Aracne, le tarantate e un falso mito

LA STORIA DI GINEVRA, UNA TARANTATA BRINDISINA DI FINE SETTECENTO, CONFUSA CON IL MITO DI ARACNE

 

di Gianfranco Mele

 

Come noto, il mito di Aracne raccontato da Ovidio ne Le Metamorfosi narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno.[1]

Tavola di Gustavo Dorè per illustrare il mito di Aracne celebrato da Dante (Purgatorio, XII, 43-45); immagine tratta da http://www.worldofdante.org/pop_up_query.php?dbid=I301&show=more.

 

L’unica versione del mito alternativa a quella che ci racconta Ovidio, è quella che ci perviene dalla lettura di alcuni frammenti di un’opera di Nicandro, la Theriaca, nei commenti inseriti da uno scoliaste che secondo alcuni sarebbe da identificare in Teofilo Zenodoteo. In tale versione, si narra dell’incesto tra Aracne e suo fratello Falance; Athena punisce per questo motivo i due fratelli, trasformandoli in ragni.

Sul web (e non solo sul web, ma addirittura in alcuni scritti, accademici e non, di studiosi del tarantismo) circola una terza versione senza fonte alcuna (in alcuni casi viene addirittura riportata, con duplice errore, come la storia raccontata da Ovidio): narra (copio e incollo da uno dei tanti siti che riportano tale versione, a loro volta copiandosi e incollando a catena) di “una giovane ragazza, Arakne, la quale fu sedotta da un marinaio che, dopo la prima notte d’amore, partì e da allora ella visse in attesa del ritorno del suo amore. Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata da Zeus, il quale voleva la fanciulla per sé, così coloro che erano a bordo perirono affogati. Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa e si uccise. Così, alla morte della giovane, Zeus s’infuriò e la rimandò in terra per restituirle il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola”.

In molti di questi siti, tale versione giunge ad essere l’unica citata, o, come si è detto, addirittura ad essere attribuita ad Ovidio e spacciata per quella del poeta latino.

La ritrovo in un blog dedicato alla pizzica, la ritrovo sulla pagina ufficiale del gruppo Zimbaria,[2] su pagine gestite da cultori e musicisti di pizzica, su tesine di laurea pubblicate online, su un lavoro di una docente dell’ Università di Bologna apparso su una rivista specializzata,[3] sulla pagina Wikipedia dedicata alla “pizzica”,[4] e su una innumerevole serie di pagine e blog aventi per oggetto pizzica e tarantismo.[5] Mi chiedo da dove mai la abbiano pescata tutti costoro, visto che nessuno ne indica fonti. Successivamente, noto (e ne trovo conforto) che la questione non è sfuggita ad Armando Polito, che in un suo articolo apparso qualche anno fa su questo sito web di Fondazione Terra d’Otranto, si accorge di questa incredibile confusione e sostituzione.[6]

Una singolare contorsione esplicativa e interpretativa la compie Annarita Zazzaroni, che scrive: “Il tarantismo pugliese è, infatti, legato anche a una vera e propria riscrittura del mito di Aracne: alcuni fanno risalire la nascita della taranta alla trasformazione in ragno di una fanciulla, Arakne, che fu sedotta da un marinaio e abbandonata dopo una notte d’amore. Per anni Arakne attese il ritorno del suo amato ma, quando questo avvenne, la nave del ragazzo affondò durante l’attracco. Arakne era folle di dolore per aver perso per sempre l’uomo che amava. Fu così che Zeus la trasformò in taranta, perché potesse vendicarsi perpetuamente delle sofferenze subite.“ [7]

Ma da quando in qua, e perchè, “il tarantismo pugliese” avrebbe riscritto il mito di Aracne? Da dove origina dunque questa versione, che avrebbe l’aria di una sorta di leggenda metropolitana (o internettiana), se non fosse che la storia è così singolare e avvincente da pensare (come poi di fatto risulta) che è stata presa in prestito da altre fonti[8] (che però non sono, come vedremo, così antiche)?

La risposta sta in un incredibile scambio della paternità e delle origini del racconto, che ci viene trasmesso attraverso gli scritti di un autore francese ottocentesco, Antoine-Laurent Castellan,[9] e che nella sua versione originale non parla affatto di Aracne (né del relativo mito) ma riferisce di una storia, appresa durante un suo viaggio a Brindisi, che ha come protagonisti una ragazza di nome Ginevra e un marinaio di origini albanesi. La storia è perfettamente identica a quella raccontata nel web (e là spacciata come “la storia di Arakne”): racconta dell’ incontro e dell’amore tra la fanciulla e il marinaio, della ripartenza del marinaio, della attesa della ragazza per il ritorno del suo amato, della barca che finalmente un giorno si avvicina alla costa mentre la fanciulla attende, racconta del segnale, del tragico affondamento poco prima che la barca possa approdare, della disperazione della fanciulla che da quel momento “si trasforma in ragno” (o meglio, diviene tarantata)! Ma (“piccoli” e unici particolari discordanti): la fanciulla non si chiama Arakne, ad affondare la barca non è “Zeus” ma una galea (altrimenti detta “galera”) barbarica, e la tragedia si snoda in Brindisi alla fine del Settecento. Castellan la riporta come un fatto realmente accaduto, e da lui appreso in seguito ad una casuale occasione in cui egli assiste come spettatore alla danza di una tarantata.

l’ opera di Castellan
tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Fabbricati di Brindisi

 

Questa tarantata, è proprio lei, Ginevra, quella fanciulla che aveva perso il suo amore in quella straziante tragedia. E’ la gente del posto a raccontare a Castellan la storia, e a spiegargli come la ragazza sia diventata tarantata a seguito del trauma subito per la perdita del suo amore. O meglio, e per la precisione: nessun ragno aveva mai morso Ginevra, ma le era stato lasciato credere che così fosse stato. Il trauma per la perdita del suo innamorato era stato così forte che Ginevra aveva rimosso il penoso ricordo dell’accadimento, portandosi però addosso un malessere che aveva rielaborato attribuendolo al morso del ragno. Era stata lasciata volutamente in quella convinzione, per non farle riaffiorare il terribile ricordo, e per non farle perdere la speranza di poter guarire.

Nel classico stile del rimescolamento orale (che oltre che di epoche remote è tipico anche dell’epoca del web), la storia diventa “il Mito di Arakne”, e viene infilato persino un Zeus nel racconto, a “sostegno” della derivazione antica e mitologica del racconto.

Una possibile matrice della confusione e del rimescolamento può essere nel fatto che il Castellan nel suo scritto utilizza il termine araigne (che in italiano è ragno: ciò è stato forse sufficiente a scambiare quell’ araigne per la Aracne – altrimenti detta Aragne – mitologica). Il resto, lo han fatto la sprovvedutezza di chi ha fatto circolare a ripetizione la storia confondendo epoche, personaggi e fonti, e, di sicuro, quell’alone poetico e leggendario che caratterizza l’avvincente, struggente e bellissimo racconto di Castellan.[10]

tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Colonna di Brindisi

 

A seguire, trascrivo integralmente il racconto del Castellan traducendolo in italiano (l’opera in lingua originale è consultabile e scaricabile anche attraverso Google books). Premessa: Il Castellan approda in Italia nell’agosto del 1797, e si ferma prima a Otranto, poi a Brindisi. A Brindisi, accade che:

“Mentre passavamo sulla banchina del molo, siamo stati fermati dalla folla, che si accalcava sulla porta di una casa dove si sentiva della musica. Ci siamo fatti spazio, e anche noi siamo invitati ad entrare in una stanza bassa che era servita per diversi anni, e ancora lo era oggi, da scenario e ambiente per la cura del morso della tarantola. Le pareti di questa ampia stanza erano adornate con ghirlande di foglie, mazzi di fiori e rami di vite carichi dei loro frutti, piccoli specchi e nastri di ogni colore erano là sospesi; molta gente era seduta intorno all’appartamento, e l’orchestra occupava uno degli angoli, ed era composta da un violino, un basso, una chitarra e un tamburello. C’era una donna che ballava: aveva solo venticinque anni ma ne dimostrava quaranta; i suoi lineamenti regolari, ma alterati da eccessiva smodatezza, i suoi occhi scuri, il suo aspetto triste e abbattuto, contrastavano con la sua ricercata e variegata decorazione di nastri e pizzi d’oro e d’argento; le trecce dei suoi capelli erano sparpagliate e un velo di garza bianca le cadeva sulle spalle; danzava senza lasciare la terra, con nonchalance, girando costantemente su se stessa e molto lentamente; le sue mani reggevano le estremità di un fazzoletto di seta che faceva oscillare sopra la sua testa, e alcune volte lo gettava indietro: in questo stato, ci offriva assolutamente la posa di quelle baccanti che vediamo su bassorilievi antichi.

L’aria che si suonava in quel momento era languida, trascinata sulle cadenze, e si ripeteva da capo a sazietà. Poi il motivo è cambiato senza interruzioni; questo era meno lento, e ad un certo punto divenne più vivace, precipitoso e saltellante. Questi brani musicali formavano una successione di rondò, o ciò che chiamiamo pot-pouri. Si passava alternativamente dall’uno all’altro; finalmente si tornava al primo, per dare un po ‘di riposo alla ballerina, e permetterle di rallentare i suoi passi, ma senza farla mai smettere di ballare; lei seguiva sempre il movimento della musica; e come quel movimento si animava, si muoveva e diventava più vivace; ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra scolorite, la tristezza era sempre stampata sul suo sguardo, talvolta rivolto verso il soffitto, di solito verso il suolo, oppure a volte muoveva gli occhi a caso fissando il vuoto, anche se abbiamo cercato di distrarla con ogni mezzo. Le offrirono fiori e frutti; li tenne per un momento tra le mani e li gettò in seguito; furono anche presentati fazzoletti di seta di diversi colori; lei li scambiava con il suo, li agitava in aria per qualche istante, li rendeva, prendeva gli altri. Diverse donne là presenti hanno successivamente ballato con lei in modo da attirare la sua attenzione, e cercavano di ispirarle allegria ma senza successo. Sembrava sottoporsi a quell’esercizio contro voglia ma spinta da una sorta di forza irresistibile, e ciò dovette stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua fronte; il suo petto era ansante, e ci hanno detto che questo stato sarebbe terminato con una sospensione totale delle facoltà; che poi era necessario portarla a letto; che il giorno dopo si sarebbe svegliata ricominciando a a ballare, e che lo stesso rimedio sarebbe stato impiegato nei giorni successivi, fino a quando non le avrebbe dato sollievo.

Questo spettacolo aveva qualcosa di doloroso; e mi ha colpito ancor più fortemente quando ho appreso la storia di questa interessante paziente. Non era stata punta dalla tarantola, sebbene ne fosse convinta; e veniva lasciata nella sua errata convinzione solo per nascondere e per non far dimenticare la vera causa del suo stato, e per non privarla di ogni speranza di cura. Ecco l’origine dell’alienazione di Ginevra; questo è, credo, il nome della malata. All’età di vent’anni, pur non essendo la ragazza più carina fra quelle della sua età, si faceva notare per avere una fisionomia provocante e molto espressiva; la sua bocca era rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di fuoco; la sua altezza aveva più duttilità e abbandono della grazia; il suo carattere, per quanto buono e sensibile, era particolare; spesso gioiva fino al delirio, si abbandonava quindi a una tristezza vaga e senza motivo; esagerata in tutti i suoi sentimenti, favoriva l’amicizia per le sue compagne fino all’eroismo, e la sua indifferenza verso gli uomini era simile al disprezzo: quindi doveva esser prevedibile che che se avesse amato un uomo una volta, ciò sarebbe accaduto con veemenza e per tutta la vita. All’età di vent’anni, la sua ora non era ancora arrivata, ma squillò troppo presto per la sua disgrazia. Un giorno stava camminando assorta nei suoi pensieri malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica; l’aria era stata rinfrescata da una tempesta e il mare, che era ancora agitato, ondeggiava sulla spiaggia. Un brigantino (piccolo veliero n.d.r.) a metà frantumato era appena approdato: aveva a bordo un uomo. Partito dal porto di Durazzo per stendere le reti, verso il centro del canale una raffica di vento aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto tra le sue mani e, in balìa delle onde, la sua barca era stata lanciata sulle rive dell’Italia. Sopraffatto dalla stanchezza, morente di bisogno, deplorava la sua disgrazia, così la ragazza gli andò incontro in aiuto, gli offrì una mano e si offrì di portarlo a casa di sua madre, che esercitò verso di lui con slancio i doveri dell’ospitalità.

Questo albanese era giovane; era infelice; sembrava ragionevole e grato; Ginevra credette di essersi abbandonata al piacere puro e disinteressato che la carità fornisce, mentre in realtà l’amore si era già insinuato nel suo cuore nelle vesti di pietà. Tuttavia, il giovane albanese, combattuto dal desiderio di rivedere il suo paese, e dal tenero interesse che lo lega alla sua benefattrice, finalmente parla della sua partenza. A questa parola, come una striscia di luce colpisce Ginevra facendo chiarezza sui suoi sentimenti; riconosce in essa l’amore, per l’angoscia che l’idea di una separazione, lontana dal suo pensiero, inizia a sentire; onesta, ma appassionata, non ha più il controllo di nascondere la sua confusione e lascia persino sfuggire tutta la violenza dei suoi sentimenti; ma esige da questo straniero che adora, il sacrificio dei legami indissolubili con il suo paese d’origine. Senza esitazione, lui acconsente. Quindi lei stessa favorisce la sua partenza dall’Italia, dove non può stabilirsi senza consultare la sua famiglia. Il giorno del suo ritorno è fissato, e Ginevra deve aspettarlo sulla costa, proprio nel punto in cui gli ha salvato la vita.

Fedele alla sua parola, lei va là ben prima dell’ora stabilita; lei conta gli istanti; fluiscono con una lentezza disperata. Intanto, il sole è già al tramonto: preoccupata, cammina sulla riva, gli occhi rivolti verso il mare: lei interroga le onde; il minimo soffio di vento, la minima nube le fa temere una nuova tempesta. Il giorno sta cadendo, il suo cuore è schiacciato e il crepuscolo, di cui la natura si ricopre, oscura, disturba le sue idee; infine, scopre un punto nero all’orizzonte: avanza; è una barca: si precipita alla sommità di una roccia e scuote un velo cremisi, il segnale concordato. Immediatamente lo stesso segno è attaccato all’estremità dell’albero; lei non può più dubitarne, questa barca le porta il suo amante.

Infatti, l’ albanese si era imbarcato, felice, in una barca a remi decorata con tutti gli attributi della gioia. Gli alberi erano decorati e le vele erano di un bianco brillante. Alcuni musicisti, seduti sulla panca di poppa, suonavano con accenti felici; e la sua famiglia, che l’albanese stava lasciando per stabilirsi nel paese di sua moglie, volle affidare a Ginevra la cura della felicità del figlio, il deposito della sua modesta fortuna e il mobilio necessario per la giovane famiglia.

La barca avanza come in trionfo verso le coste dell’Italia, già il suono degli strumenti raggiunge l’orecchio di Ginevra, tocca la superficie delle onde, calma le sue ansie e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. L’imbarcazione si sta avvicinando: l’amore rende i suoi occhi più penetranti; lei distingue, riconosce suo marito che tende le braccia; lei pensa di sentirlo, e questa illusione rapisce una risposta.

Ma improvvisamente un suono sinistro fa cessare le belle melodie; una galera barbarica esce da dietro una roccia sporgente, che la aveva nascosta alla vista degli occhi di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo, cadono tutti in una volta e le danno un movimento rapido. Come l’avvoltoio, si libra sopra l’aria e si dirige verso la sua preda. A questa vista, non meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un cupo torpore; il terrore incatena le sue facoltà, i suoi occhi solo conservano un residuo di vita, seguono i movimenti contrari delle due barche.

La fragile barca sta fuggendo, e grida di paura e dolore sono sostituite agli accenti gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese esorta i suoi compagni ad una resistenza che risulterà vana: le ombre della notte avvolgono questa scena di desolazione e la nascondono agli occhi della sfortunata Ginevra, che cade impotente sulla riva.

Molto tempo dopo, Ginevra esce come da un sonno profondo: apre gli occhi; ma la luminosità del giorno li fa chiudere subito. Non può muovere le sue membra, irrigidita dal freddo del mattino. Eppure le sue idee, dapprima confuse, le raccontano la scena del giorno prima; poi, disorientata, fa risuonare la costa con la sua disperazione; lei esamina l’estensione del canale; nessun imbarcazione solca la superficie; non c’è più felicità o speranza per lei; i suoi sensi si alterano, la sua mente si smarrisce e lei precipita nel mare dalla cima della roccia.

I pescatori la videro, si affrettarono a venire in suo aiuto e la portarono a casa di sua madre. Questo atto di disperazione fu seguito da una lunga apatia e da uno sconvolgimento che degenerò in alienazione della mente. Ginevra aveva dimenticato la causa delle sue pene; lei attribuiva le sue condizioni al pungiglione della tarantola. Questa idea è stata mantenuta, facendole sperare che l’esercizio della danza e gli accordi della musica, che ha veramente placato l’agitazione dei suoi sensi, la abbia finalmente guarita da questa mania malinconica.”

 

[1]
Ovidio, Metamorfosi, IV

[2]    http://www.zimbaria.it/la-pizzica/

[3]    Annarita Zazzaroni, Il ragno che danza. Il mito di Aracne nel tarantismo pugliese, In “Amaltea: Revista di Mitocrìtica”, 2010 (vol. 2), pp. 169-183.

[4]    Nella attuale e più recente versione (magari alla prossima sarà omessa) di Wikipedia alla voce “Pizzica” è riportato un ennesimo copia-incolla della versione che circola sul web e della quale ho preso a caso da altro sito la parte riportata in corsivo in questo scritto.

[5]    Per citarne solo alcune: http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/pizzica_tarantismo150609.html ; http://www.artcaroli.it/opere/arakne/ ; https://www.youreporter.it/foto_la_pizzica_e_le_antiche_origini_del_tarantismo/ ; http://www.storienapoli.it/2014/12/06/il-tamburello-e-la-tarantella/ ; http://pugliaierieoggi.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=14:il-salento&catid=2:territorio&Itemid=20 ; https://pizzica.wordpress.com/ ; https://vivereinsalento.weebly.com/blog/archives/02-2018 ; http://enosud.it/corso-di-pizzica-pizzica/ ; https://sites.google.com/a/student.unife.it/taranta/un-p-di-storia ; http://www.briziomontinaro.it/node/156

[6]    Armando Polito, Aspettando la Notte della Taranta (¼): Aracne, Fondazione Terra d’Otranto, luglio 2014, https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/aracne/

[7]    Annarita Zazzaroni, op. cit., pag. 170

[8]    Una laureanda in Lettere dell’ Università di Torino si accorge delle convergenze tra il racconto fornito dalla Zazzaroni e l’opera del Castellan, ma prendendo per buona e originale la versione (senza fonti) del mito con la storia di Zeus, Arakne e il marinaio, non riesce a far derivare quest’ultima da una storpiatura della storia raccontata dal Castellan. Così, finisce con il validare e conferire ancor più valore alla versione-fake: Vanessa Elena Cerutti, La danza del ragno e la sua evoluzione. La tradizione ritrovata e reinterpretata, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, pp. 49-51

[9]            Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pp. 83-91

[10]  Talmente suggestivo ed evocativo, che si presta bene ad essere “pensato” in chiave mitologica o leggendaria, o a far ipotizzare (come qualcuno ha fatto) che non sia autentico ma frutto della fantasia dell’autore o della sua trasposizione o adattamento di altre leggende. Sono andato frettolosamente alla ricerca di similitudini: per alcuni versi può far tornare in mente la storia di Odisseo e Nausicaa, o l’ antichissima storia egiziana del “marinaio naufragato”, o ancora, e forse con più elementi in comune, una storia ambientata in Liguria nel medioevo intitolata “Il picco spaccato” (viene raccontata nel 1847 da Pietro Giuria – nella raccolta Tradizioni Italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell’Italia – che la presenta come un racconto tipico della tradizione dei luoghi). Ciascuna di queste storie contiene però varianti fondamentali da discostarsi notevolmente rispetto a quella raccontata dal Castellan.

Aspettando la Notte della Taranta (1/4): Aracne

di Armando Polito

immagine tratta da http://mw2.google.com/mw-panoramio/photos/medium/27149023.jpg
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Manca poco alla Notte della Taranta,  l’evento principe dell’estate salentina. Fervono i preparativi e pure io nel mio piccolo mi do da fare con questa miniserie in quattro puntate.

Com’è noto il tarantismo ha ispirato milioni di pagine e non ci si poteva certamente lasciar sfuggire l’occasione di cercare a tutti i costi qualche collegamento con il mito di Aracne. Laddove, poi, qualcosa non quadra c’è sempre la possibilità di formulare ipotesi più o meno fondate. Il guaio è quando queste ipotesi vengono riprese acriticamente e vengono disinvoltamente spacciate come dato scientificamente certo.

È proprio il caso della nostra Aracne, per la quale letture frettolose hanno portato, poi, sprovveduti lettori, suggestionati anche da alcuni testi di canzoni popolari e probabilmente dall’assonanza tra Aracne e Arianna, ad inventarsi una variante del mito (come in http://www.sagresalento.com/pizzica/10-pizzica-e-tarantismo.html), guardandosi bene dal citare le fonti ed usando la parola magica leggenda …, per cui Aracne  fu sedotta da un marinaio che partì dopo la prima notte d’amore, e da allora visse in attesa del ritorno del suo amore. Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata e coloro che erano a bordo vennero uccisi. Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa. Così, alla morte della giovane, Zeus la rimandò in terra per restituire il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola.

Posso affermare senza ombra di dubbio e tema di smentita che quello di Aracne è uno dei pochi miti tramandatoci in un’unica versione, per di più da un unico autore, Ovidio (43 a. C-18 d. C.), nei versi 1-145 del libro VI delle Metamorfosi, che di seguito traduco:

La dea tritonia (Pallade o Atena, identificata poi dai Romani in Minerva, nata sulle rive del lago Tritone, in Africa) aveva prestato orecchio a queste parole (delle Muse) ed aveva approvato il canto e l’ira delle Aonie (appellativo delle Muse perché in Aonia, cioè in Beozia, avevano la loro sede). Allora tra sé: “ Lodare è poco; sia lodata anch’io e non permetta che la mia divinità sia disprezzata senza punizione. E volse la sua attenzione al destino di Aracne di Meonia, che aveva sentito non voler cedere a lei nelle lodi per l’abilità nel lavorare la lana. Essa non era famosa né per il luogo né per la famiglia d’origine ma per la sua arte. Suo padre, Idmone di Colofone, tingeva le assorbenti lane con porpora di Focea. La madre era morta, ma anche essa era di origine plebea e della stessa condizione del marito. Tuttavia (Aracne) con la sua arte si era fatto un gran nome per le città della Lidia, sebbene, essendo nata da modesta famiglia, abitasse nella piccola Ipepe. Per vedere i suoi capolavori spesso le ninfe del Timolo lasciarono i vigneti del loro Timolo (o Tmolo, monte della Lidia), le ninfe abbandonarono le loro onde del Pattolo (fiume, sempre della Lidia). Né piaceva solo ammirare le vesti confezionate  ma anche l’esecuzione del lavoro, tanto alto era il livello della sua arte. Sia che avvolgesse la lana rozza nei primi gomitoli o con le dita facesse avanzare il lavoro o con lungo gesto sfilacciasse, dopo averle afferrate di nuovo le lane simili a nuvolette o girasse il tondo fuso con l’agile pollice o ricamasse, avresti capito che era stata istruita da Pallade. Tuttavia lei (Aracne) lo nega e offesa da una così grande maestra dice: “Gareggi con me; non c’è nulla che io, una volta vinta, rifiuti”. Pallade si traveste da vecchia, copre le tempie con capelli bianchi mentre un bastone sorregge gli arti malfermi. Allora così comincia a dire: “L’età avanzata non ha tutte cose da evitare: l’esperienza viene dagli anni tardi. Non disprezzare il mio consiglio. La massima fama tra le mortali nel lavorare la lana sia cercata da te; riconosci la superiorità della dea e con voce supplichevole, temeraria, chiede il perdono per le tue parole: essa concederà il perdono a chi lo chiede”. (Aracne) la guarda torvamente, lascia il lavoro iniziato e, trattenendo a stento la mano e tradendo nel volto l’ira, con tali parole risponde a Pallade che ancora non si è rivelata: “Te ne vieni tu debole di mente e provata dalla lunga vecchiaia. E nuoce troppo troppo l’aver vissuto a lungo. Queste parole le ascolti tua nuora, tua figlia, se ne hai una. So consigliarmi bene da sola. Perché tu non creda di avermi giovato col tuo consiglio, non ho cambiato parere. Perché costei non viene qui? Perché evita questo confronto?”. Allora la dea disse: “È venuta” e fece scomparire l’aspetto senile e mostrò Pallade. Le ninfe e le donne di Migdonia onorano la dea, solo Aracne non rimase atterrita. Tuttavia arrossì e l’improvviso rossore le segnò suo malgrado il volto e di nuovo svanì, come l’aria suole divenire purpurea al primo apparir dell’aurora e dopo breve tempo schiarirsi al sorgere del sole. Insiste nell’atteggiamento assunto e per brama di stupida gloria precipita verso il suo destino; infatti la figlia di Giove (Pallade) non rifiuta né l’ammonisce di nuovo né ormai rinvia la gara. Non c’è indugio, si sistemano ambedue frontalmente e con sottile filo tende ognuna il suo ordito, la tela è congiunta al subbio, la canna tiene distinti i fili; la spola viene inserita in mezzo ai raggi appuntiti, cosa che fanno le dita, e i denti intagliati nel pettine battuto comprimono la trama passata tra i fili. Entrambe si affrettano e con la veste abbassata sul petto muovono le esperte braccia mentre l’impegno appassionato inganna la fatica. Lì viene tessuta anche porpora che ha sentito la caldaia di Tiro e tenui ombre dalle leggere sfumature, come l’arcobaleno con i raggi del sole rifratti dalla pioggia suole dipingere il lungo cielo di un grande arco; sebbene in esso risplendano mille colori diversi, tuttavia lo stesso passaggio sfugge agli occhi che osservano, a tal punto quelli contigui si somigliano, gli estremi differiscano. Lì viene inserito nei fili pure duttile oro e sulla tela viene rappresentata un’antica storia. Pallade raffigura il colle di Marte sulla rocca di Cecrope (primo re mitico di Atene) e l’antica contesa sul nome da dare alla terra. Sei dei da una parte, sei dall’altra con Giove al centro siedono con augusta gravità su alti scanni. Un aspetto tutto proprio contraddistingue ciascuno degli dei: l’immagine di Giove è quella di un re.  Fa che vi stia il dio del mare e colpisca col lungo tridente l’aspra roccia e dal mezzo della ferita del sasso balzar fuori il mare, per aggiudicarsi con questo dono la città. A se stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo per la testa, il petto è protetto dall’egida e rappresenta la terra mentre percossa dalla sua lancia genera la creatura del biancheggiantecon le bacche e gli dei che guardano stupefatti; fine dell’opera la (sua) Vittoria. Tuttavia, affinché la rivale di lode capisca dagli esempi quale premio possa sperare per così folle audacia, ai quattro angoli aggiunge quattro (altre) gare, vivaci nel loro colore, di immediata comprensione nel breve tratto. Un angolo mostra Rodope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo corpi mortali che attribuirono a sé i nomi dei sommi dei. Il secondo angolo mostra il miserevole destino della madre dei Pigmei: Giunone dopo averla vinta in gara ordinò che fosse una gru e indicesse guerre con il suo popolo. Raffigurò anche Antigone che un tempo osò contendere con la consorte del grande Giove e la regale Giunone la mutò in uccello né le giovarono Ilione o il padre Laomedonte perché come candida cicogna, spuntatele le penne, non si applaudisse da sola col rumoroso becco. Il solo angolo che rimane mostra Cinira privato dei figli; ed egli, mentre abbraccia i gradini del tempio, membra delle sue figlie, e si abbandona sulla pietra, sembra piangere. Contorna l’estremità dell’orlo con rami di olivo simbolo di pace: è questa la forma e con il suo albero dà fine alla sua opera. La donna di Lidia (Aracne) disegna Europa ingannata dall’immagine del toro: crederesti che il toro sia vero, vero il mare. Si vede mentre guarda la terra lasciata e chiamare le sue compagne e temere il contatto dell’acqua che sale e ritrarre le timide gambe. Raffigurò anche Asterie esser ghermita da un’aquila che si affatica, raffigurò Leda giacere sotto le ali di un cigno, vi aggiunse come Giove sotto le spoglie di un satiro ingravidò di due gemelli la bella figlia di Nitteo, come sia stato Anfitrione quando prese te, donna di Tirinto (Alcmena), come (sia stato) oro abbia ingannato Danae, come fuoco la figlia di Asopo, come pastore Mnemosine, come serpente screziato la figlia di Deo (Proserpina). Raffigura anche te, o Nettuno, mutato in torvo giovenco che ti accoppi alla figlia di Eolo. Tu sotto le sembianze di Enipeo generi gli Aloidi, sotto quelle di ariete inganni la figlia di Bisalte; e te la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma sentì come cavallo, la madre, con serpenti al posto dei capelli, del cavallo alato, sentì come uccello, Melanto sentì come delfino. Per tutti loro rese fedelmente il loro aspetto e l’aspetto dei luoghi C’è lì in immagine da campagnolo Febo, come abbia assunto ora penne di sparviero, ora pelle di leone, come da pastore abbia ingannato Isse figlia di Macareo, come Libero con la falsa uva abbia ingannato Erigone, come Saturno sotto le sembianze di un cavallo abbia generato il biforme Chirone. L’estremità della tela , circondata da un fine bordo, mostra fiori intrecciati a flessuosa edera. Non Pallade, non la Gelosia avrebbe potuto criticare quell’opera. Si dolse del fatto la bionda dea (Pallade) e fece a pezzi la tela dipinta, le colpe degli dei. E come teneva (in mano) la spola (di legno) del monte Citoro, tre , quattro volte colpì la fronte di Aracne figlia di Idmone. La poveretta non lo sopportò e decisa si legò un cappio al collo. Pallade, avendo compassione di lei che pendeva, la sollevò e così disse: “Vivi pure, tuttavia pendi, malvagia, e, perché tu non sia sicura del futuro, la stessa legge di pena sia comminata per la tua stirpe e per i discendenti che verranno”. Poi andando via la cosparse del succo di erba di Ecate; e subito le chiome al contatto della triste sostanza scivolarono via, con esse il naso e le orecchie, il capo diviene piccolissimo, è anche piccola in tutto il corpo; sul fianco restano attaccate esili dita che fungono da zampe, ha il resto come ventre, dal quale tuttavia continua ad emettere del filo e da ragno costruisce le antiche tele.1

Risparmio al lettore la ridda di interpretazioni e dei ricami anche ideologici che il mito ha ispirato e umilmente lo rendo partecipe solo della particolare simpatia che nutro per questa ragazza che a qualcuno può sembrare presuntuosa ma che per me è solo consapevole dei suoi mezzi, intelligente, ribelle e anticonformista. A Pallade che crede di intimorirla con l’esibizionistica raffigurazione della potenza del potere divino (in ultima analisi della religione …) lei risponde magistralmente mettendo impietosamente in luce le miserie e gli inganni di quello stesso potere; il che spinge Pallade, che pure è simbolo di saggezza …, non al perdono (la soluzione più dignitosa, anche se destabilizzante, per lei e per i compagni di cordata) ma ad una raffinata vendetta.

Questa mia interpretazione è certo antitetica al significato morale originario, conservatosi pressoché immutato nel tempo,  del mito. La morale, però, è in continua evoluzione e non è detto che quel che in passato era considerato un valore tale debba restare per sempre. D’altra parte l’ipse dixit fortunatamente è morto da tempo, anche se i rigurgiti del principio di autorità (che io preferirei veder sostituito, dopo adeguato cambio dei contenuti, con quello di autorevolezza, concetto che coincide con quello della responsabilità personale e, dunque, dell’esempio, quello buono …) si manifestano periodicamente, per cui abbiamo ancora un disperato bisogno di eroi, come  Gandhi, Don Milani e, ahinoi!, pochi altri, che si contrappongano ai buffoni di turno, i cosiddetti potenti.

Qualcuno troverà  opinabile quanto ho appena finito di affermare, ma converrà almeno in quanto sto per dire. Ho scomodato già molte volte il detto latino nomina omina (i nomi sono presagi). Non sembra parallela alla descrizione della metamorfosi subita dalla ragazza anche quella del suo nome grazie a fenomeni fonetici da manuale?

A commento di questo mio diagramma aggiungo che il nome, nato femminile (quando mai un uomo ha lavorato al telaio …) in latino ha sviluppato (dall’aggettivo greco sostantivato) anche il femminile (arànea) con lo stesso significato (l’iniziale valore aggettivale rimane nell’italiano ragnatela che suppone una locuzione latina arànea tela=tela di ragno), mentre il neutro (aràneum) è passato ad indicare, con perdita di prestigio, l’oggetto o la malattia.

Come l’unica fonte letteraria è Ovidio, così le testimonianze iconografiche antiche del mito sono estremamente scarse, sostanzialmente due e, per giunta, non interpretate univocamente dagli studiosi.

La prima è la decorazione (nel dettaglio sottostante tratto da  Gladys Davidson Weinberg-Saul Weinberg, Arachne of Lydia at Corinth, in The Aegean and the Near East. Studies presented to Hetty Goldman on the occsion of her seventy-fifth birthday, S. S. Weinberg, New York 1956, tav. 33) di un aryballos (piccolo vaso per profumi e oli) datato intorno al 600 a. C. e custodito nel Museo Archeologico di Corinto.

C’è chi considera la decorazione come una semplice rappresentazione di genere dell’arte della tessitura e chi, invece, ci vede una specie di striscia,  identificando una prima volta Pallade, travestita da vecchia e intenta a tessere,  nella seconda (a partire da sinistra) figura femminile e  una seconda volta nella quarta, quella più grande.

La seconda testimonianza iconografica (immagine tratta da M. P. Del Moro, Il foro di Nerva, in Il Museo dei Fori imperiali nei Mercati di Traiano, Electa, Milano, 2007, fig. 257) è il dettaglio di un fregio, risalente alla fine del I secolo d. C.,  del cosiddetto Foro transitorio a Roma. La prime due figure (a partire da sinistra) per alcuni sarebbero, rispettivamente, Aracne e Pallade mentre la prima viene colpita dalla seconda con la spola; per altri la scena rappresenta l’omaggio a Pallade da parte di un gruppo di tessitrici devote.

Sterminata, è invece, la serie delle rappresentazioni più recenti, che conobbero il momento di maggior successo in concomitanza con le varie edizioni illustrate delle Metamorfosi uscite soprattutto dal XV al XVIII secolo.

Le immagini con cui mi congedo dal cortese lettore sono tutte tratte dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia (http://gallica.bnf.fr/).

Da un’edizione manoscritta francese del 1403 del De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio.

Dall’edizione delle Metamorfosi di A. Vérard, Parigi, 1498.

g

Dall’edizione veneziana delle Metamorfosi di Bernardino De Bindoni del 1540.

Dall’edizione delle Metamorfosi di Giovanni di Tornes, Lione, 1559.

Da Les Metamorphoses d’Ovide, incisioni di Jean Mathieu, Vedova Langellier, Parigi, 1619.

Da Les Metamorphoses d’Ovide, traduzione in francese di P. Duryer, P. & J. Blaeu, Janssons à Waesberge, Boom & Goethals, Amsterdam, 1702.

Da Les Metamorphoses d’Ovide, traduzione in francese dell’abate Banier, Hochereau, Parigi, 1767.

Se ora vi soffermerete ad osservare la mirabile architettura di una ragnatela (sulle sue proprietà terapeutiche rivendicate anticamente e non vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/26/la-taranta-e-la-lingatera-la-tarantola-e-la-ragnatela/), magari impreziosita dalle perle della prima rugiada, ed eviterete di uccidere il primo ragno che vi capiterà a tiro, il sacrificio di Aracne e, molto più modesto, questo mio lavoro non saranno stati inutili … ;  e, imitando la pubblicità televisiva, vi do l’arrivederci a breve con la seconda puntata.

(CONTINUA)

per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/30/aspettando-la-notte-della-taranta-24-spettacolare-taranta/

per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/07/aspettando-la-notte-della-taranta-34-da-taranto-a-napoli-e-da-napoli-a-parigi/

per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/18/aspettando-la-notte-della-taranta-44-malinconicu-cantu-e-allegru-mai-da-manduria-a-parigi-da-qui-al-deserto-africano-e-poi/

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1 Praebuerat dictis Tritonia talibus aures/carminaque Aonidum iustamque probaverat iram./Tum secum “laudare parum est; laudemur et ipsae/numina nec sperni sine poena nostra sinamus”/Maeoniaeque animum fatis intendit Arachnes,/quam sibi lanificae non cedere laudibus artis/audierat. Non illa loco neque origine gentis/clara, sed arte fuit. Pater huic Colophonius Idmon/Phocaico bibulas tingebat murice lanas./Occiderat mater; sed et haec de plebe suoque/aequa viro fuerat. Lydas tamen illa per urbes/quaesierat studio nomen memorabile, quamvis/orta domo parva parvis habitabat Hypaepis./Huius ut adspicerent opus admirabile, saepe/deseruere sui nymphae vineta Timoli,/deseruere suas nymphae Pactolides undas./Nec factas solum vestes spectare iuvabat;/tum quoque, cum fierent: tantus decor adfuit arti./Sive rudem primos lanam glomerabat in orbes,/seu digitis subigebat opus repetitaque longo/vellera mollibat nebulas aequantia tractu,/sive levi teretem versabat pollice fusum,/seu pingebat acu, scires a Pallade doctam./Quod tamen ipsa negat, tantaque offensa magistra/“certet” ait “mecum: nihil est, quod victa recusem.”/Pallas anum simulat falsosque in tempora canos/addit et infirmos, baculo quos sustinet, artus./Tum sic orsa loqui: “Non omnia grandior aetas,/quae fugiamus, habet: seris venit usus ab annis./Consilium ne sperne meum. Tibi fama petatur/inter mortales faciendae maxima lanae:/cede deae veniamque tuis, temeraria, dictis/supplice voce roga: veniam dabit illa roganti.”/Adspicit hanc torvis inceptaque fila relinquit,/vixque manum retinens confessaque vultibus iram/talibus obscuram resecuta est Pallada dictis:/“Mentis inops longaque venis confecta senecta./Et nimium vixisse diu nocet. Audiat istas,/siqua tibi nurus est, siqua est tibi filia, voces./Consilii satis est in me mihi. Neve monendo/profecisse putes, eadem est sententia nobis./Cur non ipsa venit? cur haec certamina vitat?”/Tum dea “venit” ait, formamque removit anilem/Palladaque exhibuit. Venerantur numina nymphae/Mygdonidesque nurus: sola est non territa virgo./Sed tamen erubuit, subitusque invita notavit/ora rubor rursusque evanuit, ut solet aer/purpureus fieri, cum primum aurora movetur,/et breve post tempus candescere solis ab ortu./Perstat in incepto stolidaeque cupidine palmae/in sua fata ruit: neque enim Iove nata recusat,/nec monet ulterius, nec iam certamina differt./Haud mora, constituunt diversis partibus ambae/et gracili geminas intendunt stamine telas/(tela iugo iuncta est, stamen secernit harundo);/inseritur medium radiis subtemen acutis,/quod digiti expediunt, atque inter stamina ductum/percusso paviunt insecti pectine dentes./Utraque festinant cinctaeque ad pectora vestes/bracchia docta movent, studio fallente laborem./Illic et Tyrium quae purpura sensit aenum/texitur et tenues parvi discriminis umbrae,/qualis ab imbre solet percussis solibus arcus/inficere ingenti longum curvamine caelum:/in quo diversi niteant cum mille colores,/transitus ipse tamen spectantia lumina fallit;/usque adeo quod tangit idem est, tamen ultima distant./Illic et lentum filis inmittitur aurum/et vetus in tela deducitur argumentum./Cecropia Pallas scopulum Mavortis in arce/pingit et antiquam de terrae nomine litem./Bis sex caelestes medio Iove sedibus altis/augusta gravitate sedent. Sua quemque deorum/inscribit facies: Iovis est regalis imago./Stare deum pelagi longoque ferire tridente/aspera saxa facit, medioque e vulnere saxi/exsiluisse fretum, quo pignore vindicet urbem;/at sibi dat clipeum, dat acutae cuspidis hastam,/dat galeam capiti, defenditur aegide pectus,/percussamque sua simulat de cuspide terram/edere cum bacis fetum canentis olivae/mirarique deos: operis Victoria finis./Ut tamen exemplis intellegat aemula laudis,/quod pretium speret pro tam furialibus ausis,/quattuor in partes certamina quattuor addit,/clara colore suo, brevibus distincta sigillis./Threiciam Rhodopen habet angulus unus et Haemum/(nunc gelidi montes, mortalia corpora quondam!),/nomina summorum sibi qui tribuere deorum./Altera Pygmaeae fatum miserabile matris/pars habet: hanc Iuno victam certamine iussit/esse gruem populisque suis indicere bella./Pinxit et Antigonen ausam contendere quondam/cum magni consorte Iovis, quam regia Iuno/in volucrem vertit; nec profuit Ilion illi/Laomedonve pater, sumptis quin candida pennis/ipsa sibi plaudat crepitante ciconia rostro./Qui superest solus, Cinyran habet angulus orbum;/isque gradus templi, natarum membra suarum,/amplectens saxoque iacens lacrimare videtur./Circuit extremas oleis pacalibus oras:/is modus est, operisque sua facit arbore finem./Maeonis elusam designat imagine tauri/Europam: verum taurum, freta vera putares./Ipsa videbatur terras spectare relictas/et comites clamare suas tactumque vereri/adsilientis aquae timidasque reducere plantas./Fecit et Asterien aquila luctante teneri,/fecit olorinis Ledam recubare sub alis;/addidit, ut satyri celatus imagine pulchram/Iuppiter implerit gemino Nycteida fetu,/Amphitryon fuerit, cum te, Tirynthia, cepit,/aureus ut Danaen, Asopida luserit ignis,/Mnemosynen pastor, varius Deoida serpens./Te quoque mutatum torvo, Neptune, iuvenco/virgine in Aeolia posuit. Tu visus Enipeus/gignis Aloidas, aries Bisaltida fallis;/et te flava comas frugum mitissima mater/sensit equum, sensit volucrem crinita colubris/mater equi volucris, sensit delphina Melantho./Omnibus his faciemque suam faciemque locorum/reddidit. Est illic agrestis imagine Phoebus,/utque modo accipitris pennas, modo terga leonis/gesserit, ut pastor Macareida luserit Issen;/Liber ut Erigonen falsa deceperit uva,/ut Saturnus equo geminum Chirona crearit./Ultima pars telae, tenui circumdata limbo,/nexilibus flores hederis habet intertextos./Non illud Pallas, non illud carpere Livor/possit opus. Doluit successu flava virago/et rupit pictas, caelestia crimina, vestes./Utque Cytoriaco radium de monte tenebat,/ter quater Idmoniae frontem percussit Arachnes./Non tulit infelix laqueoque animosa ligavit/guttura. Pendentem Pallas miserata levavit/atque ita “vive quidem, pende tamen, improba” dixit:/“lexque eadem poenae, ne sis secura futuri,/dicta tuo generi serisque nepotibus esto.”/Post ea discedens sucis Hecateidos herbae/sparsit; et extemplo tristi medicamine tactae/defluxere comae, cum quis et naris et aures,/fitque caput minimum, toto quoque corpore parva est:/in latere exiles digiti pro cruribus haerent,/cetera venter habet: de quo tamen illa remittit/stamen et antiquas exercet aranea telas.

 

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