MASINA: l’incredibile odissea etimologica e identificativa di un toponimo brindisino (2/2)

di Armando Polito

3) ERMANNO AAR1 , Gli studi storici in Terra d’Otranto, in Archivio storico italiano, Nuva serie, tomo II, anno 1878, Viesseux, Firenze, 1878, p. 475  [in una sezione dedicata alla correzione (!) di toponimi].

A appare evidente come ad otto anni dal mansio del Profilo l’Aar gli abbia reso onore italianizzando il suo accusativo (mansionem) con Mansione, a correzione di Masina, ma soprattutto, dell’orribile Massenza. È la prima volta che incontro l’emendamento di un toponimo ispirato da esigenze estetiche, senza, peraltro, ombra di giustificazione fonetica. Ma il danno era già stato fatto dal Profilo.

4) Bollettino della Società geografica italiana, Civelli, Firenze, 1901, v. 2 , p. 305

… del casale di Mansione, distrutto nel medio evo …

Bisogna attendere quasi un secolo per reincontrare Masina sottoposta ad ogni genere di visita ma totalmente trascurata nell’etimo dopo quello profiliano.

5) LUIGI SCODITTI2, Le note storiche sulle contrade rurali, in  Studi storici su Mesagne e il suo territorio, a cura di Domenico Urgesi, Studi e ricerche della biblioteca comunale” U. Granafei”/2, p. 403

La prima fonte citata è un atto del 1260 presente nel C.D.B. (Codice diplomatico brindisino4). Molto lungo, reca il titolo di Adnotatio bonorum omnim et reddituum ecclesiae Brundusinae facta per Forensem Ruinosum et Iordanum De Pironto de Brundusio statutos per Manfridum Regen administratores eiusdem ecclesiae cum inserta forma Regiarum litterarum (Nota di tutti i beni e redditi della chiesa brindisina fatta da Forese Ruginoso e Giordano De Pironto di Brindisi posti dal re Manfrdi come amministratori della medesima chiesa con la forma inserita delle lettere regie)

Ne riporto il dettaglio.

(Dalla chiesa di S. Nicola di Masina fuori Brindisi una libbra di cera5)

Oltre a questo documento per completezza (o per complicare ulteriormente le cose …)  forse va preso in considerazione un altro,  anteriore sia pur di pochi anni, sempre riportato dal C. D. B. (nell’edizione citata è il n. 52 a p. 83 del secondo volume). È un atto del 1239 recante il titolo Legatum Presbyteri Sellicti tarenorum auri quatuor quolibet anno solvendorum Capitulo Brundusino (Legato del presbitero Sellitto di quattro tareni d’oro da versare ogni anno al Capitolo brindisino). Ne riporto il dettaglio dal  manoscritto (c. 173).

… habeat a Iacono Nicola filio quondam6 presbiteri Leonis de Masine greci7 sacerdotis nepote meo …    

(… abbia da Iacono Nicola figlio del fu presbitero Leone di Masine sacerdote greco mio nipote …)

Al di là della mano che appare chiaramente diversa e della ulteriore conferma della presenza del rito greco, appare quasi impossibile attribuire a Masine una valenza patronimica oppure toponomastica.

La seconda fonte citata (M., 1. I, C 19) è un’opera del mesagnese Epifanio Ferdinando8 e fa parte di quelle, numerosissime, a tutt’oggi inedite . Una copia fatta da Ortensio De Leo nel 1752 (a c. 2r si legge: Hortensii de Leo 1752) è conservata nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi (ms. D/13) e reca il titolo di Antiqua Messapografia9.

 

La c. 3r col titolo mostra in alto a destra 1630, che non può essere che la data di composizione dell’opera presunta, non è dato sapere in base a quali elementi, dal De Leo o, più probabilmente, copiata anch’essa. A c. 64r si legge: Manca il resto nel presente codice lacerato. Troppo poco per capire se si trattasse o meno dell’autografo. Ad ogni buon conto la copia brindisina è l’unica tuttora conosciuta (non esiste traccia dell’autografo), il che mi fa presumere che lo Scoditti faccia riferimento proprio ad essa. D’altra parte, se fosse esistita altra copia, indipendentemente dalla volontà di collazione, sempre daIla brindisina sarebbe partito per la sua vicinanza fisica.

Il secondo controllo ha dato un esito molto simile al primo sulla citazione del Mazzella da parte del Profilo. Ancora una volta lo provo col dettaglio del manoscritto (c. 144r) di seguito riprodotto, appartenente alla sezione intitolata De veteris vicis vulgo casalibus urbi Messapiae subuectus.

Turboli et Masione olim casalia, nunc feuda unum versus Brundusium id est10 feudum  Masinae, et aliud versus Uriam in territorio ambo Messapiae, et extat privilegium Regis Ferdinandi fol(ium) 98 in anno 1483 registratum in Cancellaria fol(io) 60, et feudatarii sunt Fornarii, et Baro Turris S(anctae) Susannae.

(Turboli  e Masione un tempo casali, ora feudi, uno verso Brindisi cioè feudo di Masina e l’altro verso Oria, entrambi nel territorio di Messapia e resta un privilegio del re Ferdinando, foglio 98 nell’anno 1483 registrato in cancelleria fohlio 60 e sono feudatari i Fornari11 e il barone di Torre S. Susanna.

Dunque il toponimo, come mostra inequivocabilmente l’ingrandimento che segue, non è Mansione ma Masione e non si comprende, oltretutto, come lo Scoditti instauri una parentela strettissima con Masina sulla base di una semplice assonanza e sulle ali dell’eco di statio di profiliana congettura.

L’ingrandimento della parola evidenziata con la sottolineatura nell’immagine precedente fa leggere, inequivocabilmente, Masione (con -a) e non Mansione ( con  –ã-).

Prima di procedere debbo soffermarmi un attimo, come avevo promesso in nota, sul punto interrogativo presente nella trascrizione dell’originale e, com’era naturale, nella traduzione.

Il segno evidenziato non è una nota a margine, peraltro mancante, ma un’abbreviazione per id est, secondo l’uso cinquecentesco presente anche nei testi a stampa.

Il passo appena riportato, poi, appare importante anche ai fini della individuazione della posizione di Masione. Le coordinate fornite non lasciano dubbi: ia differenza di Turboli che è verso Brindisi (dunque tra Mesagne e Brindisi), esso è verso Oria (dunque tra Mesagne e Oria), il che escluderebbe la sua identificazione con Masina, indipendentemente dal significato storico di feudo, sia che esso sia riferibile a tempi anteriori (olim) al Ferdinando o a lui contemporanei (nunc).

Nella mappa che segue ho sintetizzato quanto appena detto con l’aggiunta di M1 per Torboli e di M2 per Masione.

 

Lo Scoditti, poi, al quale va, comunque, riconosciuto il merito di essere stato il primo a ricordare le due e uniche fonti, per corroborare la sua tesi, cita Carabellesi12, il quale, a sua volta, si rifà, senza citarlo, a quanto si legge nel Glossarium mediae et infimae Latinitatis  del Du Cange, Favre, Niort, t. V, ai lemmi mansio, mansus e massa13.

Nell’ultimo capoverso, infine, Nel Duecento ritira in ballo lo stesso dello stesso documento citato all’inizio.

6) DOMENICO NOVEMBRE, Ricerche sul popolamento antico nel Salento con particolare riguardo a quello messapico, Milella, Lecce, 1971, p. 108

… tutti gli insediamenti rurali purtroppo in gran parte ignoti, anche se molti sono dimostrati dalla toponomastica prediale o da ritrovamenti archeologici; così, oltre a quello che possono suggerire i topmimi (tra Mesagne e Brindisi si conosce l’esistenza del casale di Mansione, impressa nel toponimo  mass Masina) …

7) CESARE MARANGIO, La romanizzazione dell’ager Brundusinus, in Ricerche e studi 8, s. n., Brindisi, 1975, p. 117

… Più fitto appare il popolamento a sud dell’Appia; procedendo sempre da Brindisi si  incontrano tracce di villae, principalmente di età imperiale a Masina (II-V sec d. C.; N. 11) .. 

Riproduco di seguito dal testo la fig. 1, dove ho evidenziato con l’ellisse la posizione di Masseria Masina.

8) MARIA APROSIO, Archeologia dei paesaggi a Brindisi: dalla romanizzazione al Medioevo, SEU, Pisa, 2005, p. 220

Masseria Masina. La località è citata da un documento del 1200 a proposito della chiesa di San Nicola di Masina (CDB vol 1,  n.78 ) . Il toponimo moderno secondo L. Scoditti deriva dal Casale di Mansione noto da un documento del 1487, che sarebbe da mettere in relazione con la presenza di una mansio. Secondo C. Marangio a Masseria Masina c’era una villa di età imperiale nel II-IV14 d. C. da identificare con le UT 180-189.

Dopo tre anni in  Archeologia dei paesaggi a Brindisi: dalla romanizzazione al Medioevo, Edipuglia, Bari, 2008, p. 199

… casale di Mansione citato in un diploma di Ferdinando I del 1487. Questo toponimo richiama la presenza di una mansio la cui esistenza era già stata ipotizzata per l’insediamento romano situato a metà strada tra Mesagne e Brindisi. …

L’autrice nella prima pubblicazione elimina opportunamente la ripetizione presente nello Scoditti (e che poteva ingenerare confusione con altro documento esistente e genericamente indicato), ma nella secondo la data del diploma è passata al

1487 da quella corretta, 1483, tramandataci, come ho prima riportato, dal Ferdinando.

9) STEFANIA PESCE, La viaabilità romna nel Salento: una rilettura alla luce dei più recenti progressi nel campo della ricerca archeologica, in Spring Archaeology, Atti del Convegno, Siena 27-29 ottobre 2022,  Archaeopress, Oxford, 2024, p. 120.

… a metà strasa tra Masseria San Giorgio e Masseria Masina. L’area, oggetto di scavo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha restituito una serie di ambienti con funzioni diverse gravitanti attorno ad una cisterna per la raccolta dell’acqua, poi destinata a magazzino per cereali (Volpi         1944: 69-80). In base alle caratteristiche strutturali e vicinanza all’asse viario, p stato identificato come un vicus di età tardo romana (III-IV secolo) all’interno del quale vi era una stazione di sosta per i viandanti che si dirigevano a Brindisi (Figura 7). La sopravvivenza del toponimo nella vicina Masseria Masina, nei pressi della quale bel Quattrocento è citato un casale denominato ‘di Masione’, farebbe pensare all’effettiva presenza in passato di una mansio lungo percorso della via Appia (Scoditti 1961: 40)   

A parte il fatto che nello Scoditti (vedi n. 6) si legge un casale di nome Mansione, qui è diventato denominato “di Mansione” (su richiesta spiegherò la differenza a chi ritiene equivalenti le due locuzioni), evito di riprodurre la citata Figura 7 (oltretutto poco chiara) dopo quell’altra, meno pulita, rimediata ad Oxford, sempre che almeno  lì non si siano abituati ad accettare come oro colato un altro ferro ancora più arrugginito (dopo tanti anni è normale) di quello profiliano.

Resto con un’angosciosa domanda: il passaggio dal Masenza del Profilo al Massenza dell’Aar è da attribuire ad un aumento della piovosità tra il 1870 e il 1878, con conseguente ingrossamento del fiume, prima di passare ad essere, spero per sempre …, il macilento Masina? Se qualche esperto pluviologo senza dati storici alla mano mi può aiutare …

 

P. S. (pure questo! …) Ulteriori risultanze archeologiche potrebbero integrare i dati acquisiti a riprova della bontà di un’ipotesi induttiva piuttosto scontata (statio nei pressi della via Appia e di un corso d’acqua). Nel contempo, non escludendo a priori l’origine prediale, andrebbe operata una ricerca mirata sugli atti notarili15). Per quanto può valere il mio giudizio, tuttavia, per me nulla cambierebbe (In fondo, se qualche volta pure un mago l’indovinano, perché non dovrebbe capitare ad un Peofilo di turno?) in permanenza del machiavellico principio che conta il merito (cioè il risultato, anche se frutto di pura, fortuita e fortunata combinazione) indipendentemente dal metodo. E quella merce astratta, che si chiama acribia e che è figlia della competenza sempre assistita dall’onestà intellettuale, già rara in passato e non parca nell’uso di avverbi come forse, probabilmente e, per quanto riguarda i verbi, del modo condizionale, rischia, paradossalmente, di annegare proprio a causa di quegli strumenti, oggi soprattutto informatici, che consentono una diffusione rapida ed agevole della conoscenza, quella sorretta almeno da serietà d’intenti.

 

PER LA PRIMA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/11/26/masina-lincredibile-odissea-etimologica-e-identificativa-di-un-toponimo-brindisino-1-2/

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1 Pseudonimo di Luigi Giuseppe De Simone (1835-1902), magistrato leccese.

2 (1896-1973)

3 Il saggio è reperibile integralmente in rete, ma in esso non compare la data di pubblicazione, anche se nella presentazione si legge che, fino allora inedito, era pronto nel 1961. Sul sito della biblioteca (https://www2.comune.mesagne.br.it/libri/biblioteca_comunale.htm), poi, il pulsante CATALOGO BIBLIOTECA porta ad una pagina che, se fosse stata trattata col latte di calce, sarebbe meno bianca.

4 Il manoscritto originale, del XVIII secolo, custodito nella biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi, consta di quattro volumi (mss. B57, B58 e B59). In essi sono raccolte copie di documenti antichi riguardanti Brindisi;  in particolare quelli del primo volume vanno dal 492 al 1299, quelli del secondo dal 1304 al 1397 e quelli del terzo dal 1406 al 1499.  Fu pubblicato a cura di Giovanni Maria Monti il primo volume, di Michela Pastore Doria il secondo e di Angela Frascadore il terzo per i tipi di Vecchi & C. a Trani nel 1940; ristampa fotolitica nel 1977;  successivamente  a tale data i volumi tranesi sono stati ripubblicati singolarmente  con l’aggiunta della nota introduttiva degli ulteriori curatori.  Nell’edizione del 1977 il documento in questione è il n. 78 e a p. 142 del primo volume.

5 La più frequente tra le pene pene comminate dal vescovo (Nei casi più gravi erano previsti il carcere e la scomunica) c’ersa anche la fornitura di una certa quantità dI CEera.

6 Del quondam qui appare solo la q iniziale perché la digitalizzazione perfetta avrebbe compromesso l’integrità della carta.

7 Di greci è visibile solo la g iniziale per la stessa ragione addotta nella nota precedente.

8 (1569-1638).  Opere edite : Theoremata medica et philosophica, Tommaso Baglioni, Venezia, 1611; De vita proroganda, seu iuventute conservanda et senectute retardanda, Gargano e Muzio, Napoli, 1612; Centum historiae, seu observationes, et casus medici, omnes fere medicinae partes …, Tommaso Baglioni,  Venezia, 1621; Aureus de peste libellus, varia, curiosa, et utili doctrina refertus, atque in hoc tempore unicuique apprime necessarius, Domenico Maccarano, Napoli, 1626).

9 Nessun riferimento al nostro toponimo è in Messapographia sive historia Messapiae di Digo Ferdinando (1611-1662), figlio di Epifanio . A differenza dell’opera del padre, rimasta inedita, l’autografo di Didaco (Diego), che feca la data 1655, è stato pubblicato da Domenico Urgesi, suo scopritore, col titolo Messapografia, ovvero Historia di Mesagne (1655), Società storica di Terra d’Otranto , Lecce, 2020. Nulla pure in Profilo historico dell’antichità di Mesagne, opera manoscritta del 1760 di Serafino Profilo, custodita nell’ Arrchivio della pa55occhia matrice di Mesagne.

10 A questo punto del manoscritto si legge una lettera preceduta e seguita da un puntino in posizionec entale. Su questo dettaglio vedi più avanti.

11 Su questa nobile famiglia brindisina di lontane origini genovesi vedi, per l’anno 1240, Pietro Vincenti, Teatro de gli huomini illustri che furono Protonotarii nel Regno di Napoli, Sottile, Napoli, 1607, p. 48-51 e Giambattista Lezzi, Ferdinando Forbari di Bribdisi , in Biografia degli uomimi illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1816,. t. III, s. p.

12 Senza il nome secondo un vezzo confidenziale ormai consolidato (pure di  Einstein  probabilmente, esisterà qualcuno con lo stesso cognome, anche se meno famoso di Albert, il quale,  peraltro,potrebbe essere non a tutti noto …) la voglia di un controllo. Poi arriva un oscuro ex insegnate di latino e greco mezzo rincoglionito dall’età Sospetto, però, che sia un tacito accordo per scoraggiare, stavo per dire impedirere , ai non addetto ai lavori (gli addetti si guardano bene dalla reciproca invasione degli orticelli …)  un controllo sulla scorta di dati bibliografici completi. Comunque, per tornare a Carabellesi, si tratta di Francesco, ma debbo notsare che, come già per il Ferdinando, l’indicazionEnon è preciso nemmeno il titolo dell’opera che è L’Apulia ed il suo comune nell’alto Medioevo, 1960, La citazione è tratta da p. 26.

13 Ne approfitto per ricordare che tutti e tre i lemmi sono connessi al latino mansus (participio passato di manère=restare) secondo una collaudata tecnica si formazione (p. e.: tèndere>tensus>tensio>italiano tensione; prèmere>pressus>pressio>italiano pressione, etc. etc.; in particolare mansio ha dato vita, attraverso il francese maison,  all’italiano magione.

14 II-V si legge nel testo del Marangio.

15 Se di prediale si tratta, infatti, la sua origine dovrebbe essere relativamente recente e non riguarderebbe la centuriazione romana,  data l’assenza del quasi canonico suffisso in –ano,  nonostante una gens Masina sia attestata nelle antiche Dacia e Pannonia (CIL 03, 10765;  CIL 03, 07644 e CIL 03, 10765)..

 

 

 

 

 

La cripta e la chiesetta di masseria “Santoria” in quel di Torre Santa Susanna

di Michele Mainardi
Ci lasciamo alle spalle la campagna immota e vasta che fa silente mostra di sé dalle parti di “Sant’Antonio alla macchia”, a Nord-Ovest di San Pancrazio Salentino.
Sotto un sole di primavera che riscalda più del dovuto, ferme stanno le chiome dei pini che, a punti, si aggrumano boscosi conferendo amenità al paesaggio della Piana Messapica, che qui risplende alla grande. Fa apertamente trasparire la bellezza sua la terra lavorata intensamente. Calore raggiante si leva dai campi: per fortuna non vediamo i danni della Xylella, il fastidiosissimo batterio che sta colpendo il Salento intero.
Inoltrandosi nelle contrade olivate, o condotte a seminativo, l’energia che trasmettono non ci lascia indifferenti. Entrati a “Carcarone”, l’area il cui nome rimanda alla fornace da calce, un’occhiata alla carta dei beni archeologici ci segnala la presenza di una specchia, scoperta in séguito a saggi di scavo di una costruzione a pianta circolare in conci di tufo. Il luogo viene appellato “Sant’Angelo”. Superatolo, prendendo sentieri appena tracciati, ci dirigiamo verso la nostra meta, individuata per le sue emergenze culturali.
La masseria “Santoria”, quella vecchia (la nuova le sta non lontano, in agro di Mesagne, e ha tracce di una villa di età imperiale o tardo-antica), si fa notare per l’imponenza del fabbricato e per i recenti interventi di ampliamento a scopo agrituristico e ludico-ricreativo (“Castell Favorito”).
La struttura, completamente ammodernata, ricade nel feudo di Torre Santa Susanna, ma alcuni fondi debordano nel contermine sanpancraziese. Per una inezia, infatti, la cappella è fuori confine.
Colpisce per la scenografia che le è stata assegnata. La coppia di campaniletti, uno cieco l’altro con squilla d’ordinanza, fa teatro di rurale compagnia. L’affiancamento, nel racchiuso sagrato, dei parallelepipedi lapidei di apiario (qui spostati per far ambientazione rusticana), rende bene l’idea di voler ricreare una certa atmosfera. Il tronco di una autentica colonna romana, appoggiato sul muro di recinto che indulge a balaustra (c’è la chiesa, no?), conferisce dignità d’antico al sito, che trasmette un’aria classicheggiante che non guasta, anzi accresce il coinvolgimento.
Mettendo piede nell’auletta delle evaporate liturgie (cattolico-apostoliche, ovviamente) la sensazione di raccoglimento ti prende.
L’inginocchiatoio, il quadro di Maria Vergine (anche se non è l’originale, trafugato a suo tempo), l’altare tozzo, le pareti tufagne, la volta a botte: tutto rientra nel canone delle vecchie orazioni di masseria. Il tocco artistico del contemporaneo regista della rinascita del tempietto è lì a dirci che c’è ancora chi vuole a tutti i costi preservare (reinterpretandola) l’anima del luogo.
Far rivivere, con le esigenze proprie dell’oggi, quel passato devozionale dunque è lecito, basta intendersi che è una operazione di carattere culturale, benedetta sempre.
La stessa volontà di preservare i segni della fede, questa volta davvero remoti, a “Santoria” l’abbiamo evidente e “raddoppiata”.
La pulizia effettuata, il conseguente risanamento della cavità (artificiale) in campo magnificamente racchiuso, cesellato in pietre a secco, ha reso possibile di tenere lontano da  manomissioni l’ambiente della cripta, che ha subito nella sua lunga durata improprie utilizzazioni. Per accedervi si passa sotto la  porta architettata a monumento.
L’ingresso nella calcarenite è favorito da praticabile scalinata. Vagamente rettangolare è lo spazio abitabile, bipartito da pilastri quadrangolari su cui si intravedono lacerti anneriti di pitture. Le incrostazioni sono troppo pesanti.
Non potendo più ammirare le figure ieratiche di san Giovanni (il Battista), benedicente alla greca, e di san Leonardo (l’eremita del Limosino francese), effigiato con libro e catena (essendo il protettore dei carcerati), dobbiamo accontentarci delle fotografie dei testi di studio. Solo così ammireremo l’affresco del Cristo che instrada l’orante: “Ego sum via et veritas“.
Le parole in latino del Signore pongono l’utilizzo dell’incavo nella fase più tarda del trogloditismo rupestre. Peccato che dell’Evangelio dei monaci sia rimasta incisa solo una croce assalita dal verde.
La “buona novella” l’annuncia ugualmente quel simbolo indistruttibile di incarnata pietà, di vicinanza del Figlio dell’Uomo crocifisso per noi.
Deo gratias!

MASINA: l’incredibile odissea etimologica e identificativa di un toponimo brindisino (1/2)

di Armando Polito

Masseria Masina. Questa foto e le successive con lo stesso soggetto sono tratte da https://www.cicloamici.it/wp/2022/04/26/un-parco-dellappia-antica-in-provincia-di-brindisi/

 

La storia che mi accingo a documentare di quella che per me rischia seriamente di essere una favoletta, è comunque emblematica di come il campanilismo esasperato, spesso ispirato da inconfessabili interessi, generi non solo i simpatici aneddoti con cui popolazioni vicine celebrano reciprocamente la loro presunta intelligenza, più spesso furbizia, contrapposta alla dabbenaggine altrui, ma induca in irresistibile tentazione pure gli storici di professione o, almeno, come tali riconosciuti.

Il fenomeno per motivi facilmente immaginabili è ravvisabile soprattutto tra gli storici locali e, sotto questo punto di vista, Nardò può vantare il suo più famigerato che famoso campione in Giovanni Bernardino Tafuri. Ma, se Nardò piange, Mesagne non ride …

 

 

Di seguito la cronotassi degli studi che si sono occupati dell’argomento sintetizzato nel titolo. Volta per volta aggiungerò le mie osservazioni e credo che il lettore comprenderà subito i miei continui rimbalzi, degni di una pallina da flipper, da un autore all’altro e dall’altro all’uno. I numeri che precedono ognuna delle tappe hanno il compito di agevolarlo in questa sorta di spola.

1) FRANCESCO  MARIA  PRATILLI1, Della via Appia da Roma a Brindisi, Napoli 1745, p. 493

2) ANTONIO PROFILO2, La messapografia, ovvero memorie istoriche di Mesagne in provincia di Lecce, Tipografia editrice salentina, Lecce, 18703.

Da Nicola Bodini, L’autore della “Messapografia” Antonio Profilo, in Il Salento. Rassegna annuale della vita e del pensiero Salentino, Editrice “L’Italia Meridionale”, Lecce, 1933,  v. VII, p. 102

 

Siccome è proprio di questo autore la mistificazione più clamorosamente palese, ho ritenuto opportuno riprodurrei in formato immagine i dettagli dei brani coinvolti, nei quali. come in tutti quelli nei quali ho ritenuto opportuno seguire tale procedura, le evidenziature hanno lo scopo di rendere immediatamente visibile al lettore l’elemento principale. A p. 113 del primo volume, dopo aver riportato in sunto il Pratilli (vedi n. 1) con citazione corretta4 degli estremi bibliografici nella nota n. 12, di seguito scrive la parte che ho evidenziato col suo tratto finale (a partire da Masenza virgolettato).

Anche qui gli estremi bibliografici sono correttamente indicati nella nota n. 13:

In virtù delle virgolette di cui sopra chiunque si sarebbe atteso una citazione fedele.

E, invece, nel testo del Mazzella (lo riporto da Descrittione del Regno di Napoli, Cappelli, Napoli, 1586, p. 117, ma in tutte le altre edizioni il testo non cambia di una virgola; oltretutto bella nota il n. di p. 191 è in realtà il 186 dell’edizione sempre Cappelli, ma del 1601) si legge:

La cosa più grave, però, peccato mortale rispetto a quello veniale di gioventù che tempo fa ho stigmatizzato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/10/28/mesagne-laccademia-degli-affumicati-antonio-profilo-e-il-suo-quasi-plagio-nascosto-nel-poliorama-pittoresco/), è che la lettura fasulla fu perpetrata consapevolmente per confortare truffaldinamente un’ipotesi di lavoro, attribuendo ad un autore cosa da lui mai scritta; il tutto fidando nell’assenza di un increscioso controllo, peraltro, ai suoi tempi, non certo agevole materialmente pur in presenza di adeguata competenza. Poteva il Profilo immaginare che un anonimo (nel senso di sconosciuto, visto che firmando questo post, mi sono assunto tutte le responsabilità del caso) col supporto della rete ed in particolare del suo patrimonio di libri, e non solo, digitalizzato avrebbe un giorno neppure tanto lontano stigmatizzato una congettura che sarebbe più consono definire confettura adulterata, vale a dire frutto di una malafede che la scienza, direi per genetica avversione, dovrebbe aborrire? Certamente no, visto che anche autori del nostro tempo incorrono nello stesso peccato. per non parlare dei sedicenti divulgatori ed esperti imperversanti in tv, accattoni e piazzisti orgogliosi di sventolare il loro ultimo (purtroppo non nel senso che intendo io …) capolavoro.

Ormai lanciato sulla scia di questo Masenza, figlio degenere dell’incolpevole originale ma senza, lo storico mesagnese così prosegue (qui basta e avanza la trascrizione): Non essendoci notizie più precise intorno à questo fiume, noi congetturiamo che questo dovette negli antichi tempi avere la sua sorgente verso Torre S. Susanna percorrendo le campagne di S. Pancrazio e di Cellino, e di qui traversando quelle di Mesagne e Brindisi costeggiava il distrutto casale di Mansione (oggi masseria Masina) che in origine fu una delle fermate (mansio) lungo la via Appia mediterranea. Nel Medio Evo questo fiume essendosi nella massima parte esiccato cominciò ad appellarsi torrente di Masina, e canale del cefalo in questa parte verso Brindisi; e verso Cellino e Torre S. Susanna il predetto Corcia vuole si fosse appellato Canale del terzo, ed altri scrittori Cava. In verità dalle assunte  informazioni questi due ultimi nomi s’ignorano affatto dagli abitanti di quei luoghi; epperò o non mai esistettero ovvero si sono convertiti in altri. Cero è però che percorrendo oggidì le campagne per dove si distendeva questo fiume, evidentemente si osserva il suo antico letto.                  

Dopo essersi affaticato col fonte, diventato la fonte di questo fantomatico Masenza, il Profilo diagnostica un dimagrimento del fiume (nella massima parte esiccato) responsabile di quello successivo del nome. A questo punto non si capisce se l’autore si riferisca ad un presunto passaggio Masenza>MasinaMansione (da mansionem, accusativo del nominato mansio)>Masina. Se quest’ultimo passaggio fosse stato ispirato dalla contrapposizione, immaginata ma filologicamente inesistente, tra un presunto suffisso accrescitivo ed uno, altrettanto presunto, più che di paretimologia si tratterebbe di un errore ancor più clamoroso di quello, strumentale, di lettura da cui tutto è partito.

La solfa continua nel secondo volume, dove a p. 26 si legge: I  Mansione (oggi Masseria Masina) e nella pagina successiva I Mansione. Del villaggio di Mansione sulla via che da Mesagne conduce a Brindisi avemmo l’opportunità di dare antiche notizie a noi pervenute. Impiantato ad oriente di Mesagne distava circa otto chilometri, a cavaliere del fiume Pactius, indi torrente di Massenza o Masina. Conservasi un privilegio di Ferdinando I d’Aragona, ricordato pure da Diego Ferdinando (2)5 e spedito nel castello nuovo di Napoli ai 10 ottobre 1487, per lo quale si concedeva al nobile Giovanni Greco di Ugento, pei servigi da lui prestati alla reale Corona, il villaggio appellato Mansione, e l’altro di cui parleremo di qui a poco, appellato Surbole6 … Infine il medesimo Ferdinando (3)7 riferisce, che ai tempi suoi questo feudo si possedeva dalla famiglia Pornerio8.

(2) Messapogr. tom. 2, lib. 2, cap. 2

La nota (2) fa riferimento alla Messapographia sive histotia Messapiae di Diego Ferdinando (1611-1662), rimasta a lungo manoscritta e pubblicata pochissimi anni fa9. Ne riporto il passo, in vista di un ulteriore confronto che farò più avanti, riprodotto dalla copia  custodita nella Biblioteca “Annibale De Leo” di Brindisi (ms. D/14).

Eadem Regina 10 Serenissimi Ferdinandi Regis Uxor concessit nobili Francisco11 Greco de Ogento duo feuda sita et posita in pertinentiis Messapiae, quorum alter12 vulgariter dicitur Lo Survole apud viam, qua itur ad Uriam et alterum nominatur Mansione versus viam qua itur ad Brundusium ab eiusdem Serenissimae Reginae Curia devoluta ob rebillionem, et defetionem Salvatoris Zulli salvis fidelitate, feudali servitio et adhoa; cui etiam Ferdinandus Rex iuxta dictam Reginae concessionem  privilegium et confirmationem fecit data in Castello Novo Neapoli X Octobris 1487 et registratus13 invenitur in privilegiorum primo f. 98 et reperitur in libro privilegiorum Messapiae fol. 60. Circa Ferdinandi Regis tempora plura notata digna ad Messapiae urbis dignitatem contigisse legimus. Nam anno 1467 pestis in ea ut per totum regnum …                     

(La medesima regina moglie del serenissimo re Ferdinando concesse al nobile Francesco Greco di Ugento due feudi siti e posti nelle pertinenze di Mesagne, dei quali l’uno è chiamato Lo Survole presso la via perla quale si va ad Oria e l’altro chiamato Mansione verso la via per la quale si va a Brindisi, devoluti dalla curia della medesima regina per la ribellione e la defezione di Salvatore Zullo fatti salvi la fedeltà, il servizio feudale e la adhoa14; a lui pure il re Ferdinando conformemente alla detta concessione della istituì il privilegio e la conferma emessi nel Castello Nuovo a Napoli il 10 ottobre 1487 e si trova registrato nel primo dei privilegi foglio 98 ed è reperibile nel libro dei privilegi di Mesagne foglio 60. Intorno ai tempi di re Ferdinando ho letto molte notizie degne ad onore della città di Mesagne. Infatti nell’ano 1467 in essa come per tutto il regno la peste …)

Per ora mi limito a dire che è singolare che il Profilo citi Diego Ferdinando piuttosto che suo padre Epifanio, che l’aveva preceduto nel trattare lo stesso argomento.15 Sulle discrepanze tra queste due fonti, che sono oltretutto le più antiche16  relativamente al dettaglio che ci interessa vedi il n. 5 nella prossima seconda ed ultima parte. Siccome è assurdo credere che il Profilo ignorasse l’opera di Epifanio, che era molto più famoso del figlio17, tanto più che, addirittura, afferma, non è dato sapere in base a che cosa, che essa fu portata a termine nel penultimo anno di sua vita18 sarò troppo malizioso a pensare che abbia deliberatamente omesso Ferdinando per corroborare la sua ipotesi e il connesso campanilismo? Dopo il caso del Mazzella sarebbe la seconda, anche se più nascosta, prova di una malafede sulla quale tornerò alla fine. Per ora vado avanti col repertorio cronologico.

Premesso che la trascrizione appena fatta è perfettamente coincidente, virgole incluse, con quella dell’autografo pubblicato nel 2024, faccio notare come il Masionem del padre è diventato Masione nel figlio, passo obbligato, ma falso …, per passare alla capra  (Masina) salvando il cavolo (il latino mansio).         (CONTINUA)

PER LA SECONDA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/12/03/masina-lincredibile-odissea-etimologica-e-identificativa-di-un-toponimo-brindisino-2-2/

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1 Archeologo napoletano (1689-1763).

2 (1839-1901), avvocato mesagnese, fu autore pure di Vie, piazze, vichi e corti di Mesagne.  Ragione della nuova loro denominazione, Tamborrino, Ostuni, 1894.

3 È il primo dei tre libri di cui si compone l’opera, pubblicato nel v  XV  della collana Scrittori di Terra d’Otranto diretta da Salvatore Grande; seguirono l’anno successivo gli altri due libri; infine col titolo di Memorie storiche di Mesagne per i tipi di Atesa a Bologna nel 1980.

4 Anche se, cosa allora abituale, mancano editore, luogo, data di pubblicazione.

5 Testo della nota: Messapogr.  tom. 2 lib.u2 cap. 2

6 Torboli, invece, si legge nell’opera che sullo stesso tema aveva scritto Epifanio, suo padre, e della quale si dirà più avanti (vedi n. 3).,

7 Testo della nota: loc. cit. tom. 1  lib. 4 cap. 4.

8 Fornari, invece, si legge nell’opera che sullo stesso tema aveva scritto Epifanio, suo padre, e della quale si dirà più avanti (vedi n. 3).

9 Diego Ferdinando,  Messapografia ovvero historia di Mesagne, a cura di Domenico Urgesi con la collaborazione di Francesco Scalera, Società storica di Terra d’Otranto, Lecce, 2020.

10 La concessione fu fatta dal re in Profilo.

11 Giovanni in Profilo, ma ancor più chiaro del Francisci del testo è il Franciscus della nota nel margine destro.

12 Col suo unumalterum  suo padre Epifanio sembra meno in difficoltà con il latino e le sue concordanze …

13 Registratus invece di registratum, in Diego altro problema di concordanza, anche se nella trascrizione del manoscritto edito da D. Urgesi si legge registratum.

14 Imposta dovuta al sovrano in base alla superficie o al reddito del feudo.

15 Si giustifica solo parzialmente con il fatto che il Profilo fu probabilmente il possessore del manoscritto edito da D. Urgesi, il quale afferma di averlo avuto in dono da Maria Profilo, nipote di Antonio.

16 Ai fini di questa indagine inutile è risultata la lettura di  Messapografia del letterato salentino Epifanio Ferdinando accresciuta e tradotta da Antonio Mavaro, manoscritto inedito custodito anch’esso nella Biblioterca A. De Leo” di Brindisi ”  (ms. D/4). Quella del Mavaro (1725-1812) più che una traduzione è un compendio e del testo originale in latino di Epifanio è riportato solo il primo capitolo del primo libro. Lo stesso è valso per Il profilo historico dell’antichità di Mesagne raccolto dal reverendo padre F. Serafino Profilo di Mesagne lettore theologo dei Minori Osservanti Riformati di S. Francesco della provincia di S. Nicola di Bari: e dedicato à Mesagne sua padria, inedito manoscritto  custodito nell’archivio della parrocchia matrice di Mesagne. La cosa curiosa è che proprio Antonio Profilo nella sua opera messa in ballo al n, 2 (pp. V­­-VI) così si espresse nei confronti dell’autore e della sua opera databile verso la metà del secolo XVIII: Fortemente accecato da interesse municipale si studiò con sforzi degni di migliore proposito a combattere gli scrittori patri delle città limitrofe evitando le gloriose loro tradizioni con la speranza d’innalxare in questo modo la patria sua. Perlocché spessissimo interpreta a sui particolare criterio gli antichi scrittori e sconvolse ka storia generale. Nonché renderci più spedita la via, questi la rese pià faticosa. Se anche lui fosse stato frate, chi o che cosa mi avrebbe trattenuto dal dire:  Da quale pulpito viene la predica!” …   .      :

17 Su Epifanio e Diego vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/06/05/diego-ferdinando-di-mesagne-1611-1662-ovvero-raramente-il-figlio-darte-supera-il-padre-per-lo-piu-nemmeno-lo-eguaglia-1-2/.

18 Vie, piazze …, op.  cit. in nota 2, p. 251.

La chiesa dei tre altari a Montalbano Vecchio di Ostuni

di Michele Mainardi
Non è difficile arrivare a “Montalbano Vecchio”, l’antica masseria-villaggio riconvertita a location  per matrimoni, che rimangono impressi per la dispensata arte dell’accoglienza, palpabile in ogni suo aspetto di charme.
Usciti da Ostuni per la strada statale “16”, quella che ci conduce a Fasano, percorsi all’incirca nove chilometri si giunge a destinazione: svoltando a sinistra, immettendosi in una via che poi si dirama nelle contrade “Scategna” e “Canemazzo”.
Non ci dilunghiamo sulla consistenza fascinosa della struttura di ricevimenti, sulla magia della scenografia nell’aperto della corte curata fin nel dettaglio: di verde, di luci, di arredi. Basta scorrere la galleria delle immagini postate sul sito per restare ammaliati dall’avvolgente disporsi degli elementi, dai tavoli alle casette dei contadini divenute ambienti di ospitalità coccolante.
Ci siamo sin qui portati per una ragione che non ha niente a che vedere con il godere di una giornata spesa per immergersi nel luxury di una cerimonia nuziale: è la chiesa della masseria, d’un tempo ormai remoto, la nostra meta. E che meta!
Non perdiamoci in preamboli, dobbiamo restringere il campo: c’è troppa materia figurativa da esaminare. La sintesi è quindi necessaria. Cominciamo come d’uso dall’esterno.
Si accede al tempio salendo i sette gradini della scalinata, che è rientranza di abitazioni coloniche disposte ai lati dell’ampio spazio lastricato destinato alla vita comunitaria dell’altroieri: oggi qui si banchetta.
La facciata della cappella è linda, di bianco-calce spalmata. Il portale è inscritto in piatta cornice di pietra viva. L’architrave ha in rilievo tre rosette: su di esso si erge il timpano scolpito a elementi vegetali. Alleggerisce il prospetto il grande oculo, ora schermato con un giro di luminarie, che serve per dare multicolore alle serate delle nozze al chiaro di luna. Ad apice si eleva il campanile a vela con squilla d’ordinanza. Chissà se i rintocchi scandiscono i momenti clou della celebrazione gourmande, del mangiare e del bere fragorosamente per tutta la notte.
Entriamo nell’aula liturgica lasciando la risposta all’indefinito dell’interrogativo. Di certo, qui dentro, è affermativo il silenzio, che si spande e ti prende. L’alto volume del fuori, del sonoro gridato delle musiche, al prete (che è figura di un lontano ricordo) di sicuro non sarebbe stato gradito.
Avrebbe storto il naso pure il committente dei nuovi affreschi (eseguiti nel 1904 dal pittore Giuseppe Montrone), il facoltoso signore Giovanni Tanzarella-Soleti, il cui altolocato nome di casata – con stemmi riprodotti e accoppiati – è a chiare lettere impresso sopra la porta d’ingresso, in controfacciata. Il suo patronato andrebbe silentemente rispettato, avendone sacrosanto diritto di ascendenza.
Si resta ammutoliti sotto il cielo della volta, che è a botte, unghiata nella sezione presbiteriale. In alto si rincorrono i santi. Nel catino poligonale della terminazione star dietro alle figure è un problema. Nell’azzurro stellato, tra schiere di angeli riconosciamo Leonardo e Caterina, Giovanni e Teresa, Vincenzo (Ferrer) e Chiara e ancora Rita: degli altri aureolati abbiamo perso il conto. Nei medaglioni della navata ci sono poi i volti ispirati dei Padri della Chiesa, quattro per la precisione: Agostino, Ambrogio, Girolamo e Tommaso (l’Aquinate). Limpidi nel tratto, delineato con maestria, li riconosciamo dai loro attributi iconografici. I colori accesi rendono luminosi i lineamenti, come quelli dell’Eterno Padre assiso tra i serafini, i più vicini al trono di Yahweh. Ma si farebbe torto agli apostoli, a Pietro e a Paolo, ritratti ai lati dell’altare maggiore, se non li si citasse, vista la posizione primaziale che assumono anche nella parete di fondo.
E che dire ancora della titolare della cappella, la Beata Vergine del Rosario, a cui rimanda la corale pittura della battaglia di Lepanto, che giganteggia su una parte della struttura della copertura? La sua statua in cartapesta è in teca, a esaltazione del tabernacolo. La veste che la adorna è immacolata: celeste-avorio, trapuntata in pizzo; il panneggio è ricercato. Non sfigura di certo se messa a confronto con l’ornato raffinato del paliotto, in cui sfolgoreggia lo stemma marmoreo di Giulio II Acquaviva d’Aragona, quattordicesimo conte di Conversano. A lui, grande feudatario, si devono i lavori di ricostruzione dell’edificio sacro, approntati a chiusura del XVII secolo.
Quante attenzioni si sono riversate nel corso degli anni per rendere onore alla folla degli eletti, ai nimbati, che si incasellano in pitture e simulacri; anche se è al Signore, al Crocifisso, pianto dalle tre Marie, nella nicchia dell’altare laterale destro, che va la massima considerazione di fine arte devozionale. E sant’Antonio di Padova, con il Bambino, lui non merita il suo cantuccio privilegiato, da grande taumaturgo qual è? Indubbiamente. Nessuno osa scansarlo dalla vetrinetta della terza ara, disposta entrando a sinistra. Griderebbe allo scandalo il presbitero che volesse dal pulpito in legno policromo lanciare l’ammonimento ai malintenzionati!

Non manca niente alla cappella del “Crocifisso”, in contrada “Coccaro” di Savelletri

di Michele Mainardi
Ci troviamo nel cuore dell’area del turismo di superiore livello, quella tra Torre Egnatia e Savelletri, punteggiata di strutture ricettive di lusso, dispensatrici di piaceri e di comfort. Resort stellati, scelti da ospiti che giungono specialmente dall’estero, fanno a gara per accogliere in modo suadente una clientela danarosa. I viaggiatori con larghe disponibilità amano immergersi nella quiete coccolata della campagna super accessoriata. Non se la scordano, la vacanza, una volta tornati a casa.
Avveduti imprenditori, fiutando le potenzialità delle amene risorse dei luoghi, hanno professionalmente rivisitato il vecchio mondo contadino in chiave di esclusiva offerta extralberghiera. Scommettendo sul patrimonio di paesaggio umano ereditato hanno centrato il target. Il segmento di mercato al quale si rivolgono dà frutti significativi che, stagione dopo stagione, maturano, si consolidano. Ne è discesa un’immagine del territorio fasanese vincente, celebre soprattutto per i matrimoni VIP apparecchiati.
Abbiamo voluto dar contezza dello specifico (e molto mediatizzato) fenomeno dell’ospitalità “deluxe” perché altrimenti come spiegheremmo l’ottima conservazione delle secolari chiesette di rimodulate masserie? Senza la dovuta contestualizzazione, nel presente invitante, sarebbe monca la nostra descrizione della cappella del “Crocifisso” di “Torre  Coccaro”.
Già dal portone, che immette nella corte, divenuta piazzale delle feste del fu organismo masseriale, notiamo il sigillo della religione; qui, i vecchi segni del sacro sono considerati valore di architettura. C’è la croce lapidea sul culmine del recinto della struttura, a lato della caditoia. Appena sotto di un concio trionfa la formella della Vergine col Bambino: un altorilievo che non puoi non vedere appropinquandoti all’arco incorniciato di bouganville.
Il viola tenero dei fiori che si arrampicano perimetralmente invitano a entrare. Il permesso è accordato. Il bianco-calce degli spalti che si spande tutt’intorno lascia presagire la meraviglia a portata di sguardo.
Varcato l’ingresso, adornato in tonalità magenta (una livrea che invita al sogno d’una fiaba d’altri tempi), si dispone giro giro lo slargo lo stupore. Colpisce la distinzione dell’oratorio. Moriamo dalla voglia di visitarlo, ma prima di varcare la soglia indugiamo sulla facciata, le cui linee riflettono armonia.
Il coronamento ha il classico timpano: netto, geometrico alla perfezione. La triangolarità, si sa, è elevazione: il cielo lo tocchi con un dito. Ma voliamo basso.
Sul portale si apre la finestra, grande col suo profilo mistilineo contornato da cornici aggettanti. Superiormente è alloggiata la lunetta; vi spicca il modellato a tutto tondo della figura del Cristo deposto: emerge dal sarcofago sorretto da due angeli. La pietra tenera del manufatto dà plasticità alla composizione, resa fulgente grazie al contrasto cromatico del niveo col rosso pompeiano. Il rafforzo iconografico mette tutto in asse: e l’equilibrio della forma se ne avvantaggia. L’eleganza dell’arredo scultoreo è prova indiscussa di cura nell’esecuzione, che rimanda al tardivo influsso di gusto rinascimentale nella periferia sud-orientale dello Stivale.
Goduto l’esterno passiamo all’interno, che merita la giusta attenzione.
L’aula ha volta a crociera con chiave costituita dal rosone. Gli stessi colori del fuori continuano nel dentro. L’altare ha però quel di più di celeste, che è perfetta cromìa risalente all’Altissimo, ripreso morente sul patibolo. Il legno, che è materia della croce, è stato sovrapposto sul dipinto, opera del pittore fasanese Ferdinando Schiavone, datata 1931. Raffigura le tre Marie piangenti ai piedi di Gesù, modellato in cartapesta.  L’epidermide del Messia è volutamente candida, forse troppo: in tal modo si volle far risaltare le piaghe, le ferite inferte sul costato e alle estremità del corpo adeguatamente plasmato. Sullo sfondo del Calvario spuntano le figure di due guardie romane, riprese a tinte scure per metterle in cattiva luce.
La macchina della mensa eucaristica ha al vertice il Sacro Cuore trafitto e avvolto nel sudario della Risurrezione. Un tripudio di arredi sacri, posti sui gradini della tavola liturgica, completano il colpo d’occhio. Gli ostensori, i candelieri, fanno parata al tabernacolo. La Parola di Dio sovrasta il tutto: è lì, nelle pagine aperte delle letture della santa messa.
Il senso del raccoglimento prende così l’occasionale visitatore, che non è un cliente del “Cinque stelle”. Ciò non toglie che non possa sostare nel presbiterio, raccolto e grondante di suppellettili ante riforma conciliare.
La gentilezza del “concierge” ci ha favorito. Si ha tutto il tempo per ammirare, sulla parete – a sinistra entrando – il lavabo a due vasche, che reca rilievi a motivi vegetali: lo sostiene una maschera che parrebbe di satiro. C’è l’indicazione di quando la doppia composizione fu scolpita: nell’Anno del Signore 1739. Possiamo allora non essere lontani dalla data dell’edificazione dello splendido tempietto di masseria che appartenne alla famiglia Indelli di Monopoli.
Terminata la visita ce ne andiamo soddisfatti: un altro tassello del mosaico della religione di vecchia campagna è al suo posto. Natale 2023 è alle porte: il “Crocifisso” di contrada “Coccaro” ci riconduce inevitabilmente alla Nascita…

“Acquaro” brindisino, da masseria a castello con attigua chiesa che è una meraviglia

di Michele Mainardi
Usciamo da Mesagne per la via  che porta alla stazione ferroviaria di San Vito dei Normanni, la provinciale “44”; non dobbiamo fare molta strada per arrivare alla masseria “Acquaro”, oggi ridenominata “Castello”, a motivo della profonda ristrutturazione attuata sul finire degli anni ’20 del Novecento.
Fu il comandante della Regia Marina Aslan Granafei – discendente dell’antica e nobile schiatta dei marchesi di Serranova, intestataria di vasti possedimenti in Terra d’Otranto – a dare una svolta imprenditoriale alla tenuta (seguendo in questo le orme del padre, Giuseppe), la cui storia ha radici ben piantate sin da quando un suo avo, Giacomo Antonio, acquistò l’organismo masseriale nel lontano 1571.
Non vogliamo addentrarci nelle specifiche vicende che portarono alla radicale conversione degli assetti agro-fondiari; né tanto meno intendiamo soffermarci sulla ridefinizione degli immobili in residenza castellata. Rimettiamo alla pubblicistica storica il compito di sviscerarne i dettagli, come quelli delle funzionali strutture per la trasformazione dei prodotti agricoli (nuove stalle, oleificio, locali per la lavorazione della foglia del tabacco, cantina vinicola e pozzi artesiani e altro ancora).
Per il fine circoscritto della nostra escursione, è sufficiente sapere che siamo di fronte a un riuscito esito di processo di miglioramento e di innovazione di terre e fabbricati,
conseguenza di pianificate azioni di bonifica. Possenti lavori hanno nel tempo portato al rifiorimento colturale dell’estesa proprietà, che oggi continua (con altro nome) a essere all’altezza del suo passato.
“Acquaro”, comunque, sollecita ulteriori riflessioni, che lasciamo agli storici del territorio dipanare: come il toponimo di per sé parlante (rinvia al guazzatoio per l’abbeveramento degli animali). D’altronde, gli studi ci dicono che nella contrada – avanti il sorgere della masseria, nei periodi del grande caldo, quando la siccità disseccava le erbe – il bestiame, specie il bovino (più esigente dell’ovino), dalle aree contermini veniva condotto a pasturare. Grazie al richiamo della refrigerante presenza della grande cisterna, solitaria nel campo – tra il folto della macchia – ivi confluivano gli armenti.
Abbiamo così assolto al dovere della contestualizzazione del luogo. Possiamo dunque procedere oltre: alla visita della cappella, dotata di una sontuosa aula liturgica, in linea con l’importanza del casato committente.
Anche per l’oratorio conviene rifarsi alle carte d’archivio che ce lo descrivono con dovizia di particolari. Ubicato a Levante, fuori del corpo della masseria, ben adorno di stucco, con le due porte  e i tre altari, ora, come forse meglio di prima, qualifica oltremodo il sito. Le are sono dedicate alla Vergine Santissima posta sotto il titolo di Costantinopoli (la centrale), a san Giuseppe suo casto sposo e al Crocifisso (le laterali).
La chiesa è stata restaurata in modo esemplare: già dal prospetto è evidente. Il verde curato la incastona tra le siepi e lo spicchio di cielo che ne esalta la figura: solida nella facciata, elegante nell’interno. Nulla è qui fuori posto: tra la navata e il coro è tutto uno splendore, di pavimento maiolicato e di pareti immacolate. Il bianco con cornici di decoro in giallo spicca e traluce. Vengono in tal modo a risaltare le targhe marmoree (sopra acquasantiera) che ricordano i lavori di riattamento voluti dai devoti proprietari: nel 1959 per iniziativa della duchessa di Bagnoli José Sanfelice Granafei; nel 1991 per volontà della subentrante famiglia Rosato.
Ogni elemento, ogni arredo liturgico (dalla carta gloria: “Initium Sancti Evangelii secundum Joannem” alla lampada votiva della mensa eucaristica), è messo in debita luce; ma più ancora si distingue, nell’angolo dell’entrata, il tavolino di metallo e marmo che accoglie la squilla (non più riparabile) del campanile, staccatasi a causa di un forte temporale abbattutosi nell’inverno del 2018. La si è voluta conservare per far memoria, per renderle giustizia. Essendo vecchia di 329 anni se lo merita: “Commissionata dalla famiglia Granafei nell’anno 1695 con i suoi rintocchi ha richiamato a sé nella Chiesetta di S. Maria di Costantinopoli i fedeli”. Per così tanto tempo che non si può far finta di niente.
Non si finisce di restare stupiti per la cura che si riversa nell’aula delicata: rose rosse e tappeto fine e sedie imbottite. E che dire poi della tela dell’abside? Una meraviglia del 1790, che vede la titolare, la Madre di Dio con il Bambino, trionfare in un mare di nubi inghirlandato da un tripudio di angioletti. Ai piedi della Madonna la città turrita è in preda alle fiamme, con il Turco che soccombe. C’è una vela in ormeggio: porterà in salvo gli assediati.
Conosceva bene l’iconografia costantinopolitana il bravo pittore a cui si affidarono i Granafei, signori di alto lignaggio e amanti delle Belle Arti.

Su alcuni toponimi bizantini e longobardi in Terra d’Otranto: Marancicappa tra Sava e Fragagnano

di Gianfranco Mele

 

A sostegno della testi dell’esistenza del Limes bizantino altrimenti detto Limitone dei Greci, una serie di storici e ricercatori salentini della prima metà del Novecento indagano sulle località e sui toponimi a ridosso del tracciato di quella che era ritenuta la muraglia.

Così, ad esempio, il Racioppi e l’ Antonucci riferiscono sui toponimi Camarda e Camardella (due masserie nel territorio di Mesagne immediatamente a sud del cosiddetto Paretone o Limitone), di inequivocabile derivazione bizantina (καμάρδα = tenda, accampamento). Allo stesso modo, sia l’Antonucci che il De Giorgi notano l’esistenza in agro di Latiano, a nord di quello che era stato identificato come il Limitone, di un toponimo ritenuto di derivazione longobarda: Morgingappa (da Morgincap o Morgengabe) designante una masseria. Ancora, a nord di Mesagne, verso S. Vito, un esplicito riferimento ad un insediamento longobardo con il toponimo Campi dei Longobardi.[1]

Il tragitto del Limitone dei Greci nella ipotesi di Giovanni Uggeri

 

Anche il nome della masseria Guardiola nelle campagne di Francavilla Fontana è messo in relazione con  con utilizzi militari dei siti e delle strutture un tempo là presenti[2], mentre il già citato toponimo Camarda oltre che in territorio di Mesagne è presente anche in agro di Sava, proprio a ridosso di quel tratto di muraglia ancora presente e identificata come un residuo del cosiddetto Limitone.[3]

Analogamente, la contrada Farai in San Pancrazio Salentino è stata vista come di probabile derivazione da un termine longobardo, Fara, indicante un insediamento di tipo militare.[4] A sostegno di questa ipotesi, anche il fatto che in Italia sono numerosi i toponimi che riportano alla presenza documentata di insediamenti longobardi e che inglobano il termine Fara.

Tornando al termine Morgincap ed ai toponimi da questo probabilmente derivati,  oltre che in agro di Latiano è presente anche in agro di Francavilla Fontana (in questo caso con “Maraciccappa”, che dà nome ad una masseria ed una località individuata sempre in zona di confine tra Longobardi e Bizantini). Ne ho parlato dettagliatamente nell’articolo intitolato “Morgincap o “mar’a a ci ccappa”? Toponimi di confini, strade contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare” pubblicato nel luglio 2020 sul sito web di Fondazione Terra d’Otranto, e a quello rimando per  approfondimenti (qui il link: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/04/confini-strade-contrade-e-masserie-tra-interpretazioni-storiche-e-tradizione-popolare/ ). Basti qui ricordare che, secondo il De Giorgi e l’Antonucci, che “Morgingappa” in agro di Latiano, riportato e “tradotto” (o meglio, storpiato secondo i due studiosi) anche con “Mar’a ci ccappa”, “Mali a ci ccappa”, “Malch’incappa”, deriverebbe dal longobardo  mongergabe  che sta a significare “dote”, “dono del mattino”: il riferimento è ad una tradizione, ovvero il regalo che il marito faceva alla sposa il giorno dopo la prima notte di nozze.[5] Della stessa opinione sono il Teofilato[6],  il Rohlfs[7] e il Pichierri[8] riferendosi alla omonima località in agro di Francavilla Fontana.

A distanza di pochi giorni dalla pubblicazione del mio sopracitato articolo su Fondazione Terra d’Otranto, mi ritrovai a parlare con un caro amico di Fragagnano[9] che mi segnalò l’esistenza, anche in agro fragagnanese, del toponimo Marancicappa, fornendomi anche copia di una mappa. Tale termine sta ad indicare una strada, più conosciuta oggi come “strada vecchia per Sava”, nei pressi della contrada denominata Pozzopalo. L’amico Gianni mi riferì anche che la strada era un tempo denominata anche, dai fragagnanesi, Marcincap, avvicinandosi così il toponimo ancor  più sorprendentemente all’etimo longobardo.

Stralcio di una mappa del territorio fragagnanese, in cui è riportata la strada comunale Marancicappa

 

La Marancicappa fragagnanese si trova anch’essa in prossimità del presunto tracciato del Paretone (o Limitone) cosiddetto Bizantino (a poca distanza da Agliano), e attraversa le località Pozzopalo e Acquacandida. Si trova dunque a ridosso di quel confine che, partendo da Borraco, risaliva attraversando il feudo di Maruggio e il monte Maciulo[10] per poi raggiungere la zona della cappella della SS. Trinità (agro di Torricella) e giungere sul monte Magalastro,[11]  Proseguendo, il confine andava da Magalastro verso il casale di Pasano[12], poi verso Agliano per proseguire verso il “castello Vecchio” di S. Marzano. Questo percorso corrispose anche (di sicuro e in epoca successiva) al confine tra Foresta Oritana e Principato di Taranto, come rilevato attraverso documentazione storica nel lavoro del Carducci.[13] E’ proprio nel mezzo del tratto che va da  Agliano verso la zona de il “castello Vecchio” di San Marzano, che si trovano le contrade fragagnanesi attraversate dalla strada “Marancicappa”.

Fragagnano, strada “Marancicappa”, scorcio

 

In rosso, un tratto del confine (delimitato dal “Paretone”) tra Principato di Taranto e Foresta Oritana nella mappa allegata al testo del Carducci: è visibile la strada vecchia per Sava, in zona Masseria Pozzuolo e Masseria Acquacandida (qui tratteggiata in giallo)

 

Fragagnano, scorcio della Masseria Acquacandida

 

Note

[1]Giovanni Antonucci,  Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933,  pp. 79-80

[2]Gaetano Pichierri, Altre notizie sul “Limitone dei Greci” nell’agro di Sava, in: “Omaggio a Sava”, a cura di Vincenza Musardo Talò, Edizioni Del Grifo, Lecce, 1994, pag. 66

[3]Gaetano Pichierri,  Sava, il “Limitone dei Greci”, in: Giovanni Uggeri (a cura di), “Notiziario Topografico Pugliese I, Contributi per la Carta Archeologia e per il Censimento dei Beni Culturali”, Brindisi, 1978, pp. 152-153

[4]Cfr: https://it.wikipedia.org/wiki/Fara_(Longobardi)

[5]Giovanni Antonucci,  Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933,  pp. 79-80

[6]Cesare Teofilato, Confine Longobardo di Terra d’Otranto e ‘Morgincap’ Francavillese nel secolo VIII, in: Libera Voce, Lecce 1947 (V, 20-21-22)

[7]Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) Volume Primo, Accademia bavarese delle scienze di Monaco di baviera, 1956, ristampa a cura di Congedo Editore, Galatina, 2007, pag. 322. Scrive qui il Rohlfs nel definire il vocabolo  Maru-c’incappa : “nome di una masseria tra Francavilla e Sava (‘povero chi ci capita’, deform. dal longob. morgengaba ‘dote’?)”.

[8]Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, cit., pag. 152

[9]Ringrazio l’amico Gianni Bosco per la segnalazione e le informazioni fornitemi

[10]Gianfranco Mele, Monte Maciulo in agro di Maruggio e località viciniori. Tracciati storico-archeologici, La Voce di Maruggio, luglio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/monte-maciulo-in-agro-di-maruggio-e-localita-viciniori-tracciati-storico-archeologici.html

[11]Gianfranco Mele, Monte Magalastro fra Sava e Torricella. Resti archeologici, ricerche, documentazione e fonti storiche, Fondazione Terra D’Otranto, aprile 2022 https://www.fondazioneterradotranto.it/2022/04/22/monte-magalastro-tra-sava-e-torricella/

[12]Gianfranco Mele, Pasano e dintorni: aspetti storico-archeologici, La Voce di Maruggio, Marzo 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/pasano-e-dintorni-aspetti-storico-archeologici.html

[13]Giovangualberto Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Mandese Editore, 1993

La masseria Monteruga, borgo fantasma

di Giovan Maria Scupola

Tra le campagne salentine, nel sud-ovest del Salento, si trova un piccolo borgo di nome Monteruga. Una frazione abbandonata situata a Veglie, in provincia di Lecce.

La caratteristica principale di questo piccolo borgo, è quello di essere stato abbandonato in epoca remota, ed oggi, frastagliato dal tempo, presenta tutte le caratteristiche di un paese del mitico Far West.

Monteruga è una frazione sorta nel ventennio fascista (1928) ed è un tipico esempio di villaggio rurale di quel periodo. Negli anni ‘50 il borgo si rinverdì grazie all’espropriazione dei terreni agricoli, assegnati ai contadini che si insediarono. Con lo sviluppo dell’agricoltura, diverse famiglie del Sud si stabilirono a Monteruga per lavorare i campi ed il piccolo borgo, raggiunse gli 800 abitanti circa.

Il paesino annovera al suo interno: una scuola, la caserma, la chiesa di Sant’Antonio Abate, la piazza principale ed un campo di bocce per il passatempo. Il lavoro rurale svolto a Monteruga era riconosciuto in tutto il Salento, in particolar modo grazie alla produzione di tabacco e del vino.

La migrazione dovuta alla privatizzazione verso i grandi centri fu uno dei fattori predominanti per l’abbandono del luogo divenendo ben presto un vero e proprio paese fantasma nell’immaginario collettivo.

Monteruga è al momento un luogo deserto, trattasi di proprietà privata con accesso limitato, e le sue costruzioni sono ancora vivide anche se non totalmente integre. È uno dei borghi della provincia di Lecce da visitare almeno una volta.

Confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare

Morgincap o “mar’a a ci ccappa”?

Toponimi di confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare

 

di Gianfranco Mele

In agro di Latiano è presente il toponimo Malcicappa; in agro di Francavilla Fontana, similmente, Maraciccappa, entrambi fatti derivare da diversi studiosi dal vocabolo morgincap o mongergabe, che si traduce con “dono del mattino”, un istituto dell’antico diritto germanico consistente nel dono che il marito faceva alla sposa in una cerimonia mattutina in presenza di amici e parenti.

La contrada Malcicappa a Latiano si trova nella zona individuata da tali stessi studiosi come attraversata dal cosiddetto Limitone dei Greci, e precisamente a nord del limitone, nel territorio ipotizzato come longobardo. Allo stesso modo, Maraciccappa nel francavillese si troverebbe in prossimità del confine tra longobardi e bizantini.

 

Agro di Latiano, nei pressi della località Malcicappa: cippo con croce incisa

 

Latiano, strada vicinale Malcicappa, cripta detta di Sant’Angelo o di San Giovanni (XI-XII sec.)

 

Maracicappa e Malcicappa vengono dunque considerate località poste sul confine tra longobardi e bizantini, più o meno a ridosso del famoso Limes. Ma la questione dell’origine, del percorso, della storia e della stessa reale esistenza di un “Limitone dei greci” in Terra d’Otranto è un gran rompicapo, ed oggetto di dispute tra storici ed archeologi.[1] Nella intricata e dibattuta storia di questa opera (detta in gergo il “Paretone”) o di questa serie di opere (i “paretoni” presenti, appunto, a tratti – e in vari tratti del Salento e più in generale della Puglia) si avvicendano, insieme alle interpretazioni degli studiosi, le leggende e la tradizione popolare che attribuiscono a queste strutture ed ai luoghi circostanti altre origini, simbologie e significati.

Così, a Sava “Lu Paritoni di li Sierri” che è un tratto di muraglia presente nei dintorni del monte Magalastro, già descritta dagli storici come delimitazione facente parte del percorso del mitico Limitone, insieme con il tratto ancora presente in zona Pasano (nelle contrade Camarda, Morfitta, Curti di l’oru), secondo la versione popolare è stato invece “costruito dai diavoli in una sola notte”, come mi racconta Cosimo Schifone, un informatore depositario di molte delle più antiche tradizioni orali del posto. Tale paretone difatti è detto anche, sempre secondo il resoconto dell’intervistato, “Parete del Diavolo”. Allo stesso modo, tratti di antiche muraglie presenti in altre località son dette “Paretone del diavolo”: è il caso di Mottola (San Basilio), Gioia del Colle, Noci, e altre località.

In competizione con le ipotesi dotte attorno alle origini e alla paternità della costruzione del Limitone si insinua anche la questione delle presunte derivazioni dal termine longobardo morgincap delle già citate località in territorio di Francavilla e di Latiano. Anche qui, la spiegazione fornita dalla tradizione orale si discosta assai da quella derivata dalle teorie dei ricercatori: Maraciccappa è un posto maledetto, e, povero appunto chi ci capita: tra fantasmi, malombre e occhiature che fanno morire o sparire le persone, nell’ immaginario popolare di un tempo si guardavano con timore e diffidenza questi posti.

Francavilla Fontana, interno masseriola in località Maraciccappa

 

Nel 1933 Giovanni Antonucci pubblica su “Japigia” un articolo dal titolo “Il Limitone dei Greci”, dal quale riporto il seguente passo (il corsivo è mio per evidenziare la parte nella quale parla di Malcicappa in territorio di Latiano):

Nel febbraio del 1915 io e l’amico Cosimo De Giorgi visitammo gli avanzi del Limitone esistenti nella masseria Scaloti e insieme constatammo che la grande muraglia era ridotta alle più meschine proporzioni: pietre informi ammassate le une sulle altre per un’altezza di circa un metro, coperte di terra e di erbe selvatiche, di rovi di scille di asfodeli. A tanta distanza di tempo ricordo benissimo che il muretto ad un certo punto subiva un’interruzione decisa e recisa, sena la minima traccia di continuità: originaria tale interruzione, o derivata da asportazione del materiale? Ipotesi l’una e l’altra ugualmente attendibili.Rileggendo oggi il bozzetto che nell’occasione fu steso dal De Giorgi e poi pubblicato nella Rivista storica salentina (an. X, pag. 5 e segg.), mi torna chiaro alla memoria il sorriso di compiacenza che animò il volto dell’illustre amico quando io richiamai a proposito della tradizione salentina i perduranti toponimi di due masserie in territorio di Mesagne, la Camarda e la Camardella, immediatamente a sud del Limitone, accennanti, secondo il Racioppi, ad accampamenti greco-bizantini. Il De Giorgi non tacque, e, osservata la carta dell’Istituto geografico militare che teneva stesa fra le mani, mi segnalò subito il toponimo Morgingappa (da Morgengabe) tradotto erroneamente in Malch’incappa, e che designa una masseria a nord del Limitone in territorio di Latiano; nonché l’altro Campi dei Longobardi, oggi Campi distrutto, a nord di Mesagne, verso S. Vito.[2]

Copertina della rivista Japigia

 

Del Morgincap francavillese parla invece Cesare Teofilato, in un suo articolo del 1947[3], e il Rholfs, nel suo Vocabolario dei Dialetti Salentini inserisce il vocabolo Maru-c’incappa così definendolo: “nome di una masseria tra Francavilla e Sava (‘povero chi ci capita’, deform. dal longob. morgangaba ‘dote’?)”. [4]

Maraciccappa è in effetti una località in agro di Francavilla Fontana, attraversata dalla strada provinciale Sava-Francavilla Fontana e dalla strada comunale San Marzano-Oria. Qui si trovano la Masseria Maraciccappa e la Masseria Trentavagliuni, la Specchia Tarantina con la sua grotta carsica, e nelle contrade circostanti sorgono altre suggestive masserie, edicole votive e antiche case rustiche.

Del toponimo Maraciccappa, definendolo di origine longobarda in quanto derivato da morgengabe (o morgengab, morgingab, morgincap) parlano anche la Uggeri Patitucci[5] e lo storico locale savese Gaetano Pichierri,[6] inserendolo in una lista di toponimi presenti in diverse località situate appunto sul confine tra Longobardi e Bizantini. Tra Torre Santa Susanna, Mesagne e Latiano esistono “Camarda” e “Camardella” (tende, accampamenti bizantini) , “Farai” (guarnigioni di militari), “Maraciccappa” (doni della prima notte). A Francavilla Fontana Maraciccappa (detto anche Mali a ci ccappa e Marucincappa) e Guardiola (warta in longobardo), a Sava Camarda.

Tuttavia, nel suo saggio “Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, il Sabatini va cauto nella attribuzione del toponimo Marucincappa ad un etimo longobardo: lo inserisce difatti in una lista di toponimi dalla incerta derivazione.[7]

 

targa incassata nel muro del cortile di una masseriola sulla strada Maraciccappa

 

Come abbiamo già detto, secondo gli assertori della derivazione longobarda del toponimo, Maraciccappa o Maruciccappa, Marucincappa, Malicicappa (e varianti similari) deriverebbe da mongergabe (morgengab, morgingab, nei documenti latini spesso morgincap, morgincapitis) che sta a significare “dono del mattino”, ed era il regalo che il marito faceva alla sposa il giorno dopo la prima notte di nozze. Questo dono, oltre a sancire l’unione coniugale, veniva concepito anche come risarcimento alla donna della verginità perduta (per questo motivo, era detto anche pretium virginitatis).

Abbiamo visto però che il Sabatini mette in dubbio la derivazione di Maraciccappa da morgengabe, e certamente il toponimo attribuito a queste località dalla tradizione popolare sottende qualcosa di più che un mero “erore di traduzione” come lo definisce l’ Antonucci. Che si tratti del riadattamento o della rielaborazione di un termine e di un toponimo più antico o che sia semplicemente il toponimo coniato in origine non possiamo affermarlo con certezza, ma la tradizione attribuisce alla località e al toponimo stesso ulteriori significati. In occasione di alcune interviste da me condotte sulle credenze popolari locali alcuni anni fa, Cosimo Schifone, contadino savese (condussi la mia intervista nel 2014, e Cosimo, oggi scomparso, all’epoca aveva 84 anni), mi racconta della “strada di mar’a ci ccappa” o “mali a ci ccappa”, situata tra Sava e Francavilla Fontana, in prossimità di Francavilla: “Dalle parti della strada Sava-Francavilla c’è la “strada di mali a ci ccappa”. La chiamavano così, perchè si dice che ci fossero le malombre: potevi uscirne morto, da quella strada, si raccontava …”. Nella prosecuzione del racconto, Cosimo, dopo aver abbozzato un sorrisetto imbarazzato, mi dice, razionalizzando: “… ma io non ci credo: la spiegazione è nel fatto che da lì passavano i briganti, e assalivano la gente che si avventurava in quelle strade”. Mi espone però, anche , un antico detto popolare: “Alla strata ti mali a ci ccappa, si mori pi la fami e pi la secca”. “Perchè questo detto ?”, gli chiedo. – “ Perchè, appunto, là ti assalivano le malombre e non ti lasciavano più andare, secondo la diceria”.

Se trattasi dunque di rielaborazione popolare, è assai originale; c’è da chiedersi, deriva da una attribuzione toponomastica dei luoghi fondata su altre, slegate leggende? Oppure prende spunto dal “morgincap” e affonda fantasiosamente le sue radici nella storia dei luoghi rievocando i fantasmi dei suoi antichi abitatori?[8] Dunque “è tutto vero”, nel senso che la tradizione popolare ha arricchito di fantastiche simbologie e leggende la storia di questi posti, tanto intrisi di magia quanto le vicende che li hanno caratterizzati? Sono luoghi che in effetti trasmettono e suscitano inquietudine, curiosità e senso di mistero: caratteristica e inquietante al tempo stesso è un antica masseriola situata lungo la strada Maraciccappa (tra la masseria Trentavagliuni e la masseria Monte Ciminiello), all’interno della quale vi è una targa numerata con la denominazione della contrada. La costruzione, in cattivo stato di conservazione e attualmente piena all’interno di cumuli di rifiuti e di residui di eternit là abbandonati, è assai suggestiva ed è dotata di un muro di cinta di antichissima fattura.

 

Mura di cinta masseriola in località Maraciccappa

 

Masseriola in località Maraciccappa, particolare

 

Masseriola in località Maraciccappa

 

La masseria Trentavagliuni (detta anche Trentavagnuni) situata nei paraggi, è citata nel 1893 nella Rivista delle Tradizioni Popolari italiane curata da Angelo De Gubernatis. Chi ne parla è, con lo pseudonimo di Duchessa D’Este, Caterina Barbara Forleo (1874-1935), nobile napoletana trapiantata a Francavilla Fontana.

Caterina Barbara Forleo

 

La Forleo fu apprezzata poetessa, giornalista e scrittrice con una grande passione per l’etnografia. In un articolo dal titolo Usanze, credenze e superstizioni pugliesi scrive:

si sa che nella masseria Trenta vagnuni (ragazzi) vi è una grotta chiamata grotta del cane; le si da questo nome perchè – si dice – che nemmeno un cane resiste ad avvicinarsi all’imboccatura di essa senza morire. Un signore, amico nostro, asserisce ch’esso vi è entrato, quando era piccolo, e che la volta è ornata tutta di stalattiti. I contadini dicono che là dentro vi è lu contra jentu (contra vento) e nessuno osa entrarvi”.[9]

Nei paraggi le cavità naturali abbondano, e probabilmente la grotta alla quale la Forleo si riferisce è una diramazione della nota “Grotta Tarantina” o “Grotta Specchia Tarantina” situata a poca distanza dalla masseria.

Imboccatura Grotta Tarantina, immagine tratta da Catasto Grotte e cavità Artificiali FSP – Federazione Speleologica Pugliese

 


Masseria Trentavagnuni o Trentavagliuni

 

La masseria Maraciccappa invece è una struttura in buona conservazione, risalente al XVII-XVIII secolo sul cui lato frontale è inglobata una imponente cappella in stile tardo-neoclassico. Qui, è interamente ambientato il testo di una canzone popolare nota tra Francavilla Fontana, San Marzano, Sava e altri paesi della zona. La canzone è intonata su una melodia di pizzica in minore e si apre con la citazione, nella prima strofa, del detto popolare di cui abbiamo già parlato (“alla strata ti mara a ci ccappa si mori pi la fami e pi la secca”: in questo caso, varia leggermente riferendosi alla masseria “questa è la masseria ti mara a ci ccappa, si mori ti la fami e ti la secca”). Le strofe seguenti raccontano di un giovane lavoratore della masseria vessato dai suoi gestori, e si configura da una parte come canto di dileggio, e al tempo stesso di malizioso corteggiamento da parte del giovanotto verso la sua datrice di lavoro. Si tratta di una versione locale della nota canzone “Mamma la rondinella”. L’intero testo differisce completamente dalle versioni eseguite dai moderni gruppi di pizzica e musica popolare, eccetto che nel ritornello “mamma la rondinella, mamma la rondinà”, mentre la melodia è identica in questa e in tutte le altre versioni. Lo riporto a seguire (ringrazio Corina Erario per averlo rintracciato e avermelo fornito):

“Questa è la massaria mara a ci ccappa

si mori ti la fami e ti la secca

ninà ninà ninà l’ora è rrivata

allu patrunu li mu fattu la sciurnata

antera antera facci ti galera

fa scapulà li femmini ca è sera

e ci cu me uè canti aza la voci

ca lu palazzu è iertu e no si senti

e ci lu palazzu è iertu fallu bbasciàri

ca voci no ni tegnu pi cantari

com’aggia fa lu pani crammatina

mi manca lu luatu e la farina

ninà ninà ninà tu non la vinci

pani ti casa mia tu no ni mangi

lu pani ti casa tua aggià mangiari

e allu liettu tua m’aggià curcari

mamma la rondinella mamma la rondinà

mamma la rondinella gira e vota e se ne va”

 

 

Masseria Maraciccappa, Francavilla Fontana

 

Piantina zona Maracciccappa, tratta dalla cartografia PUG Francavilla Fontana

 

 

Note

[1]  Via via, nelle ipotesi e negli studi dei vari eruditi, storici, ricercatori ed archeologi salentini e non, “il Paretone” è passato da Magnus Limes eretto dagli abitanti della Magna Grecia, a opera difensiva messapica, da Limes bizantino a muro di confinamento tra il Principato di Taranto e la Foresta Oritana, sino al negazionismo di chi la identifica come “muraglia immaginaria” eretta come un fantasioso puzzle dagli stessi studiosi che avrebbero “messo insieme” e in un (più o meno) unico (ma anche cangiante) percorso, grosse muraglie originate dalla spartizione tra feudi. Vedi: Giovanni Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del “limitone dei greci”, in “Archeologia Medievale, XXVII, pp. 333-355

[2]  Giovanni Antonucci, Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933, pp. 79-80

[3]  Cesare Teofilato, Confine Longobardo di Terra d’Otranto e ‘Morgincap’ Francavillese nel secolo VIII, in: Libera Voce, Lecce 1947 (V, 20-21-22). Ho rintracciato note su questo scritto ma non sono riuscito a visionarlo.

[4]  Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) Volume Primo, Accademia bavarese delle scienze di Monaco di baviera, 1956, ristampa a cura di Congedo Editore, Galatina, 2007, pag. 322

[5]  Stella Uggeri Patitucci, La necropoli longobarda di Gennarano sul confine bizantino di Terra d’Otranto, Università degli Studi di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1974, pp. 5-31

[6]  Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese, I, Contributi per la Carta Archeologica e per il censimento dei Beni Culturali, Brindisi, 1978, pag. 152

[7]  Francesco Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, in: Carlo Ebanista e Marcello Rotili (a cura di), “Aristocrazie e società fra transizione romano-germanica e alto medioevo”, Atti del Convegno internazionale di studi Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 14-15 giugno 2012 , Tavolario Edizioni, S. Vitaliano (NA), 2015, pag. 407

[8]  Angelo Sconosciuto (pseud.), Là dove San Pietro ferma il tempo, Alceo Salentino, luglio 2005 http://www.alceosalentino.it/l-dove-san-pietro-ferma-il-tempo.html

[9]  Caterina Barbaro Forleo (pseud. Duchessa D’Este), Usanze, credenze e superstizioni pugliesi, in “Rivista delle Tradizioni Popolari italiane diretta da Angelo De Gubernatis”, Anno I, fasc. I, Forni Editore, Bologna, 1893, pag. 319.

Otranto. La masseria Cippano e il suo stemma trafugato

di Marcello Gaballo

Chi ci segue ormai sa bene che è nostra prassi riprendere periodicamente dei post già pubblicati in questi sei anni, pubblicizzandoli attraverso i social. Così è stato anche per il bel contributo di Alice Russo apparso nel 2015:

che è stato riletto da tanti, tra cui anche Michele Bonfrate. E’ stato lui ad inviarci alcune foto del complesso masserizio fortificato ubicato in territorio di Otranto, sulla strada che conduce a Porto Badisco, ovvero la masseria Cippano, espropriata dalla Riforma Fondiaria alla famiglia dei De Marco di Casamassella.

Le foto che si ripropongono equivalgono ad importanti testimonianze, osservandosi in esse lo stemma che un tempo era collocato sulla caditoia corrispondente all’ingresso del piano superiore, trafugato da ignoti dopo il 1978.

Con precisione, come ci fa osservare Michele Bonfrate, che ringraziamo per la cortesia, si tratta di due foto del 1978-79 scattate dall’architetto Vincenzo Peluso che gliele fornì nel 2013.

 

La terza foto ritrae lo stemma oggi inesistente della masseria Cippano, pubblicata su Facebook dall’arch. Roberto Campa, di cui non si è potuto rintracciare l’autore nè risalire all’anno in cui fu eseguito lo scatto.

E’ grazie alle foto sopravvissute che ci è consentito di risalire ai proprietari che fecero incastonare nel parapetto della caditoia il signum proprietatis, ovvero lo stemma di famiglia. Si tratta di una ben definita testimonianza araldica racchiusa in uno scudo rotondeggiante ornato ai suoi bordi da elementi nastriformi accartocciati, quasi a richiamare un sole radiato. Nella parte superiore  è sormontato da un elmo con la sua visiera, anche questo lapideo e ben realizzato.

Nel centro dello scudo si osserva una mezzaluna (che in araldica si chiama “crescente”) disposta orizzontalmente e tre stelle di otto raggi, di cui due superiori ed una nella parte inferiore.

Gli elementi araldici rappresentati rimandano allo stemma della nobile ed antica famiglia otrantina De Marco, decorata del titolo baronale su diversi possedimenti di Terra d’Otranto, tra cui Casamassella, Giurdignano, San Cassiano, Vaste.

Lo stile del manufatto fa pensare ad un’epoca di realizzazione compresa tra il sec. XVII e XVIII, ma qui servono i documenti per confermare la proprietà dell’antico complesso, il cui nucleo originario è senz’altro precedente allo stemma che era qui presente.

Nella foto che segue si ritrae lo stemma di famiglia a Vaste, dal quale si evidenziano in maniera più chiara le diverse parti che lo caratterizzano

 

Dello stemma in verità conosciamo anche i colori che lo contraddistinguevano e il modo corretto di blasonarlo: d’azzurro al crescente montante d’argento e tre stelle dello stesso, due in capo ed una in punta.

In pratica, sullo sfondo azzurro vi erano la mezzaluna e le tre stelle di color argento. Solo per completezza occorre precisare che in alcune varianti dello stemma dei De Marco le tre stelle sono “comete”, come abbiamo potuto riscontrare a Presicce.

 

Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria

 

Il territorio di Sava nella ricerca e nelle ipotesi di Cesare Teofilato:

Allianum cittadella messapica, tempio di frontiera e avamposto della scomparsa cinta megalitica di Sava e delle mura di Manduria

 

di Gianfranco Mele

Cesare Teofilato (1881-1961), originario di Francavilla Fontana, fu uno storico, bibliotecario, giornalista e politico.

La figura di quest’uomo è particolarmente legata a Sava in quanto vi trascorre gran parte della sua vita, a partire dal 1910, anno in cui riceve in questo paese una cattedra di insegnamento nelle scuole elementari. Il legame con Sava è determinato sia dalla sua carriera di insegnante, che ivi svolge per oltre un ventennio, sia da un suo matrimonio con la savese Ermelinda Caraccio. In ambito storico-archeologico si occupò del territorio pugliese con una vasta produzione di reports, ricerche e saggi molti dei quali incentrati sullo studio di specchie e megalitismo.[1]

Ritratto di Cesare Teofilato
Ritratto di Cesare Teofilato

 

Nel 1935, con un articolo apparso sul Gazzettino – eco di Foggia[2], si occupa della storia antica di Agliano, contrada savese, da lui reputata una antica cittadella messapica, sulla scorta di studi sul campo effettuati sin dagli anni ’20.

Il contributo e l’analisi del Teofilato alla storia di Agliano sono importanti e poco noti, poiché prevalgono, nella ricostruzione e nelle citazioni effettuate nei moderni reports storici e archeologici, le osservazioni, le scoperte e le interpretazioni fornite dallo storico savese Gaetano Pichierri, entusiasta studioso di Agliano, il quale intravede in questo sito una facies magnogreca, dedotta da una serie di ritrovamenti e da una sua personale ipotesi circa l’espansione tardiva della Chora tarantina sino a parte del territorio di Sava.[3] Sulla stessa scia del Pichierri si muove un altro storico locale, Annoscia, pur contestandogli alcuni punti, in particolare, in merito all’interpretazione del culto di Agliano come dedicato a Demetra e Kore: in ogni caso, anche l’ Annoscia intravede Agliano come un luogo di culto magnogreco.[4] In questi autori e negli altri contemporanei che si sono occupati di Agliano, anche con semplici citazioni[5], non viene mai citato il lavoro del Teofilato.

Oggi è largamente accettata la tesi del Pichierri su Agliano come luogo di culto dedicato a Demetra e Kore[6], ma l’ identificazione del sito come Santuario di frontiera magnogreco è frutto, come si è detto, di una ipotesi del Pichierri presa per buona dai vari autori senza troppo scandagliare nel merito della “grecità” del luogo e della effettiva estensione dei confini magno-greci.

Agliano, frammenti-coroplastici, foto G. Pichierri
Agliano, frammenti-coroplastici, foto G. Pichierri

 

Di fatto, il complesso dei ritrovamenti presenti in Agliano presenta nella coroplastica sicuramente influssi di tipo tarantino, ma è anche del tutto simile alle tipologie presenti presso Monte Papalucio ad Oria[7], santuario demetriaco di origini messapiche.

Se si prendesse per buona l’analisi del Teofilato i parametri si invertirebbero: Agliano sarebbe stato sì un Santuario di Frontiera, ma messapico, situato all’interno di una vera e propria cittadella-avamposto, a sud della quale si estendevano, secondo lo storico francavillese: a) una cinta megalitica negli immediati paraggi della attuale Sava, della quale si è persa ogni traccia (in quanto“barbaramente distrutta o seppelllita”, asserisce il Teofilato)[8]; b) le mura manduriane.

In questa prospettiva, potremmo aggiungere, Agliano si inserirebbe coerentemente lungo l’asse di una linea strategico-difensiva all’interno della Messapia, che comprende tutto l’insieme dell’ambiente circostante Sava, ovvero le alture del monte Masciulo, già descritte per le sue caratteristiche di sito funzionale all’avvistamento[9], e quelle del monte Magalastro con analoghe funzioni[10].

Ai tempi del Teofilato esistevano ancora in Agliano tracce di costruzioni consistenti in “enormi massi squadrati come quelli delle mura di Manduria”, cosa che non hanno potuto notare i ricercatori successivi (in quanto asportati o divelti sin dall’epoca delle ricerche del Pichierri) .

Altro particolare fornito dal Teofilato: “In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro”. Questa osservazione coincide con parte delle descrizioni del Coco, il quale pure vi intravede i resti di costruzioni e di un antico tempio[11].

Lo storico francavillese intravede in Agliano un insediamento che doveva costituire notevole importanza e consistenza, poiché, come afferma, “nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri”. La descrizione è particolareggiata e più precisa e ricca di informazioni rtispetto a quella del Pichierri, che si ritroverà 40 anni dopo a scandagliare i resti di un sito ulteriormente violentato, distrutto e saccheggiato, tanto che il ricercatore savese, pur entusiasta delle sue scoperte, è molto cauto nelle affermazioni circa l’estensione, l’importanza e le caratteristiche del sito: lo definisce un santuario di frontiera, ma non intravedendovi costruzioni né rovine, rimanda ai risultati di auspicati lavori di scavo una descrizione circa le dimensioni dell’insediamento e dello stesso santuario.[12]

Oscillum
4.Agliano, corredo tombale, foto G. Pichierri
4.Agliano, corredo tombale, foto G. Pichierri

 

Il Teofilato ha anche occasione di presenziare a un saggio di scavo, sui risultati del quale fornisce precise descrizioni.

Un altro importante dato che ci fornisce il Teofilato riguarda il tratto del Paretone che passava per Agliano. Di questo, il Pichierri non dubitava l’esistenza ma non potè scorgerne resti in quel tratto specifico (li trovò in contrada Camarda, nei pressi di Pasano), mentre lo storico francavillese può constatare nei pressi della masseria di Agliano l’esistenza dei “massi poligonali uniti senza cemento”.

5.Agliano, un ritrovamento recente (2008) dagli scavi condotti dalla Coop. Museion
Agliano, un ritrovamento recente (2008) dagli scavi condotti dalla Coop. Museion

 

Agliano, frammento decorativo, foto G. Pichierri
Agliano, frammento decorativo, foto G. Pichierri

 

Il Teofilato ci offre anche una importante descrizione del Paretone come “in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi fa cui si elevava la specchia interna savese denominata specchia Mariana”. Dell’esistenza di questa specchia e del suo rapporto con il Paretone abbiamo effettivamente notizia da vari documenti, a partire dal cosiddetto inventario orsiniano redatto tra il 1420 e il 1435. Allo stato attuale sfugge la localizzazione della suddetta specchia[13], poiché evidentemente il toponimo ha subito, nel tempo, dei cambiamenti[14].

Ai tempi del Teofilato deve essere ancora popolare la denominazione “Paretone del Diavolo” come   nome popolare del cosiddetto “Limitone dei Greci” in quanto egli stesso la utilizza: questo toponimo dialettale trova riscontro nel racconto fornito al sottoscritto da un anziano contadino savese che, in una intervista del 2015, ha memoria di una curiosa leggenda tramandata da generazioni nell’oralità contadina: “Lu paritoni lu fècira li tiauli ‘ntra ‘na notti” (il paretone fu costruito dai diavoli in una notte).

Oltre alla descrizione particolareggiata della Agliano messapica, il Teofilato offre indizi circa la presenza bizantina in loco, peraltro ripresa nel 1975 dal Lomartire con ulteriori osservazioni.[15] L’autore riferisce anche del periodo romano[16], deducendo che anche in quell’epoca Agliano doveva rivestire notevole importanza a giudicare da tracce che testimoniano la presenza di riti nuziali, di sacerdoti officianti culti (flamini), di pontefici e di famiglie della nobiltà romana.

Infine, il Teofilato scopre in Agliano un’iscrizione che segnala all’emerito studioso Prof. Francesco Ribezzo, e “ al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera[17].

una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto
una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto

 

 

APPENDICE

da Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2

 

Segnalazioni Archeologiche Pugliesi

ALLIANUM

Questa breve nota aspirerebbe ad aprire la via alla migliore e più larga conoscenza di una zona archeologica troppo trascurata.

I prossimi fascicoli della Rivista Indo-Greco Italica diretta dal prof. Francesco Ribezzo della R. Università di Palermo recheranno la puntata del Corpus Inscriptionum Messapicorum per tutto il Capo di Leuca e la relazione dell’iscrizione subpicena della statua del «Guerriero» presabelico scoperto a Capestrane (Pòpoli).

Le premure del Ribezzo, e le mie, non hanno potuto ottenere ancora il calco o la fotografia del frammento d’iscrizione messapica savese rinvenuta da me nel 1921, poi fatta osservare a mio cugino dottor Ettore Caraccio del Ministero dell’ Educazione Nazionale e infine segnalata allo stesso prof. Ribezzo, al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco.

Dopo tre lustri, la segnalazione assume pubblica forma e si rivolge alla R. Sovrintendenza alle Antichità di Puglia. Credo inutile dire che detta iscrizione, a suo tempo, fu pure annunziata, ma solo verbalmente, al comm. Quintino Quagliati, già R. Sovrintendete in Taranto, ora defunto.

Per una più chiara informazione del luogo da cui essa proviene, e della sua importanza archeologica, estraggo qualche notizia dai miei appunti di trovamenti.

Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.

La contrada o masseria di Aliano, a circa tre chilomertri da Sava, direzione W, su la Via Consolare, conserva la toponomastica dell’antico oppido e appartiene all’agro savese. Alla distanza indicata si trova, su la sinistra, una vecchia strada, che mena ai fondi interni.

Questa lascia a destra un vecchio caseggiato con arcate cieche, che è la masseria dei Fratelli Spagnolo e che è pure il centro delle rovine di Allianum. Sotto una delle arcate che rasentano la strada, trovasi inserita nel muro una iscrizione messapica che sembra retrograda e che letta da destra a sinistra offre i seguenti approssimativi elementi alfabetici disposti sopra un unico rigo:

  1. Asta verticale (lettera j ?);
  2. Lambda? (Angolo acuto con vertice in alto percorso da varie linee orizzontali);
  3. R latina;
  4. Asta verticale (lettera j ?);
  5. Segno simile a epsilon minuscolo retrogrado, cioè rivolto a sinistra, ma che sembra avere un occhio centrale dove le curve si toccano (lettera N ?);
  6. Segno simile al numerale 1;
  7. Asta verticale (lettera j ?); Non potetti mai controllare detta iscrizione, che è corrosa dagli agenti atmosferici, in favorevoli condizioni di luce. Non posso quindi garantire l’esattezza del testo.Questo megalite, nel medioevo, segnò col Paretone del Diavolo il confine del Principato di Taranto.Nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri.E’ un errore cronologico ritenere Allianum una villa del periodo romano, sorta nel III secolo av. Cr. con la deduzione delle colonie nell’agro tarantino. In Aliano la colonizzazione romana si sovrappose certamente ad un remoto centro di anteriore vita messapica.Vi notai la esistenza di molte ceneri, dei noti massi isodomi, di ossa umane, di frammenti di vasi grezzi o dipinti, grandissimi o piccolissimi. Il materiale appariva rimescolato da antiche e recenti violazioni e riportai l’impressione di un vasto incendio dovuto a saccheggio saraceno o a demolizioni e a distruzioni cristiane.Probabilmente, nell’epoca bizantina, il luogo ospitò una comunità di monaci greci, come deducesi da croci incise sui massi di carparo, in tutto simili a quelle osservate da me stesso su le pareti delle Cripte.Venivano poi i resti di pavimenti e d’intonachi, o stucchi, dipinti in rosso, gli usuali vasetti di periodo più tardo e alcuni assi sconservati dalla penultima riduzione al peso (A. 217 – 89 av. Cr.). Penso, per averne trovato alcuni esemplari, che quivi circolò un asse sestantario, o contorniato, commemorativo di Roma, senza segno del valore, con la solita testa di Giano Bifronte sul D), la prora sul R), e, su la prora, la Lupa che allatta i Gemelli. Sotto, ROMA.Per questo dovrebbe ammettersi in Aliano l’uso del matrimonio sacro tra famiglie nobili, e la presenza di Pontefici, di Flamini e di Patrizi.  8. la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato
  8. 7. una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci “i confini del territorio di Taranto…”
  9.    Cesare Teofilato
  10. Notevole il rinvenimento di impronte fittili per focacce sacre e di coppe a pareti spesse con canaletti di scolo, adatte alla preparazione del panis farreus, che occorreva al rito nuziale della confarreatio.
  11. Il materiale documentario più antico che vi potetti raccogliere è costituito da amuleti cuoriformi di pietra con foro, da piramidette di terracotta di varie fogge e dimensioni, dalle piccole alle grandi; da collane fittili (fuseruoli) e da frammenti ceramici a figure rosse del IV secolo av. Cristo.
  12. Mia cognata signora Bice Caraccio-Spagnolo mi favorì una piccolissima lucerna a vernice nera e un medaglione funerario di terracotta, provenienti dalle solite tombe rettangolari a cassettone.
  13. Nell’ aprile 1922, per cortesia di mio cognato sig. Giovacchino Spagnolo, podestà di Sava e comproprietario della masseria omonima, presenziai ad un saggio di scavo, che raggiunse la profondità di circa due metri dal piano di campagna.
  14. Le costruzioni di cui resta qualche traccia sono enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria. In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro.
  15. Le specchie e il Paretone, come altrove, si riconnettono al costume dei primitivi limiti di territori, indicati nei documenti locali con l’appellativo improprio di Limitone dei Greci e ritenuti ingenuamente, dai vecchi scrittori, come opera di epoca longobarda.
  16. Da Aliano si diparte un interessante tratto del Paretone del Diavolo a massi poligonali uniti senza cemento, che si congiungeva con l’ oppido di Pasano, scendendo a sud, e poi risaliva a N.E., fin verso l’inizio della via per Torricella, presso Sava. Il Paretone era in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi, fra cui si elevava la specchia interna savese denominata Mariana.
  17. Lettura probabile di tutta l’iscrizione: IRINI (?).
la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l'articolo del Teofilato
la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato

 

Note

[1]N.M. Ditonno Jurlaro, Cesare Teofilato (1881 – 1961), note biografiche e bibliografiche, Studi Salentini 1986-87, pp. 165-182

[2]C. Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi – ALLIANUM Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII

[3]G. Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in: Sava nella storia a cura di G. Lomartire, Cressati, Taranto, 1975, pp. 98-11

[4]M. Annoscia, Indizi del culto di Dioniso e dei Dioscuri in un insediamento di sud-est della chora tarantina, in Sava – schede di bibliogrtafia ed immagini per una storia del territorio e della comunità, Del Grifo Ed., Lecce, 1993, pp. 97-112. L’ Annoscia presenta in questo testo foto di frammenti raffiguranti testine di cavallo e criniere, e da qui ipotizza l’esistenza di un culto dei Dioscuri. Inoltre, rinviene una testina in terracotta che identifica in una raffigurazione di Dioniso, ma molto più probabilmente si tratta della rappresentazione di Hades o di un defunto.

[5]Cfr.: M. Osanna, Chorai coloniali da Taranto a Locri: documentazione archeologica e ricostruzione storica – Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1992, pag. 33

(Agliano: pag. 33)

[6]Ibidem

[7]v. G. Mastronuzzi, Il luogo di culto di monte Papalucio ad Oria, Edipuglia, 2013

[8]Riferimenti ad una antica cinta muraria e ad un insediamento di origini messapiche precedente la Sava del XIV secolo si trovano nel manoscritto di A. D’Elia Sava e il suo feudo, storia paesana (1889) andato perduto ma ampiamente citato dal Coco nella sua opera “Cenni Storici di Sava” (note a pp. 58-60). Per approfondimenti: G. Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, in “Terre del Mesochorum”, luglio 2015 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/ ; v. anche G. Mele, “Sava e il suo feudo” : il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale in “Academia.edu”, https://www.academia.edu/11884984/_Sava_e_il_suo_feudo_il_contributo_di_Achille_DElia_alla_storia_antica_locale_con_a_margine_cenni_sulla_produzione_letteraria_dellautore_

[9]C. Desantis, Sava – Monte Maciulo – torre classica e strutture medievali, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 148-151

[10]M. Annoscia, Sava, Monte Magalastro – resti preistorici e fortificazione classica in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 151-152

[11]P.Coco, Cenni Storici di Sava, Lecce, Stab. Tip. Giurdignano, 1915, nota (1) a pag. 16. Questa la derscrizione del Coco: “Ad Agliano, poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche. Pare, per ciò che riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano. Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal Feudatario Signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.”

[12]G. Pichierri, op. cit., “note aggiuntive” pp. 109-11: l’autore si preoccupa (per difendersi dalle critiche degli scettici e dei suoi detrattori) di giustificare la mancanza, già ai suoi tempi, di tracce visibili di edifici, con la spiegazione che la presenza di un culto può anche essere resa possibile dall’ esistenza di una piccola ara. Tuttavia la consistenza del sito e la presenza di edifici adibiti a luoghi di culto sono rilevate già nel citato lavoro del Coco. Il Teofilato ne riprenderà la descrizione osservando altri particolari, e nel 2008 due saggi di scavo intrapresi dalla Coop. “Museion” riporteranno alla luce alcuni resti di edificazioni: frammenti decorativi e massi squadrati di grandi dimensioni (cfr. F. Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2).

[13]Cfr. Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, pag. 66

[14]Coerentemente con la linea confinaria indicata nei vari documenti rintracciati dal Carducci, si potrebbe ipotizzare che la Specchia Mariana, altrimenti detta Muryanam, Muriana e Majorana, coincide con la zona in agro di Sava denominata “San Giovanni”, situata in prossimità delle contrade Agliano, La Zingara, Le Monache, Tima. Queste ultime sembrano avere una relazione sia con la antica Agliano che con il “Paretone”, mentre la località “San Giovanni” iniste in un punto strategico (su una altura dalla quale si domina una vasta parte del territorio circostante), ed è caratterizzata dall’emergere di numerosi frammenti di varie epoche a partire da quella neolitica, e dai resti di cumuli di pietrame proprio intorno all’area di maggior intensità di presenza dei suddetti frammenti.

[15]G. Lomartire, Sava nella storia, Cressati, Taranto, 1975, pag. 18: l’autore riferisce e mostra le foto di una scultura ritrovata in Agliano, una Madonna con Bambino a suo avviso di epoca bizantina. Dettagli su questo argomento e più in generale sulla presenza bizantina nel territorio savese sono rintracciabili nel seguente articolo: G. Mele, Presenze bizantine nel territorio savese: il mistero dell’antica chiesa di San Nicola, i resti della chiesa di S. Elia, e altre note in: Terre del Mesochorum, agosto 2016 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2016/08/13/presenze-bizantine-nel-territorio-savese-il-mistero-dellantica-chiesa-di-san-nicola-i-resti-della-chiesa-di-s-elia-e-altre-note/comment-page-1/

[16]Del periodo della colonizzazione romana, nonché dello stesso toponimo di derivazione romana, parla diffusamente P. Coco nella citata opera “Cenni storici di Sava”, pp. 9-16.

[17] F. Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105

 

Le foto di questo articolo sono tratte dai seguenti testi:

  • Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in “Sava nella storia” a cura di G. Lomartire, Tip. Cressati, Taranto, 1975;
    • Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2;
  • Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, 1993

Il ritratto del Teofilato e la pagina del Gazzettino-Eco di Foggia sono tratti rispettivamente da www.brindisireport.it e www.internetculturale.it

Il Salento e le sue masserie

masseria-la-torre

 

di Felicita Cordella

La storia delle masserie è legata a quella travagliata dell’Italia Meridionale, storia di miseria, di sopraffazione, d’ignoranza.

Il nome masseria deriva da “massa” ( in latino blocco, unità), con cui si denominarono, tra il XIV e il XV sec, vasti complessi fondiari formati da consistenti aggregati rustici di proprietà di Signori o della Chiesa. Sono estensioni costituite da terreni a seminativo, cereali e leguminose, da terreni a pascolo, da vigneti e oliveti. Come tipologia edilizia, presentano uno o due edifici principali per abitazione del massaro, le case dei coloni fissi, quelle dei pastori, la chiesa; talvolta anche il mulino, il trappeto e il palmento.

Altri ambienti che caratterizzano la masseria sono: i magazzini per gli attrezzi,le stalle per i buoi, i recinti per le pecore, l’aia per la trebbiatura, il forno, la “merce” per la trasformazione del latte. Per l’approvigionamento e la distribuzione dell’acqua importante era il pozzo, oltre alle cisterne e alle pile per abbeverare gli animali.

Il giardino consisteva in uno spazio murato riservato alla frutticoltura, era in genere di dimensioni ridotte perché ad uso del massaro-amministratore. Gli spazi per l’allevamento di animali da cortile erano “lu palummaru” e “lu puddraru”.

La masseria fortificata, soprattutto nella fascia adriatica tra San Cataldo e Vernole-Melendugno, è legata alla forte presenza della grande proprietà ecclesiastica e inserita nell’organico progetto di difesa costiera voluto da Carlo V a metà del XVI sec. Tale piano di difesa si basava sulle fortezze di Lecce, Acaja, Strudà e Vanze e sulla “Via del Carro”, che congiungeva Brindisi a Otranto. La zona era caratterizzata da un paesaggio agrario che alternava campi di cereali ad ampie distese macchiose, boschi (Rauccio) , che divennero spesso nascondigli per incursori turchi , e terre paludose dedicate a pascolo ovino e bovino.

Cambiamenti notevoli giunsero tra il XVI e il XVII sec. con l’arrivo dei Borboni.

I Borboni espropriarono i feudi ecclesiastici passandoli alla borghesia rurale, che organizzò il latifondo in masserie. La figura dell’amministratore-massaro divenne prestigiosa.Egli faceva le veci del padrone, ne faceva rispettare le volontà e al padrone conferiva periodicamente le quantità patuttite di quanto nella masseria si produceva.

Nel XIX sec., con l’applicazione in Italia del Codice Napoleonico, furono assegnate ai contadini terre demaniali per uso semina, pascolo o legna. Ma si trattava di quote piccole, che non garantivano la sopravvivenza e i contadini si vedevano costretti a venderle.

Il latifondo borghese si consolidò , anzi spesso i signori proprietari scelsero le masserie come residenze, le masserie-palazzo.

Nel XX sec., dopo le guerre mondiali, col motto “la terra a chi la lavora”, si emanò la Riforma Agraria che espropriò e lottizzò i latifondi. Fu la decadenza delle masserie, molte delle quali furono abbandonate.

Andarono perdute tante realtà-testimonianze di uno spaccato di vita salentina prezioso, al fine della conoscenza del passato, della storia di questo nostro territorio.

Per me personalmente, è doloroso vedere ridotta a pochi ruderi una delle più gloriose masserie del territorio copertinese, la Masseria Mollone, uno dei Casali che diedero origine alla “Conventio populorum”, divenuta poi Copertino.

L’esperienza della vita in masseria ebbe un profondo significato dal punto di vista umano, delle relazioni. La masseria era un microcosmo, una piccola polis.

Questi centri di aggregazione di lavoratori e delle loro famiglie divennero luoghi d’incontri, di scambi di esperienze, di solidarietà, di amori, di condivisione di ritmi di vita rispettosi dell’uomo e della natura. Tali stili di vita hanno caratterizzato buona parte delle popolazioni del Salento fino a non molti decenni or sono. Di fronte a tanti ruderi di masserie diroccate, dovremmo chiederci quanta ricchezza di storia abbiamo consegnato all’incuria.

Dovremmo pensare a quante memorie, a quanta parte d’identità salentina abbiamo lasciato perdere.

Masseria San Lasi… a Salve

foto 1

di Melissa Calo’

 

Ci sono luoghi che ti accolgono con una carezza, con la gentilezza morbida dei petali dei mandorli. Ci sono luoghi che sembra tu abbia abitato da sempre, dove ritrovi il tempo vissuto da altri attraverso le pietre dei muri, la costolonatura di una trave; dove gli oggetti, per una sorta di commilitanza con i loro proprietari o di chi li ha toccati ed usati, sentano poi il dovere di raccontarne le vite, oppure lo fanno spontaneamente, per una sorta di proprietà transitiva.

Sullo specchio accanto al comò di noce, un riflesso, come un bagliore immaginato o già vissuto, svela un occhio nero di donna, l’onda garbata di capelli raccolti, mani che lisciano i vestiti seguendo le forme di un corpo che oggi è cenere o ricordo. Per il secondo anno consecutivo, ho la fortuna di riconnettermi a queste emozioni e lasciarmi attraversare da sensazioni difficili da spiegare alla festa di San Biagio, il 3 febbraio, alla Masseria di Santu Lasi.

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La Masseria non è, a differenza di tante altre costruzioni rurali delle campagne salentine, imponente o pomposa. È una “masseria delle piccole cose”, sorella dei furnieddhi – o come mi correggono qui, pajare” – degli spazi che si possono raccogliere quanto si può nei limiti di due ciglia. Ho sempre pensato, da salentina, che le nostre campagne, intendo quelle condotte a seminativo, abbiano una dimensione “familiare”; ma nel Capo di Leuca, dove le ossa e i denti della terra affiorano con più abbondanza e permettono di serrare ancora di più i vuoti, le campagne raggiungono una dimensione intima, quasi interiore. Persino la torre che si trova all’interno della masseria sembra chiedere scusa del suo statuto e adegua le forme e l’imponenza a questo sentire.

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Febbraio duemilasedici si è presentato all’appello tiepido come l’alito di un bue e ha fatto germinare semi ed erbe a profusione, prima del tempo lecito. Così, un tappeto morbido verdebambino ricopre il vialetto, corto in lunghezza e largo quanto basta, che porta ad un cancelletto spalancato verso un mondo tutto proprio. Hortus conclusus. Questo termine mi è sempre piaciuto, nella sua sonorità, nel suo significato. La masseria delle piccole cose è una masseria conclusa. Masseria degli spazi grandi-il-necessario. Costruzione che non può fare a meno della campagna, della chiesetta, ma contemporaneamente se ne separa. Masseria riccio di mare, che senza il mare non può vivere eppure difende da esso le sue preziose uova con gli aculei. Masseria semplicità e stupore, che ti chiedi perché tutto il Salento non respiri così, nel rispetto del vegetare e nella semplice funzionalità del vivere. C’è lo stupore di trovare fiorite le lavande, il bacio rosso di una rosa d’inverno stampato sulla parete alba di calce, “la regina arsa e concreta” di Vittorio. Il bianco. Qui è dappertutto. Bianco, ma meno llamativo, quasi rosato, è lo sposo che se ne sta all’ingresso della festa. Il grande mandorlo, con le dita inanellate di fiori, profuma appena appena di un’essenza leggermente amara, mentre lo scirocco di tanto in tanto lo pettina facendone cadere qualche petalo per simulare una neve, o forse i coriandoli, ché qui davvero per scherzo si è nel tempo dell’inverno.

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All’interno della piccola corte centrale, ci sono i convenuti alla festa. Uno strano miscuglio. Esattamente come ad una cerimonia di matrimonio, si ritrovano i parenti più prossimi, i curiosi, le facce conosciute, quelle che non vedi mai per sbaglio in strada ma che vedi sempre a proposito di queste occasioni; gli zii anziani, ma quelli proprio anziani anziani che sembrano i più titolati a stare lì, che da quei posti non sono mai partiti. Le cugine trendy e i cognati grassissimi. Sulla soglia di una porta, assisa in vimini, trovo una signora con le rughe che sembrano scassi per i filari dei vigneti. Assomiglia molto alla zia di papà, zia Rosa, che era veramente la moglie di un colono di Don Costa, ricco proprietario terriero. La masseria che custodiva, però, era più mastodontica, aveva pretese di salti di categoria, ambiva al rango di palazzo cittadino con la sua scala di ghisa e i marmi cipollini pretenziosi. Grandeur gallipolina alla quale la zia faceva abbassare la cresta coltivando piante di ciciri e tria accanto alle rose viola che profumavano di limone. Osservando le persone non posso fare a meno di pensare che la masseria di Santu Lasi sia oggi un campione rappresentativo dello spaccato socioculturale che si trova là fuori. Le campagne qui intorno sono pullulate da padovani, svizzeri e svizzerotti, ché certi giorni ascolti un fiorire di scìscì che nemmeno nel trevigiano. Innamorati sulla via di Damasco, loro comprano di tutto e ristrutturano di ogni. Pensionati pensionanti in queste terre, passano a svernare “nel bel suol d’amore” metà anno. Devo dire la verità, conosco della gente interessante. Meno male che ci sono. Sono contenta di questo meltin’pot, anche se spesso i locali si lamentano che “tuttu iddhi càttane”, tutto loro comprano, punta di invidia rabbiosa contadina per il contingente o diffidenza maturata da secoli di invasioni, chissà.

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Da questa mescolanza credo che nascerà un’eugenetica culturale, è sempre nato qualcosa di buono in questa terra dall’incrocio di razze e popoli. I grandi assenti invece sono i ragazzi, quella fascia di popolazione che va dai 18 ai 30 anni, ma del resto non ce ne sono nemmeno in paese, sono fuori, a cercarsi vite e fortune in qualsiasi posto sempre lontanissimo. Qualcuno è tornato, qualcuno resiste, come il gruppo di ragazzi e ragazze che hanno preparato il pranzo oggi. L’odore delle pittule, il sapore delle foje creste sapeva uguale oggi come in un giorno qualsiasi di un febbraio di fine ‘500. La banda attacca. Un momento epico, che commuove me e Milena. Ecco, sono sicura che l’”Uva fogarina”, nel 1577 o giù di lì, ancora non era stata composta.

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Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca in agro di Nardò

 

Una villa-masseria in agro di Nardò. Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca

 

di Marcello Gaballo

L’area neritina è straordinariamente ricca di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.

Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.

Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.

Su una di queste lievi alture, a poche centinaia di metri dalla costa, si trova la nostra masseria, a brevissima distanza dalle altre denominate Nociglia (a scirocco), Torre Nova (a ponente), Càfari (a tramontana), Torsano e Sciogli (a levante), e dal più noto parco attrezzato di Porto Selvaggio. La raggiungiamo dalla litoranea Gallipoli-Porto Cesareo (S.P. 286), poco prima del villaggio turistico di Torre Inserraglio,  o dalla strada Tarantina (S.P. 112), immettendoci sulla strada che collega questa con la litoranea. Dista da Nardò meno di 6 Km. Seminascosta dalla vegetazione arborea, un tempo era fondamentale punto di riferimento per quanti scendevano al mare.

Le variazioni apportate all’originario arredo architettonico nel corso dei secoli, caratterizzate soprattutto dal successivo accorpamento di locali di lavoro e di deposito, segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, tuttavia non hanno alterato la struttura settecentesca, che non sembra aver risentito granchè delle grandi trasformazioni agrarie dell’Otto e Novecento.

Oggi il Brusca, che copre un’area di circa sette ettari, oltre che residenza estiva dei proprietari, è particolarmente attiva dal punto di vista agricolo, destinata alla produzione di olio, vino, cereali, latticini e miele.

L’attuale complesso risulta da un importante ampliamento di una struttura originaria, perlomeno cinquecentesca, della quale sopravvivono tracce. Finora la documentazione non ha aiutato a chiarire in cosa consistesse il nucleo preesistente, forse una torre di difesa a pianta quadrata, inglobata negli ammodernamenti dei secoli successivi e protetta da un circuito murario di difesa con una o più porte di accesso.

I primi documenti disponibili sulla nostra masseria li fornisce il prodigo Archivio di Stato di Lecce, dove sono conservati i documenti notarili della provincia e quindi di Nardò.

Il primo atto particolarmente interessante che la riguardi è del 1716, perché indica l’acquirente, Francesco Santachiara, ed il venditore, il barone neritino Francesco Carignani, residente a Napoli, tramite l’interposta persona di Francesca Alfarano Capece, vicaria e procuratrice del figlio. L’atto indica anche l’intermediazione del fratello il chierico Giuseppe Carignani, residente a Lecce, con procura stipulata dal notaio Giovanni Tafarelli di Napoli del 29/1/1721. L’acquisto viene fissato per 1951 ducati, che il Santachiara avrebbe saldato senza alcun interesse entro il mese di gennaio 1717.

Nel rogito la masseria è denominata Bruschia e la descrizione dettagliata elenca i beni oggetto della compravendita: curti, case, capanne, turre, trozza, aera e palumbaro, terre seminatorie e macchiose di tomolate 200, con tutti li suoi membri ed intiero stato, con un pezzo di terreno di sei tomolate detto lo Calaprico ubicato nello stesso feudo, con 2 buoi, 134 pecore, 9 montoni, 37 agnelli, 32 capre, 16 magliati, 3 capretti, 2 aratri con li giochi, una mattra per la ricotta, come risulta dall’atto di vendita e ricompra stipulato per notar Biagio Mangia da Lecce.

Dopo la morte di Francesco la masseria passerà a suo figlio il reverendo Giuseppe Francesco Santachiara. Forse per insolvenza di quest’ultimo, il complesso viene rivenduto dal barone Carignani al chierico Vincenzo dell’Abate, figlio del noto possidente Francesco, per la cospicua somma di 1900 ducati. La maggior parte di questo importo era stato donato al minore Vincenzo dai nonni materni Giovanni Primativo e Angela Megha.

E’ difficile mettere in luce i reali motivi che spinsero il chierico e suo padre all’acquisto della masseria, ma è certo che al momento dell’acquisto la fortuna economica e sociale dei Dell’Abate è in piena ascesa e la famiglia è tra quelle più in vista a Nardò, desiderosa di soppiantare la vecchia nobiltà agraria e feudale. Anche se non inclusa tra le famiglie nobili, i suoi rappresentanti hanno occupato per molti anni posti di rappresentanza nella civica amministrazione e lo status agiato accresce grazie all’attività economica e alle strategie matrimoniali.

Altri documenti del 1725 e 1727 confermano la proprietà di Vincenzo Dell’ Abate, che nel 1736, già sacerdote, apporta numerose varianti e abbellimenti, riedificando la chiesa per ovvi motivi cultuali. Forte della somma ereditata dagli avi e dagli introiti derivanti dalla vendita della masseria Spinna in feudo di Tabelle, fa realizzare nuovi ambienti, addossandoli per tre lati alla torre, compreso lo scalone che porta al piano superiore, decorandolo con due pitture a tema sacro ancora esistenti.

Probabilmente è suo nipote il medico Francesco Maria, figlio del fratello Saverio e di Fortunata Ricci, erede universale del padre e dello zio, che amplia e abbellisce il giardino annesso, dotandolo di statue e fontana ornamentale, facendo scolpire i profili clipeati e lo stemma familiare sul portale. A causa del raccordo dislivellato con la chiesa è da supporre che egli rifà pure la facciata, forse per rinforzare la torre originaria pericolante, inglobandola in nuove cortine murarie, come si evince da una sommaria ispezione interna. Ne risulta un prospetto insolitamente caratterizzato da sette archi a tutto sesto su pilastri, sui quali corre su tutta la facciata una funzionale loggia su cui affacciano le porte finestre. Allo stesso periodo sembra risalire anche l’interessante balcone interno, posto sul prospetto orientale, che si affaccia sull’ingresso di servizio.

Francesco Maria è lo stesso che ha restaurato e decorato in città il maestoso palazzo di famiglia, tra i più scenografici della città, su via Angelo delle Masse, in cui abita con la moglie Teresa Gorgoni e con gli otto figli. Economicamente supportato dalla ricca dote muliebre, si può pensare che sia stato proprio lui il regista, trasformando la masseria in residenza degna del rango e più consona al suo tenore di vita, considerato che nello stesso periodo avvenivano grandi lavori di ammodernamento di residenze di campagna, come nella coeva villa Scrasceta, che i baroni Personè avevano fatto ampliare e ristrutturare.

Non si registrano grandi variazioni nei decenni successivi e la masseria resta sempre proprietà della titolata famiglia: nel 1809 è ancora dei coniugi Teodora Gorgoni e Francesco Maria Dell’Abate, che nel 1821 in virtù di disposizione testamentaria la lasciano con tutti li fabrichi antichi e nuovi al figlio Vincenzo, dichiarandola del valore di ben novemila ducati.

Forse per le oscure vicende politiche, essendo Vincenzo un carbonaro, la proprietà passa negli anni 40 dello stesso secolo a tre dei sei fratelli, Vincenzo, Giosafatta e Fortunato Dell’Abate. L’unica sorella aveva sposato Maurizio De Pandi, che risulterà proprietario del complesso dopo l’estinzione della famiglia di sua moglie. Da Maurizio passa ai figli, quindi ai Giulio con cui erano coniugati, e da questi agli Zuccaro, che detengono ancora la masseria.

Fu Luigi, secondo marito di Francesca Giulio, che rinnovò le piante del giardino, sostituendo la limonaia con  altre ornamentali, rifacendo i viali interni e meccanizzando la fontana centrale. Altri rimaneggiamenti funzionali e di adeguamento, che non hanno alterato la struttura settecentesca,  sono stati apportati da Francesco, dal quale la masseria è passata al figlio Giovanni, attuale proprietario.

In essa fu ospitato nei mesi di maggio e giugno del 1826 il vescovo di Nardò Salvatore Lettieri, convalescente da una grave malattia e bisognoso di aria salubre e di  riposo.

Il prospetto si articola su due livelli, dei quali il superiore si conclude con un massiccio cornicione aggettante. L’inferiore è caratterizzato da un avancorpo di sette archi a tutto sesto sostenuti da poderosi pilastri, dei quali cinque ciechi. Delle due aperture quella minore consente l’accesso al piano superiore; l’altra conduce al vasto cortile interno, su cui si affacciano abitazioni più modeste e locali di lavoro. Il superiore mostra sette finestre che illuminano ampie sale, tra le quali la sala da pranzo con le pareti dipinte con un illusionistico pergolato che occupa tutte le pareti  e desta stupore in quanti la vedono per la prima volta. Questa immette nel salone di rappresentanza, anch’esso dipinto con graziosi motivi classicheggianti, ridipinti negli anni 60 del secolo scorso da Totò De Simone. In questo ambiente senz’altro importante è il discreto dipinto settecentesco sulla volta raffigurante La morte di Adone. Il taglio orizzontale e ristretto del dipinto consente al pittore di portare in primissimo piano i protagonisti dell’episodio: Adone giace inerme, con la testa riversa, fra le braccia di una addolorata Venere. Altrettanto disperati Cupido e i due amorini, che tentano invano di ferire il cinghiale, le cui sembianze erano state prese dal geloso Ares, che ha appena azzannato il giovane. Sullo sfondo un paesaggio arcadico da ricollegare al monte Idalio, nell’attuale Libano, su cui si era recato a cacciare Adone. Il mito ricorda che Zeus esaudirà le preci di Afrodite, consentendo che il giovine trascorra solo una parte dell’anno nel Tartaro, potendo risalire alla luce per il restante tempo e così unirsi alla dea della primavera e dell’amore.

La scena del compianto della dea potrebbe essere rintracciata in alcuni versi dell’Adone di Giovan Battista Marino. Nel canto XVIII si legge infatti: purché morto ancor m’ami e non ti spiaccia / aver la tomba tua fra le mie braccia” e “Su’l bel ferito la pietosa amante/ altrui compiange, e se medesma strugge. / E sparge, lassa lei, lagrime tante, / e con tanti sospir l’abbraccia e sugge”, e ancora “e sentendo scaldarsi il cor di ghiaccio / per volerlo baciar lo stringe in braccio.

Il perimetro della cinta muraria continua verso oriente con la chiesa e con altro accesso al giardino “delle api”, aggraziato da un artistico frontale con lesene, coronamento e pinnacoli in carparo, tanto da caratterizzare ancor più il complesso, contribuendo ulteriormente a farlo apparire più una villa suburbana che una funzionale ma modesta masseria.

L’adiacente giardino, posizionato ad occidente e denominato “dei Continenti”, più vicino ad un hortus conclusus che non ad un parco campestre, è uno degli elementi di maggiore caratterizzazione, con soluzioni decorative che rendono il complesso masserizio davvero unico, soprattutto per l’arredo statuario di ispirazione mitologica che popola l’interno.

Vi si accede per un portale d’accesso di squisito gusto neoclassico, scandito da quattro semicolonne e dall’insolita conformazione concava, con busti, fregi e decori geometrici e vegetali, due profili clipeati, lo stemma di famiglia. Particolarmente bella ed insolita per il territorio è la collezione di statue dei Continenti: Asia, Africa, Europa e America, con sembianze femminili, disposte alle spalle dei sedili semicircolari in pietra e interposte tra altrettante coppie di statue (Pomona e Vertumno, Diana e Silvano, Cerere e Bacco, Flora e Fauno). Ne risulta quindi una scenografica, quasi teatrale, disposizione a quarti di cerchio e a gruppi di tre.

L’impianto del giardino maggiore è cruciforme e la coppia Zuccaro-Giulio fece realizzare un modellino in muratura della masseria, alquanto fedele, collocato nell’ultima aiuola a sinistra del giardino “dei Continenti”.

Chi fece realizzare questo luogo lo volle davvero delizioso, come lo è tuttora, con piccoli sentieri ombreggiati da maestosi pini di Aleppo che conducono ai viali rettilinei e quindi alla fontana centrale con base quadrata, certamente precedente all’altra circolare posta di fronte all’ingresso. I viali si concludono con altrettante nicchie inquadrate da paraste, con archi mistilinei e con stemmi gentilizi.

Che il giardino fosse presente già prima dei grandi lavori settecenteschi è avvalorato da una data “1636” incisa sul basolato.

torre colombaia

Risulta difficile datare i bellissimi muri di cinta “a secco”, dei quali soprattutto quello che protegge il giardino “della colombaia”, con la cinquecentesca torre colombaia a pianta quadrata, sul lato occidentale del complesso e ben visibile dalla strada.

Altri muri interni suddividono lo spazio del parco in altri quattro giardini, dei quali uno con funzioni di frutteto, l’altro di mandorleto.

La chiesa, eretta in sostituzione della piccola cappella che si trovava nell’ala occidentale, è dedicata all’Immacolata. Forse la precedente può identificarsi con la cappella di Sancta Maria ad Nives, visto che viene visitata dal vescovo, nel Cinquecento, dopo l’abbazia di Santo Stefano di Curano e la chiesa dei Santi Stefano e Vito, entrambe assai vicine al nostro complesso.

Il prospetto della chiesa, con zona inferiore più larga della superiore, è caratterizzato dal portone centrale sormontato da una nicchia vuota e da un’ampia finestra con frontoncino mistilineo, oltre ad una trabeazione con quadriglifi e metope che separa i due ordini. è movimentato nella parte inferiore da paraste e da quattro colonne doriche su pilastri; due sono le colonne superiori, con capitello corinzio. Un frontone triangolare, più ampio del piano superiore, conclude la parte sommitale e ai suoi lati sono collocati due grandi vasi in terracotta. Grazioso il campanile a vela, ruotato lievemente rispetto alla facciata, che ospita una campana del 1636.

L’interno è ad aula unica rettangolare, coperta da una volta a sesto ribassato, unghiata in corrispondenza delle finestre. Numerose decorazioni floreali dipinte sulle pareti allietano l’ambiente, solennizzato dai dipinti di falsi tendaggi annodati. L’altare in pietra policroma occupa tutta la parete frontale e sul gradino più alto ospita la statua della Vergine Immacolata, sotto un artistico baldacchino di legno. Sulla controfacciata vi è un palco o matroneo in muratura, perchè i familiari possano accedervi dall’interno della masseria.

La chiesa è già realizzata nel 1740, quando il sacerdote Vincenzo Dell’Abate pro Ecclesia sub titulo Immaculatae Conceptionis B. M. V., deve al vescovo di Nardò l’obbedienza e il peso annuale di mezza libbra di cera lavorata (cum oblatione medietatis librae cerae elaboratae).

Fu ricostruita nel 1780, come si legge sempre negli Atti di Obbedienza conservati nell’archivio diocesano di Nardò, in cui si legge dell’obbligo annuale di una libbra di cera, oltre l’obbedienza, da parte dello stesso prelato (pro Eccl. Immaculatae Conceptionis noviter erecta in rure eiusdem in loco dicto Brusca). 

La cappella, che nel 1830 riscosse la lode del detto Lettieri, è officiata tuttora nei mesi estivi e nella festa della titolare, l’otto dicembre. Nel 1979 è stata ridipinta da Francesco Zuccaro, che osservava ancora i medesimi obblighi nei confronti del vescovo di Nardò.

Si ringraziano gli attuali proprietari, Giovanni e Maria Luisa Zuccaro, per la cortese disponilità.

 

Bibliografia essenziale

AA.VV., Paesaggi e sistemi di Ville nel Salento (a c. di V. Cazzato), Galatina 2006.

A.S.L., spoglio degli atti notarili di Nardò.

V. Cazzato, Il giardino di statue della masseria Brusca a Nardò, teatro del mondo e degli dei, in Interventi sulla “questione meridionale”, a c. di F. Abbate, Roma 2005.

V. Cazzato-A. Mantovano, Paradisi dell’Eclettismo. Ville e villeggiature del Salento, Cavallino, 1992.

A. Costantini, Le masserie del Salento. Dalla masseria fortificata alla masseria villa, Galatina 1995.

C. Daquino, Masserie del Salento, Cavallino 2007

M. Deolo, La masseria Brusca. Un’architettura barocca nelle campagne di Nardò, tesi di Laurea in Storia dell’Architettura Moderna, relatore prof. Vincenzo Cazzato, Università degli Studi di Lecce, a.a. 2003-2004.

M. Deolo, Una masseria ai margini di un “sistema”, la Brusca in territorio di Nardò, in AA.VV., Paesaggi e sistemi di Ville nel Salento (a c. di V. Cazzato), Galatina 2006, 198-209.

M. Gaballo, Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, Galatina 2001.

E. Mazzarella, Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Galatina 1999.

 

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6.

Nardò. Torre Tèrmide, la masseria degli olivi selvatici

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La masseria Termide vista da ovest (ph. F. Suppressa)

 

di Fabrizio Suppressa

 

La masseria fortificata Torre Tèrmide o Termite è situata a pochi chilometri a nord-ovest dal centro abitato di Nardò[1], nell’agro denominato Arneo, il vasto e fertile territorio posto lungo l’insenatura jonica della penisola salentina. Secondo il Costantini, la costruzione appartiene alla tipologia delle “Torri a base scarpata con scala esterna”, conformazione questa tipica dell’area di “affittimento neretina”, in cui la stessa è inserita[2].

L’impianto agricolo, dalla conformazione quadrangolare del suo recinto, ha fondamento su una lieve asperità rocciosa del terreno. Al centro del complesso vi è l’elemento fortificato, il nucleo originario del complesso, databile alla prima metà del XVI secolo[3] e caratterizzato dall’aspetto severo della mole bruno-scura dei suoi conci tufacei. La torre è dotata di due accessi, quello inferiore è costituito da una piccolo passaggio, probabilmente successivo, posto nel basamento del fronte nord. Quello superiore, sempre sul medesimo prospetto, è garantito da una ripida e stretta scala in muratura al cui termine vi è un pianerottolo d’arrivo sostenuto da una volta a botte. Questo originariamente era formato da un ponte levatoio in legno movimentato manualmente in caso di necessità. Il sistema difensivo era inoltre dotato di quattro caditoie poste in asse con le principali aperture e di cinque feritoie adatte all’uso di artiglieria di piccolo calibro, come moschetti e archibugi. Dall’ampio terrazzo, la torre comunicava a vista con le limitrofe masserie fortificate di Abbate Cola, Corsari, Agnano e con la torre costiera di S. Isidoro.

La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)
La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)

 

Piuttosto scarne sono le fonti storiche relative al piccolo insediamento agricolo. Dalle pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò emerge come la masseria nel giorno del 6 dicembre 1619 sia soggetta ad un nuovo proprietario. Alessandro Vernaleone di Nardò vende infatti a Lupo Antonio Coriolano e ai suoi figli Lucio, Orazio, Cesare e Gerolamo, per 1000 ducati il complesso agricolo[4]. Dagli stessi documenti emerge anche il nome del primo proprietario di cui si hanno notizie: un tal Ottavio figlio di Giovanni Pietro de Vito di Nardò, da cui Alessandro Vernaleone aveva acquistato anni prima la masseria per lo stesso prezzo di 1000 ducati[5].

Gli affari non sembrano andare bene ai nuovi proprietari; pochi anni dopo, il 12 gennaio 1622, un nuovo soggetto entra in società con i Coriolano. Vengono venduti all’Abate Domizio, procuratore del Capitolo di Nardò, al prezzo di 220 ducati, 19 ducati sulle prime rendite annuali della masseria e altri beni stabili “a scelta del Capitolo[6].

Nella prima metà del XVII secolo la masseria passa alla nobile famiglia neretina dei Sambiasi-Massa (per il matrimonio di Ottavio di Pietro Massa con Veronica Sambiasi) come emerge dallo stemma nobiliare posto sul fronte nord della torre[7].

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Stemma della famiglia Sambiasi Massa (ph. F. Suppressa)

Altrettanto interessanti risultano le cartografie storiche che inquadrano l’area in esame. Un primo documento di estrema rilevanza è certamente l’atlante del 1806 detto del Rizzi Zannoni[8], qui infatti la masseria Termide appare rappresentata immersa in un territorio prevalentemente impervio ed incolto, tra le folte macchie dette di Villanova e di Carignano, a non poca distanza dalla via di comunicazione che parallela alla costa da Taranto conduce a Gallipoli.

 

Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni
Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni

 

Un territorio dalle caratteristiche estremamente differenti da quelle attuali, che giustifica il toponimo “Tèrmide”. Tale vocabolo indica infatti nel dialetto locale l’olivastro, pianta tipica della macchia mediterranea impiegata anticamente per le proprietà di resistenza al clima e alle patologie come portainnesto per gli ulivi da coltivazione; una vera e propria risorsa per la florida olivicoltura di Terra d’Otranto.

Macchie che venivano impiegate anche per il pascolo allo stato brado di ovini e caprini, attività specifica delle masserie dette da “da pecore”, come la nostra in esame, nei cui capienti ricoveri, ingranditi nel corso dei secoli, poteva senz’altro ospitare numerosi capi di bestiame. Anche la cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova, protettore degli animali domestici, adiacente al complesso ne è una forte testimonianza di questa importante attività agropastorale.

 

Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)
Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)

 

Attorno al 1870 la torre della masseria Tèrmide diviene vertice trigonometrico di seconda categoria, per la nascente rete cartografica nazionale redatta dall’Istituto Topografico Militare, viene per questo motivo costruito sul terrazzo, all’angolo di nord-est della torre, un pilastrino in muratura con un centrino in acciaio atto ad ospitare la strumentazione topografica.

Verso la fine dell’Ottocento la masseria risulta accatastata[9], compare l’impianto originario, in cui sono ben individuabili i vari corpi facenti parte dell’insediamento agricolo, i vani accessori, un’aia, una cappella e un cisternone per la raccolta delle acque piovane.

Alla fine della II Guerra Mondiale proprietario del complesso risulta essere il botanico napoletano Gioacchino Ruffo, Principe di Sant’Antimo e Duca di Bagnara e Baranello. Alla morte di costui nel 1947, la proprietà transita alla figlia Maria Lucia, e tale rimane fino al 6 settembre del 1952, quando per decreto dell’allora Presidente della Repubblica[10] Luigi Einaudi, le proprietà (assieme ad altre masserie del Salento, quali Ascanio, Pittuini, Rauccio, Scorpo e li Ronzi) vengono espropriate per 8.347.889,30 di Lire e affidate al neonato Ente per la Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise. Il vasto latifondo[11] dai circa 630 ettari (uno dei più estesi della provincia), viene dapprima dissodato e bonificato, ed inseguito frazionato in “poderi” e “quote” venduti ai contadini assegnatari con patto di riservato dominio.

l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma
l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma

La masseria divenne invece un centro di servizio per il patrimonio zootecnico[12] e per questo motivo alcune parti furono demolite per far spazio a nuovi fabbricati e a case coloniche di tipo “Arneo”. Con il fallimento della Riforma Fondiaria, tutto il complesso è entrato in un lento ed inesorabile declino; attualmente di proprietà demaniale, la masseria è saltuariamente occupata da coloni. Lo stato di conservazione è pessimo.

La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento
La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento

[1] La masseria è rintracciabile su Google maps al seguente link: http://goo.gl/maps/kHwTX

[2] A. COSTANTINI, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Adriatica, Lecce 1984, p. 30

[3] Ibidem, p. 272

[4] M. PASTORE, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro Studi Salentini, Lecce 1964, p. 28.

[5] Ibidem

[6] Ibidem, p. 30.

[7] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra, Lecce 1996, p. 65.

[8] G.A. RIZZI ZANNONI, Atlante geografico del Regno di Napoli delineato per ordine di Ferdinando IV Re delle Due Sicilie, Stamperia Reale, Napoli 1789-1808, Foglio 22.

[9] Comune di Nardò, Foglio XLVII, Particella 9 – ringrazio Francesco e Tonino Politano per il prezioso aiuto e per il reperimento delle cartografie catastali

[10] D.P.R. n. 1369 del 6 settembre 1952 e G.U. n. 260 del 10-11-1952

[11] I confini sono così descritti: “A nord, con il limite dei fogli nn. 33 e 34, ad Est, con strada comunale Masseria Console, ad Ovest, con strada vicinale Sant’Isidoro e strada vicinale La Lucia. Sono intersecati nel senso nord-ovest, sud-est dalla strada provinciale Manduria-Nardò e dalla strada comunale Tarantina” G.U. n. 260 del 10-11-1952

[12] A. COSTANTINI 1984, op. cit., p. 102.

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (III ed ultima parte)

L’ ABBAZIA DI S. MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA

di Marcello Gaballo

… Tra i beni ceduti vi era anche l’ edificio abbaziale di S. Maria de Balneo che, nell’ annotazione degli annui censi che ogni anno, nella festa dell’ Assunta, si devono versare alla Mensa Episcopale di Nardò, registrati nella visita pastorale del Vescovo Bovio del 1578[67], risulta essere ormai diventata masseria vulgariter dicta lo Bagno olim Abbatiae S. Leonardi de la Matina, sita in loco dicto lo Vagno, in territorio Neritoni, iuxta bona Abbatiae S. Maria de Alto et Abbatiae S. Nicolai de Scundo[68], ora del Mag. Gio: Francesco Della Porta e di cui era stato ultimo commendatario il Cardinale di Sermoneta. La masseria versava annualmente due libbre di cera et alias libras duas incensi. Dictus census debebat ab antiquo ipsi mense pro dicta Abbatia S. Leonardi.

Santa Maria al Bagno (Nardò-Lecce), masseria Fiume che ingloba, nella parte inferiore, l’abbazia di Santa Maria de Balneo

L’ acquisto dell’ edificio e del terreno circostante da parte del barone di Serrano Della Porta probabilmente comportò una sua modifica strutturale, avendo riutilizzato la maggior parte della costruzione precedente con i grossi muri esterni, aggiungendovi un corpo superiore per ottenenere così una torre con le caratteristiche di cui si è già detto e con elementi in comune con le numerose masserie fortificate del neritino e con le torri costiere che nello stesso periodo venivano erette lungo la costa a scopo difensivo.

Il notevole spessore murario del piano terra dell’edificio

Da Francesco di Antonio Della Porta la masseria con i terreni circostanti, come tutti gli altri beni della famiglia,  passò al figlio Giorgio Antonio, da cui alla figlia Eleonora[69]. Questa, sposa di Mario Paladini da Lecce, VII barone di Lizzanello e Melendugno, il 9 giugno 1589 vendette la masseria nuncupata de lo Bagno al magnificus Marco Antonio de Guarrerio per 1000 ducati, con un censo annuo di 90 carlini di argento[70].

Dal De Guarrerio il bene fu rivenduto per 1000 ducati ad un altro neritino, Antonio de Monte, con istrumento per notar Pietro Torricchio del 15/7/1590[71].

In un atto del 1597 ne sono proprietari Antonio e suo figlio Scipione de Monte[72].

l’accesso alla masseria visto dal cortile interno, prima degli ultimi restauri

Nel 1600 la masseria è denominata lo Bagno… cum turre, curtibus et omnibus territoriis, iuxta massariam abbatie sub titulo S.ti Nicolai de Scundo, iuxta bona benefitialia benefitii sub titulo S.ti Laurentii ac bona benefitialia sub titulo S. Caterina de Modio, iuxta litus maris ed appartiene al giudice Antonio

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (II parte)

Santa Maria al Bagno - Nardò (Lecce), masseria Fiume, ingresso principale

L’ ABBAZIA DI S. MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA (seconda parte. La vendita di tutti i beni pugliesi dell’ordine)

 

di Marcello Gaballo

… Per restare nello specifico della nostra abbazia di S. Maria e nel tentativo di ordinare cronologicamente le sue vicende attraverso i documenti pervenutici, l’ Ordine, rappresentato dal procuratore Giovanni Helfenbeck di Norimberga, dovette sostenere una lite con la diocesi neritina, rappresentata dal vescovo Stefano Agricola De Pendinellis (1436-1451), per il possesso pleno jure dell’ abbazia di S. Maria de Balneo; lite poi risolta da papa Eugenio IV, che confermò al monastero di S. Leonardo di Siponto il possesso  dell’ abbazia[42].

Il primo documento sulla questione è stato riportato dal Camobreco nel suo “Regesto”[43]. Datato 13 aprile 1440 e rilasciato a Barletta, vede tra i testimoni pure Marinus de Falconibus et Perrus eius frater, Lodovicus de Noya, Petrus de Fonte Francisco, artium et medecine doctores, fr. Cicchus abbas S. Marie de Alto, fr. Benedictus abbas S. Angeli de Salute, Cobellus Cafaro vicarius Episcopi in spiritualibus, abbas Nicolaus Grande episcopi vicarius in temporalibus, fr. Victori Gayetanus propositus maioris eccl. Neritonensis, not. Antonius Natalis, not. Loysius Securo et not. Loysius de Vito, tutti di Nardò.

 

Un altro documento datato 20 giugno 1444, rilasciato in Manfredonia[44], tra l’ altro riporta: …locumtenentem cum aliis fratibus dicentes ab antiquo possedisse ecclesiam S. Marie de Balneo… et ipsam ecclesiam Stefanus episc.

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (I parte)

 

L’ ABBAZIA DI SANCTA MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA

 

di Marcello Gaballo

A meno di 300 metri dal rudere delle Quattro Colonne, a sud del piccolo abitato costiero di Santa Maria al Bagno, sulle ultime propaggini delle Serre Salentine, a circa 35 metri dal livello del mare, seminascosta dalle abitazioni sorte senza rispetto del paesaggio e fuori da ogni regola urbanistica, si intravede la torre di quella che un tempo fu la masseria Fiume, oggi radicalmente ristrutturata in moderna e confortevole abitazione.

L’ ingresso alla masseria si raggiunge da una traversa, sulla provinciale S. Maria al Bagno-Galatone, prima di via Edrisi, per la quale si giunge alle Quattro Colonne e che un tempo era contigua all’ importante ed antica via di comunicazione che da Galatone portava al mare.

La denominazione della masseria si spiega, probabilmente, col fatto che la costruzione fiancheggiava un corso torrentizio in cui si raccoglievano le acque reflue da tutto il territorio a monte, per mescolarsi poi con quelle della sorgente delle Quattro Colonne[1]. Il complesso, nel modo con cui si colloca, corona una prospettiva che sale regolarmente dal litorale verso l’ entroterra.

Le numerose modifiche delle costruzioni adiacenti e la suddivisione successiva impediscono di delineare l’aspetto originario della masseria, restando comunque evidenti l’ androne di ingresso alla corte e, soprattutto, la torre, che rappresenta ancora oggi il nucleo centrale e l’ elemento più sorprendente.

Essa, formata in epoche successive, si sviluppa su due piani, di cui quello a piano terra molto ampio, con volta a botte e spessa muraglia; il secondo è il piano diventato utile, in cui risiedeva il proprietario, con volta a botte lunettata, tre finestre, il camino (poi trasformato in “cucina economica”), una muraglia dello spessore di circa 80 cm.

Santa Maria al Bagno – Nardò (Lecce), masseria Fiume, ingresso principale

Opere in muratura successive dividono questo piano in più ambienti, evidenziandosi comunque un corpo aggiunto sul lato orientale, che ha trasformato la pianta della torre da quadrata in rettangolare. Tale modifica ha previsto anche l’ aggiunta di una scala esterna a due rampe che collega i due piani, in sostituzione di quella più antica che si sviluppava nello spessore delle

Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”

di Marcello Gaballo

Uno dei più bei complessi masserizi dell’agro di Copertino è la masseria comunemente nota come “la Torre”, sulla strada Nardò-Copertino, a poche centinaia di metri da quest’ultima, raggiungibile mediante più tratturi. Posta al centro di un territorio coltivato ad uliveto di antico impianto, confina a nord con la masseria Li Tumi, a ovest con proprietà Licastro, a sud con la ferrovia, ad est con altra proprietà Licastro.

La singolarità e la peculiarità della sua forma, pur nella varietà delle tipologie masserizie della Puglia, è data nel nostro caso dall’imponenza del torrione, che rinvia al mastio e alle torri angolari del cinquecentesco castello copertinese e particolarmente allo stile delle torri costiere a pianta quadrata della “serie di Nardò”. Se queste ultime avevano prevalentemente funzione di avvistamento, la nostra masseria possiede più i connotati di una residenza signorile, fortificata per la difesa patrimoniale del bestiame, dei prodotti agricoli e delle suppellettili. Attorno ad essa si sono man mano aggiunti, e sino a pochi decenni addietro, locali di lavoro e di deposito, inevitabile segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, che hanno alterato la struttura originaria, che tuttavia non ha risentito delle grandi trasformazioni agrarie tra Otto e Novecento.

Una prima testimonianza architettonica della masseria, anch’essa singolare ma più tarda, è a meno di 200 metri. Si tratta di una vera e propria dimora in tufi, aperta su tutti i quattro lati, con due archi laterali per parte ed uno, più alto, avanti e dietro. Al centro ospita il pozzo, il cui boccale è delimitato da blocchi di pietra piuttosto voluminosi.

Il prospetto della masseria è rivolto a mezzogiorno, verso Copertino, e su di esso spiccano l’unica caditoia, localizzata al centro della facciata, a sbalzo su mensoloni lobati, in corrispondenza dell’ingresso originario (ancora raggiungibile con scala in muratura), il cordolo marcapiano, la cornice a beccatelli, la base quadrata con leggera scarpa, che ricordano ancora i tempi in cui i pirati degli stati barbareschi rendevano insicure le nostre terre.

Evidente come essa sia stata concepita quale difesa passiva, vista la possente muratura, e come difesa piombante, basata sul lancio dalla terrazza di pietre o liquidi contro gli assalitori. Sulla restante cortina muraria, anche questa in blocchi squadrati di pietra locale a faccia vista e di buona fattura, nel corso dei secoli sono state arbitrariamente aperte diverse finestre, più grandi a pianterreno, ed un secondo ingresso, resosi necessario per essersi in essa stabilito un ulteriore proprietario. Tale divisione ha comportato anche all’interno della struttura molte variazioni architettoniche, certamente utili e funzionali per l’attività lavorativa, purtroppo deturpanti nella maggior parte dei casi, come è dato dal voluminoso corpo aggiunto adibito a forno.

Dell’impianto originario interno, anche questo caratterizzato da una architettura essenziale e priva di ogni ornamento, sopravvive il collegamento tra i locali superiori e gli inferiori, un tempo consentito dalla rimovibile scala in cordame. Il recinto, ottenuto con antichissime pietre pazientemente incastrate “a secco”, delimita l’ampio cortile col suo frantoio ipogeo, stalle e granai, cui si sono aggiunti nel corso dei secoli locali voltati usati ad abitazione e depositi, immaginando di aver potuto ospitare almeno trenta-quaranta persone. La distanza dalla strada carrozzabile, ma non dalla ferrovia che passa vicinissima, ha permesso all’ambiente circostante di conservarsi nella sua fisionomia e ancora oggi agli uliveti si alterna l’incolto, dove un tempo erano prevalenti la coltura granaria e l’allevamento del bestiame.

L’antichissimo feudo in cui il complesso è ubicato è quello denominato Cambrò o Specchia dei Normanni, compreso tra quelli di Castro, Puggiano, S. Barbara e Mollone, che nel 1316 possedeva Nicola de Buggiaco, per eredità del padre Roberto . Nel corso dei secoli la distinzione tra il feudo e la masseria fu sempre meno netta, tanto che nei documenti spesso veniva citato l’uno per l’altro, perché coincidevano i proprietari: nel 1550 i terreni e l’abitato sono del barone Carlo Balsamo e nel 1564 è detta la “masseria del defunto Antonio Bove” . Nel 1567 il nome è variato, ritrovandosi come “la massaria de li Troyali”, derivata dal nome del nuovo proprietario di Copertino, Giorgio Troyali alias Arenito , che nel 1570 l’ha ceduta, con l’annessa chiesa di S. Martino, al concittadino Organtino Verdesca, da cui ad Angelo Lombardo nello stesso anno.

Il feudo invece nel 1568 appartiene al nobile Lucantonio Sambiasi di Copertino che vende, per poi ricomprare nel 1583, diversi appezzamenti di terreno al barone neritino e suo congiunto Lupantonio Sambiasi per 1300 ducati . L’omonimia fu ancor più evidente negli ultimi anni del secolo XVI e nei primi del successivo quando del feudo non si fa più menzione negli atti notarili, né tantomeno nei secenteschi Cedolari di Terra d’Otranto, forse perchè integrato col confinante feudo di Castro, che detenevano i baroni Personè.

Intanto la masseria ha cambiato denominazione per la nuova proprietà passata ai nobili Lombardi e infatti nel 1577 è dei fratelli Cesare e Giacomo Lombardi, figli di Angelo. Gli stessi vendono, a beneficio dello spagnolo Giovanni de Sisegna, alla ragione del 10% per un capitale di 200 ducati, un vigneto di 10 orte ed un uliveto con casa lamiata, pila e palmento, in loco vulgariter dicto la massaria dè Lombardi, con atto del notaio Russo Antonio di Copertino del 6/5/1577. Successivamente i fratelli vendono gli stessi beni al neritino Alessio Sambiasi, il quale si impegna a versare i predetti 200 ducati al Sisegna . A distanza di una ventina d’anni la fortuna dei due fratelli dovette man mano scemare, visto che si registrano diversi loro atti di vendita dei beni ubicati nel feudo: nel 1581 vendono un uliveto di 300 alberi al monastero di S. Chiara di Copertino per 100 ducati ; diversi appezzamenti li vendono nel 1592 al barone Cesare Sambiasi di Nardò, figlio del predetto Lupantonio.

In altro atto del notaio neritino Fontò del 1588 il predetto Cesare figura signore del feudo “Specle de Normandia” e forse anche della nostra masseria, visto che da cinque anni continua ad acquisire altri appezzamenti circostanti per accorparli in una più efficiente unità poderale; alcuni dei terreni li acquista ancora da Giorgio e Domenico Troyalo , altri da Giovan Battista Imbeni e suo figlio Guglielmo . Notevoli dovettero essere i capitali investiti dal barone in questa proprietà, che nel 1598 continua ad acquisire gli ultimi appezzamenti rimasti in altrui possesso: nel 1598 Cesare Lombardi gli cede i terreni in loco la Carcara, confinanti coi beni di Cesare Imbeni e le terre dotali di Francesco Lubelli , e Giacomo Liuzzi un oliveto con 800 alberi. Questi sono gli anni in cui si affermava progressivamente il sistema di masserie in tutta la Terra d’Otranto e così cospicua proprietà, come per molte altre del territorio, da una lato assicurava la regolarità dei rifornimenti alimentari, dall’altro rappresentava una eloquente testimonianza del benessere e del comprovato status delle famiglie più ricche della provincia, tra cui anche i Sambiasi.

Numerosi atti notarili di questo decennio documentano il fitto scambio di derrate alimentari e, particolarmente, l’esportazione via mare del commerciabile e prezioso olio dall’opulenta terra salentina in ogni parte del Regno di Napoli.

Dopo un intricato sistema di vendite e ricompra dei terreni circostanti, finalmente nel 1613 la nostra masseria, chiusa di pariti di pietre, in loco Specchia Lombardia, feudo Castri, risulta di Giuseppe Sambiasi, figlio di Alessio, a sua volta erede del predetto Cesare. Tra gli altri beni essa comprende un curaturo lini, uno palmento et pilaccio dentro, puzzo seu cisterna e curtali, e numerosi appezzamenti con terre scapole, dei quali uno con arbori di olive 1000 incirca, et altri arbori communi venduto ai Sambiasi da Cesare Lombardi e dai suoi figli Angelo e Lucio per la considerevole somma di 1950 ducati.

La torre-masseria risulta finalmente realizzata nel 1625, quando, in altro rogito, il complesso viene descritto tra le proprietà del chierico Giuseppe Sambiasi, titolare anche del feudo Specle de Normandia, e consiste in terriis factitiis et machosis, olivetis, turri, capannis et ovilibus et aliis membris suis . Lo esplicita un altro atto dell’anno seguente, quando è comproprietario Bernardino, fratello del predetto chierico: vi è la torre, detta li Lombardi, ubicata nel feudo inhabitato vulg. nuncupato Specchia di Anormandia, vicina ad altri beni di Giuseppe .

L’ingente investimento da parte del facoltoso Alessio Sambiasi fu senz’altro dovuto alla disponibilità pecuniaria pervenutagli dalla dote della seconda moglie, la galatonese Vittoria de Ferraris, che gli aveva procurato ben 3200 ducati, che si aggiungevano ai beni di famiglia e a quelli ottenuti dalle prime nozze con Isabella, figlia del barone neritino De Pantaleonibus. Visto che la ratifica del secondo matrimonio avvenne nel 1618, è da pensare che la costruzione della torre possa essere iniziata dopo il 1618, per essere ultimata nel 1625. Certo è difficile sapere se si trattasse di un ampliamento ed innalzamento della domus lamiata del 1603, a sua volta magari costruita su un’antichissima sopraelevazione del suolo che dava il nome al feudo.

Si può anche ipotizzare che a metterla su furono gli Spalletta, mastro Angelo o più probabilmente suo figlio Vincenzo, che qualche anno prima aveva ultimato la costruzione della torre costiera del Fiume, oggi nota come Quattro Colonne, e che in più occasioni aveva lavorato per i Sambiasi di Nardò. Vincenzo, come il padre, era partitario Regie fabrice nuncupata de Fiume e nel 1609 riceve per quest’opera un ulteriore acconto o saldo definitivo dal cassiere dell’università neritina Donato Antonio Massa.

I proprietari della masseria però dovettero avere qualche problema finanziario e a causa di censi non pagati il complesso viene venduto all’asta e liberato da Melchiorre de Filippo di Racale, con atto del not. Palemonio del 9/10/1636. Da Melchiorre viene donata al fratello chierico Antonio, ma il pieno suo possesso risulta bloccato dalla Curia Vescovile di Nardò, in quanto la masseria era stata già venduta su istanza del monastero dell’Annunziata di Copertino che doveva esigere i predetti censi.

Rimessa all’asta la masseria viene acquistata da Bartolomeo de Magistris di Gallipoli, ma residente a Copertino, per 260 ducati, con atto not. Giacomo Panarello di Lecce del 1/8/1636. Il de Magistris la cede al citato monastero con istrumento del notaio copertinese Pietro Fulino del 3/12/1637.

Nel 1662 comunque conserva la dizione di massaria de’ Lombardi e si trova in Specchia di Normandia , di cui è feudatario il gallipolino Diego Sansonetti . Il figlio di Alessio Sambiasi, Giuseppe, nel frattempo ha saldato la quota restante dei 200 ducati dovuti a Giovanni Sisegna da suo padre nelle mani di Maddalena, per conto di sua sorella Isabella Isalas, a sua volta rappresentata dal procuratore Pietro Alvarez, hispano .

Per quasi un altro secolo la masseria passa da padre in figlio tra i Sambiasi, per ritrovarla proprietà del leccese Francesco Maremonti, come si evince dal Catasto Onciario di Copertino del 1746, cui è pervenuta per dote della moglie Maddalena Sambiasi, una degli ultimi rampolli del facoltoso ramo copertinese, figlia di Tommaso e Maria Sambiasi, eredi di Vitantonio. Il Maremonti dovette poi vendere il complesso ai baroni Personè, già titolari dei vicini feudi di Castro e Ogliastro, dei quali Giuseppe possiede la masseria “la Torre” nel 1774 .

Dai Personè probabilmente fu venduta per una parte ai Licastro di S. Cesario di Lecce, in persona di Francesco (deceduto a S. Cesario il 29/12/1937), possessore anche delle vicine masserie Cambrò e Marulli, che la cede al figlio Raffaele, da cui ai figli Roberto e Giovan Francesco Licastro-Scardino, residenti in Lecce. Questi, con atto per not. Astuto di Lecce del 3/4/1970 la vendono ai coniugi Giovanni Mele e Lucia Marinaci di Copertino, da cui al figlio Salvatore che la possiede tuttora. Tale quota è al foglio 51, part. 45, ha superficie abitativa di 350 mq. ed un terreno circostante di 55.000 mq. di cui 10.000 piantumati con ulivi e 45.000 di seminativo e alberi da frutto La restante parte, di ettari 38, are 19 e centiare 24, era di Luigi Vaglio, che la trasmise ai figli Teresa e Giuseppe. I figli di quest’ultimo, che avevano avuto anche la parte degli zii Teresa, Bartolo, Felicetta, Pasquale, Maria e Giuseppina, nel 1964 vendono la parte alla “Cassa per la Formazione della Piccola Proprietà” , che successivamente viene acquistata da Rolli, dei quali oggi Giuseppe possiede la restante parte.

Nonostante la bellezza e la vetustà del complesso, purtroppo si constata il lento dissolversi del modello originale e molti punti stanno miseramente franando per mancanza di manutenzione. Per svariati motivi il suo sistema produttivo non è più proponibile e spontaneamente nasce l’idea di una sua utilizzazione a fini turistici, sempre che le vertenze giudiziarie trovino presto risoluzione.

Sarebbe un altro esempio della civiltà contadina salentina che troverebbe giusto recupero, come timidamente si osserva in qualche altro sito della opulenta e bella provincia, che fatica a trovare il suo rilancio sul mercato internazionale del turismo, dimostrandosi incapace di valorizzare le sue risorse e, come in questo caso, il suo caratteristico paesaggio, che la benefica natura ha voluto favorire colmandola dei doni di Bacco, Cerere e Minerva.

Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca in agro di Nardò

 

Una villa-masseria in agro di Nardò. Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca

 

di Marcello Gaballo

L’area neritina è straordinariamente ricca di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.

Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.

Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.

Su una di queste lievi alture, a poche centinaia di metri dalla costa, si trova la nostra masseria, a brevissima distanza dalle altre denominate Nociglia (a scirocco), Torre Nova (a ponente), Càfari (a tramontana), Torsano e Sciogli (a levante), e dal più noto parco attrezzato di Porto Selvaggio. La raggiungiamo dalla litoranea Gallipoli-Porto Cesareo (S.P. 286), poco prima del villaggio turistico di Torre Inserraglio,  o dalla strada Tarantina (S.P. 112), immettendoci sulla strada che collega questa con la litoranea. Dista da Nardò meno di 6 Km. Seminascosta dalla vegetazione arborea, un tempo era fondamentale punto di riferimento per quanti scendevano al mare.

Le variazioni apportate all’originario arredo architettonico nel corso dei secoli, caratterizzate soprattutto dal successivo accorpamento di locali di lavoro e di deposito, segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, tuttavia non hanno alterato la struttura settecentesca, che non sembra aver risentito granchè delle grandi trasformazioni agrarie dell’Otto e Novecento.

Oggi il Brusca, che copre un’area di circa sette ettari, oltre che residenza estiva dei proprietari, è particolarmente attiva dal punto di vista agricolo, destinata alla produzione di olio, vino, cereali, latticini e miele.

L’attuale complesso risulta da un importante ampliamento di una struttura originaria, perlomeno cinquecentesca, della quale sopravvivono tracce. Finora la documentazione non ha aiutato a chiarire in cosa consistesse il nucleo preesistente, forse una torre di difesa a pianta quadrata, inglobata negli ammodernamenti dei secoli successivi e protetta da un circuito murario di difesa con una o più porte di accesso.

I primi documenti disponibili sulla nostra masseria li fornisce il prodigo Archivio di Stato di Lecce, dove sono conservati i documenti notarili della provincia e quindi di Nardò.

Il primo atto particolarmente interessante che la riguardi è del 1716, perché indica l’acquirente, Francesco Santachiara, ed il venditore, il barone neritino Francesco Carignani, residente a Napoli, tramite l’interposta persona di Francesca Alfarano Capece, vicaria e procuratrice del figlio. L’atto indica anche l’intermediazione del fratello il chierico Giuseppe Carignani, residente a Lecce, con procura stipulata dal notaio Giovanni Tafarelli di Napoli del 29/1/1721. L’acquisto viene fissato per 1951 ducati, che il Santachiara avrebbe saldato senza alcun interesse entro il mese di gennaio 1717.

Nel rogito la masseria è denominata Bruschia e la descrizione dettagliata elenca i beni oggetto della compravendita: curti, case, capanne, turre, trozza, aera e palumbaro, terre seminatorie e macchiose di tomolate 200, con tutti li suoi membri ed intiero stato, con un pezzo di terreno di sei tomolate detto lo Calaprico ubicato nello stesso feudo, con 2 buoi, 134 pecore, 9 montoni, 37 agnelli, 32 capre, 16 magliati, 3 capretti, 2 aratri con li giochi, una mattra per la ricotta, come risulta dall’atto di vendita e ricompra stipulato per notar Biagio Mangia da Lecce.

Dopo la morte di Francesco la masseria passerà a suo figlio il reverendo Giuseppe Francesco Santachiara. Forse per insolvenza di quest’ultimo, il complesso viene rivenduto dal barone Carignani al chierico Vincenzo dell’Abate, figlio del noto possidente Francesco, per la cospicua somma di 1900 ducati. La maggior parte di questo importo era stato donato al minore Vincenzo dai nonni materni Giovanni Primativo e Angela Megha.

E’ difficile mettere in luce i reali motivi che spinsero il chierico e suo padre all’acquisto della masseria, ma è certo che al momento dell’acquisto la fortuna economica e sociale dei Dell’Abate è in piena ascesa e la famiglia è tra quelle più in vista a Nardò, desiderosa di soppiantare la vecchia nobiltà agraria e feudale. Anche se non inclusa tra le famiglie nobili, i suoi rappresentanti hanno occupato per molti anni posti di rappresentanza nella civica amministrazione e lo status agiato accresce grazie all’attività economica e alle strategie matrimoniali.

Altri documenti del 1725 e 1727 confermano la proprietà di Vincenzo Dell’ Abate, che nel 1736, già sacerdote, apporta numerose varianti e abbellimenti, riedificando la chiesa per ovvi motivi cultuali. Forte della somma ereditata dagli avi e dagli introiti derivanti dalla vendita della masseria Spinna in feudo di Tabelle, fa realizzare nuovi ambienti, addossandoli per tre lati alla torre, compreso lo scalone che porta al piano superiore, decorandolo con due pitture a tema sacro ancora esistenti.

Probabilmente è suo nipote il medico Francesco Maria, figlio del fratello Saverio e di Fortunata Ricci, erede universale del padre e dello zio, che amplia e abbellisce il giardino annesso, dotandolo di statue e fontana ornamentale, facendo scolpire i profili clipeati e lo stemma familiare sul portale. A causa del raccordo dislivellato con la chiesa è da supporre che egli rifà pure la facciata, forse per rinforzare la torre originaria pericolante, inglobandola in nuove cortine murarie, come si evince da una sommaria ispezione interna. Ne risulta un prospetto insolitamente caratterizzato da sette archi a tutto sesto su pilastri, sui quali corre su tutta la facciata una funzionale loggia su cui affacciano le porte finestre. Allo stesso periodo sembra risalire anche l’interessante balcone interno, posto sul prospetto orientale, che si affaccia sull’ingresso di servizio.

Francesco Maria è lo stesso che ha restaurato e decorato in città il maestoso palazzo di famiglia, tra i più scenografici della città, su via Angelo delle Masse, in cui abita con la moglie Teresa Gorgoni e con gli otto figli. Economicamente supportato dalla ricca dote muliebre, si può pensare che sia stato proprio lui il regista, trasformando la masseria in residenza degna del rango e più consona al suo tenore di vita, considerato che nello stesso periodo avvenivano grandi lavori di ammodernamento di residenze di campagna, come nella coeva villa Scrasceta, che i baroni Personè avevano fatto ampliare e ristrutturare.

Non si registrano grandi variazioni nei decenni successivi e la masseria resta sempre proprietà della titolata famiglia: nel 1809 è ancora dei coniugi Teodora Gorgoni e Francesco Maria Dell’Abate, che nel 1821 in virtù di disposizione testamentaria la lasciano con tutti li fabrichi antichi e nuovi al figlio Vincenzo, dichiarandola del valore di ben novemila ducati.

Forse per le oscure vicende politiche, essendo Vincenzo un carbonaro, la proprietà passa negli anni 40 dello stesso secolo a tre dei sei fratelli, Vincenzo, Giosafatta e Fortunato Dell’Abate. L’unica sorella aveva sposato Maurizio De Pandi, che risulterà proprietario del complesso dopo l’estinzione della famiglia di sua moglie. Da Maurizio passa ai figli, quindi ai Giulio con cui erano coniugati, e da questi agli Zuccaro, che detengono ancora la masseria.

Fu Luigi, secondo marito di Francesca Giulio, che rinnovò le piante del giardino, sostituendo la limonaia con  altre ornamentali, rifacendo i viali interni e meccanizzando la fontana centrale. Altri rimaneggiamenti funzionali e di adeguamento, che non hanno alterato la struttura settecentesca,  sono stati apportati da Francesco, dal quale la masseria è passata al figlio Giovanni, attuale proprietario.

In essa fu ospitato nei mesi di maggio e giugno del 1826 il vescovo di Nardò Salvatore Lettieri, convalescente da una grave malattia e bisognoso di aria salubre e di  riposo.

Il prospetto si articola su due livelli, dei quali il superiore si conclude con un massiccio cornicione aggettante. L’inferiore è caratterizzato da un avancorpo di sette archi a tutto sesto sostenuti da poderosi pilastri, dei quali cinque ciechi. Delle due aperture quella minore consente l’accesso al piano superiore; l’altra conduce al vasto cortile interno, su cui si affacciano abitazioni più modeste e locali di lavoro. Il superiore mostra sette finestre che illuminano ampie sale, tra le quali la sala da pranzo con le pareti dipinte con un illusionistico pergolato che occupa tutte le pareti  e desta stupore in quanti la vedono per la prima volta. Questa immette nel salone di rappresentanza, anch’esso dipinto con graziosi motivi classicheggianti, ridipinti negli anni 60 del secolo scorso da Totò De Simone. In questo ambiente senz’altro importante è il discreto dipinto settecentesco sulla volta raffigurante La morte di Adone. Il taglio orizzontale e ristretto del dipinto consente al pittore di portare in primissimo piano i protagonisti dell’episodio: Adone giace inerme, con la testa riversa, fra le braccia di una addolorata Venere. Altrettanto disperati Cupido e i due amorini, che tentano invano di ferire il cinghiale, le cui sembianze erano state prese dal geloso Ares, che ha appena azzannato il giovane. Sullo sfondo un paesaggio arcadico da ricollegare al monte Idalio, nell’attuale Libano, su cui si era recato a cacciare Adone. Il mito ricorda che Zeus esaudirà le preci di Afrodite, consentendo che il giovine trascorra solo una parte dell’anno nel Tartaro, potendo risalire alla luce per il restante tempo e così unirsi alla dea della primavera e dell’amore.

La scena del compianto della dea potrebbe essere rintracciata in alcuni versi dell’Adone di Giovan Battista Marino. Nel canto XVIII si legge infatti: purché morto ancor m’ami e non ti spiaccia / aver la tomba tua fra le mie braccia” e “Su’l bel ferito la pietosa amante/ altrui compiange, e se medesma strugge. / E sparge, lassa lei, lagrime tante, / e con tanti sospir l’abbraccia e sugge”, e ancora “e sentendo scaldarsi il cor di ghiaccio / per volerlo baciar lo stringe in braccio.

Il perimetro della cinta muraria continua verso oriente con la chiesa e con altro accesso al giardino “delle api”, aggraziato da un artistico frontale con lesene, coronamento e pinnacoli in carparo, tanto da caratterizzare ancor più il complesso, contribuendo ulteriormente a farlo apparire più una villa suburbana che una funzionale ma modesta masseria.

L’adiacente giardino, posizionato ad occidente e denominato “dei Continenti”, più vicino ad un hortus conclusus che non ad un parco campestre, è uno degli elementi di maggiore caratterizzazione, con soluzioni decorative che rendono il complesso masserizio davvero unico, soprattutto per l’arredo statuario di ispirazione mitologica che popola l’interno.

Vi si accede per un portale d’accesso di squisito gusto neoclassico, scandito da quattro semicolonne e dall’insolita conformazione concava, con busti, fregi e decori geometrici e vegetali, due profili clipeati, lo stemma di famiglia. Particolarmente bella ed insolita per il territorio è la collezione di statue dei Continenti: Asia, Africa, Europa e America, con sembianze femminili, disposte alle spalle dei sedili semicircolari in pietra e interposte tra altrettante coppie di statue (Pomona e Vertumno, Diana e Silvano, Cerere e Bacco, Flora e Fauno). Ne risulta quindi una scenografica, quasi teatrale, disposizione a quarti di cerchio e a gruppi di tre.

L’impianto del giardino maggiore è cruciforme e la coppia Zuccaro-Giulio fece realizzare un modellino in muratura della masseria, alquanto fedele, collocato nell’ultima aiuola a sinistra del giardino “dei Continenti”.

Chi fece realizzare questo luogo lo volle davvero delizioso, come lo è tuttora, con piccoli sentieri ombreggiati da maestosi pini di Aleppo che conducono ai viali rettilinei e quindi alla fontana centrale con base quadrata, certamente precedente all’altra circolare posta di fronte all’ingresso. I viali si concludono con altrettante nicchie inquadrate da paraste, con archi mistilinei e con stemmi gentilizi.

Che il giardino fosse presente già prima dei grandi lavori settecenteschi è avvalorato da una data “1636” incisa sul basolato.

torre colombaia

Risulta difficile datare i bellissimi muri di cinta “a secco”, dei quali soprattutto quello che protegge il giardino “della colombaia”, con la cinquecentesca torre colombaia a pianta quadrata, sul lato occidentale del complesso e ben visibile dalla strada.

Altri muri interni suddividono lo spazio del parco in altri quattro giardini, dei quali uno con funzioni di frutteto, l’altro di mandorleto.

La chiesa, eretta in sostituzione della piccola cappella che si trovava nell’ala occidentale, è dedicata all’Immacolata. Forse la precedente può identificarsi con la cappella di Sancta Maria ad Nives, visto che viene visitata dal vescovo, nel Cinquecento, dopo l’abbazia di Santo Stefano di Curano e la chiesa dei Santi Stefano e Vito, entrambe assai vicine al nostro complesso.

Il prospetto della chiesa, con zona inferiore più larga della superiore, è caratterizzato dal portone centrale sormontato da una nicchia vuota e da un’ampia finestra con frontoncino mistilineo, oltre ad una trabeazione con quadriglifi e metope che separa i due ordini. è movimentato nella parte inferiore da paraste e da quattro colonne doriche su pilastri; due sono le colonne superiori, con capitello corinzio. Un frontone triangolare, più ampio del piano superiore, conclude la parte sommitale e ai suoi lati sono collocati due grandi vasi in terracotta. Grazioso il campanile a vela, ruotato lievemente rispetto alla facciata, che ospita una campana del 1636.

L’interno è ad aula unica rettangolare, coperta da una volta a sesto ribassato, unghiata in corrispondenza delle finestre. Numerose decorazioni floreali dipinte sulle pareti allietano l’ambiente, solennizzato dai dipinti di falsi tendaggi annodati. L’altare in pietra policroma occupa tutta la parete frontale e sul gradino più alto ospita la statua della Vergine Immacolata, sotto un artistico baldacchino di legno. Sulla controfacciata vi è un palco o matroneo in muratura, perchè i familiari possano accedervi dall’interno della masseria.

La chiesa è già realizzata nel 1740, quando il sacerdote Vincenzo Dell’Abate pro Ecclesia sub titulo Immaculatae Conceptionis B. M. V., deve al vescovo di Nardò l’obbedienza e il peso annuale di mezza libbra di cera lavorata (cum oblatione medietatis librae cerae elaboratae).

Fu ricostruita nel 1780, come si legge sempre negli Atti di Obbedienza conservati nell’archivio diocesano di Nardò, in cui si legge dell’obbligo annuale di una libbra di cera, oltre l’obbedienza, da parte dello stesso prelato (pro Eccl. Immaculatae Conceptionis noviter erecta in rure eiusdem in loco dicto Brusca). 

La cappella, che nel 1830 riscosse la lode del detto Lettieri, è officiata tuttora nei mesi estivi e nella festa della titolare, l’otto dicembre. Nel 1979 è stata ridipinta da Francesco Zuccaro, che osservava ancora i medesimi obblighi nei confronti del vescovo di Nardò.

Si ringraziano gli attuali proprietari, Giovanni e Maria Luisa Zuccaro, per la cortese disponilità.

 

Bibliografia essenziale

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V. Cazzato-A. Mantovano, Paradisi dell’Eclettismo. Ville e villeggiature del Salento, Cavallino, 1992.

A. Costantini, Le masserie del Salento. Dalla masseria fortificata alla masseria villa, Galatina 1995.

C. Daquino, Masserie del Salento, Cavallino 2007

M. Deolo, La masseria Brusca. Un’architettura barocca nelle campagne di Nardò, tesi di Laurea in Storia dell’Architettura Moderna, relatore prof. Vincenzo Cazzato, Università degli Studi di Lecce, a.a. 2003-2004.

M. Deolo, Una masseria ai margini di un “sistema”, la Brusca in territorio di Nardò, in AA.VV., Paesaggi e sistemi di Ville nel Salento (a c. di V. Cazzato), Galatina 2006, 198-209.

M. Gaballo, Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, Galatina 2001.

E. Mazzarella, Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Galatina 1999.

 

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6.

Le mani sulla Sarparea: le Osservazioni del CTP di Nardò

Dopo il recente post, dal titolo “Nardò (Lecce). Le mani sulla Sarparea”, apparso il 14 Settembre u.s., il Comitato per la Tutela del Paesaggio di Nardò si è reso gentilmente disponibile a pubblicare i contenuti dei loro elaborati presentati in Regione. Ricordiamo che le “Osservazioni”,  ad integrazione della Valutazione Ambientale Strategica (VAS), presentate al competente ufficio regionale, contribuiranno al giudizio di compatibilità ambientale del piano di lottizzazione della Sarparea. Prossimamente nuovi aggiornamenti sulla vicenda.

a cura del Comitato per la Tutela del Paesaggio di Nardò

Masseria Sarparea de' Pandi (ph. F. Politano)
Masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Politano)

NOTIZIE STORICHE SULLA LOCALITA’ “SALPAREA” E SULL’OLIVETO IVI PRESENTE*

Le Pergamene del Monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), ed. A. Frascadore, in “Codice Diplomatico Pugliese”, XXV, Bari 1981, doc.n° 27, pp. 114-122. Il documento riguarda l’inventario patrimoniale dell’Ospedale di Santa Caterina di Galatina e, quindi, dei beni ricadenti nel casale di Agnano e di pertinenza di detto Ospedale. L’inventario fu redatto il 20 luglio 1443 nello stesso casale di Agnano, «quod est hospitalis Sancte Ecaterine de Sancto Petro de Galatina» (p. 115). Il passo riferentesi alla località Sarparea, collocata in un più ampio contesto confinante con masserie la denominazione delle quali non e più rintracciabile (dei fabbricati rustici non vi è più traccia) e con la masseria Sant’Isidoro provvista di torre, è il seguente: «[…] altera vero», vale a dire masseria, «que dicitur de li Mayri, est de feudo Puteivivi et de pheudo domini principis et currunt per limites et speclas, qui et que sunt versus massariam, que dicitur de li Tagano, et vadit per quondam parietem grossum […] usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Santi Ysideri, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fondata e costructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clasorium olivarum Carbasii […] et deinde vadit per viam rectam, usque ad massariam, que dicitur de Malecoris, inclusive, et massariam condam Nicolai Cursari […] et vadit per viam ecclesie Sancte Marie de Cisaria, inclusive, usque ad clausorium magnum curie dicti casalis Igniani […] et currit usque ad clausorium olivarum Guillelmi Quaglasierii […]» L’attuale torre cinquecentesca potrebbe essere (ma solo in via di ipotesi) il riutilizzo di un presistente; ad ogni modo, la presenza di una torre non costituisce, un fatto nuovo.

Sarparea, l'antica "viam ecclesie Sancte Marie de Cisaria" (ph. F. Suppressa)
Sarparea, l’antica “viam ecclesie Sancte Marie de Cisaria” (ph. F. Suppressa)

Il toponimo Carbasi ricorre anche negli atti della Visita Pastorale di mons. Ludovico de Pennis eseguita nel corso degli anni 1452-1460. Si tratta di una

Giudice Giorgio, regina delle masserie del neritino

di Marcello Gaballo

Il territorio del comune di Nardò è straordinariamente ricco di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.

Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra Torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’ interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.

Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte Sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.

Il cuore del territorio neritino è rappresentato dall’Arneo, che fino a qualche decennio addietro ha rappresentato la zona più importante dal punto di vista economico-agricolo, caratterizzata dal latifondo e dal bracciantato, il quale, nel primo e secondo dopoguerra, ha occupato buona parte di quelle fertili terre, con scontri sociali che hanno scritto le pagine più accorate della storia contemporanea del Salento.

L’ amenità dei luoghi e la fertilità dei terreni, un tempo occupati da foresta e macchia mediterranea, ha spinto i diversi proprietari a realizzarvi, nel corso dei secoli, insediamenti produttivi come le masserie, spesso fortificate per frequenza delle incursioni piratesche dalla costa.
Molte masserie dell’Arneo si impongono per la bellezza architettonica, la varietà delle tipologie, l’imponenza delle dimensioni, l’alto livello degli elementi fortificativi, il raccordo con le vie di comunicazione e la compiutezza delle espressioni collegate all’attività produttiva agricola e pastorale.
Fra tutte ritengo che una in particolare meriti il titolo di regina, la masseria Giudice Giorgio, una delle masserie strategicamente più importanti, sulla strada statale 164, Nardò-Avetrana (da secoli denominata strada tarantina, a circa 10 km dal centro abitato di Nardò.

la torre cinquecentesca

Caratterizzata dall’imponente torre cinquecentesca a pianta quadrata, a tre piani, dei quali l’inferiore, cui si accede attraverso un artistico portale bugnato, leggermente scarpato, fu adibito un tempo al deposito e alla lavorazione delle olive. È collegata a vista con le masserie Bovilli e Roto Galeta, che tuttavia non possono competere con essa in altezza e particolarità architettoniche.

Il pianterreno, voltato a botte ed assai più antico rispetto al resto, era collegato al primo piano da una scala a pioli  che portava alla scala in muratura impostata a circa

Li Cursàri, un toponimo che potrebbe indurre a pensar male…

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Le torri, quale in buona salute, quale meno, quale ridotta ad un rudere, visibili lungo le nostre coste sono la testimonianza dell’appetito che la nostre terre hanno sempre suscitato in genti straniere; solo che quelle fabbriche sono un indizio della paura nutrita contro un pericolo ben più grave della colonizzazione che questo lembo d’Italia ha conosciuto, pur tra vicende inevitabilmente sanguinose, per millenni; esse erano, com’è noto, il primario strumento di difesa (l’avvistamento) contro le scorrerie dei Turchi. E la torre, avente la stessa funzione, era il componente essenziale delle cosiddette masserie fortificate.

Spesso le parole pirata e corsaro vengono utilizzate come sinonimi, ma non è così. Il pirata è a tutti gli effetti un criminale che esercita la sua attività predatoria contro chiunque gli capiti a tiro; il corsaro è una sorta di predatore legalizzato, nel senso che può esercitare la sua attività col beneplacito, cioè la complicità e la connivenza (per gli interessati autorizzazione) di un governo nazionale solo a danno dei nemici, anche di sola fede.

Impropriamente, perciò, si parla di pirati barbareschi con riferimento agli incursori (nel nostro caso turchi) che nel XVI° secolo terrorizzarono le nostre coste: più correttamente si dovrebbe parlare di corsari barbareschi.

Come non pensare d’acchito a loro di fronte al toponimo Li  Cursàri, indicante, oltre la zona, una masseria? Le cose, invece, come ben sanno gli addetti ai lavori, stanno diversamente e bisogna andare a ritroso nel tempo, precisamente un secolo prima.

La prima attestazione del toponimo risale al 20 luglio 14431:

massariam unam, dictam de li Cursari…possidetur ad presens per supradictum Antonium Cursarum…(…una masseria detta dei Corsari … attualmente è in possesso del prima nominato2 Antonio Corsaro) …item clausorium unum, nominatum la Longa, iuxta clausorium dictum de li Cursari…(…parimenti un luogo recintato chiamato la Longa, presso il luogo recintato detto dei Corsari…)…usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Sancti Ysideri, inclusive, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fundata  et constructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clausorium olivarum Carbasii, inclusive, et massariam Nicolai Cursari, que fuit Iohannis de Thoma de Neritono…(…fino al luogo che si chiama Sarparea e procede attraverso la masseria di Sant’Isidoro, comprendendola, fino alla torre di Sant’Isidoro che è costruita sul territorio di detto feudo3, e  poi  corre attraverso  la  via chiamata Carbasio, fino all’oliveto di Carbasio, comprendendolo, e alla masseria di Nicola Cursaro, che fu di Giovanni Toma di Nardò…).

Il secondo documento comprovante la persistenza di interessi della famiglia nella stessa zona è del 1500 [C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 208]:

…et dicto limite curre per diricto verso lo ieroccho per la via per la quale se va da Nerito alla Spondorata, quale via e per la via de le olive de Munti di sanbiasi nominato Curano et al presente lo possede Filippo de Castello et de lo dicto lemitune de ierocco, ad ponente colla cum le terre de Sancto Luigi de li Filieri nominato la Perrusa et curreno fim ad Monte Milo et de Monte Milo curreno fino alle chesure de Cola Cursaro, al presente le possede Beatrice Cursara, et de lo cantene de dicte chesure curreno de la via chi vene de santo isidero ad Nerito…

Insomma, l’onomastico ha dato vita al toponimo (in linea con altri appartenenti a masserie) e, una volta tanto, gli avventurieri, con o senza coperture, non hanno nessuna colpa…

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1 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pgg. 117, 118, 120 e 121, passim.

2 Come proprietario della masseria Fortucchi.

3 Si tratta del feudo di Ignano citato in una parte precedente a quella del documento riportata.

Li Càfari: un’etimologia apparentemente complicata

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Siamo alle prese con un altro toponimo neretino. Preliminarmente diremo che quelli riferentisi al territorio extraurbano (o ex extraurbano) in alcuni casi (la maggior parte) sono legati al nome del proprietario, in altri a dettar legge è la specie vegetale più diffusa  e in altri ancora una caratteristica fisica del territorio.

I documenti più antichi su quello oggi in esame sono piuttosto scarni e non contengono indicazioni utili a collegare oltre ogni ragionevole dubbio l’attuale territorio con quello oggetto del passato possesso1. Un Bartholomeus Cafarus compare come testimone in un atto del 12 maggio 13632; Petrus Cafarus compare come già deceduto in un atto del 31 dicembre 14273; ancora più lapidarie (compaiono solo come testimoni) le presenze di Iohannes Cafarus in un atto del 19 febbraio 14034 e di Ioannes Cafarus in un atto del 1 febbraio 15185 col titolo di artium et medicine doctor, mentre Antonellus Caffarus nel 1500 risulta proprietario di una casa nel vicinio della chiesa di S. Barbara nel pittaggio di San Paolo6 e  Iohannes Cafarus compare come testimone in un atto del 23 maggio 15007.

Prezioso, invece, perché fa riferimento alla fabbrica e, comunque, con riferimenti topografici inequivocabili coincidenti con l’attuale ubicazione, è un atto del 15818 in cui i figli di Bartolomeo Cafaro vendono la masseria per 220 ducati al barone Francesco Antonio Carignani. Essa consiste in sei curti, una casa lamiata, terre fattizze e macchiose et uno paro altro de curti et una chesurella vicino S.to Stefano cum servitute carolenorum octodui cisterne alli Larghi di Carignano et aliis membris suisiuxta bona beneficialia ecclesie S.ti Stefani, iuxta terras dotales Jacobi Ingusci, iuxta terras dotales Jo: Antonii Nicolai de lo Abbate, iuxta olivas Ven.li monasterii S. Clarae, iuxta maxariam nuncupatam delli Nucci et alios.

Quanto fin qui detto consente di datare il fabbricato nella sua conformazione più antica che si conosca  almeno alla metà del secolo XVI°, di collegare il toponimo al nome del proprietario e di escludere, di conseguenza,  che esso abbia un’origine legata alla presenza significativa (fra l’altro non è detto che essa continui ai nostri tempi) di un’essenza. Avrebbe potuto indurlo a pensare  il nesso tumu càfaru usato a Muro Leccese per designare una specie di timo nano9; quanto alla sua etimologia (il Rohlfs non si pronuncia) tra mille dubbi (e forse suggestionati dal calabrese càfaru=friabile) penseremmo ad un adattamento latino del greco karfalèos10=arido; e questo, a complicare la situazione, avrebbe messo in ballo pure la terza possibilità teorica (caratteristica fisica del territorio).

Ma, come abbiamo visto, conta la parola, anzi lo scritto del notaio…

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1 In rete si legge che l’attuale masseria, trasformata in struttura ricettiva (foto di testa), risale al XVIII° secolo.

2 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pg. 32.

3 Angela Frascadore, op. cit., pg. 83: …iuxta vin(eam) heredum domini Petri Cafari (presso la vigna degli eredi di don Pietro Cafaro).

4 Angela Frascadore, op. cit. pag. 77.

5 Angela Frascadore, op. cit. pag. 176.

6 C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 174: …intus dicta civitate Neritoni…in dicto loco in vicinio ecclesie Sancte Barbare…est domus una…iuxta domum donni Antonelli Caffari…(nella detta città di Nardò nel luogo già detto [pittagio di San Paolo] nel vicinio della chiesa di S. Barbara…c’è una casa…presso la casa di don Antonello Caffaro).

7 Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1984, pag. 88.

8 ASL, Atti del notaio Cornelio Tollemeto di Nardò, 66/2 1581, cc. 164-166v.

9 Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, v.III, pag. 902. Cafari era una contrada, oggi quartiere, di Cutrofiano.

10 Probabile trafila: karfàleos>càrfalus>càfalus[(la caduta di –r– può essere stata indotta dalla successiva liquida (-l-)]>càfaru.

All’Atrium Kircherianum di Soleto la cucina del mare di Puglia

Non c’è probabilmente in tutto il Mediterraneo una tradizione gastronomica che, al pari di quella pugliese, sia riuscita a coniugare le risorse dell’entroterra con quelle del mare.

Protesa nell’Adriatico e nello Ionio con i suoi approdi e la sua marineria, la nostra regione ha robuste spalle agricole e zootecniche che ne emergono con tutto il loro portato di cereali, legumi e formaggi.

Interprete e profondo conoscitore di questo complesso binomio di terre e di acque è lo chef e scrittore Massimo Vaglio che venerdì 1 aprile prossimo, presso la suggestiva sede dell’Associazione Culturale Atrium Kircherianum di Soleto, presenterà al pubblico il suo libro “La cucina del mare di Puglia”: un’opera al contempo gradevolissima alla lettura e solidissima nel suo impianto professionale e scientifico in cui
l’autore racconta, con decine e decine di gustose ricette veracemente pugliesi, la storia di questo irresistibile contrappunto di odori e sapori. Freschi e guizzanti di rete, i gentili ospiti potranno cenare con pesci,
molluschi e crostacei che la flottiglia di casa Maruccia,
antica dinastia ittiologica di Castrignano de’ Greci, porterà a riva poche ore

Una mezza giornata nella masseria Bellimento, nel parco di Portoselvaggio

La Masseria Bellimento del Parco naturale della Regione Puglia di Portoselvaggio e Palude del Capitano

 

Antonio Bruno
La presentazione di Vincenzo Presicce

La presidente Elisabetta Dolce me lo presenta e mi dice che debbo assolutamente scrivere della sua esperienza. Io stimo molto Elisabetta, la ritengo un  tecnico agricolo e ambientale di valore e grazie a lei conosco un uomo dal sorriso pulito con un paio di baffi che fanno simpatia, è Vincenzo Presicce che insieme a suo fratello Giuseppe sono i proprietari della Masseria Bellimento.
Parto presto dalla mia San Cesario di Lecce e percorro la strada che mi porta a Copertino, poi da li in fondo passando dalla Masseria Pendinello della mia adolescenza sono arrivato a Sant’Isidoro e da questa spiaggia che ha accompagnato i miei ozi giovanili mi sono diretto verso Santa Caterina e li ho trovato la Strada Cucchiara dove al civico 177 ho potuto ammirare la Masseria.

Il sito della masseria
Nel sito http://bellimento.spaces.live.com/ ho letto che Bellimento è storia, tradizione, tipicità, genuinità, ricercatezza.
Bellimento è passione di chi ha creato un paradiso da vivere ed è amore smisurato di chi continua a tener alta la volontà di far durare un sogno.
Parco Marino, Parco Terrestre, Macchia Mediterranea, Palude Del Capitano, fanno da degno sfondo ad una famiglia da sempre dedita alla ricerca di gusti e sapori nuovi e pungenti…
Il nome Bellimento è paradossale, come tutto quanto accade nella vita. Era il luogo più brutto che ci potesse essere in agro di Nardò e , proprio per questo motivo è stato chiamato luogo di bellezza ovvero “Bellimento” o meglio Abbellimento.

La masseria Bellimento è estesa 20 ettari che vengono seminati con le foraggiere Loietto, Avena e Favino, ma Vincenzo e Giuseppe prendono in comodato dai proprietari dei dintorni delle terre per altri ei 50 – 60 ettari. Li aiutano 2 operai uno dei quali si occupa delle mucche e l’altro delle capre.

La famiglia Presicce
La famiglia Presicce intuisce qualcosa; dalla vecchia palude, dove d’estate soggiornava con la famiglia, Mario Presicce sentiva odori inebrianti di polline portato dal vento.
Timo, mirto, lentisco, avevano riempito la sua vita di sapori nuovi.

Così continua il racconto letto sul sito
Il timo, il mirto, il lentisco… Vaste distese di colori e profumi portati in

Antichi sistemi di copertura per le abitazioni salentine

Nardò nel 1732

di Fabrizio Suppressa

 

I motivi di una così diffusa tecnica di copertura sono da ricercarsi esclusivamente nell’esiguo costo dei materiali impiegati, rispetto alle ben più costose e complesse volte in muratura; ma ciò non significava affatto che tale tecnica sia stata in passato appannaggio delle architetture più semplici e povere. Sovente, anche i palazzi nobiliari possedevano all’ultimo piano tali coperture, anche se mascherate da alti frontoni, come ad esempio Palazzo Castriota a Melpignano, Palazzo Rescio a Copertino o tanti altri esempi, riconoscibili ai giorni nostri per l’ultimo piano a “cielo aperto”.

Anche la campagna non era da meno; nel libro dei conti della masseria S. Chiara in agro di Nardò, leggiamo infatti che nel 1684 si ebbe modo di rifare l’acconcio delle capanne, e per tale scopo venne chiamato un mastro dalla vicina città di Veglie[1]. Le capanne, ovvero gli elementi pertinenziali, quali abitazioni e magazzini, non erano i soli elementi realizzati con tali semplici tecniche costruttive. In alcuni casi, anche la torre, l’elemento fortificato al centro di ogni complesso masserizio, possedeva alla sua sommità due falde inclinate, anche se ciò comprometteva un’abile manovra di difesa piombante. Per rimanere in ambito neretino, questo è il caso della masseria Nucci; dove purtroppo dobbiamo constatare l’introduzione durante i lavori di ristrutturazione di tegole non appartenenti alla nostra tradizione costruttiva, stese al di sopra di una vistosa soletta in cemento armato su di una torre del XV sec. Un ultimo esempio è una particolare architettura spontanea nata dalla fusione degli elementi tipici di città e campagna: la caseddhra. Una costruzione a secco a pianta rettangolare con una stretta somiglianza all’immagine dei nostri trulli, ma al contrario di questi ultimi, non coperta da una falsa cupola bensì da un tetto formato da una rustica struttura di legno, canne e tegole.

caseddhra
Caseddhra (dis. F. Suppressa)

 

Le caratteristiche di deperibilità e fragilità dei materiali impiegati erano tali che ciclicamente si doveva provvedere allo smontaggio e alla ricostruzione del tetto. E’ difficile quindi trovare ai giorni nostri opere che abbiano più di cento anni. Forse l’unica eccezione è racchiusa all’interno delle mura del Santuario di San Giuseppe da Copertino; la costruzione eretta dal maestro Adriano Preite nel 1754 conserva intatta l’umile stalletta dove nel 1603 il Santo venne alla luce.

La tecnologia, come già detto, era semplice e rapida. Un sistema di travi di legno chiamati murali poggiante sulle esili pareti di tufo, ospitava in senso ortogonale un assito di tavole su cui gravitava il manto di tegole. Solitamente a causa del costo più elevato, si ricorreva ad un “surrogato” delle tavole di legno, ovvero un cannizzo su cui veniva posta della malta (mista a paglia o pula di grano) per uno spessore di circa cinque centimetri. Nonostante la tecnica era ad uso di ambienti più umili, la copertura incannucciata garantiva un apprezzabile isolamento termico (le canne palustri e la malta mischiata con paglia, sono infatti materiali sostenibili impiegati oggi nella bioedilizia). In caso di ampia superficie da coprire, la struttura lignea diveniva molto più elaborata, l’Arditi nel suo “L’Architetto in Famiglia”, edito a Matino nel 1894, ci ricorda le varie parti dell’intelaiatura, che a seconda della funzione prendono il nome dialettale di monaco, braccia, razze, asinello e panconcelli.

Copertura Incannucciata
Copertura incannucciata, masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Suppressa)

 

Altrettanto curioso è il termine dialettale usato per indicare la tegola, ovvero l’imbrice (irmice o ‘mbrice in alcune varianti). L’assonanza ricorda la parola embrice, tegola piatta diffusa nell’area tirrenica nella tradizionale copertura alla romana, eppure la nostra tegola dalla forma concava corrisponde alla parola italiana coppo. In soccorso interviene il Marciano (anch’egli abitava in una casa con tetto a capanna), che nel capitolo del suo libro dedicato al regno minerale ci scrive quanto segue:

“Si trova anche in questa Provincia la Rubrica Sinopia eccellentissima, e la fabbrile dell’una e dell’altra specie in abbondanza, e l’argilla, ovvero creta bianca, della quale si lavorano e fanno i tetti per coprire le case, che il volgo chiama imbrici, imitando l’etimologia ed il nome latino Imbrices, ab imbrium defensione, (..)”[2].

Tali laterizi venivano realizzati in centri urbani specializzati nelle produzioni ceramiche, come Cutrofiano, Grottaglie, Lucugnano e San Pietro in Lama; non a caso, quest’ultima località era conosciuta in passato anche con il nome di San Pietro degli èmbrici[

A fine Ottocento, con l’aumento dell’attività estrattiva dei materiali edilizi e il perfezionamento delle tecniche costruttiva inizia la rapida scomparsa dallo scenario urbano di questo tipo di copertura. Il cocciopesto, un impasto di malta e cocci finemente triturati, utilizzato per secoli per impermeabilizzare i terrazzi di edifici di notevole importanza, viene rapidamente sostituito dalla tecnica del lastrico composto da chianche in pietra di Cursi e cemento; tuttora abilità fiore all’occhiello delle maestranze salentine.


[1] Antonio Costantini, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Galatina, 1984, p. 74

[2] Spero in una conferma Prof. Polito!

 

Nardò. Vicende della masseria e del feudo di Ogliastro

 

di Marcello Gaballo

Sulla strada Nardò-Copertino, a circa quattro chilometri da quest’ ultima, da secoli esiste la masseria Ogliastro o Olivastro, comunemente nota come Ghiassciu, tra le più antiche del nostro territorio.

Raggiungibile mediante un tratturo alberato con maestosi pini, e per questo ben visibile da gran distanza, rappresenta un altro dei più bei complessi masserizi, questa volta con tipologia di villaggio sviluppatosi in più riprese attorno ad una torre tre-quattrocentesca.

viale alberato per cui si giunge alla masseria Ogliastro, visibile sullo sfondo (ph M. Gaballo)

 

È questa l’ elemento principale del casale, già esistente ed abitato nel medioevo, posta tra il cortile ed il giardino, imponente ma ben slanciata, con importante arco ricavato nel suo spessore e con decorazioni scolpite nella parte più alta, dove trova posto anche uno stemma illeggibile.

Le decorazioni vengono riprese sul massiccio fabbricato cinquecentesco, posto a destra della torre ed adibito a deposito, anche questo singolare per l’ incredibile spessore murario e per le interessanti finestre centinate, molto simili a quelle della masseria Trappeto nell’ Arneo.

I diversi locali di lavoro e le numerose abitazioni del personale, gli abbeveratoi, le stalle, i fienili, le poderose mura perimetrali a secco, il portone d’ ingresso e l’ immancabile chiesetta, testimoniano la frenetica attività masserizia nelle diverse epoche, che perciò ben meritava di proteggere la sua produzione dalle incursioni barbaresche prima e dai briganti dopo.

In discrete condizioni statiche e altrettanto discreto stato conservativo è disabitata, ridotta a solo deposito di materiale ed attrezzature agricole.

Rimando ai pochi testi che trattano di questa ed altre masserie per ulteriori notizie sull’ architettura e sulle dinamiche agricole del complesso, comunque poco noto e meritevole di adeguata attenzione, specie in tempi come questi in cui si auspica il rilancio dell’ agriturismo salentino.

Quasi del tutto sconosciute sono invece le vicende storiche di questa masseria e dell’ omonimo feudo, che si estende sino alla strada Nardò-Avetrana, compreso tra quelli di Puggiano, Castro e S. Andrea.

Ogliastro compare per la prima volta in documenti del 1272, essendo di proprietà dei De Bellovedere, dai quali passò poi agli Arena Conclubeth, che ancora lo possedevano nel 1377.

Tornato alla Regia Corte fu venduto a Roberto Capano, quindi a Orazio Tuttavilla, da cui ai Minutolo, che nel 1516 lo cedettero al napoletano barone di Barbarano Giancola Capite.

Come sempre sono gli atti notarili a fornirci i chiarimenti per le vicende nei secoli successivi al XV. Da alcuni di essi infatti apprendiamo che dall’ ultimo proprietario il feudo fu venduto ad un altro napoletano della famiglia Gaetani, imparentato con gli Acquaviva di Nardò, la cui figlia lo portò in dote al marito Spinetto Maramonte, leccese, col quale generò, tra gli altri, Marsilio, che risulta barone di Ogliastro già nel 1572 e almeno per un altro decennio.

Nel 1582 infatti Marsilio lo vende al barone Vitantonio De Pantaleonibus …che compra quel castello per ducati diece mila cinque cento colla bagliva, e colla giurisdizione civile, criminale e mista, quindi per 10.500 ducati, cum bajulatione del Banco di Giustitia di Napoli, come si legge nei privilegi del duca di Ossuna spediti nello stesso anno.

Tre anni dopo il casale viene affittato a Massenzio Martina da Lequile e la masseria, a pieno regime lavorativo, risulta provvista di forno, mulino, apiario, con diversi terreni, vigneti, oliveti e pascoli, oltre a possedervi lo jus pasculandi et herbagiorum, consistente pure in aquis, jure aquarum, paludibus, domibus, jardenis, curtibus, puteis, cisternis.

Vitantonio ebbe come discendenti solo delle femmine e alla primogenita Antonia donò il feudo e la masseria, per portarli in dote al suo secondo marito Lucantonio Personè (è di entrambi infatti lo stemma partito, tuttora visibile sul portone d’ ingresso alla masseria).

Ai Personè il feudo rimase per tutto il periodo successivo e sino all’ eversione della feudalità, persistendo invece il possedimento della masseria, che nel 1934 è di Francesco Personè; avutolo per eredità della madre Elena di Michele Personè.

In tale anno, come risulta negli atti dell’ Intendenza di Finanza conservati nell’ Archivio di Stato di Lecce, la si dichiara con estensione di 335 ha e viene stimata del valore di un milione di lire. A causa di un grave dissesto finanziario, che aveva fatto perdere alla nota famiglia neritina moltissime altre proprietà altrettanto consistenti, la masseria fu venduta all’ asta e mai più ricomprata dagli eredi o parenti… ma questa è storia dei nostri giorni.

Sancta Maria de Tollemeto nella masseria Càmara in Collemeto

di Massimo Negro

Immaginate di vivere in una vecchia masseria nel Salento, circa quarant’anni fa. Una masseria con mura spesse, possenti. Anche quelle interne.
Immaginate di trovarvi in una stanza, non una stanza anonima perché la porta di ingresso lasciava pensare ad un’antica chiesetta, ma completamente spoglia con mura imbiancate a calce. In questa stanza una parete, ogni volta che vi appoggiavate, poggiavate qualcosa o battevate con il martello per un chiodo o altro, suonava come vuota.  Un suono strano, diverso rispetto a quello delle altre pareti spesse della masseria.
Finchè un bel giorno presi dalla curiosità, vi siete armati di attrezzi e avete deciso di buttar giù il muro per vedere cosa nascondesse quella parete.
Man mano che i mattoni venivano giù vi comparivano dinanzi colori, aureole, facce di Santi. Quando infine l’intera parete era stata abbattuta vi siete trovati dinanzi un’autentica meraviglia. La Camara.

La Camara è il nome di una masseria di Collemeto, frazione di Galatina, ormai inglobata nel centro abitato. La storia è pressa poco per come ve l’ho raccontata. Circa quarant’anni fa ci fu il ritrovamento dell’affresco che potete ammirare nelle foto.

ph Massimo Negro

 

La Camara rappresentava in antichità il cuore e il centro della zona dove ora sorge l’attuale Collemeto. La masseria ingloba la cappella di Santa Maria di Tollemeto detta anche Camara. Sul sito sono state scritte anche un paio di tesi ed è stata visitata più volte da studiosi non solo locali.

La cappella è privata , come la masseria che nel frattempo è stata suddivisa tra i figli di chi ritrovò casualmente gli affreschi.  Il proprietario è sempre disponibile ad aprire la masseria per far visitare la cappella.

Gli affreschi della Camara sono un gioiello ritrovato ma che si è fatto in tempo a perdere o quasi, se non si corre subito ai ripari.

 

Le foto del locale e dell’affresco sono visibili su http://www.youtube.com/watch?v=6Y9veElKWaQ

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