L’arte del costruire nel Salento. Lavorazione della calce

venditore ambulante di calce (archivio Ezio Sanapo)

 

di Mario Colomba

Il componente principale del confezionamento della malta era costituito dalla calce.

La calce in zolle (ossido di calcio, CaO) perveniva nel cantiere trasportata dai traini e qui veniva spenta con una procedura particolare (la curatura della calce) nei cosiddetti “camini” della calce. Questi erano costituiti da fosse di forma rettangolare regolare e della profondità di circa mezzo metro, scavate nel terreno, delimitate perimetralmente da un muro ad una testa, dell’altezza complessiva, entro e fuori terra,  di circa un metro, in cui veniva versata acqua in quantità sufficiente per poter procedere progressivamente allo spegnimento delle zolle di calce viva, che trasformava il CaO in Ca(OH)2 -idrossido di calcio, con reazione fortemente esotermica.

Man mano che le zolle  venivano versate  nell’acqua,  che non doveva essere troppo abbondante per  non far abbassare eccessivamente la temperatura, si produceva una reazione esotermica istantanea con emissione di notevole quantità di vapor d’acqua e con forte riscaldamento dell’acqua che, comunque, a mano a mano che si consumava per evaporazione doveva essere integrata   per evitare che la calce si “bruciasse” per difetto di acqua e si producessero  dei grumi solidi che la rendessero inutilizzabile.

La calce spenta veniva ricoperta nella fossa con uno strato di tufina setacciata per evitarne l’esposizione al sole e  conservarne l’umidità.

I detriti di calce viva, rimasti per terra nella zona di scarico dopo lo spegnimento delle zolle, venivano raccolti raspando il terreno, frammisti a terra, e venivano spenti separatamente e sommariamente (il cosiddetto “criddhru”)  per essere utilizzati per la confezione del cosiddetto “murtieri”.

Il basso peso specifico delle zolle di calce era sinonimo di buona qualità e denotava l’alto tenore di carbonato di calcio nella roccia calcarea di origine. questa calce veniva adoperata specialmente per confezionare le malte impiegate negli intonaci.

La calce più pesante che proveniva dalla cottura di rocce calcaree in cui era più alto il tenore di silicio, veniva impiegata per il confezionamento della malta per le murature. Comunque, la  maggiore leggerezza (il minor peso specifico) delle zolle di calce viva denotava la migliore qualità.

La calce veniva ottenuta ”cuocendo” senza soste, per alcuni giorni,  la pietra calcarea in specie di fornaci dette “carcare” costituite da sorta di trulli realizzati con la pietra da cuocere, dentro i quali, come in un forno, si faceva ardere un combustibile naturale (frasche) che, a secondo della sua qualità (cioè del potere calorifico e quindi della temperatura che si riusciva a raggiungere), influenzava la qualità della calce che veniva prodotta.

Al termine della cottura si procedeva a “scaminare la carcara” cioè a smontare le singole zolle che venivano trasportate con i traini e vendute a peso.

I luoghi di produzione, per quel che riguarda la nostra zona, erano principalmente la zona dell’Arneo, il cui bosco forniva il combustibile naturale, e l’area di Galatone, da dove proveniva la calce di qualità  meno pregiata per l’elevato tenore di silicio della pietra.

Schema di una calcara (dis. di Fabrizio Suppressa)

 

Per le parti precedenti vedi qui:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

Sulla produzione e lavorazione della calce nel Salento vedi:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/09/calcare-e-calcinari-nellarneo-2/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/02/05/le-calcare-fucine-di-lavoro-e-produttivita/

Calcare e calcinari nell’Arneo


di Fabrizio Suppressa

La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.

Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.

 

ph Fabrizio Suppressa

 

La calce e le calcare

La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai

Calcare e calcinari nell’Arneo


di Fabrizio Suppressa

La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.

Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.

 

ph Fabrizio Suppressa

 

La calce e le calcare

La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai

Le calcare, fucine di lavoro e produttività

LE CALCARE?

FORNACI ARDENTI PER CALCE VIVA

di Giuseppe Massari

Fucine di lavoro e produttività. Luoghi idonei in cui veniva cucinata la calce da utilizzare per abbellire, imbiancare e pulire mura e pareti di palazzi, di case, di lamie. Numerose e tante, in un contesto abitativo molto piccolo, hanno assolto ad una funzione, ad un ruolo economico ed occupazionale di mano d’opera, oltreché  di salvaguardia, di pulizia, di tutela e di rispetto dell’ambiente. Oggi, sono dismesse, abbandonate al loro infame destino. Trascurate e dimenticate, come ogni cosa di cui disfarsi, secondo quella regola di progresso che impone solo il futuro incerto, senza garantire prospettive di identità.

Gravina aveva questa ricchezza insieme alle cave di tufo, di pietre, di mazzaro, alle cave e alle fornaci in cui si estraeva e cucinava l’argilla trasformata in coppi per coprire i solai o in brocche e tanti arnesi da cucina tra cui piatti e recipienti idonei al consumo del desco familiare. Era avanzata sotto il piano dell’edilizia. Non era seconda a nessuno. Anzi, fiorente in questo commercio, era all’avanguardia nell’esportare i suoi prodotti migliori, quelli trasformati dalla materia prima di cui madre natura l’aveva dotata.

Non c’è più traccia di questi siti, se non nella memoria di coloro che hanno adoperato braccia e il sudore della loro fronte. Un tentativo di recupero, se non alla loro funzionalità, ma almeno testimoniale, sembra impossibile o destinato a non essere recepito da un punto di vista storico e culturale dai proprietari. Sembra non esserci nessuna sensibilità neanche da parte degli enti pubblici, preposti, tra l’altro, a disperdere una certa memoria, una certa visibilità culturale.

Il declino della storia è destinato a soccombere, senza nessuna possibilità di rialzarsi con quella necessaria e dovuta punta d’orgoglio, nonostante sollecitazioni, strumenti e mezzi che potrebbero essere utilizzati, se solo si pensa alla possibilità di attingere a finanziamenti europei. Queste celle diroccate, questi tufi, ormai, ammassati, sotto cumuli di immondizia, di erbacce possono continuare a languire, a far perdere le loro tracce. Hanno fatto il loro tempo.

Nonostante ciò, però, c’è qualcuno che non dispera. Tanto è vero che è stato realizzato un calendario con immagini e storia di questi antichi opifici. A curarlo è stata l’Associazione Amici della Fondazione Ettore Pomarici Santomasi, un sodalizio impegnato da anni a recuperare, ma soprattutto a non far disperdere l’immenso patrimonio storico, culturale, abitativo di una città che ha avuto in dono molto e poco ha dato al bene gratuitamente ricevuto.

La professoressa Marisa D’Agostino, presidente dell’Associazione, ha censito, grazie all’ausilio di alcuni proprietari, tutto l’intero patrimonio, che, attualmente, ammonta  ad un numero di 13 fornaci, forse, anche recuperabili da un certo punto di vista. Ma niente di più per quello che poteva essere un simbolo di creatività, di operosità.

Il destino di queste ricchezze naturali è tutto da inventare, se non si vuole continuare ad affidare al tarlo del tempo quello che ha rappresentato ricchezza e benessere per l’intera comunità.

Un immenso ed inestimabile tesoro naturale da poter vantare come gioielli, come ricchezza, diventato fastidioso ingombro, forse, di cui disfarsi, perché ormai, l’incuria del tempo e degli uomini ha saputo sciupare e dilaniare senza rispetto per nulla e per nessuno, e per cui, ogni intervento di recupero sarebbe o potrebbe risultare inutile. Di questa cultura, purtroppo, è impregnato il nostro tempo, il nostro correre affannati verso il nulla, verso l’assurdo e l’ignoto.

La città avrebbe dovuto mostrare tutta la sua sensibilità per conoscere, apprezzare, valorizzare, sensibilizzare, ricostruire. Invece, è il degrado il nuovo padrone a cui, volontariamente o involontariamente, sappiamo dire di si, con incoscienza, con leggerezza e faciloneria, il tutto accompagnato da quella dose di ignoranza che fa da sfondo, da cornice e da scena al teatro mesto di un corteo funebre che sopravanza in maniera inesorabile, spietata, crudele ed irreversibile e anche inarrestabile e inafferrabile.

Foscolo, in una delle sue poesie: A Zacinto, presagiva “a noi il fato prescrisse illacrimata sepoltura”. E’ quello che potrebbe toccare, se non lo ha già toccato, il destino delle cose belle, delle cose sacre, della storia recente di quegli uomini, pur non fatti per vivere come bruti, secondo il sommo poeta Dante, ma per seguir virtude e conoscenza, e, invece, si sono mostrati e si mostrano, ogni giorno di più, dissacratori, distruttori, assassini, negativi e cattivi maestri.

Veri iconoclasti della memoria, delle tradizioni, della cultura, dei saperi e dei sapori. Di quei cimeli resta ben poco, se non il nulla o il niente. Non c’è più nessuno che sappia o saprà farli amare.

Resta, però un fatto, una considerazione amara. Quanto resisterà la nostra sudditanza psicologica al progresso? Quanto resisterà la nostra inesistenza? Quanto durerà la nostra supponenza? Quanto durerà la nostra vita insipida, vuota e scialba?

Sono domande da cucinare in quelle stesse fornaci che abbiamo distrutto, e, quindi, non avranno risposta, se non appicchiamo il fuoco amico dell’orgoglio cittadino, dell’appartenenza e della identità.

 

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