenti servono a distogliere il manager nostrano dalla lusinga delle eventuali offerte straniere. Io credo che di fronte ai risultati che sono sotto gli occhi di tutti all’estero siffatto manager nella migliore delle ipotesi rimedierebbe l’ergastolo, nella peggiore si troverebbe appeso a testa in giù…Solo in Italia gli incapaci o i disonesti sono tenuti in alta considerazione, in ogni campo, meno in quello reale dove, probabilmente, non sarebbero in grado neppure di maneggiare una zappa.

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