Dedicato a Don Grazio Gianfreda il volume «Note di storia e di cultura salentina» (1)
Il 26 giugno scorso, nel suggestivo atrio del Castello di Corigliano d’Otranto, è stato presentato, da Dario Massimiliano Vincenti (presidente della sezione magliese della Società di Storia Patria per la Puglia) e da Giuseppe Orlando D’Urso (segretario della stessa Società), il volume «Note di Storia e Cultura Salentina» (Argo Editrice, XX, Lecce 2009, ma stampato giugno 2010), annuario a cura di Fernando Cezzi, ed organo della Società di Storia Patria per la Puglia (Sezione di Maglie – Otranto – Tuglie “Nicola G. De Donno”), al cui interno è pubblicata una miscellanea di Studi dedicati a Mons. Grazio Gianfreda. Il volume è introdotto da un ricordo di mons. Grazio Gianfreda di Maurizio Nocera, che riproponiamo qui.
«La Cattedrale di Otranto [è un tesoro] che racchiude il paleocristiano, il bizantino, il romanico, ed elementi di rinascimento e di barocco». La Cattedrale di Otranto, scrive ancora don Grazio, è «simbolo di mistero» nella fede, che noi umani dobbiamo sforzarci di capire
Le care pietre
di Maurizio Nocera
Negli anni ’70 insegnavo alla scuola alberghiera di Otranto e, come spesso capita agli insegnati, gli orari, a volte, risultano essere a fisarmonica, nel senso che si chiudono e si aprono lasciando spazi di tempo di disimpegno. Quasi sempre, passavo queste ore fuori orario scolastico con don Vittorio Boccadamo, il silenzioso custode delle carte e memorie della più antica diocesi di Puglia, o con il poeta Antonio Corchia, custode delle memorie storiche della città dei Martiri, o con Lui, l’ottuagenario don Grazio Gianfreda, custode e conoscitore profondo della Basilica-Cattedrale dedicata al titolo della Madonna dell’Annunziata.
Le “navi” della Cattedrale di Otranto
Don Grazio sapeva tutto del maestoso edificio che sorge al centro della città e che è vanto e gloria degli otrantini. Sapeva tutto e lo conosceva assai bene perché nelle tre grandi “navi”, tra quelle colonne capitellate, nelle cripta, nella sacrestia – suo eletto eremo sacro-urbano – egli aveva vissuto più di mezzo secolo, sempre studiando, sempre accarezzando quelle a lui «care pietre benedette e sante» (sue parole). Nel libro che aveva dedicato proprio alla Basilica, “Storia della Cattedrale di Otranto. Diario di un popolo” (Editrice Salentina, Galatina 1989), in occasione del «nono centenario della consacrazione della Basilica Cattedrale di Otranto: 1088-1988», nella sua prefazione, ha scritto: «Novecento anni di arte, di storia e di fede non sono pochi, e diventano ancor di più, quando si viene a sapere che essi sono collocati su di una struttura precedente, diversa per credo politico-religioso-culturale: paganesimo e cristianesimo non sono epoche chiuse, a sé stanti a scompartimento stagno. Non sono isole. Una prepara l’altra, e tutte e due aiutano a camminare, ad evolversi, a progredire. / Non sono, quindi, più novecento anni di storia ma circa duemila, in parte nascosti in parte palesi che la Cattedrale di Otranto racchiude, tramanda e, in modo mirabile, esprime coniugando l’oggi di ogni epoca con la vita di un popolo. […] La Cattedrale di Otranto [è un tesoro] che racchiude il paleocristiano, il bizantino, il romanico, ed elementi di rinascimento e di barocco». La Cattedrale di Otranto, scrive ancora don Grazio, è «simbolo di mistero» nella fede, che noi umani dobbiamo sforzarci di capire. Già da queste poche frasi si capisce che don Grazio Gianfreda è stato il nume tutelare della Chiesa otrantina per quasi tutto il Novecento; da quella sede sono passati gli arcivescovi al tempo della metropolia, poi i vescovi quando il Vaticano ridusse l’arcidiocesi a sola diocesi elevando al contempo Lecce a sede metropolita. Ma Lui rimane sempre lì a svolgere le sue funzioni di sacerdote pastore d’anime, prima come semplice prete, poi come parroco, infine come monsignore. Sempre con i suoi amati libri tra le mani, sempre aperto a qualsiasi domanda, sempre disponibile a conferire con chiunque lo chiamasse.
Non posso dimenticare le volte che l’ho fatto alzare anzitempo dal letto, perché avevo con me un personaggio importante che aveva assoluto bisogno di incontrarlo, come avvenne con lo scienziato Ettore Biocca, o con il filosofo cileno Sergio Vuskovic Rojo, o infine, cosa che avvenne solo qualche settimana prima della sua morte, col sacerdote andino don Juan Nuñez del Prado. Ricordo molto bene l’incontro tra questi due uomini che al servizio dell’umanità, sia pure con differenti punti di vista teologici, si abbracciarono lungamente e lungamente rimasero a parlare fra di loro.
Di solito incontravo don Grazio nella sacrestia e lì mi fermavo a conversare con lui. Egli sapeva quali fossero le mie idee intorno alla religione, sulla storia della Chiesa, sulla fede, sulla politica; personalmente gliene avevo parlato, gli avevo detto quali erano state le vie attraverso le quali ero giunto alla militanza politica all’interno del movimento operaio e accanto a tutte le persone che vivevano nella sofferenza e nella povertà. Don Grazio sapeva che anch’io, a modo mio, svolgevo una sorta di missione nella lotta per il riscatto della povera gente, e per questo egli non solo comprendeva la mia passione politica ma in un certo modo la sopportava, perché conosceva la mia provenienza territoriale (egli era nato a Collepasso, io a Tuglie, due paeselli agricoli molto vicini fra di loro), e sapeva che non poteva non accadere quanto mi era accaduto sul piano del fare politica accanto a coloro che lottano per difendere il proprio posto di lavoro e le proprie condizioni di vita, spesso deprecabili in una società complessa e spesso disumanizzante, com’è quella nella quale è vissuta la nostra generazione.
San Pietro in Otranto
Il primo libro che mi donò, con dedica, fu la “Basilica Bizantina di S. Pietro in Otranto. Storia e Arte” (Tipografia dell’Abbazia di Casamari, 1967). Don Grazio sapeva che amavo immensamente Otranto, quel suo antichissimo tempio, e sapeva che dentro quello scrigno d’arte e di fede io vedevo il mondo dei monaci basiliani che, sin dai primi secoli del cristianesimo, e fino al Rinascimento, avevano animato le nostre contrade. Non poche volte, a voce, mi leggeva alcuni passi di quel suo libretto, che conservo come sua icona palpitante. Mi diceva che la chiesa di San Pietro in Otranto era molto antica e che «la sua linea architettonica, di modeste proporzioni, rispecchia proprio quel periodo in cui “infatti le chiese bizantine erano piuttosto piccole” [David Talbot Rice, “Arte Bizantina”, p. 103]. “Di tutte le costruzioni a pianta greca nessuna oltrepassa i sedici metri di lato compresa la chiesa del Pantocrate di Costantinopoli” [Ch. Diehl, “Manuel d’art byzantin”, Paris 1925]» (p. 31). Ma quello che più mi interessava di sapere era come fosse fatto l’edificio, e don Grazio, appena poco dopo l’interesse rivolto alla chiesetta dal francese Charles Diehl, fu il primo a darci un’idea della sua pianta e delle sue architetture. In quel libretto scrive: «Le sue cinque cupole, esterne, dominate da quella centrale; le tre absidi circolari, che dall’esterno sembrano tre semicerchi perfetti, sormontate da una monofora – le laterali – e da una trifora – la centrale; le due porte, la regia e quella del popolo (attualmente chiusa), tutti questi elementi, semplici ma armonici, richiamano alla mente del visitatore il bellissimo tempio innalzato alla S. Sapienza in Costantinopoli […] L’interno della chiesa è a forma di croce greca, iscritta in un quasi quadrato […] ha tre navate, divise da otto colonne di grosso diametro, di cui quattro libere, e quattro semincastrate nelle pareti di Est ed Ovest […] Sugli archi, impostati sulle prime quattro colonne, si solleva la grande cupola, centro architettonico della chiesa, pare librarsi – come sollevata dalla luce che penetra dalle finestre aperte alla base – sulla penombra delle navate. Sembra acquistare maggior leggerezza, essendo senza tamburo e rinfiancata da semicupole di ampiezza adeguata. […] Anche nella chiesa di San Pietro, in forma più semplice, sono stati usati il quadrato della base e il circolo della cupola, adoperando il metodo a pennacchio. Pare che tale sistema di costruzione sia stato usato per la prima volta in Siria e in Samaria, nel secondo e terzo secolo, poi sia passato a Bisanzio, in Italia e in Armenia» (pp. 35 e sgg.). Particolare interesse don Grazio pone poi nell’analisi degli affreschi, in particolare sulla “Ultima Cena”, sull’affresco della “Lavanda dei piedi”, sulla “Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre”, sul “Battesimo di Gesù”, e sulla “Anastasis” con considerazioni che possiamo dire essere del tutto nuove nel panorama degli studi sull’arte bizantina in Salento. (1.continua)
(per gentile concessione de Il Paese Nuovo)
Credo che fra tutti i parroci che nel tempo hanno avuto in custodia la cattedrale-basilica di Otranto, don Grazio sia stato veramente quello che di più l’abbia amata; amata di più perché più e meglio degli altri conosciuta in tutte le sue pieghe, storiche, architettoniche e soprattutto religiose.
Se don Grazio scrive che la cattedrale è “simbolo di mistero” nella fede, che noi umani dobbiamo sforzarci di capire”, lo fa a ragion veduta, così come per la stessa ragione definisce il tempio “care pietre benedette e sante”. Ripeto: BENEDETTE E SANTE.
Ad un lettore che non conosce il retroterra che ha determinato queste espressioni, sembrano frasi normali che, nello zelo religioso, possono essere pronunciate da un qualsiasi prete; al contrario, al vero significato può accedere soltanto colui o coloro a cui sono stati affidati i suoi diari (o diario) segreti.
Mi sono spinto a citare “questa conoscenza segreta ” di don Grazio, e di pochissimi privilegiati laici, soltanto per un problema di coscienza: non vorrei che chi si trovasse a leggere cose che a persone strettamente legate alla terra potrebbero risultare assurde o addirittura impossibili, avesse a superficialmente giudicarle frutto di una mente malata o comunque farneticazioni di un vecchio arteriosclerotico esaltato e maniaco.
Per molti anni, molte notti don Grazio si è trovato misteriosamente (cioè senza la sua volontà) nella basilica, dove – nella grandezza della fede e alla stregua di tanti accadimenti biblici – ne ha viste, popolarmente parlando, di tutti i colori.
Credo quasi che questo spazio su “Spigolature Salentine” sia stato oggi voluto dal Cielo perché io potessi avere l’occasione di “difendere” l’amato don Grazio: quanto ha “segretamente”scritto non è avvenuto neppure in sogno: è realtà vissuta, e con questo argomento ho chiuso, pur se a conoscenza che – pur di non svelare il segreto di don Grazio – qualcuno possa insinuare che il farneticante e l’arteriosclerotico sono io: non importa, per la verità questo ed altro, compresa la vita. Mi dispiace soltanto che se n’è andato all’altro mondo senza la gioia terrena di vedere santificati i tanto amati martiri, amati da lui e amati da me, e – scusate ma debbo dirlo – molto amati dalla Giulietta mia ai quali ha dedicato un lungo componimento poetico, conosciuto oltre che da me dall’amico Pier Paolo Tarsi al quale ho fatto dono di una copia.
Ripeto: argomento chiuso.
Nino Pensabene
ho avuto il piacere e l’onore di conoscere don gRazio non meno di 20, forse anche 30 anni fa,una persona di cultura fuori dal comune, basta dare un’occhiata alla lista delle sue pubblicazioni. non credo ci sia da dire altro, visto che nino ha già ampiamente affrontato la cosa.cordiali saluti a tutti…