Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana

Rachele Andrioli pluripremiata alla diciannovesima edizione del Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana

 

di Giuseppe Corvaglia

L’anno scorso è stata premiata Alessia Tondo, nel 2018 il Canzoniere Grecanico Salentino, di cui Alessia Tondo era la voce, e quest’anno Rachele Andrioli ha ricevuto ben due premi a questo Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana: quello come migliore artista giovane e quello come miglior disco.

Rachele Andrioli premiata  dal Sindaco, dall’Assessore e da Jacopo Tomatis

 

 

Giovane lo è ma esprime tanto di quel sapere antico e tanto estro musicale che produce una musica nuova, particolare, molto gradevole e viene da chiedersi se questa sia musica popolare, musica contemporanea o musica elettronica. C’è poco da discutere: è musica, anzi a me sembra buona musica.

La musica, come la vita deve evolversi, questo vale per la musica tradizionale e per la musica moderna e contemporanea, che inevitabilmente si evolverà. La musica tradizionale poi deve comunicare emozioni e sentire comune con la consapevolezza di quella che è la cultura del passato, ma deve pure fare uno sforzo a interpretare in maniera originale il presente, certo sempre nel rispetto della tradizione.

Già nel 2018 al festival si parlava di “Rigenerazione” perché la musica deve rigenerarsi. Poi c’è la riproposta filologica o, comunque, più tradizionale “classica”, ma il percorso deve essere quello di un progredire.

Questa di Rachele Andrioli è musica nuova che usa la tecnologia, inflessioni, suggestioni nuove, ma con una voce salentina popolare con i suoi fraseggi, i suoi timbri, il suo vigore, la sua dolcezza… e poi il tamburo a cornice che, quando attacca col suo ritmo, ti cattura.

 

Nel pomeriggio del 27 luglio il Premio ha incontrato l’artista ai Giardini del Principe; l’ha intervistata il giornalista Sergio Albertoni e Rachele con grande semplicità si è fatta conoscere come donna, come cantante e come musicista, anche se questi due aspetti poi ce li ha disvelati compiutamente la sera sul palco.

 

Il CD “Leuca” è un bel disco. Rachele si racconta. Non racconta solo la sua storia, ma anche altre storie e, forse inconsapevolmente, un po’ racconta la storia.

Incontro col pubblico, intervista pomeridiana

 

Mi riferisco ad Amareggiata dove la tristezza e la disperazione si fondono in un termine che rievoca la partenza e il distacco, la furia del mare la disperazione legata a un esile filo di speranza per il futuro e la dipartita.

In quella canzone si parla di emigrazione, di paura, di voli più arditi e rischiosi di quello di Icaro ed infine di morti per annegamento. E questa è storia di oggi. Come storia di oggi, quella della convivenza e della multiculturalità che ormai è un dato di realtà, come racconta la canzone “Tutt’eguale song’ e criature” presa da Enzo Avitabile …

In queste storie la cantante, spesso, racconta il suo vivere in una terra vista da sempre come terra di frontiera, “Finibus terrae” e racconta anche la sua storia, la storia di una bambina che voleva andare a giocare sotto un grande noce e non poteva raggiungerlo perché l’albero stava in un giardino segreto, inaccessibile a lei (Dove cresce il noce è nata la mia voce). Allora decide di comunicare con lui cantando dalla finestra e canta le canzoni che la circondano, quelle che sente dalla zia, dai vicini di casa, da chi le sta intorno.

Da allora quella bambina è cresciuta, ma continua a comunicare col mondo cantando.

Come dice lei, quando ha preso consapevolezza di questo suo dono, che fosse per gioco o che fosse per comunicare qualcosa, ha assorbito melodie, parole, tecniche e modi di porgerle e le offre agli altri.

 

Il giornalista insisteva nel voler sapere chi fosse stato o fossero stati gli alberi del canto all’ombra dei quali lei fosse cresciuta e Rachele non comprendeva a cosa si riferisse. Lui pensava a Officine Zoè, Cesare Dell’Anna o a Uccio Aloisi, ma, per quanto quando la cantante interagiva con loro fosse giovanissima, lei ha vissuto questi personaggi importanti della musica popolare salentina come compagni di viaggio generosi più che come “maestri” perché lei si sentiva come un’ape laboriosa che suggeva nettare da tutti i fiori, da tutte le piante di quel giardino che era il mondo popolare salentino, che fossero Uccio Aloisi o la zia, Zimba o i vicini di casa attempati che cantavano per diporto o per sfogarsi, per stare insieme a divagarsi o per esprimere il proprio stato d’animo: non c’era solo un albero  del canto, ma un giardino segreto del canto e in questo giardino ogni fiore, ogni albero, forniva quel nettare che produceva miele, che è quella musica, e consentiva e consente quell’impollinazione che genera vita, piacere, godimento al giardino stesso fatto di compagni di viaggio illustri, ma anche di vicini di casa, compagni di gioco, zie accoglienti, amici…

Certo affettuosa riconoscenza per tutti e consapevolezza di quanto ha ricevuto che la porta, per esempio a fare un omaggio a Rina Durante proponendo in maniera originale una canzone, “Luna Otrantina”, musicata da Daniele Durante e proposta dal Canzoniere Grecanico Salentino.

Rachele Andrioli in concerto

 

Mi è piaciuta la parentesi sulle ninne nanne. Nel disco ce ne propone una bellissima e struggente, “Te spettu”, che parla della partenza dell’amato, del distacco, dell’attesa, ma nell’incontro pomeridiano ce ne propone una molto bella e a una domanda del pubblico che chiedeva cosa significassero i primi versi “Nanu, nanu, nanu” o “Nellu, nellu, nellu”, spiega che quei versi non hanno un significato proprio, ma servono da introduzione che consentirà di legare con una rima la strofa che è il nucleo del brevissimo racconto.

Per esempio, dico io, di un bimbo bellissimo agli occhi della madre

e nazzu, nazzu, nazzu

Tantu beddhru ce ne lu fazzu

Mo venine le Fate

Ne lu portane an Palazzu

(Cosa ne farò di questo bimbo bellissimo che per essere tale sarà rapito dalle Fate) dove non è la paura del rapimento che si esprime, ma il compiacimento per la bellezza di quella creatura.

Oppure la narrazione di una storia d’amore infelice

E none, none, none

No’ mannare ca no te ole,

l’aggiu mannatu ieu

e aggiu perse le parole

(Non dichiarare il tuo amore che è tempo perso. Io l’ho fatto e sono state parole sprecate) intendendo che quella donna ha un cuore duro.

Il fatto è che la ninna nanna è “terra franca” serve a far addormentare il bambino che fatica a prendere sonno con il canto dolce e le parole, che l’infante non può comprendere, sono solo un pretesto, ma quelle parole non devono essere ordinarie, devono essere speciali e più che raccontare una storia devono evocarla lasciando spazio alla fantasia.

La ninna nanna che ha proposto Rachele nel pomeriggio recita:

E none none sia

Ddurmiscimelu tie Madonna mia

… E sole sole sole

Sole ingannatore

Durmiscimelu tie nu paru d’ore

E nanu, nanu nanu

Quannu lu nzuru lu mannu luntanu…”

Questo è uno sfogo di una mamma che non riposa più perché il figlio non dorme e si rivolge alla Madonna che lo faccia dormire o anche al sole che lo tiene sveglio (sole ingannatore) e la mamma vorrebbe che dormisse almeno per un paio d’ore per fare qualche faccenda o riposare lei stessa.

Mi sembra di vederla la mamma che dice queste cose, se vogliamo con una punta di fastidio, ma che non può fare a meno di dirle con un sorriso amorevole.

 

Arriva la sera e Rachele sale sul palco apparentemente fragile con un flauto armonico (zumpettana) dal suono ancestrale, quasi precario, impreciso eppure molto evocativo. Poi attacca a battere il tamburo a cornice e la voce che si era presentata come discreta quasi in sordina esce con tutta la forza accompagnata dal ritmo incalzante del tamburello.

 

A quel punto non servono le parole, parla la musica di Rachele che racconta le sue radici salentine ma anche la ricerca e l’incontro con le culture del mondo, in particolare di quelle terre di confine, come la sua “finis terrae”.

Ed ecco “Leuca” un concerto molto bello che evoca sonorità accattivanti e gradevoli servendosi degli strumenti citati e di una loop station che ripete suoni e inserisce anche quel coro che ha costruito Rachele e che si chiama Coro a Coro (evocando “core a core”, una frase che fa pensare a unità, sintonia, vicinanza, complicità, terapia, mettersi in gioco, comunità … stare bene.) presente nel disco e da considerare come un’esperienza, che nel tempo si è estesa numericamente e geograficamente, davvero interessante, non solo per quello che produce, ma proprio per quello che è.

Alla fine, non solo la giuria, ma anche il pubblico ha apprezzato quest’artista salentina che ci riserverà di sicuro altra musica eccellente.

 

https://live.finisterre.it/artisti/rachele-andrioli/

https://www.youtube.com/watch?v=5ndNh7hh3xo

https://www.youtube.com/watch?v=Od3a_PwLRVs

https://www.facebook.com/PremioLoano/videos/3101797246630478

 

 

Si ringrazia il Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana per le foto di Martin Cervelli, tratte dalla pagina FB.

 

Fiabe salentine| Verde Lumìa

La storia di Verde Lumìa ovvero de lu Conte Marcu 

che era vecchiu e facce rrignatu e de lu Conticeddhu paru sou

 

di Giuseppe Corvaglia

Dopo aver commentato il libro pubblicato da Del Grifo e curato da Eugenio Imbriani sulle antiche fiabe di Terra d’Otranto, ho proposto lo scritto ad alcuni amici e uno di questi mi ha chiesto se conoscevo la storia di Verde Lumìa.

Io, onestamente, ho risposto di no, mentendo inconsapevolmente. Infatti non la conoscevo con quel nome, la conoscevo con il nome della Storia de lu Conte Marcu, che tante volte ho ascoltato dagli amici del Canzoniere Grecanico Salentino e conosciuto anche con il nome di Fina Perna.

La storia è quella di una fanciulla, Verde Lumìa,  che vuole sposare il suo innamorato giovane, ma che non riscuote le simpatie del genitore che, pensando di fare il bene della figlia, la promette in sposa a un Conte più facoltoso  (possiede 34 o 36 castelli, parte dei quali vende per comprare gioielli alla futura sposa) ma vecchio e brutto. La giovane cerca di resistere, ma alla fine deve rassegnarsi a quel matrimonio infelice.

Questa e le successive illustrazioni sono state appositamente realizzate da Gianna Cezza

 

La prima notte di nozze, però, la fanciulla ha un’idea portentosa: chiede allo sposo una grazia, dicendo di aver fatto voto alla Madonna di restare ancora per tre giorni vergine e chiede di lasciarla illibata.

Il marito, che stravede per lei, la bacia sulla guancia e si addormenta.

 

Quando il Conte dorme pesantemente, Verde Lumìa raccoglie le gioie regalatele dal vecchio sposo e se ne va a casa del giovane amante.

Il giovane, deluso per la scelta di Verde Lumìa, però, è sdegnato e la vuole mandare via.

Lei, sicura del fatto suo, lo sfida dicendogli: «Accoglimi! Se non sarò illibata potrai uccidermi, se lo sono potrai amarmi!» E l’amante l’accoglie.

Verde Lumìa Gianna Cezza

 

Durante la notte il Conte si sveglia, non trova la sposa e va a cercarla dal giovane amante. I due innamorati lo beffeggiano e quando lui chiede indietro i gioielli che le ha regalato, Verde Lumìa gli dice di ridargli indietro quel bacio che le ha rubato.

Il Conte non può ridarglielo e lei si terrà l’amante, giovane e baldo, e i gioielli della dote.

 

Due versioni di Verde Lumia

 La storia è molto diffusa nel Salento ed è nota come Verde Lumìa, Conte Marcu o Fina Perna. Ne ho trovate due versioni: una proposta da Ettore Vernole e una che è l’elaborazione del Canzoniere Grecanico Salentino. Mi sono piaciute e ve le propongo.

Di entrambe ho riportato i testi e di quella del Canzoniere, ho riportato anche un link che consente di ascoltarla nella versione originale. Ho riportato anche il link dove è possibile reperire l’articolo di Vernole.

*****

Ettore Vernole ci riporta la storia e il testo del canto in un suo saggio uscito negli anni ’30 del secolo scorso sulla rivista Rinascenza Salentina: Folclore salentino: Sabella e Verde Lumìa (Anno I, fascicolo 2, 1933, pp.94-07).

https://emerotecadigitalesalentina.it/sites/default/files/allegati/RS33_folcloresalentino_romanze.pdf

L’autore ci dice che “… “Lumìa” nel dialetto salentino, è una delle varietà più aromatiche del limone, e quella parola non è stata messa a caso a denotare il nome dell’eroina: significherà “giapponescamente”, o l’amaritudine o l’acredine del fato, o il profumo intenso o l’estrema speranza simboleggiata nel verde speciale di quella varietà d’agrume”.

Ci riporta poi a vecchie usanze come il bacio (osculum nuptiarum) scambiato contro l’anello del fidanzamento. Ci fa notare come venga definita quasi pittoricamente la scena, ma anche i personaggi, soprattutto verso la fine, quando all’amore raggiante dei due innamorati si contrappone la bruttezza fisica del Conte Marco, che va a riprendersi la sposa con vesti brutte e una mula zoppa, e anche morale, perché la donna che considerava così bella da meritare tutte le sue ricchezze, diventa “brutta brutta”.

L’autore ci dice poi di come il nome del protagonista, Conte Marco, rievoca le relazioni del Salento con Venezia e il Re di Cipri possa riferirsi al Re di Cipro (Ugo di Lusignano) che sostò nel Salento con i suoi Crociati, diretto in Terra Santa; sulle coste gallipoline, a testimonianza della sua permanenza, lasciò in ricordo un Sacello campestre.

Il canto è reso alla maniera dei cantastorie o, come dice Vernole, alla maniera dei Trovatori, con una parte didascalica recitata e una parte cantata.

In questo modo lo rielaborerà Luigi Lezzi, componente del Canzoniere Salentino con Rina Durante e Bucci Caldarulo, nell’edizione proposta negli anni ’70 dal Canzoniere Grecanico Salentino con Daniele Durante (voce narrante e autore delle parti recitate) e Roberto Licci (voce cantante) (https://www.youtube.com/watch?v=RRh1ymuhBd4 ) formidabili e credibilissimi cantastorie che ci hanno fatto vivere ( e ci fanno ancora oggi godere con i prodigi del web) in maniera mirabile una bella storia d’amore, di arguzia e dabbenaggine.

Durante, con voce decisa e un lessico tipico di chi parla in italiano e usa termini dialettali italianizzati, sembra proprio un cantastorie di altri tempi e Licci canta con la sua voce vera e genuina evocando la storia in maniera scenografica (anche qui, come nel testo riportato da Vernole nelle strofe cantate si alternano in forma dialogata i diversi personaggi e chi canta deve saper rendere: la tenera pulzella, il padre crudele, il giovane amante sdegnato e il conte che sbava dietro alla giovane bella per farsi gabbare bellamente.

Nella versione del Canzoniere, quando il Conte gabbato va dalla madre sua a chiederle aiuto perché ha perso la moglie, lei , arrabbiata, lo compiange dicendogli “…fiju cu pozzi essere maledettu /cu perdi la mujere de ntra lu liettu…”).

Riportiamo il testo raccolto e riportato da Ettore Vernole :

Didascalia

Verde Lumìa è figlia unica d’un Principe caduto in rovina, il quale cura l’avvenire della fanciulla impegnandola a nozze con un ricco e vecchio conte: essa invece aveva scambiata promessa col Re di Cipro, poi costretta alle nozze, cede, ma fugge pura..

-Verde Lumìa te oju maritare… –

«E ci m’ hai ‘ulutu dare, ‘Gnore meu? »

« Te dicu senza pene e senza ‘nganni

ca ete n’ommu cchiu’ de settant’anni,

e ghete lu putente conte Marcu

padrunu de castelli trentaquattru… »

Na, e na e ni e nena – nena, nena, na-ni- nana.

 

«Ma jeu lu conte Marcu nu lu ‘ulìa,

ca a Re de Cipri stae l’amore mia,

de quandu scii a la mescia e iddu a la scola,

de tandu nde ‘ppuntamme la palora… »

Ne e na e ni e nena – nena, nena, na-ni-na-na…

 

Didascalia:

Il nobile genitore è sdegnato e irremovibile. 

Verde Lumia l’ippe de ‘nfidare

ogne castieddu cumanzau a sparare,

tante fora le museche e strumenti

e zitu e zita stèsara cuntienti…

Na e na e ni e nena – nena, nena, na-ni-na-na…

 

Didascalia:

L’eroina ha maturato un piano, e accenna al vecchio sposo di aver fatto voto di castità nella prima notte: è appagata. 

«O conte Marcu, ci me ‘oi a la vita

stasera ‘una cu stau zitella zita.

O conte Marcu, ci nu me ‘oi la morte

stasera ‘ulia me lassi zita de corte! »

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

E conte Marcu nde la concedìu,

all’adda vanda se ‘utau e durmìu!…

Verde Lumia la notte se nd’ azau,

li meju anelli tutti se pijau,

lu meju cavallucciu se scucchiau,

le porte a Re de Cipri sciu e tuzzàu

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

«O Re de Cipri, àpreme le porte

ca su scappata de manu a la morte!… »

«Nu me ‘ulisti, no, quand’eri zita?

Mancu te oju moi pe cara amica!… »

«Ci nu me trovi sana, pura e zita,

pija la spada e lèvame la vita…

Ci nu me trovi sana, pura e onesta,

pija la spada a tàjeme la testa… »

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

Didascalia:

Mentre i due si riconciliano, conte Marco s’è svegliato :

«Mamma, mamma, ‘dduma la candela

ca persi quidda ci spusai jersera!

Mamma, mamma, ‘dduma la ‘ucerna

ca haggiu persu la cchiù fina perna!… »

E conte Marcu se ‘oze vastire

e le cchiù brutte robe ‘oze mintire,

sotta la scudaria ‘oze calare,

susu na mula zoppa ‘ncavarcare…

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

Didascalia:

E conte Marco va dal Re di Cipro a reclamar la sposa. 

«O Re de Cipri, àpreme le porte,

ca m’è scappata ‘na mula stanotte! »

« Jeu nu su’ mula e su’ de bona razza,

culonna d’oru so’, quistu me ‘mabrazza… »

«O brutta, brutta, tòrname l’anelli

ca me custàra trentatrè castelli… »

«O bruttu vecchiu, tòrname lu vasu

ca foi zitella e an facce m’è rumasu!… »

Na e na e ni e nena, nena, nena, na-ni-na-na…

 

Versione del Canzoniere Grecanico Salentino

È questa la storia de lu Conte Marcu ca era vecchio e facce rrignato, ma siccome che era patruno di trentasei castelli, si voleva nzurare na giovincella ca era faccirosa, beddhra fatta e delicata.

«Figghia t’aggiu cchiatu de maritare!»

«O mamma chi sarà sto mio marito? »

«Figghia, lu Conte Marcu ti voglio dare

ca è patrone di trentasei castelli. »

Ma la nostra giovincella il Conte Marco non lo voleva, perché lei ci aveva nel cuore il Conticello paro suo che non era ricco, ma era nu bellu giovine alto biondo, capelli lisci ed occhi azzurri.

«Mamma no lu ogghiu lu Conte Marcu,

vogghiu lu Conticellu paru miu! »

Ma la mamma lu puntu lu vincìu

cu Conte Marcu la fice spusare.

Ma che cosa si ba inventa la prima notte di nozze la nostra giovincella? Si ba sonna che ha fatto un voto alla Madonna e che per questo tre notti verginella deve rimanere.

«Conte Marcu nu pattu nui imu fare:

aggiu fattu nu votu alla Madonna,

aggiu fattu nu votu alla Madonna:

tre notti nuzzitella m’ha lassare. »

Siccome , come vi avevo detto all’inizio, il nostro Conte Marco era vecchio e ribbambito, al fatto nci cridìo e come che ci dese un bacio si girò all’altra parte e durmiscìo, ma come che scoppolò nel sonno ecco che la nostra giovincella si alza e se ne va.

Conte Marcu nu vasu li vose dare

Se vose all’authra via e durmiscìu,

se vose all’authra via e durmiscìu,

la zita de nthra lu liettu se nde scìu.

E dove, dove secondo voi poteva andare la nostra giovincella spinta da un così travolgente amore se non a bussare alle porte dell’amato suo? Ma siccome il nostro amato era rimasto scornato dal fatto che lei si era sposata cullu Conte Marcu, allora cosa fa? Nde la caccia!

«Apri o Conticellu apri ste porte

ca su zitella e m’hai pija’ stanotte! »

«Abbande ca te vosi maritata

ca tie cu conte Marcu sì spusata! »

»«

Ma forse che voi bi potete pensare che un così travolgente amore si può rompere alli primi cuntrasti? E invece no, perché la nostra giovincella era sicura de li fatti soi perché lei era ancora vergine e pura come la mamma l’aveva fatta. E allora sentiamo cosa nci risponde.

Se no mi trovi tu zitella ardita

con la tua spada tronchimi la vita

Se non mi trovi tu zitella onesta

con la tua spada tronchimi la testa.

A questo punto accantoniamo i nostri due giovani amanti che lascio immaginare a voi che cosa stanno facendo e andiamo allu castellu.

Al castello il Conte Marcu si è discitato e la prima porta dove ha fusciuto è quella de mammasa.

«Azzate mamma e mpiccia la candela,

ca la zita de ntra lu liettu aggiu perdutu! »

«Fiju cu puezzi essere maledettu

cu perdi la mugghiere de ntra lu liettu. »

Citta mamma e no me maledire

ca ci l’aggiu persa l’aggiu scì a truvare,

ci l’aggiu persa l’aggiu scì a truvare,

alle porte de Conticellu adu a bussare. »

 

Ritorniamo ai nostri due giovani amanti. Essi stavano teneramente mbrazzati quando proprio sul più bello li ba cimenta il Conte Marco.

«Apri o Conticellu, apri ste porte

Ca m’ha scappata na mula stanotte»

«Nonn’è na mula è na mula de razza.

È  na vagnona ca mo me sta mbrazza.»

 

A questo punto il conte Marcu si rende contu che l’amore della giovincella non se lo può prendere indietro e che tenta cu fazza? Tenta almeno di riprendersi li trentasei castelli, ma…

«Brutta brutta damme li miei nelli

Che mi custara trentasei castelli! »

«E tie, bruttu damme ddhru baciu ca me rrubbasti. »

«Cu lla piaga intra lu core te ne venisti. »

 

E così questa storia può dimostrare a tutti quelli che si pensano che con i soldi tutto si può ‘ccattare che non è vero perché quando un amore è così bello e travolgente come quello dei nostri due giovincelli neanche trentasei castelli se lo possono ‘ccattare e anzi chi ci tenta, come il nostro Conte Marcu, alla fine rimane attutu, curnutu e cacciatu de casa.

 

Segnalo anche “Sta cala lu serenu de le stelle”  proposta, tra gli altri, da Ghetonia nel 1995, un canto che evoca la vicenda, chiamando la leggiadra fanciulla Fina Perna, perla preziosa e rara. Ho detto evoca, perché non racconta la storia come le altre due versioni, ma a quella storia fa riferimento. Evoca la fuga di notte della donna (sta cala lu serenu de le stelle…) e l’accusa che il Conte Marco farà al Conticello di avergliela rubata. Il canto dice che chi ruba donna non può essere chiamato ladro, semmai si deve chiamare giovanotto innamorato. Poi fa un riferimento agli agrumi, come la verde lumia, agrume raro ora, ma molto diffuso in passato, facendo dire all’amante giovane che lui non è un limone da stringere e nemmeno un arancio da mangiare.

Molto tenera la descrizione della bellezza della donna che il poeta dice essere fatta di zucchero e manna e in forme così belle, grazie al nutrimento della madre che è così sacro da tenere in bocca senza mai sputarlo, per assumerne meglio le sue portentose proprietà.

Un riferimento poi viene fatto allo sdegno del giovane amante che si vede tradito dal Matrimonio con il vecchio, e inizialmente non vuole riaccoglierla e dice: “…no me l’hai fare a mie sti cangi e scangi…”

https://www.youtube.com/watch?v=CAxfVuWc2Zo

Una storia decisamente interessante e, a quanto pare, molto diffusa.

 

Ringrazio Gianna Cezza che ha fatto le illustrazioni per questa occasione. Una favola con le figure è più gradevole, queste sono mirabili: asciutte, senza fronzoli, con una particolare attenzione all’aspetto e alla psicologia dei personaggi e colori caldi ed evocativi.

 

Segnaliamo questo bell’articolo di uscito su Tutto Taurisano

https://www.tuttotaurisano.it/nuovataurisano/2013/LUGLIO2013/4.pdf

Il Canzoniere Grecanico Salentino

Tutto arriva per chi sa aspettare. Il Canzoniere Grecanico Salentino a Loano al Festival Nazionale della Musica Tradizionale Italiana delle Rigenerazioni

 

di Giuseppe Corvaglia

Tutto arriva per chi sa aspettare, anche il Canzoniere Grecanico Salentino.

Da anni seguo il Festival Nazionale della musica tradizionale italiana e da anni mi aspettavo venisse a questa manifestazione un gruppo di rango della musica popolare salentina.

Quest’anno, il 26 luglio, nel festival dedicato alle RIGENERAZIONI, diretto da Jacopo Tomatis che, dopo 17 anni, riceve il testimone da John Vignola, ecco che partecipa il CGS che è proprio esempio di un gruppo “rigenerato” dalle nuove generazioni: Mauro, figlio di Daniele Durante, ed Emanuele, figlio di Roberto Licci, che hanno rinnovato il gruppo non solo anagraficamente, ma anche musicalmente.

A rendere questo evento particolarmente prezioso e unico è stata la presenza di Roberto Licci (Daniele Durante era assente perché impegnato a Melpignano come Direttore artistico della Notte della Taranta) non come reliquia, ma come parte del gruppo e in quel gruppo scatenato ed entusiasta il vecchio leone si è integrato a meraviglia.

Il pezzo forte era il concerto serale che, opportunamente, è stato spostato in Piazza Italia dal Giardino del Principe, dove tanti spettatori possono stare comodamente seduti, ma non è propriamente adatto per un concerto di musica popolare salentina dove una buona parte di canti, che sono Pizziche, ti induce naturalmente alla danza, nel Salento direbbero ”te scazzica”, ed è una esperienza che se non la danzi, godi solo a metà.

Tuttavia, per gli estimatori, un momento particolarmente interessante è stato l’incontro delle 18,30 sotto le palme dei Giardini Nassiriya dove il giornalista Ciro De Rosa ha condotto protagonisti vecchi e nuovi nel racconto di una vicenda artistica e umana complessa che dura dal 1975, ma è davvero degna di essere conosciuta.

 

Ciro De Rosa,Roberto Licci, Mauro Durante ed Emanuele Licci ai Giardini Nassiriya

Con Roberto Licci si sono ripercorsi gli inizi quando il Nuovo Canzoniere del Salento sente di aver esaurito la propria spinta propulsiva e con Luigi Chiriatti invita alcuni giovani di Calimera, fra cui lo stesso Licci, e nasce il Canzoniere Grecanico Salentino sotto la guida ed anima vera del gruppo: Rina Durante.

Rina Durante

 

È il 1975 tutto quello che accade nella società è permeato di politica. C’è un’attenzione diversa alla cultura ed in particolare alla cultura popolare. Alcune avanguardie culturali riscoprono e recuperano la cultura e le tradizioni popolari e questo recupero passa attraverso una consapevolezza politica tesa a dare dignità ad una cultura considerata fino a quel momento subalterna rispetto alla cultura ufficiale.

Negli anni 50 e 60 un antropologo di rango come Ernesto De Martino, lavorando in equipe con una squadra di esperti, aveva esplorato il fenomeno del tarantismo per affermare che la ragione del disagio e della sofferenza non stava nel morso di un ragnetto o di uno scorpione, quanto nel disagio sociale delle tarantate che in quella esibizione trovavano sollievo e liberazione, seppure temporanea.

Rina Durante, intellettuale a tutto tondo e una delle avanguardie citate, capisce che la musica e i canti popolari sono stati e possono essere un veicolo formidabile per la diffusione di una cultura popolare, di una letteratura e di una poesia, di una arte e di una filosofia, di una saggezza e di un modo di raccontare la storia del popolo che fino a quel momento erano considerate subalterne ma che subalterne non lo erano affatto perché avevano una loro dignità.

Questo ha voluto dire Roberto Licci quando nell’intervista con De Rosa, ha parlato di connotazione politica dei concerti del CGS e il concetto lo si ritrova espresso con chiarezza proprio da Rina Durante in una intervista del 1979, quando dice che il recupero della tradizione e della cultura popolare in quegli anni passava attraverso una presa di coscienza politica.

(https://www.youtube.com/watch?v=SYq8aVceT3Y Canzoniere Grecanico Salentino dal minuto 22; dal minuto 29 intervista a Rina durante; dal minuto 31 una parte di Quannnu Diu fice lu munnu[1] interessante esempio di autoironia dei contadini).

 

Il CGS in Quannu Diu fice lu munnu Da un documentario RAI

 

Sono gli anni del boom economico, dell’alfabetizzazione di massa. La gente che aveva migliorato le sue condizioni spesso cercava di nascondere le proprie origini, radicate nella cultura contadina, quelle origini che ricordavano povertà, stenti e soprusi; voleva sposare il modello del benessere, del progresso, della cultura ufficiale, quello che noi oggi sappiamo essere il consumismo.

Questa realtà la scopriva bene chi si cimentava nella ricerca popolare, che spesso trovava la gente restia a parlare dei tempi andati, ma poteva pure accadere, come riporta efficacemente Roberto Licci, che il pubblico nei concerti prendesse a nocciole e mandorle i cantanti perché non cantavano Yuppi duh, canzone in voga all’epoca, e cantavano “Damme nu ricciu de li toi capelli”.

Pur tuttavia una buona parte della gente voleva riscoprire la cultura delle origini, fatta di canti e componimenti ironici ed autoironici, che strizzavano l’occhio al doppio senso, pieni di una semplice, ma gustosa allegria. Spesso questi canti erano resi più gradevoli con rifacimenti molto simili al liscio e ai ballabili. Non che il risultato fosse disprezzabile, ma se l’intento era quello di prendere coscienza della propria condizione non ci si poteva fermare all’intrattenimento.

Prendiamo per esempio, un canto popolare, riproposto sia da un noto cantante folk come Luigi Paoli (Catarineddhra ncatinata [2]), sia dal CGS (la Ceserina [3]) sono lo stesso canto in origine che parla di due innamorati in catene, ma per il Paoli le catene portata in petto da Caterina e ai polsi dall’innamorato sono catene d’amore; nella Ceserina del CGS la catena sul petto di Ceserina è d’amore, ma le catene dell’innamorato legano i suoi polsi perché lui va in prigione, lontano dalla sua bella e dalla sua vita, tradito da una infame carogna. Il canto è lo stesso, ma mentre Paoli lo edulcora in un canto d’amore il CGS lo ripropone nella sua crudezza che parla di lotte contadine, di repressione, di infamie e di prigione. Particolarmente toccante è il voto che fa il malcapitato: se il governo cambierà girerò tutto il mondo a piedi. (https://www.youtube.com/watch?v=NZ5oLsjzscA Roberto Licci con i Ghetonia)

Licci nel sottolineare la valenza politica e non solo musicale del CGS riporta a un concetto espresso bene da Rina Durante nell’intervista già citata, dove viene spiegato come il gruppo, oltre a riproporre canti popolari nei suoi spettacoli, stimolava in diversi paesi la ricerca della cultura popolare da parte di giovani.

Occorre dire che se il Canzoniere nasce dall’intuizione di Rina Durante, deve però la sua fama a un impianto vocale bellissimo dato dalle voci di Bucci Caldarulo, di Roberto Licci e di Luigi Chiriatti e Rossella Pinto, e deve pure molto al genio musicale di Daniele Durante.

Il CGS negli anni 70: da sinistra B. Caldarulo, R. Licci, D. Durante, R. Pinto, L. Chiriatti (Foto dal web www.stornellisalentini.com)

 

Con lui anche le canzoni popolari, spesso raccolte come prodotti essenziali, acquisiscono una gradevole eleganza. Licci ricorda come qualche purista criticasse l’impianto musicale di Daniele perché a loro dire, usava la chitarra come un clavicembalo. Non credo che questo potesse essere un male, invece a volte la riproposta filologica può anche non essere un bene, specie se interpretata con rigidità.

Oggi il Canzoniere Grecanico Salentino è davvero rigenerato, lo spirito si è adeguato ai tempi, i suoi componenti sono capaci di padroneggiare il nuovo, le opportunità che la tecnologia, il progresso e il mondo offrono; è apprezzato sui palchi dei principali festival di tutto il mondo, dal WOMAD allo Sziget al SXSW Music Festival in Texas, ma sembra ancora attento ai principi che hanno ispirato il gruppo delle origini.

Una cosa straordinaria è che l’artefice di questa rigenerazione, Mauro Durante, che nel 2007 ha ereditato dal padre la conduzione del gruppo, ha saputo coinvolgere l’altro erede, Emanuele Licci e altri valenti musicisti creando un gruppo coeso, sinergico, capace di trasmettere entusiasmo con una musica gradevole, stimolante e coinvolgente.

L’impianto vocale, che era il punto di forza del primo CGS, è ancora il pilastro del gruppo attuale che sull’amalgama delle voci, crea la sua sonorità impreziosendola con strumenti vari che rendono i canti più musicali. Anche le contaminazioni si sposano con la musica tradizionale senza snaturarla anzi arricchendola gradevolmente.

Il Canzoniere Grecanico Salentino da sinistra Emanuele Licci, Alessia Tondo, M. Morabito, G. Paglialunga, Mauro Durante, G. Bianco, Silvia Perrone

 

Così se la magica mistura vocale, adorna della musica degli strumenti, si associa a una energia potente, nessuno riesce a rimanere indifferente e anche chi non si lancia nel vortice delle danze, non può fare a meno di scandire il ritmo con il piede o con il battito delle mani.

I canti non sono più quelli del passato CGS e questa “rigenerazione” si dichiara già con la copertina del CD in una bottiglia di Coca cola usata per conservare la salsa di pomodoro dove la salsa è il segno di un sapere antico, comune a tutte le famiglie, e la Coca cola è il segno della globalizzazione, e questo rinnovamento lo si trova nella produzione del gruppo degli ultimi anni. La musica del nuovo CGS contiene i germi della musica popolare tradizionale, ma si apre a nuove contaminazioni e a nuovi esperimenti, come nel caso di “Taranta” scritta con Ludovico Einaudi (https://www.youtube.com/watch?v=4cG6pbwx_dw ) o di altri brani che nascono dalla collaborazione con musicisti di tutto il mondo.

Il messaggio è inequivocabile e non parla di omologazione, ma dice che si può andare nel mondo con le proprie gambe e le proprie proposte musicali mantenendo le proprie radici che sono parte integrante della propria identità.

Copertina del CD Canzoniere

 

Un’altra nota di attualità nella tradizione ce l’ha spiegata Mauro Durante con un interessante paragone sulla terapeuticità della pizzica. Nei tempi andati, infatti la terapia si basava su diversi elementi: la musica, i colori, l’acqua (ricordiamo per chi non lo sappia che uno dei passaggi fondamentali della terapia era la visita alla chiesa sconsacrata di San Paolo a Galatina dove i tarantati bevevano un’acqua da un pozzo che era solfurea e li faceva vomitare liberandoli e guarendoli, secondo la credenza, per l’intervento del Santo), ma il percorso terapeutico, guidato dai musici che stimolavano la danza liberatrice, era osservato e sostenuto da tutta la comunità che, discretamente, partecipava emotivamente a quella sofferenza interiore che si manifestava con l’abbandono e l’apatia e per guarire diventava sforzo fisico spossante, obbligato, estenuante e anche umiliante.

Oggi le sofferenze della psiche non mancano, si esprimono diversamente, e la musica coinvolgente, come la pizzica, unisce e può essere una sorta di terapia di gruppo dinamica che con la danza unisce e può curare tante umanità diverse.

Roberto Licci e Mauro Durante ai Giardini Nassiriya (foto G. Corvaglia)

 

Così se il pomeriggio ha offerto un racconto di un quarantennale percorso articolato, fatto di successi, di fatica, di addii e di ritrovamenti, ma soprattutto di musica e di sapienza antica, non è mancata la musica con alcuni brani del repertorio classico, grico con “Aremu rindineddhra”[4] , canto struggente dove un uomo lontano chiede alla rondine che viaggia per il mondo di raccontargli qualcosa della sua terra, che sicuramente avrà visitato, dei suoi genitori, dei suoi amici, e “Damme nu ricciu”, in dialetto salentino, cantato nonostante i tempi stringenti per fare il check dello spettacolo. Dono migliore non ci poteva essere, per chi era andato ai Giardini Nassiriya, di questa canzone d’amore dove l’innamorato chiede alla donna un riccio dei suoi capelli che lo fanno innamorare e che quando si muovono baluginano come il riflesso dell’ oro e poi le chiede la mano sotto una pianta di vite per restare uniti fino alla morte come due uccelli. (qui nella versione dei Ghetonia https://www.youtube.com/watch?v=W-xdpFGS1Mg o nella versione di Antonio Amato https://www.youtube.com/watch?v=0unR40RLjEs )

 

Si è parlato poi di Grecìa Salentina, isola linguistica, dove il griko va scomparendo perdendosene la pratica linguistica sia perché le nuove generazioni non lo parlano, sia perché il continuo rapporto con persone di comunità vicine obbliga all’uso dell’Italiano o del dialetto salentino.

Emanuele Licci ha raccontato di come gli unici posti dove si possa ancora sentire il griko siano le sale d’attesa degli ambulatori medici, frequentati da anziani che ancora parlano il griko quando si relazionano fra di loro.

La sera in piazza Italia c’ era attesa e, invero, non è stata delusa.

Le voci di Mauro Durante, di Alessia Tondo ed Emanuele Licci, i preziosi inserti musicali di Giulio Bianco, zampogna, armonica, basso, flauti e fiati popolari, e di Massimiliano Morabito all’organetto diatonico , le movenze eleganti di Silvia Perrone e la coinvolgente energia di Giancarlo Paglialunga con la sua voce e il suo “tamburieddhu”, hanno subito scaldato la piazza e anche l’evento particolare di questa serata, la partecipazione di Roberto Licci, è stata una bellissima e preziosa parte del concerto.

In questo gruppo, insolitamente rinnovato con l’antico, non si percepiva differenza generazionale e i brani non erano solo gradevoli e coinvolgenti, ma sembravano dire noi siamo questa storia che ora state ascoltando.

Molto significativa la riproposta della “Quistione meridionale”, canto memorabile scritto da Rina Durante con la musica di Daniele Durante, che con molta ironia racconta di come il dibattito sulla questione meridionale non abbia mai portato niente di buono alla gente, ma ha portato sicuramente benefici a chi ci ha speculato e ci specula sopra. (https://www.youtube.com/watch?v=eUNlnFe-rxA )

È una canzone bella ed evocativa per i termini che usa e le immagini che sceglie. Per esempio parlando delle lotte contadine non parla della violenza fisica sui corpi dei contadini, pure molto sentita, ma di una violenza ancora più feroce, come distruggere le biciclette dei braccianti, che non è solo un danno economico, ma un umiliazione perché distrugge un bene che aveva portato benessere e aveva fatto progredire. Un po’ come dire: «Straccione, torna a camminare a piedi», come quando i padroni per punizione sequestravano ai contadini la cintura: non era solo un castigo, un danno, ma una umiliazione.

Insomma una bella serata e un concerto da ricordare che ha saputo coinvolgere il pubblico toccandolo nelle corde dell’intimo, portando gioia per una musica che, uscita dai confini del Salento, diventa sempre più apprezzata grazie anche al lavoro di questo Canzoniere Grecanico Salentino.

 

Nota dell’autore

Per chi vuole inquadrare meglio la storia del Canzoniere Grecanico Salentino consiglio la lettura:

–         dell’articolo di Luigi Chiriatti su Blogfolk Le Ricerche Sulla Musica Tradizionale In Salento – Dalla ricerca come memoria alla ricerca come affermazione del sé  http://www.blogfoolk.com/2013/05/le-ricerche-sulla-musica-tradizionale.html

 

Note al testo

[1] Quannu Diu fice lu munnu è una gustosa rielaborazione di una canzone popolare sceneggiata dal CGS che racconta la creazione immaginaria dove Dio chiama le sue creature per elargire un dono. I preti si prendono mangiare e cantare. I monaci dicono pazienza e il Creatore darà loro pazienza. Gli imbroglioni non potendo avere Mangiare e Cantare né pazienza chiedono almeno le trappole per gli stupidi, gli imbrogli e Dio glieli concede, ma quando arrivano i contadini non resta niente e uno di loro sfugge la frase quasi sempre detta dai nostri padri, il “fazza Diu” che esprime rassegnazione verso le disgrazie e le avversità. Iddio li accontenta e letteralmente fa lui mandandoli a zappare.

 

[2] Catarineddhra ncatinata di Luigi Paoli

O Caterina mia Caterina Cara/ mmienzu allu piettu tou nc’è na catina./

Se tie la porti an piettu, ieu la portu a manu/ e tutti doi ncatenati stamu.

Amore amore crida mò la nuceddhra/ se nu la cazzi nu se pote manciare./

Ieu la cazzai e truvai na carusa beddhra/ de nome se chiamava Catarineddhra.

 

[3] La Ceserina versione del Canzoniere Grecanico Salentino riproposta da Ghetonia

Scinnu de le muntagne caddhripuline/ no sacciu se la trou la Ceserina./

Oh Ceserina mia Ceserina Cara/ mmienzu allu pettu tou nc’è na catena/

Se tie la porti am piettu ieu la portu a manu/ e tutti ddoi ncatinati stamu./

O giudice ci puerti la pinna a manu/ no me la fare longa la mia cundanna/

Ca no aggiu ccisu e mancu aggiu rrubbatu/ pe na nfame carogna stau carciratu/

Ca ci ole Diu cu cancia stu cuvernu/ la terra la caminu parmu parmu

O Ceserina mia, Ceserina cara / le carceri de Lecce no le sapia

Le carceri de Lecce no le sapia/ me l’aje fatte mparare Cesarina mia

Le carceri de Lecce su cruci cruci/ de lu luntanu passane l’amici.

 

[4] Aremu Rindineddha Traduzione in Italiano

Chissà mia rondinella/ da dove stai arrivando/quale mare hai attraversato/con questo bel tempo.

Bianco hai il petto/ nere hai le ali/ il dorso color del mare/e la coda in due hai divisa.

Seduto vicino al mare/ io ti guardo/ un po’ ti levi, un po’ ti abbassi/ un po’ sfiori l’acqua.

Chissà quali paesi/ quali luoghi hai attraversato/ dove hai costruito/ il nido tuo.

Se avessi saputo che passavi/ vicino alla mia terra / quante cose / ti chiederei di dirmi.

Ma tu nulla mi dici /per quanto io ti domandi/ un poco ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.

Ti domanderei di mia madre/ che è tanto amata/ che è da tanto che mi aspetta/che io giunga per vedermi.

Ti domanderei di mio padre/ di tutto il vicinato,/ e, avessi la parola,/ quante cose avresti da dirmi.

Ma tu niente mi dici/ per quanto io ti domandi,/ un po’ ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.

Tradizioni di Natale. Gli zampognari del meridione salentino

 di Cristina Manzo

Sono venute dai monti oscuri

le ciaramelle senza dir niente

e hanno destato né suoi tuguri

tutta la buona povera gente

Giovanni Pascoli

Se comandasse lo zampognaro

che scende per il viale,

sai cosa direbbe il giorno di Natale?

“Voglio che in ogni casa

spunti dal pavimento

un albero fiorito

di stelle d’oro e d’argento” …

Gianni Rodari

 
zampognari

Zampognari che suonano per le strade, la novena di natale

 

Tutte le tradizioni natalizie, nei secoli passati erano molto più suggestive di quelle di oggi. Ce ne accorgiamo leggendo Usi, costumi e feste del popolo pugliese (1930) di Saverio La Sorsa e Folklore garganico (1938) di Giovanni Tancredi, opere fondamentali per gli appassionati di antiche tradizioni popolari pugliesi.

Una di queste tradizioni, la storia degli zampognari, che potremmo quasi definire un mito, è appunto uno di quei fenomeni importantissimi, che purtroppo sembra essere quasi finito nel dimenticatoio.

zampognaro

Figura antichissima, legata indissolubilmente a quella dei pastori e della transumanza. Quando essi portavano al pascolo tutti gli animali, spingendosi a seconda dei periodi, anche molto lontano dalle loro case, era consuetudine infatti che ognuno di loro portasse con sé uno strumento: chi la zampogna, chi la ciaramella, chi l’organetto, chi il tamburello, chi i flauti di canna, e ogni pastorello imparava da quello più grande. Così, durante il riposo, quando gli animali erano giunti al pascolo, tra un sorso di vino e un pezzo di formaggio, si liberava nell’aria un vero concerto musicale dalle note soavi e dolcissime.

La ciaramella e la zampogna, sono gli strumenti più tipicamente pastorali, proprio perché realizzati con la pelle di capra. La zampogna è un aerofono a sacco dotato da 4-5 canne che vengono inserite in un ceppo dove viene legata l’otre. Solo 2 canne sono strumento di canto mentre le altre fanno da bordone (suonano una nota fissa). Le canne terminano con delle ance che possono essere singole o doppie, tradizionalmente realizzati in canna, e recentemente anche in plastica. La sacca di accumulo dell’aria, otre, è realizzata con una intera pelle di capra o di pecora, utricolo, e oggi anche da altri materiali o da una camera d’aria di gomma, nella quale il suonatore immette aria attraverso un insufflatore, cannetta o soffietto, che mette in vibrazione le ance innestate sulle canne melodiche: sempre due, quella destra per la melodia, quella sinistra per l’accompagnamento e nei bordoni detti basso e scantillo.

Esiste una grande varietà nella lunghezza dei diversi tipi di zampogne. Mentre nell’Italia meridionale, l’unità di misura utilizzata per indicare la lunghezza della zampogna è il palmo, nell’Italia centrale la misura e quindi la tonalità, dello strumento, viene indicata in modo alquanto insolito, con un numero (ad es. 25) corrispondente alla lunghezza in centimetri del fuso della ciaramella corrispondente.

 

 

zampogna

Modello di zampogna

Secondo alcune leggende la zampogna sarebbe in qualche modo legata alla figura di Pan; il dio Pan, poggiato su un cane, ha nella mano destra un bastone e nella sinistra il flauto di Pan, cioè la siringa. Il bastone simboleggia tutti gli elementi maschili del cosmo, la siringa tutti quelli femminili. Secondo il nostro storico i sacerdoti del dio Pan hanno, deliberatamente, trasformato il bastone in un bordone di zampogna, la siringa nel chanter con tre fori. Cioè hanno riproposto l’immagine del dio Pan, molto presente nell’iconografia del dio, in chiave musicale, sonora, per poter, attraverso il suono, armonizzare gli elementi maschili del cosmo con quelli femminili.

panChe sia uno strumento natalizio deriva dal fatto che il dio Pan, al solstizio di inverno, con la zampogna incoraggiava la rinascita del sole e, in più, dirigeva il caos da lui stesso provocato verso un nuovo ordine cosmico. L’iconografia medievale ben ci informa della diffusione e della varietà morfologica dello strumento. Una leggenda narra che San Francesco abbia inserito per primo una coppia di suonatori di zampogna nel suo Presepe… che da allora sono rimaste figure sempre presenti.

In epoca più vicino a noi troviamo ampie descrizioni della zampogna in Praetorius e Mersenne. Essa fu fonte di ispirazione anche per i musicisti colti e letterati. Una pastorale del Messiah di Handel trae ispirazione da melodie popolari di zampognari (forse gli zampognari ciociari: Haendel soggiornò ad Alvito, a pochissimi chilometri dalla zona da cui ancor oggi provengono moltissimi di questi musicisti). Hector Berlioz ebbe occasione di ascoltarli a Roma e furono d’ispirazione per la “Sèrenade d’un montagnard.” Lo zampognaro, quindi, è il suonatore di zampogna.

Le regioni dove è tradizionalmente presente la zampogna sono: Lazio (province di Frosinone e Latina), Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia.

zampognari_natale_3

Con l’arrivo del Natale, in particolare durante il periodo della Novena dell’Immacolata Concezione e del Natale, essi abbandonando temporaneamente il loro lavoro di pastori, scendono a valle nei paesi, o nelle piazze, percorrono le vie cittadine, in abiti tipici, suonando motivi natalizi tradizionali, quali ad esempio “tu scendi dalle stelle di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori,” e, comunque, il loro repertorio comprende sempre pastorali, giaculatorie e storie di Natale. Generalmente gli zampognari suonano in coppia, uno la zampogna vera e propria ed un altro la ciaramella o altri strumenti a fiato e talvolta sono accompagnati anche da donne o bambini, con nacchere, tamburelli e scacciapensieri. Essi sono vestiti con brache corte, giacca di fustagno, ampio mantello, sostituito qualche volta dal pelliccione, berretto di panno, e calze con fiocco e cioce ai piedi.1 Accurata è la descrizione che il Tancredi ci fa del costume tradizionale di questi robusti zampognari dal viso abbronzato:

cappelli a cono con le fettucce attorcigliate, corpetto di vello di capra, robone bruno (un’ampia veste di drappo pesante aperta dinanzi), camicia aperta sul collo “taurino”, calzoni di velluto marrone o verde abbottonati sotto il ginocchio, calze di lana grossa, lavorate a mano, e cioce che salgono attorno ai polpacci. Il tutto avvolto da un ampio mantellone pesante di lana blu, con due o tre pellegrine (corte mantelline) una sopra l’altra. I due mistici pastori, uno anziano, l’altro molto più giovane, attorniati e seguiti da gruppi di ragazzini festanti, suonavano le loro “allegre novene” innanzi a ogni porta della città; si fermavano dappertutto: davanti alle botteghe, agli angoli delle vie, sulla soglia delle case, dove le famiglie erano raccolte attorno al focolare. Il più vecchio, dai capelli bianchi e dalla barba incolta, suonava la classica zampogna di legno di olivo a tre pive, stringendo l’ampio otre gonfiato fra il braccio destro ed il corpo; il ragazzo imbottava il piffero esile e snello fatto di olivo per metà e di ceraso per l’altra metà con la pivetta di canna marina. Ed entrambi accordavano le caratteristiche nenie in onore della Madonna e di Gesù. Dopo la suonata di ringraziamento, gli zampognari facevano una “scappellata” salutando il capofamiglia con un addio, sor padrò, con l’intesa di rivedersi l’anno successivo. Il suono melanconico, dolce della zampogna ed il trillo stridulo ed allegro del piffero” conclude poeticamente il Tancredi, “ si spandevano per l’aria rigida sotto l’arco limpido del cielo”2

Nel Salento fino agli anni settanta, come in tutto il meridione, quando arrivava il 6 di dicembre e sino alla festa dell’Epifania, gli zampognari giravano ininterrottamente per tutte le strade di Lecce, in particolar mondo nel cuore storico della città, facendo felici soprattutto i bambini, che ascoltando il suono delle loro zampogne, capivano che finalmente stava arrivando il Natale, per loro, la festa più attesa di tutto l’anno. Poi la notte del ventiquattro dicembre e il mattino dopo, si posizionavano all’ingresso delle chiese, dove i cittadini andavano a pregare durante la veglia per la nascita di Gesù, e per la celebrazione della messa natalizia, suonando le loro melodiche nenie. Continuavano la loro performance, fino al giorno dell’epifania.

La loro scomparsa non è stata repentina, ma è avvenuta in modo graduale, prima accorciando i giorni delle loro…serenate durante la novena dicembrina e poi scomparendo dalla città, per restare ancora qualche anno come consuetudine e costume dei paesi.

Oggi, però, chi è legato particolarmente alle tradizioni, perché comprende l’importanza e il valore che esse hanno nella nostra cultura, per cui non dovrebbero assolutamente andare smarrite, può ammirare queste carismatiche figure, nel contesto dei presepi viventi, fenomeno sempre più diffuso, nel Salento, dove si svolge una vera e propria sfida, tra il borgo o il paese che riesce a realizzare quello più suggestivo.

Si entra così in un’atmosfera surreale di magia del Natale, dove lungo il percorso si incontrano, pastori, ciabattini, fabbri, falegnami, pescatori, che svolgendo il loro mestiere, abitano un villaggio magico, lungo un sentiero che tra rocce e ruscelli, porta sino alla grotta di Betlemme, dove giace tra Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello, il bambino Gesù, circondato dagli angeli, e dal suono celestiale delle zampogne. Nel Salento ve ne sono alcuni veramente belli, e i visitatori arrivano da ogni luogo. Inoltre, le tradizioni antiche, vengono di continuo recuperate e restaurate, esattamente come è successo con la musica popolare. Questo grazie ad un gruppo, fondato nel 1975 dalla scrittrice Rina Durante, il Canzoniere Grecanico Salentino, che è il più importante gruppo di musica popolare salentina, il primo ad essersi formato in Puglia. L’affascinante dicotomia tra tradizione e modernità caratterizza la musica del CGS: il gruppo è composto dai principali protagonisti dell’attuale scena pugliese, che reinterpretano in chiave moderna le tradizioni della musica passata. Un membro in particolare di questo gruppo, il giovane Giulio Bianco, animato da grande curiosità e passione per gli strumenti a fiato, si dedica ad uno studio meticoloso e costante dei flauti (dritti e traversi), dell’armonica a bocca e della zampogna italiana. L’esigenza di ampliare le possibilità dello strumento lo porta, inoltre, a intraprendere lo studio della zampogna a chiave “Melodica” e della zampogna zoppa, che gli permette il confronto con altri generi musicali, e che gli da l’opportunità, nella riproposta della musica popolare salentina, di usare lo strumento con una sensibilità moderna e personale.3

———————————-

1 Natale, storia, racconti, tradizioni. Paoline editoriale libri, 2005, p.98

2 Giovanni Tancredi, Folklore garganico, 1938

3 Giulio Bianco, membro del canzoniere grecanico salentino, il primo e più antico gruppo di musica popolare salentina ad essersi formato in Puglia, più di 35 anni fa.

 

TRADINNOVAZIONE: il Glocal in Puglia tra musica e danza

Proponiamo di seguito l’ottima introduzione al film documentario di Piero Cannizzaro, scritta e pubblicata da Mauro Marino sulle pagine del quotidiano “PAESE NUOVO” dallo stesso diretto. Ringraziamo per la gentile concessione.

La redazione

di Mauro Marino

Il suono è la via di comunicazione che più facilmente può essere percorsa dalla suggestione, dalla memoria, dal pensiero.

Suoni sono i rumori, i linguaggi, le musiche.

Ogni suono è il segnale di una presenza, il veicolo di un messaggio, la componente essenziale di un territorio, di un paese, di un ambiente.

Un fenomeno caratteristico della corsa alla globalizzazione, ma anche un fenomeno particolarmente rispettoso delle diverse identità locali: si unisce, si mescola senza distruggere.

Magia tarantismo, disse Ernesto De Martino, sono forme arcaiche di cura, nelle quali si leggono aspirazioni e valori, tradizioni ed esigenze ludiche.

Ma oggi che la società contadina è notevolmente cambiata cosa è rimasto di quei suoni? Stiamo assistendo ad un nuovo interesse da parte di molti giovani che suonano e fruiscono di questa “nuova” musica. Suoni che oltre  agli strumenti tradizionali come la voce, il tamburello, i fiati, il violino e le percussioni popolari si aggiungono anche il violoncello, il contrabbasso, la tromba, la batteria, la chitarra, l’ organetto, la fisarmonica etc.

Abbiamo viaggiato nell’Italia attraverso la musica etnica e le sue commistioni, i contatti con le culture e i modi che questa musica alimenta e assorbe per produrre a sua volta altra musica.

Quello che si prefiggono i musicisti (ma anche i danzatori) che abbiamo incontrato, è quello di andare oltre alla tradizione cercando di creare un ibrido tra il passato ed il presente, per rendere ancora oggi viva la tradizione.

Anna Cinzia Villani

In Puglia abbiamo incontrato e ascoltato la cantante salentina Anna Cinzia Villani, il gruppo “Mascarimirì” il cui sguardo è volto alla world music, al raggamuffin, al dub, alla techno, alla contaminazione con esperienze, suoni, voci, ritmi di altri paesi vicini e lontani. La loro idea di fondo è quella di mettere in musica le sensazioni, gli umori e gli odori delle feste tipiche del sud. E il “Canzoniere Grecanico Salentino” che è stato il primo gruppo di riproposta musicale della tradizione salentina ad essersi formato in Puglia nel 1975, ben trentacinque anni fa per

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