Il Mangialibri/ Eleonora

  

 

 

 di Michele Stursi

 

Nei piccoli paesini del Salento la gente non va mai a letto rimpiangendo qualcosa del giorno passato, ma quasi sempre con un occhio, o almeno il pensiero, rivolto verso il mattino successivo.

Nel Salento la notte non segrega, ma fa da filo conduttore: i giorni sono fatti passare attraverso questo spago e così facendo si raccolgono insieme e si lasciano seccare al sole come foglie di tabacco, per poi assaporarne l’aroma durante l’inverno.

Nel Salento non si dorme per abitudine o piacere, ma per dovere e necessità, come per qualsiasi altra cosa.

Sono le sei del mattino e fuori si sente già un brulichio continuo, incessante. Il sole ancora si nasconde dietro l’orizzonte emanando fiochi bagliori rossastri che accarezzano le mie palpebre. Le grida del fruttivendolo sono come una sinfonia scritta e finalmente musicata, una moglie ricorda al marito di portargli verdura fresca e prezzemolo da campagna, due giovani contadini si salutano in piazza e il vecchietto di fronte casa mette in moto l’Ape. Io mi godo, steso sul letto, questo stupendo risveglio, ignorando quanto realmente stia accadendo per strada. Difatti appena mi affaccio alla finestra, mi rendo subito conto che Noha è già entrata nel cuore della giornata: le comari tornano in gruppetti dalla messa, un bambino ritorna dalla putea[1] con il panino in mano, il contadino raccatta gli attrezzi del mestiere e li sistema in un’arrugginita cinquecento famigliare, il vecchietto sottocasa si avvia verso la campagna e la zitella Carmela spazza davanti casa. È come svegliarsi su un palco nel cuore dello spettacolo. A Pisa invece avevo paura di alzarmi dal letto e provare quella strana sensazione di essere solo: quante volte mi svegliavo all’alba, mi affacciavo alla finestra e in preda alla desolazione me ne tornavo a letto, aspettando magari di sentire il vicino uscire di casa per andare in ufficio; quante volte ho pregato perché qualcuno suonasse alla mia porta, ho sperato in un saluto urlato per strada, ma niente; il primo rumore a svegliarmi la mattina era in genere quello della radiosveglia.

Mi stiracchio sorridendo al nuovo giorno, mi vesto e in un batter d’occhio mi ritrovo giù dalle scale a salutare e augurare il buongiorno ai passanti. Vado al bar a fare colazione e ritrovo i soliti ignoti già seduti ai posti di combattimento. Saluto cercando di sorridere e mi avvio al bancone; ordino un caffè, mi siedo al tavolino più vicino e mentre sto per levare taccuino e matita, una voce di donna mi paralizza: «Ma lei è sempre così gentile o a volte riesce anche a essere maleducato e scorbutico con le persone?» Proprio davanti a me, allo stesso tavolo, un giornale si abbassa scoprendo il volto della giovane ragazza che avevo incontrato il giorno prima davanti al palazzo baronale.

«Posso avere l’onore di conoscerla?» – mi dice in tono ironico. «Piacere Mitri» – le rispondo in maniera molto distaccata.

«E magari posso sapere anche il suo nome? Se non le è di troppo impiccio, s’intende» – continua sullo stesso tono sarcastico.

«Certo, Pasquale» – dico senza scompormi più di tanto.

«Scusi se mi permetto, ma le costa molto dare un po’ più di confidenza a una giovane ragazza?».

Non capisco il suo accanimento ma versando lo zucchero nel caffè le dico: «Se proprio ci tiene a conoscere un vecchio demente, potremmo darci del tu» – cerco di sorriderle ma mi sento in forte imbarazzo. «Ne sarei lusingata» – conclude la ragazza nascondendo un certo disprezzo dietro quell’ironia.

Sorseggio il mio caffè cercando allo stesso tempo di scarabocchiare la facciata del palazzo baronale sul taccuino. Dopo qualche minuto di silenzio la ragazza riprende a tartassarmi: «Ti piace disegnare?».

«Il mio è un bisogno più che un piacere» – rispondo dopo un attimo di esitazione.

«In che senso?».

«Vedi alla mia età la memoria, un po’ per usura e un po’ per deficit di neuroni, inizia a fare i capricci. E allora bisogna pur rimediare in qualche modo».

«Fantastico. Io pure disegno, o meglio, dipingo».

Annuisco e riprendo a fare degli schizzi sul foglio.

«Allora, non mi chiedi niente?».

Ci penso un attimo e per non darle un’altra delusione, mi sforzo di formulare una qualsiasi domanda. Ci impiego poco per fortuna. «Che cosa dipingi?».

«Ulivi» – mi risponde di botto come se avesse già previsto la domanda.

«Alberi!» – esclamo non molto sicuro di avere esattamente afferrato il concetto.

«No, ulivi».

«Allora ho capito bene. Il tuo soggetto preferito sono gli alberi».

«Ma lo sei o lo fai?» Sembra offesa, ma non capisco assolutamente il motivo di tanto risentimento.

«Scusami, dire ulivo o albero non è assolutamente la stessa cosa?».

«Come dire uomo e Pasquale. Ti sembra la stessa cosa?».

«Scusami, come ti chiami?».

«Eleonora».

«Ecco Eleonora, potresti avere la cortesia di spiegarmi la differenza che passa tra un albero e un ulivo, perché non ci ho mai fatto caso. Io ci vedo unicamente delle radici, un tronco, una chioma … come la maggior parte degli alberi».

«E se ti dicessi che tu sei molto superficiale e materialista?».

«Potrei anche darti ragione» – rispondo provando ora un certo gusto in quella strana discussione.

Esausta Eleonora cerca di spiegarmi che alcune parole oltre a indicare per convenzione un oggetto materiale, riescono a rievocare anche dei sentimenti, delle emozioni, dei ricordi. «Hai presente le maddalene di Proust nel primo libro di “Alla ricerca del tempo perduto”? Il potere evocativo di quei piccoli dolci a forma di conchiglia è lo stimolo necessario per far partire quella trafila di ricordi che poi costituisce il fulcro dell’intera opera».

Lei mi guarda per essere sicura di avere la mia attenzione e io faccio subito un cenno con la testa per spronarla a proseguire nella spiegazione.

«L’ulivo per la gente di questi luoghi non è un albero, ma è un simbolo, un emblema. Hai mai visto un ulivo? L’hai mai toccato? Ne hai mai sentito il suono?».

«Ma stai scherzando?» – rispondo quasi seccato ma allo stesso tempo consapevole che sono passati anni dall’ultima volta che ho sfiorato la ruvida corteccia grigiastra di un ulivo.

«Quando io dipingo, non penso mai a un albero, ma a una vecchia cassapanca stracolma di ricordi, a un libro di storia dalle pagine ingiallite, alle mani di un vecchio che troppe volte hanno sfiorato la terra arida del Salento, alla voce rauca ed emozionata di un nonno che racconta la sua vita al nipote».

«Ora che ricordo bene anche a me da bambino piaceva restare ore e ore a contemplare la maestosità degli ulivi, confrontarne i movimenti, le sinuosità; ricordo che avevo una certa suggestione a camminare tra quei vecchi alberi, era come se ti fissassero, se ti chiamassero».

«Allora anche tu hai un cuore? Credevo fossi di marmo!» – riprende con il solito tono ironico. «Mi sa che si è fatto veramente tardi stamattina. Allora, verrai a trovarmi nel mio studio?» – mi dice mettendosi il cappotto. Io rimango impietrito, senza dare alcun segno di vita. Solo quando è già sull’uscio, trovo la forza di urlarle: «Ci vediamo presto».

tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010


[1] Questo termine viene utilizzato ancora oggi nel dialetto salentino ma con una accezione differente da quella originaria. Infatti putea, o puteca, era chiamata l’osteria salentina; ora invece al passo con i tempi con questo termine ci si riferisce in genere al minimarket.

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3 Commenti a Il Mangialibri/ Eleonora

  1. adoro i salentini, proprio perchè riescono a farti sentire bene sin dal mattino… quel: “buongiorno signora…” di persone che non conosci, ma che ti sfiorano, passandoti accanto, allarga il cuore e ti “costringe” al sorriso…
    Ecco, Eleonora potrei essere io: stesse domande, stesse perplessità, stessi stimoli alle persone che poi, quasi costrette, recuperano dai cassetti più affondati della memoria, ricordi dell’infanzia, quando lasciavano correre la fantasia e non provavano imbarazzo a parlare con gli “alberi-Ulivi”, a giocare con loro, a proteggersi da un improvviso acquazzone, a nascondersi con l’innamorata, a isolarsi nella loro pace, per ritrovare se stessi, per “ascoltare” la loro voce…

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