Raffaele Monteanni da Lequile, maestro intagliatorein legno e artefice d’intarsi

 

di Filippo Giacomo Cerfeda

Le primissime informazioni su Raffaele Monteanni possiamo recuperarle in un lungo articolo di Pietro Marti sugli architetti, pittori e scultori leccesi, pubblicato nel 1927 nella rivista “Il Salento”. L’autore, nel tracciare le qualifiche professionali del Monteanni, come “intagliatore in legno e artefice d’intarsi” ne esprime anche un giudizio: “modesto ma infaticabile”.

Per lo scrittore Marti egli è un frate, generando quell’errore che si riscontra anche in numerosi cronisti e studiosi del Salento nei decenni successivi. Merito di Marti però è quello di una prima segnalazione di alcune opere del maestro, realizzate tra il 1793 e il 1797. Ma riportiamo fedelmente la presentazione del Marti:

Modesto ma infaticabile frate. Intagliatore in legno e artefice d’intarsi, nato in Lequile nella seconda metà del secolo XVIII. Portano il suo nome: il Coro in noce della Chiesa di S. Domenico Maggiore in Taranto, il Coro della Parrocchiale di Copertino (1793), il Pulpito della Parrocchiale di Tricase (1795), il Coro della Parrocchiale di Uggiano (1797) [1].

Il coro di Spongano. Foto di Federica Urso

 

Diverso parere, in merito al giudizio, è quello registrato nelle “pagine sparse di storia cittadina di Lequile”, scritte nel 1933 da Amilcare Foscarini e pubblicate nel 1941. Il Foscarini, nel tracciare brevemente tutti gli uomini illustri della città, annovera anche Raffaele Monteanni, definendolo “Intagliatore di molto merito, nato nella seconda metà del sec. XVIII. Empì di suoi lavori tutta la provincia di Lecce. Intarsi, cori, pergami, ed altro, trovansi sparsi a Taranto, Copertino (1793), Scorrano (1790 e 1801), Tricase (1795), Uggiano La Chiesa (1796) ed altrove” [2]. Ma è soprattutto nella ristampa di questo prezioso contributo che emergono interessanti informazioni sul Nostro artista.

 

Il curatore della ristampa, Michele Paone, in una ricchissima nota, riprende e illustra brevemente i risultati della tesi di laurea sul Monteanni discussa da Enzo Rizzato, a cui si deve una diligente e laboriosa ricerca biografica sullo stesso Monteanni sostenuta da imponente documentazione archivistica [3].

Notevoli quindi sono i contributi aggiuntivi alla prima edizione del Foscarini, debitamente inseriti nelle note dal curatore Paone e corredati da una ricchissima bibliografia. Lequile può certamente vantare di aver dato i natali a numerosi personaggi, in tutti i campi, soprattutto in quello artistico. Per tale ragione nelle pagine relative a Lequile, pubblicate nel volume sull’edilizia domestica e architettura religiosa nell’area della Cupa, il curatore Antonio Costantini scrive:

La vicinanza al capoluogo, la presenza di due noti ed operosi architetti, come Salvatore Miccoli e Fra Nicolò da Lequile, di artisti, come lo scultore e pittore Francesco M. da Lequile e Oronzo Rossi, e dell’intagliatore Raffaele Monteianni, hanno fatto di Lequile uno dei principali centri del barocco salentino. [4].

Il De Dominicis, nella sua corposa monografia su Spongano, sostiene che

Raffaele Monteanni è figlio di Lucio, originario di Lequile, vicino Lecce, accasato a Spongano con Maddalena, figlia di Andrea Marzo. Realizza l’artistico coro in legno con la tecnica della tarsia nel 1795 [5].

Elementi sobri ed essenziali quelli riferiti al maestro intagliatore nel descrivere gli stalli in legno della parrocchiale di Spongano. Ed è proprio in questo luogo che Monteanni stabilisce la sua dimora, fino alla morte, dopo aver contratto un secondo matrimonio con Maddalena Marzo, proveniente da una ricca e cospicua famiglia del paese.

Ma ritorniamo alle diligenti ricerche di Enzo Rizzato, magistralmente sintetizzate da Paone e inserite nella nota di approfondimento del profilo di Monteanni. Dalla dissertazione di laurea si ricava che Raffaele Monteanni

nacque in Lequile il 20 ottobre 1754 dal bracciante agricolo Ciro Monteanni e da Caterina Sciombovuto e fu battezzato il giorno successivo, ricevendo, oltre il nome di Raffaele, gli altri di Giosuè, Lazzaro e Gaetano. A ventidue anni, il 10 agosto 1776, sposò in Martina Franca la trentenne Angela Aversa da Cisternino, vedova di Donato Olivieri, dalla quale ebbe quattro figli: Maria Caterina, nata il 14 agosto 1776, Beatrice Maria Chiara, nata il 12 agosto 1780 e morta in Spongano il 1833, Benedetta Giuseppa, nata il 27 luglio 1784 e Benedetto Giuseppe, nato il 24 marzo 1787. La moglie morì quarantacinquenne il 23 febbraio 1791 e fu seppellita nella suburbana chiesa di S. Stefano. Trasferitosi in Spongano, vi sposò il 4 ottobre 1792 Maddalena Marzo, dalla quale ebbe: Maria Giuseppa Domenica Leonarda, nata il 3 giugno 1794 e morta il 1820, Francesco Antonio Maria Giuseppe Cornelio Tiziano Giorgio Raffaele, nato il 16 settembre 1800 e morto il 1823, Michele Angelo Pietro Toma Pascale, nato il 6 marzo 1802, Caterina Vita Rosa Raffaela e morta il 16 febbraio 1815, Epifania, morta diciassettenne, Giorgio Maria Raffaele, nato il 22 aprile 1807, morto novizio, il 1828 e Maria Vittoria Vincenza, nata il 3 settembre 1811 e morta il 1829. La moglie morì cinquantottenne il 23 luglio 1827. Deputato del sale (1807), ternato (1808) per la carica di sindaco di Spongano, Surano ed Ortelle, Raffaele Monteanni è, il 1815, sindaco di Spongano, Surano ed Ortelle e, l’anno successivo, deputato annonario. Muore in Spongano nella sua casa in via S. Leonardo il 7 agosto 1835. [6].

La nota prosegue con un interessante aggiornamento delle opere del maestro ebanista, compreso quelle che andrebbero espunte dal suo catalogo per una scorretta o presunta attribuzione.

Negli anni 1788-1789 realizza egregiamente gli stalli in legno nel coro retrostante l’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Spongano, secondo il progetto realizzato dallo stesso Monteanni e consegnato al clero locale.

Le vicende della realizzazione del coro ligneo di Spongano sono illustrate in un atto notarile inedito del 1788 che qui di seguito si espongono.

Altra angolazione del coro di Spongano. Foto Federica Urso

 

L’ALBARANA DEL 1788

Grande la nostra soddisfazione nell’aver individuato nei protocolli notarili di Giovanni Stasi di Diso del 1788 l’albarana di Spongano*, ossia la convenzione tra la civica amministrazione di Spongano ed il maestro Raffaele Monteanni per la realizzazione degli scanni in legno del coro della novella chiesa parrocchiale, solennemente benedetta nel 1770. Grande fermento c’era in quegli anni successivi alla riedificazione del nuovo edificio, sia per la realizzazione degli altari laterali sia per il loro abbellimento e decoro, attraverso i dipinti, le suppellettili e gli arredi sacri.

Ci è gradito consegnare ai lettori la sintesi di un lavoro di ricerca più ampio e articolato sulla chiesa parrocchiale, sull’albarana degli scanni e sul maestro artista Raffaele Monteanni.

Il rogito notarile è del 24 aprile 1788 ed è stato stipulato nella Terra di Spongano [7].

Davanti al notaio Giovanni Stasi di Diso si presentano Raffaele Monteanni, definito “magnifico” maestro, originario della Terra di Lequile, sposato e domiciliato nella città di Martina Franca, Girolamo Scarciglia e Giuseppe Maria Ruggeri, “deputati” ossia gli eletti dalla civica Amministrazione per gli abbellimenti e adornamenti che necessitano nella nuova chiesa parrocchiale insieme con Simone Lecci di Spongano, Regio Giudice ai Contratti, ed i sacerdoti di Spongano don Pietro Paiano, don Vito Spagnolo e don Casimiro Marzo.

Tra le parti si trattava e conveniva che il maestro Monteanni a sue spese e fatica dovesse costruire gli stalli in legno dentro il coro della chiesa parrocchiale, “secondo il disegno più moderno che apparisce nelle quattro figure, e proprio quello di basso del lato sinistro, formato detto disegno da esso magnifico Rafaele, e lasciato in possesso di detti Signori Deputati … di noce massiccio“.

Il costruttore aveva a disposizione due anni e mezzo di tempo utile, calcolato a partire dalla data dell’atto notarile. Per il lavoro il maestro Raffaele si rimetteva alla generosità e gentilezza dei signori “deputati” dal governo cittadino. Nell’albarana si stabiliva che il maestro falegname doveva mettere tutto il legname necessario per la costruzione degli stalli in legno. E tutto questo per il prezzo convenuto tra loro di 300 ducati, sia per il materiale, sia per la fatica, pagabili a rate.

Ma quali caratteristiche tecniche doveva avere l’intero complesso del coro? Si stabiliva, in particolare, che gli stalli dovevano essere realizzati in noce massiccio; le spalliere, i pilastri e ogni genuflessorio dovevano essere impellicciati, consistenti in noce, ulivo e lestinco romano; l’ossatura delle spalliere, i pilastri e il genuflessorio dovevano essere tutto di abete veneziano; il pavimento che sostenevano gli stalli e il sedile dovevano essere di larice, mentre il sedile del piano basso di legno di noce. In sostanza dovevano essere impiegate ben cinque qualità di legno.

La convenzione prevedeva anche la quantità e le forme di pagamento. A conclusione del rogito notarile dovevano essere sborsati immediatamente i primi venti ducati; altri ducati quaranta alla fine del mese di settembre 1788; altri ducati quaranta alla fine di gennaio 1789; altri ducati cinquanta dopo il primo fissaggio degli stalli nel coro; altri ducati cinquanta alla fine dell’opera. I restanti cento ducati, per il completamento dell’intera somma di 300 ducati, dovevano essere liquidati nel termine di un anno esatto dopo la definitiva collocazione degli stalli. Queste somme rateali dovevano essere consegnate brevi manu direttamente al maestro Monteanni se si trovava a Spongano, altrimenti nella città di Lecce nelle mani di una persona fidata.

I due “deputati” Scarciglia e Ruggeri promettono e si obbligano di somministrare al maestro Raffaele ed ai suoi aiutanti, per quel tempo che dimoreranno a Spongano per l’installazione degli scanni, l’uso di una abitazione privata, fornita di cucina, secondo il costume praticato in simili circostanze.

L’ultima parte dell’albarana è dedicata a tutte quelle situazioni avverse ed inaspettate che potevano verificarsi nel tempo concordato, tali da vanificare il progetto originario. Si pongono quindi delle condizioni affinché l’impegno civile e morale dei deputati, dell’amministrazione civica e della cittadinanza, e la spesa materiale non venissero a mancare nel caso di gravi situazioni di salute o di morte.

L’opera viene egregiamente portata a termine ed installata nel coro retrostante l’altare maggiore, secondo il progetto realizzato dallo stesso Monteanni e consegnato al clero di Spongano nel 1795, come attesta l’intarsio.

Purtroppo, quel disegno e progetto originario non esiste più nell’archivio parrocchiale, ma il ritrovamento dell’albarana del notaio Stasi sostituisce ed illumina le vicende di una lunga trattativa conclusasi felicemente con la consegna di una pregevole opera d’arte.

Il maestro intagliatore continuerà la sua attività con la produzione di altre meraviglie: il coro della chiesa di San Domenico Maggiore in Taranto (1787-1788); il coro della cappella dell’Immacolata in Martina Franca (1791); il coro della Collegiata di Copertino (1793); il pulpito della chiesa matrice di Tricase (1795); il coro della chiesa matrice di Uggiano la Chiesa (1796); il pulpito (1799) e il coro (1801) della chiesa degli Agostiniani in Scorrano ma avrà stabile e fissa dimora a Spongano dove risiederà fino alla morte.

Ai tempi di Monteanni l’Europa è percorsa da importanti novità quali le leggi eversive della feudalità promulgate dalla Francia rivoluzionaria e poi divulgate in tutti gli stati conquistati. Così anche in Italia e nel Salento.

Tra le riforme attuate da Giuseppe Bonaparte, una delle più significative è quella del 2 agosto 1806 che, abolendo gli ordinamenti feudali, poneva fine alla giurisdizione baronale sui comuni (le antiche Universitas) e ai diritti sulle persone.

Non ci furono i benefici sperati per le classi subalterne, sul frazionamento dei latifondi e sulla concessione delle terre con contratto di enfiteusi ai contadini e ai fittavoli; tuttavia questo nuovo ordinamento, favorì  nei Comuni la formazione di una nuova classe dirigente chiamata a svolgere funzioni di governo sulla base non più degli antichi titoli nobiliari, ma del censo; e così professionisti (come notai, medici, avvocati), commercianti artigiani e proprietari terrieri potranno ricoprire la carica di sindaci e decurioni nei Comuni, di consiglieri distrettuali e provinciali nei rispettivi organismi.

Il decurionato comunale era un organo amministrativo i cui membri venivano sorteggiati tra i cittadini benestanti che possedevano un reddito annuo non inferiore a 25 ducati nei Comuni fino a 3.000 abitanti, a 48 ducati nei Comuni maggiori; il presidente dell’assemblea, il sindaco e i suoi più stretti collaboratori (gli eletti e i deputati) venivano scelti dagli stessi decurioni, la cui nomina era vincolata al beneplacito dell’intendente provinciale, che aveva altresì il potere di revocarli dalla carica nel corso del mandato. I decurioni (o almeno un terzo di loro) dovevano saper leggere e scrivere.

La ristrutturazione amministrativa attuata dal re Giuseppe Bonaparte interessò anche le Universitas della ex contea di Castro. Con queste norme i conti di Castro che avevano per secoli tenuto sotto il loro dominio le comunità di Diso, Marittima, Vignacastrisi, Ortelle, Spongano e Castro, i baroni Spinola e i principi Caracciolo (feudatari di Andrano), i baroni Ventura, Maramonte e i marchesi Castriota (feudatari di Castiglione), lasciarono il posto ai rappresentanti della classe borghese nell’assunzione delle funzioni del governo locale e consentiranno a un artigiano di rango come Raffaele Monteanni di diventare Sindaco di Spongano.

Nonostante la prima deliberazione in assoluto, quella cioè relativa all’istituzione del Decurionato di Spongano, non sia giunta fino a noi, disponiamo, però, della conclusione decurionale successiva (la prima dal punto di vista archivistico), datata 11 dicembre 1808, sindaco Francesco Marzo, che riguarda la proposta della terna di amministratori per il 1809. Non bisogna dimenticare che per i primi anni del Decurionato i sindaci duravano in carica solo un anno, come nel vecchio regime.

Per Spongano vengono scelti, a maggioranza, lo stesso Marzo, Raffaele Monteanni e Pasquale Paiano; per Surano, ad unanimità, Domenico Cutrino, Saverio di Giuseppe Galati e Vito Galati; per Ortelle, sempre ad unanimità, Paolo Vito De Luca, Fedele De Luca e Vincenzo Abate.

Nel 1815 Raffaele Monteanni, che pure negli anni precedenti aveva svolto ruoli istituzionali, è Sindaco e ne troviamo traccia nell’atto notarile del 28 gennaio 1815, rogato dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, riguardante l’assegnazione del patrimonio sacro al novizio di Spongano Giuseppe Rini da parte del padre Antonio Rini. Nel rogito vi è il certificato del Comune di Spongano con la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni [10].

Segue un altro atto dello stesso notaio Fello del 22 aprile 1815. Gennaro Rizzo, contadino di Spongano, abitante nella strada detta dello Putriso, vende e cede a Paolo Donato Rizzo di Spongano, abitante in strada del “puzzo d’avanti”, due fondi semenzabili siti nel Campo di San Vito a Ortelle. Anche in questo rogito leggiamo la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni, negli ultimi mesi del suo mandato amministrativo [11].

Nel mese di novembre Monteanni non è più Sindaco, infatti, tale carica è ricoperta dal De Micheli, come chiaramente appare in un allegato dell’atto notarile del 6 dicembre 1815 [12] e del 12 dicembre 1815 [13].

Il cospicuo patrimonio economico di Raffaele Monteanni, il radicamento nel tessuto sociale di Spongano e la sua intensa devozione verso la Vergine Immacolata, venerata soprattutto dai confratelli della locale Congregazione, lo porteranno ad offrire alla chiesa confraternale “un apparato fatto nuovo”. Certamente il riferimento è di un apparato d’altare ma la telegrafica segnalazione del redattore dell’inventario non consente di fissare con precisione la natura di questo “apparato” [14]. Un apparato nuovo, donato alla Confraternita dal “Maestro Rafaele Monteanni”. Vogliamo pensare che lo stesso falegname, nel ruolo di confratello dell’Immacolata, abbia realizzato anche i telai dei dipinti del presbiterio e delle pareti laterali, ma senza una documentazione certa tutto ciò resta una mera supposizione.

Raffaele Monteanni muore a Spongano nella sua casa in via San Leonardo il 7 agosto 1835 all’età di ottanta anni. Nell’atto di morte, redatto l’otto agosto 1835, Raffaele Monteanni viene registrato come “falegname intagliatore” ed anche il figlio Michele, che davanti al sindaco Luigi Paiano ne dichiara la morte, viene registrato “di professione falegname” [15].

La famiglia è ormai ben radicata a Spongano e qui vivono ed operano i figli dell’artista.

Benedetto Giuseppe Monteanni è il quarto figlio di Raffaele, avuto dal primo matrimonio con Angela Aversa. Gli viene attribuito lo stesso nome della sorella nata tre anni prima, Benedetta Giuseppa, morta quasi certamente in tenera età. Nel corso della sua vita Benedetto Monteanni eserciterà il mestiere del padre, conquistando lo stesso prestigio paterno sia nel campo sociale che in quello economico. Ciò risulta evidente in numerosi atti notarili, rogati nel primo ventennio dell’Ottocento, nei quali Benedetto compare come testimone e proprietario di beni fondi nel territorio di Spongano [16].

Diversa affermazione sociale viene raggiunta da Giuseppe Monteanni, figlio di Benedetto e nipote di Raffaele, che nella seconda metà dell’Ottocento ricopre un ruolo di prestigio sociale come “capo musico” della locale banda musicale di Spongano [17]. Le recenti operazioni di riordino e di inventariazione dell’archivio confraternale “Maria SS. Immacolata” di Spongano, hanno messo bene in evidenza numerosi mandati di pagamento a favore di Giuseppe Monteanni, coinvolto con la sua banda nelle maggiori festività promosse dalla locale Congregazione e soprattutto nelle processioni religiose durante i riti della Settimana Santa. Nel Mandato di pagamento dell’otto dicembre 1861 si fa esplicito riferimento al capo musica della banda musicale di Spongano, impegnata nelle festività civili e religiose dell’Immacolata Concezione [18]. Nel Mandato di pagamento del 26 marzo 1869 troviamo Giuseppe Monteanni che riceve dalla Confraternita ducati 7 per essere capo della compagnia musicale di Spongano, impegnata nella processione del Venerdì Santo [19]. Nel Mandato di pagamento datato 2 maggio 1870 si dispone la somma di lire 31 e centesimi 66 (pari a ducati 7 e grana 45) al signor Giuseppe Monteanni, capo musico di Spongano, per la processione del Venerdì Santo [20].

 

particolare, foto Andrea Pedone

 

 

particolare con la dedca, foto Andrea Pedone

 

 

particolare della dedica e della firma, foto Andrea Pedone

 

* Nel Grande Dizionario della lingua italiana del Battaglia il termine “albarana” deriva dall’antico sostantivo femminile “albarà” col significato di polizza, quietanza, ricevuta di pagamento (che attestava la tassa pagata per la merce importata, ed esentava il mercante da ulteriori obblighi doganali). Nello spagnolo antico il termine è attestato già nel 1039 nelle diverse forme di albarà, albaran e albalà, col significato di “cedola regia”. Nella lingua araba il termine al-barà’a aveva il significato di “ricevuta di pagamento” e perciò “esenzione”. Dal latino medievale albaranus si è avuto il volgarizzamento siciliano albarà e poi alberanu con il significato di “scrittura privata”. Entrato nel linguaggio giuridico e notarile il termine è stato utilizzato nel significato di “convenzione”, “accordo tra due parti” e nei rogiti notarili appare indifferentemente nelle due forme: maschile (albarano) e femminile (albarana).

 

NOTE

  1. MARTI PIETRO, Elenco di Architetti, Pittori e Scultori fioriti in Provincia di Lecce fino a tutto il secolo XIX e novero delle loro opere principali, in IL SALENTO, Almanacco 1927, compilato da Gregorio Carruggio, Lecce, Stabilimento tipografico Giurdignano, 1926, p. 47.
  2. FOSCARINI AMILCARE, Lequile. Pagine sparse di storia cittadina, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo editore, 1976, p. 84.
  3. FOSCARINI, op. cit., pp. 84-85.
  4. COSTANTINI ANTONIO (a cura di), Edilizia domestica e architettura religiosa nell’area della Cupa, Regione Puglia assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/39 San Cesario di Lecce, editrice Salentina, Galatina, 1999, p. 52.
  5. DE DOMINICIS FERNANDO, Spongano da villa a Comune. Storia e documenti, Capone Editore, Lecce 2003, vol. I, pp. 395-396.
  6. FOSCARINI, op. cit., pp. 84-85.
  7. ARCHIVIO DI STATO DI LECCE (d’ora in poi ASL), fondo Protocolli notarili, Protocolli di Giovanni Stasi di Diso, 35/4, anno 1788, atto notarile del 24 aprile 1788, foll. 83r-85v (in lapis), 70r-72v (cartulazione coeva).
  8. ARCHIVIO DIOCESANO DI OTRANTO (d’ora in poi ADO), fondo Curia arcivescovile, sez. I, serie Sacre Ordinazioni, sottoserie Spongano, anno 1808, fascicolo personale di Michele Marzo, Fede di verità del luogotenente di Spongano Giuseppe Alemanno.
  9. ADO, fondo Curia arcivescovile, sez. I, serie Sacre Ordinazioni, sottoserie Spongano, anno 1808, fascicolo personale di Raffaele Corvaglia, Fede di verità del luogotenente di Spongano Giuseppe Alemanno.
  10. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 28 gennaio 1815, foll. 16r-21r.
  11. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 22 aprile 1815, foll. 65r-67r. Al folio 67r vi è la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni.
  12. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 6 dicembre 1815, foll. 130r-132r. Al folio 132r vi è la firma autografa del sindaco De Micheli.
  13. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 6 dicembre 1815, foll. 130r-132r.
  14. ARCHIVIO CONFRATERNITA IMMACOLATA DI SPONGANO (d’ora in poi ACS), serie Corrispondenza e carteggio, unità archivistica n.3, “Inventario de’ Sacri Arredi, ed utensili della Congrecazione di Spongano”, doc. non datato ma post 1830-ante 1863. Questo inventario è stato integralmente pubblicato da CERFEDA FILIPPO GIACOMO, Loquar ad cor eius. La chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano e l’omonima Confraternita, Edizioni Giorgiani, Castiglione d’O. 2014, pp. 234-235.
  15. ARCHIVIO COMUNALE DI SPONGANO, Registro degli atti di morte del 1835, foglio n. 6, atto di morte n. 11 dell’otto agosto 1835 di Raffaele Monteanni. Ringrazio Gino Tarantino e Virgilio Corvaglia per la piena disponibilità nel recuperare l’atto di morte di Raffaele Monteanni presso l’archivio comunale di Spongano. Il documento, finora inedito, viene quindi a pieno titolo recuperato e inserito nel presente saggio.
  16. Nell’atto notarile del 24 dicembre 1811, redatto a Spongano dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, foll. 61r-72r, troviamo i contraenti: Giuseppe Nicola Scarciglia e Maddalena Scarciglia; i due testimoni: Benedetto Monteanni, figlio di Raffaele Montejanni e Simone Lecci. Si segnala ancora l’atto notarile del 26 settembre 1816, rogato dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, foll. 85r-89r. In questo atto di acquisto tra i testimoni vi è anche Benedetto Montejanni, falegname, figlio di Raffaele.
  17. GIUSEPPE CORVAGLIA, Zinnananà. Storie di bande e musicanti, Edizioni Youcanprint, Lecce, 2020, pp. 18 e 205.
  18. ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1861, Mandato di pagamento 8 dicembre 1861.
  19. ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1869, Mandato di pagamento 26 marzo 1869.
  20. ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1870, Mandato di pagamento 2 maggio 1870.

 

 

Un profilo di Luigi Massimo Grande

 

di Lorenzo Madaro

Uno studio giovanile 3
Uno studio giovanile

Tra gli artisti di Terra d’Otranto attivi tra Otto e Novecento quasi misconosciuti – probabilmente per la mancanza di un’ampia fortuna critica rispetto ai contemporanei più celebri, e per l’assenza di un sostanzioso corpus di opere – vi è Luigi Massimo Grande, nato a San Pietro in Lama il 23 ottobre 1871 da «Don Oronzo Grande fu Antonio di anni Cinquatotto di professione proprietario domiciliato in San Pietro in Lama [e da] Donna Filomena Cagnazzo fu Vito»[i].  La vicenda biografica e artistica di Grande è stata prontamente registrata dallo studioso Amilcare Foscarini nel suo manoscritto Arte & Artisti di Terra d’Otranto, anche se va riconosciuto che il primissimo riordino biografico si deve a Colamussi che, in un articolo apparso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” nel novembre 1933, a cinque anni dalla morte dell’artista, ha tratteggiato gli essenziali momenti della sua esistenza[ii]. Sia Colamussi, che Foscarini – e di seguito tutti gli altri autori che si sono occupati dell’artista –, l’hanno chiamato Grandi e non Grande, come invece risulta dal suo atto di nascita; d’altronde è lo stesso Luigi a firmarsi con continuità Grandi solo dopo il 1892, visto che a questa data risale un ritratto di Angelantonio Paladini firmato, appunto, Luigi Grande.

Foscarini all’inizio della sua biografia fa immediatamente riferimento alle radici culturali e visive dell’artista, asserendo che «non è esagerazione il dire che, forse, nella stessa sua patria, schiuse l’animo suo sensibile allo studio di quelle due arti nelle quali dette prove della sua genialità.

Uno studio giovanile 2
Uno studio giovanile

Chi sa, giovanetto, quante volte ebbe agio di penetrare nello Stabilimento di ceramica che un nobile gentiluomo leccese vi aveva fondato e che una vera tempra di artista degnamente dirigeva. Tra statue in creta, tra’ vasi dipinti e circondati da fiori, tra quelle colonne scanalate in creta e dipinte color bronzo, tra’ mille gingilli che la valentia del direttore vi faceva eseguire, l’occhio suo spaziava fra quelle, per lui, meraviglie e ne traeva alimento pel suo spirito»[i]. Naturalmente lo studioso leccese si riferisce alla Manifattura Paladini, dove evidentemente Grande ha appreso la prima formazione nel disegno e nella decorazione della ceramica che, come si scorgerà, risulterà il biglietto da visita necessario per l’accesso all’insegnamento nella scuola d’arte applicata alla ceramica di Castelli, in Abruzzo.

Uno studio giovanile
Ancora uno studio giovanile dell’artista

Quella che Foscarini propone come una sorta d’ipotesi – ovvero la frequentazione della Manifattura Paladini – è un dato da ritenere certo; il citato ritratto di Angelantonio eseguito da Grande (Lecce, coll. privata), testimonia una vicinanza con la famiglia Paladini, e l’intercessione dell’onorevole Bernabei – già in contatto con  Paladini nel 1878, anno in cui la manifattura ha partecipato alla mostra internazionale di Parigi[ii] – per l’incarico d’insegnamento nella scuola di Castelli, ribadisce un rapporto diretto con quel «nobile gentiluomo leccese». A prescindere da questi elementi, è chiaro che all’epoca un ragazzo di San Pietro in Lama con il talento per l’arte non poteva non avvicinarsi a quella straordinaria fucina di creatività e ingegno che fu la Manifattura Paladini, all’interno della quale, negli anni, sono passati e si sono formati talenti dello spessore di Giuseppe Manzo, Andrea De Pascalis, tra i più autorevoli cartapestai leccesi, e dello scultore, poi trapiantato a Napoli, Francesco De Matteis. Quella, per Grande, fu una vera scuola, e non solo perché lì ha acquisito importanti competenze tecniche, ma per gli stimoli che ha ricevuto, visto che la Manifattura Paladini «non solo divulgò attraverso copie e rielaborazioni la ceramica antica locale, [ma] propose la scultura contemporanea, ma contribuì a introdurre il gusto orientalista nel Salento nelle cosiddette “arti minori”, in perfetta sintonia con la vasta e suggestiva fioritura architettonica»[iii].

Scultura
Una scultura dell’artista

A detta di Colamussi la prima opera proposta in pubblico da Grande, siamo nel 1894, è Giosuè che fa scaturire l’acqua dal monte, un pastello esposto, così com’erano soliti fare i pittori del tempo, in una vetrina di un negozio di Lecce. Sono certamente precedenti al suo apprendistato presso la Manifattura Paladini, e quindi da leggere come prime esercitazioni di un adolescente, gli schizzi disegnati a matita su due piccoli album (Lecce, collezione privata) che testimoniano un interesse verso la ritrattistica, anche se non mancano altri soggetti come caricature, puttini e immagini sacre, oltre che esercitazioni di calligrafia, una disciplina allora molto ammirata. Appunti visivi, schizzi veloci che dimostrano dimestichezza con il disegno, ma al contempo, anche se non in tutti i casi, una certa difficoltà del giovane nell’impostazione e nella resa delle anatomie. Sono degne d’interesse le teste virili conservate in questi due album; si tratta di disegni che dimostrano un’espressività notevole nella resa dei tratti del viso, gli stessi che ritroveremo in un gesso, eseguito probabilmente nei primissimi anni del Novecento, conservato a Lecce presso una collezione privata. Sono evidentemente esercitazioni, non a caso in alcuni fogli si scorgono più soggetti sulla stessa facciata; in uno di questi, oltre a un putto visto di spalle, Grande ha disegnato un giovane dai lineamenti molto caratterizzati e dai ciuffi ribelli; forse uno dei suoi primi ritratti.

Sicuramente insoddisfatto delle possibilità che il territorio era in grado di offrire a un giovane artista, e probabilmente per la volontà di proseguire la sua formazione presso un istituto artistico qualificato – evidentemente qualcuno, può darsi lo stesso Paladini, gli aveva suggerito di conseguire un titolo accademico per inseguire la strada dell’insegnamento –, Grande decide di stabilirsi altrove e tentare la fortuna, come d’altronde avevano fatto o stavano per fare molti altri giovani artisti conterranei.

Al 1898 – all’età di ventisette anni – risale il suo trasferimento a Roma; qui s’iscrive ai corsi di decorazione plastica del Museo Artistico Industriale (M.A.I.), una tappa fondamentale per chi all’epoca intendesse studiare e approfondire il “mestiere” dell’artista; nell’istituto, inaugurato nel 1873 per «raccogliere i prodotti delle arti industriali»[iv], «l’attività [degli allievi] fu […] soprattutto diretta al recupero e alla conservazione di un lessico desunto dalla tradizione classica, così presente in tutti i circuiti della cultura ufficiale e in particolar modo a Roma, neo capitale e città guida e custode del patrimonio culturale nazionale»[v]. È quindi palese che all’intero di questo istituto non abbia ricevuto stimoli particolarmente innovativi, ma insegnamenti rigorosamente legati allo studio dei canoni basilari della scultura, della pittura e del disegno. Al M.A.I. insegna un autorevole scultore salentino, Eugenio Maccagnani (Lecce, 1852 – Roma, 1930)[vi] che, da quanto testimonia Colamussi, gli procura un sussidio economico dal Consiglio Provinciale di Lecce[vii]. Nonostante l’apprezzamento di Maccagnani, Grande si lega piuttosto a un altro maestro allora attivo nella capitale, Valerio Laccetti (Vasto, 1836 – Roma, 1909)[viii] – a sua volta allievo di Filippo Palizzi –, che ha influito certamente per quell’attenzione costante al paesaggio campestre, così profondamente analizzato da Grande soprattutto intorno agli anni Venti, e per una forte dose di incoraggiamento se, come riportato da Colamussi, asserì che «i suoi lavori di pittura e di scoltura sono fatti con gran criterio d’arte e con molta accuratezza»[ix].

Durante la permanenza romana, Grande frequenta poi la Scuola libera con “modello vivente” annessa al Regio Istituto di Belle Arti, dove perfeziona le sue competenze nel campo della ritrattistica, il tema prediletto della sua prima attività, anche se il citato ritratto di Paladini (1892) già rivela ottime doti da ritrattista.

Ritratto di Vincenzina Caretti
Ritratto di Vincenzina Caretti

Sono gli anni in cui si distingue come autore di ritratti «somiglianti» e «riuscitissimi», come quello che effigia il Duca Sigismondo Castromediano (1897) realizzato con pastelli su carta (oggi a Lecce in una collezione privata) e i ritratti del colonnello Bellisario Colamussi e della moglie, Vincenzina Caretti, che dimostrano un’aderenza quasi fotografica al soggetto, in linea con certa ritrattistica del tempo che nello stesso Salento troverà ampio riscontro nell’attività di artisti come, per esempio, Realino Sambati.

Ritratto di Paladini
Ritratto di Paladini

Per Grande segue un periodo di temporaneo ritorno nella sua terra, dove tra il 1901 e il 1902 espone alcuni pastelli a Lecce. Nel 1906, probabilmente per i “soliti” motivi legati alla mancanza di buone prospettive lavorative, rientra a Roma e su proposta di Raniero Mengarelli, direttore del Museo di Villa Giulia, restaura alcuni stucchi antichi lì conservati. In questo periodo esegue poi i busti di Costanza, Ricciotti, Bruno e Costante Garibaldi, allora ospitati, insieme ad alcuni suoi pastelli, nella raccolta d’arte di Costanza Garibaldi. Nella sua produzione legata al ritratto, vanno poi annoverati: il busto di gesso dell’avvocato salentino Nicola Bruni e il Busto di un Giovine ungherese. Foscarini, citandolo, definisce quest’ultimo superbo, e lo stesso Colamussi – cui è appartenuta l’opera da individuare con certezza con la scultura oggi conservata in collezione Lorenzo Carlino a Lecce – dimostra di apprezzarla molto. Il Busto di un Giovine ungherese è stato esposto a una biennale romana e ed è stato recensito sulle colonne del “Messaggero”; per Colamussi era l’opera più amata dallo stesso artista, magari per «il particolare incanto ottenuto con la figura che nel fresco sorriso della giovinezza coglie l’ombra imminente della morte»[x].

Grande - paesaggio
Paesaggio

In seguito Grande è chiamato a insegnare disegno presso la “Scuola di Arte applicata alla Ceramica” di Castelli, in provincia di Termoli[xi], su proposta del già citato onorevole Bernabei, presidente del consiglio direttivo. Qui dal 1906, anno del decreto del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio[xii], si dedica con impegno alla didattica riscuotendo ampi consensi, ma la permanenza abruzzese dura poco visto che nel 1909 torna definitivamente nel Salento. Dimora a San Cesario di Lecce, presso la sorella, e insegna per un breve periodo alla Regia Scuola Artistica-Industriale “Gioacchino Toma” di Galatina[xiii], fino a ritirarsi definitivamente dal mondo dell’insegnamento per dedicarsi all’attività artistica.

Nel 1921 partecipa, accanto a Cesare Augusto Lucrezio, Agesilao Flora, Pietro Baffa e altri esponenti della scena artistica regionale, alla Mostra di Artisti Pugliesi ordinata nel Regio Museo Nazionale di Taranto, dove espone ben undici dipinti raffiguranti dei paesaggi pugliesi[xiv]. È proprio il tema del paesaggio a interessare l’artista in questi anni. A giudicare dalle recensioni e dai cataloghi delle mostre cui partecipa dal 1921, in questi anni sembra che abbia tralasciato l’interesse per la scultura per dedicarsi pienamente alla ricerca pittorica.

Dalle opere, tutte databili intorno agli anni Venti, visionate in alcune collezioni private, emerge un’attenzione costante, quasi ossessiva, per il paesaggio. Dipinti e pastelli, di grandi e piccole dimensioni, eseguiti su supporti diversi – dalla tela, alla carta, alla faesite –, in cui ritornano, con più o meno differenze, le stesse porzioni di paesaggio. Grande schiva una visione molto rigogliosa del paesaggio salentino, scansa attentamente luoghi riconoscibili e, in linea probabilmente con un carattere riservato, si sofferma su angoli misconosciuti, forse addirittura inventati e mixati, a metà strada tra la visione intima e la riproduzione cartolinesca. La costruzione del dipinto è relativamente semplice. Spesso in primo piano campeggiano due o più alberi – Grande ha una predilezione per i mandorli in fiore –, che scandiscono il ritmo dell’inquadratura e della resa del resto del panorama. Non c’è attenzione per i particolari e, a differenza dei citati ritratti a pastello realizzati a cavallo tra Otto e Novecento, l’artista rinuncia ai margini ben definiti per abbandonarsi a un controllato, ma al contempo intenso, rapporto con la natura. In secondo o terzo piano il più delle volte tratteggia con pochi colpi di colore dei caseggiati semplici, quelli della tradizione contadina, per poi far emergere alcuni frammenti di vegetazione con segni solcati con la punta del pennello. È un dialogo perpetuo con la natura, qualcosa di molto privato e intimo. Ma è anche uno studio continuo, un vero e proprio confronto, come si evince da una serie di dipinti a olio su faesite di piccole dimensioni, conservati in una raccolta privata, in cui si ravvisa anche un gusto per le colorazioni rosate, cromìe quasi inedite per la pittura salentina di paesaggio e invece per lui fondamentali.

Paesaggio
Paesaggio

Talvolta, come nel Grande paesaggio (Lecce, coll. privata), la composizione si fa più complessa, ma sempre sotto la “guida” di uno studio cromatico; sono difatti i colori – tracciati con piccole pennellate rapide – e i segni del pennello che, sostituendo il disegno, scandiscono le porzioni di vegetazione, gli arbusti grandi e piccoli, e definiscono sinteticamente la prospettiva dei caseggiati che si stagliano sullo sfondo a contatto con un cielo così dinamico e gravido di sussulti da ricordare quelli di Giovanni Segantini. Rimane la luce l’interesse predominante dell’artista in questa serie di paesaggi che – pur ricordando la campagna salentina, come si legge anche in alcune “cronache” degli anni Venti – potrebbero ricordare anche la campagna abruzzese, quella osservata durante la sua permanenza del 1906-1909.

Non è forse l’Impressionismo, la base su cui Grande ha improntato la sua ricerca sul paesaggio sotto il profilo formale e stilistico? Naturalmente meditato e rielaborato, per certi versi anche combinato alle sue radici visive e culturali, in altre parole l’Ottocento napoletano assorbito dai Paladini a San Pietro in Lama e in seguito a Roma sotto la guida del pittore Valerio Laccetti. È naturalmente Roma l’unico centro più aperto alle tangenze contemporanee da lui visitato, prima del definitivo ritorno in patria, il teatro in cui lui viene in contatto con le “novità” dell’Impressionismo e del Post Impressionismo. Non sono forse Pierre Bonnard o Vincent Van Gogh due probabili punti di riferimento? Si pensi agli Albicocchi in fiore del 1888 di Van Gogh, oggi ad Amsterdam. Naturalmente Grande non raggiungerà mai quei risultati di estrema sintesi formale e non proporrà mai quell’energia così palpabile, anche sotto il profilo cromatico, dei dipinti dei due artisti citati, ma questa è probabilmente una delle chiavi di lettura per comprendere le sue opere. C’è stato poi – e mi riferisco a Pietro Marti – chi ha proposto un altro tipo di legame con la pittura francese dell’Ottocento. Nel 1924, in occasione della I Mostra d’Arte Salentina di Lecce, passando in rassegna gli artisti presenti in mostra – da Raffaele Maccagnani a Mario Palumbo e Rita Franco – a proposito della presenza di Grande, Marti ha asserito, infatti, che «un artista che passava quasi inosservato era Luigi Grande; e ciò costituiva una ingiustizia, perchè a parte la tecnica quasi divisionista e la uniformità cromatica dei cìeli e dei piani nei suoi paesaggi si notava un completo trionfo di luce ed un sicuro studio della prospettiva. E poi, nelle sue tele vi erano due note caratteristiche: la sincera visione dell’ambiente, e la spontanea rivelazione del carattere personale. Siamo certi che il Grande saprà prendersi presto o tardi la rivincita»[xv].

Prendendo in considerazione la produzione pittorica analizzata, l’artista s’inserisce a pieno titolo nell’alveo della pittura di paesaggio di Terra d’Otranto. A tal proposito Antonio Cassiano ha osservato che «scegliendo il paesaggio salentino come protagonista, [gli artisti] non correvano alcun pericolo di perdita di identità culturale», aggiungendo, a proposito di Grande, che il suo paesaggio è proposto con «manierata ripetitività»[xvi]. Questa «ripetitività» è una ricerca perpetua, uno studio continuo. Oltre agli aspetti cromatici – i suoi rosa non esistono nel paesaggio salentino –, e all’utilizzo del segno inciso sulla superficie dell’opera, nei dipinti abbandona il descrittivismo fine a se stesso, evita di soffermarsi su inutili particolari, come invece aveva fatto nei ritratti giovanili, e, soprattutto, ignora totalmente la presenza umana e la vita che dovrebbe scorrere in quei campi. Questo non vuol dire che sublimi il paesaggio per farlo divenire una sorta di luogo mitico lontano dalla realtà; quella di Grandi, anzi, è un’indagine sulla “sua” realtà, e in tal senso pare che faccia propria l’idea di Francesco Netti, ovvero che il compito dei pittori dell’epoca «era far di una tela una finestra dischiusa sui campi»[xvii].

Il paesaggio diviene per Grande il “soggetto” da proporre in tutte le mostre collettive di questi anni, dove certamente ha avuto un bel riscontro in termini di collezionismo, visto che si trattava di opere abbastanza appetibili. Nel 1925 partecipa alla III Mostra Biennale di Gallipoli con otto dipinti a olio: sei Paesaggi, Mandorli in fiore e Pergolato che suscitano un discreto interesse di Elia Franich, organizzatore della mostra, che si limita difatti a citare «otto quadretti dalla caratteristica tecnica miniata e il tono lilla favorito»[xviii], cinque dei quali sono oggi conservati in una collezione privata leccese. Con la partecipazione alla II Biennale di Lecce del 1926, accanto a Giulio Pagliano, Antonio Bortone, Gennaro Fantastico e altri, Grande termina la sua attività espositiva[xix]. Due anni dopo, il 12 marzo, muore a San Cesario di Lecce.

Da questo momento, se non fosse per la presenza di una sua opera alla Mostra d’Arte Salentina ordinata nel 1946 dall’Associazione della stampa – Paese, un dipinto a olio, è presentato nella sezione “Retrospettiva” accanto alle opere di Francesco De Matteis, Luigi Guacci, Stanislao Sidoti, Gioacchino Toma e di altri maestri scomparsi –, nella pubblicistica salentina e nell’attività espositiva del territorio si perdono le tracce dell’artista. La “rivincita” di Grande, auspicata nel 1924 da Pietro Marti, è un fatto recente e, per ora, episodico. Si deve alla recente mostra Arte in Terra d’Otranto tra Otto e Novecento, ordinata negli spazi del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” di Lecce, la “riscoperta” dell’opera di Luigi Grande. All’interno di questa ampia rassegna sono stati proposti sei suoi paesaggi di medie dimensioni dipinti tra il 1916 e il 1928 e, per l’occasione, Michele Afferri ha redatto una biografia, ricca di rinvii all’emerografia dell’epoca, dedicata al maestro nativo di San Pietro in Lama[xx].


[i] A. FOSCARINI, Luigi Grandi, in Arte e Artisti di Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna (Lecce Bibl. Prov. «N. Bernardini», Sez. Mss, ms n.329), a cura di P.A. VETRUGNO, Edizioni del Grifo, Lecce 2000, pp. 29-31.

[ii] Bernabei è autore di una positiva recensione dell’attività della Manifattura Paladini. Cfr. F. BERNABEI, Ceramica, in catalogo dell’Esposizione del 1878, Relazione dei giurati italiani, Roma 1879, p. 4. Il volume è citato da I. LAUDISA, “Capitani d’industria” nel Salento post – unitario, (ceramica, cemento e cartapesta), in Fiscoli e muscoli, Archeologia industriale nel Salento leccese, testi di AA.VV., Capone, Lecce 1998, che ringrazio.

[iii] Cfr. I. LAUDISA, “Capitani d’industria”…cit.

[iv] G. RAIMONDI, Un regesto del M.A.I. tra storia e cronaca, in del M.A.I., Storia del Museo Artistico Industriale di Roma, a cura di G. BORGHINI, introduzione di G. Muratore, Istituto Arti Grafiche Mengarelli, Roma 2005, p. 37.

[v] G. RAIMONDI, Le opere e i giorni, in del M.A.I.…cit., p. 74.

[vi] Per biografia e riferimenti bibliografici essenziali sull’artista cfr. M. TENI, Eugenio Maccagnani (1852-1930), in Artisti salentini dell’Otto e Novecento. La collezione del Museo Provinciale di Lecce, a cura di A. CASSIANO, R&R Editrice, Matera 2007, pp. 135-136.

[vii] F. COLAMUSSI, Luigi…cit.

[viii] Cfr. La Pittura in Italia. L’Ottocento, tomo 2°, Electa, Milano 1990, pp. 876-877.

[ix] Il giudizio è riportato da F. COLAMUSSI.

[x] Cfr. F. COLAMUSSI, Luigi…cit.

[xi] Sull’istituto cfr. G. BAITELLO, La Regia Scuola d’arte ceramica Francesco Grue di Castelli, Le Monnier, Firenze 1942. Ringrazio Lorella Ranzi della biblioteca del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza per avermi messo a disposizione il volume.

[xii] A. FOSCARINI, Arte…cit., p. 127.

[xiii] Sull’istituto cfr. R. D’AMBROSIO, G. CONGEDO VANTAGGIATO, La R. Scuola d’Arte G. Toma di Galatina, Le Monnier, Firenze 1942.

[xiv] Cfr. Mostra di Artisti Pugliesi, catalogo della mostra (Taranto, R. Museo Nazionale, febbraio-aprile MCMXXI), s.n.t., Taranto 1921, p. 8.

[xv] P. MARTI, Prima mostra salentina di arte pura e applicata, in “Fede”, a. II, Lecce 30 novembre 1924, p. 269. Sulla mostra cfr. T. GENOVESI, Note ed appunti sulla I Mostra d’Arte Salentina in Lecce, catalogo della mostra (Lecce, 1924), Lecce 1924, pp. 10-11; ELLENIO [P. MARTI], Prima Mostra Salentina d’arte pura ed applicata in Lecce, in “Fede”, a. II, Lecce 31 agosto 1924, p. 219. Per una contestualizzazione di questa e delle successive mostre citate e della situazione culturale in cui hanno operato gli artisti nominati si rinvia a I. LAUDISA, Arte, in Profili produttivi delle Province Italiane, Bari, 1981, pp. 267-327.

[xvi] A. CASSIANO, La pittura, in Arte in Terra d’Otranto tra Otto e Novecento, catalogo della mostra (Lecce, Museo Provinciale “S. Castromediano”, 9 dicembre 2007 – 31 marzo 2008), a cura di A. CASSIANO, M. AFFERRI, R&R Editrice, Matera 2007, p. 10. Sulla pittura di paesaggio in Puglia cfr. P. MARINO, Il luogo e la contrada. Arte e natura in Puglia. 1950/1990, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1990.

[xvii] F. NETTI, Scritti critici, antologia a cura di L. Galante, De Luca, Roma 1980.

[xviii] Cfr. E. FRANICH, L’arte pugliese alla mostra di Gallipoli, in III Mostra Biennale d’Arte moderna in Gallipoli, catalogo della mostra (Gallipoli, 1925), Premiata Tipografia Guido, Lecce 1925, p. 4. Sulla mostra cfr. Amatori d’Arte Gallipoli. III Mostra d’Arte, depliant della mostra, s.n.t., s.l., s.d. [ma 1925], p. nn. [ma 5]. Cronache d’arte e di cultura. Esposizione d’arte in Gallipoli, in “Fede”, a. III, n. 10, Lecce, 5 luglio 1925, p. 156. La III Mostra d’arte a Gallipoli, in “Corriere Meridionale”, a. XXXVI, n. 28, 6 agosto 1925. La Terza Biennale d’Arte Moderna in Gallipoli, in “Fede”, a. III, n. 11, Lecce 13 agosto 1925, p. 173.

[xix] Cfr. II Biennale Leccese d’Arte Pura ed Applicata, catalogo della mostra (Lecce, agosto-settembre MCMXXVI), Lecce 1926; La II Biennale Leccese, in “La Voce del Salento”, a. 1, n. 29, Lecce 28 agosto 1926, p. 1. La II Biennale Leccese, in “Corriere Meridionale”, a. XXXVII, n. 34, Lecce 30 settembre 1926.

[xx] Cfr. M. AFFERRI, Luigi Grandi (San Pietro in Lama 1871–San Cesario di Lecce 1928), in Arte in Terra d’Otranto…cit., pp. 76-77. Ringrazio Michele Afferri per alcuni suggerimenti concernenti la vicenda biografica di Grande. Un sintetico e recente profilo biografico dell’artista (sprovvisto di apparati iconografici) inserito in un excursus sugli scultori di Terra d’Otranto attivi tra Otto e Novecento, si rintraccia in M. GUASTELLA, Scultori in Terra d’Otranto delle generazioni del secondo Ottocento, in Raffaele e Giuseppe Giurgola, “tradizione salentinità ironia”, a cura di L. PALMIERI, introduzione di L. Galante, Editrice Salentina, Galatina s.d. [ma 2010], p. 35. L’excursus di Guastella è stato ripubblicato, con qualche modifica, nel suo Edgardo Simone Scultore (1890-1948), Congedo, Galatina 2011.

 

 

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