Tra bastioni e feritoie.  Le armi dei Castriota nel castello di Copertino

 

di Giovanni Greco

Del castello di Copertino si conosce quasi tutto. Fu abitato da esponenti della dinastia sveva, seguiti da quella angioina e dalla stirpe dei Brienne. Tra le sue mura dimorò saltuariamente la contessa Maria d’Enghien e sua figlia Caterina Orsini del Balzo, andata in sposa al cavaliere francese Tristano di Clermont.

La tradizione vuole che tra queste mura abbia visto la luce la loro figlia Isabella che impalmata da re Ferrante d’Aragona divenne a sua volta regina di Napoli.

Agli inizi del XVI secolo, quando i titolari del maniero divennero i Granai-Castriota fu il marchese Alfonso, figlio del conte Bernardo e  di Maria Zardari, uomo dai miti e gentili costumi abbelliti dalle lettere come lo ricorda il Galateo nella sua epistola “Ad Pyrrum Castriotam”; giureconsulto di cappa corta, marchese di Atripalda, duca di Ferrandina e conte di Copertino, che nel decennio compreso tra il 1530-40, affidò al noto architetto militare Evangelista Menga, l’incarico di progettare la trasformazione della struttura 400esca in una fortezza che dimostrasse la sua potenza sul piano economico, giuridico e militare, ma soprattutto capace di respingere qualsiasi assalto armato.

Difatti, fu costruita secondo i canoni architettonico-militari imposti dalla scoperta della polvere da sparo. Ovvero, un profondo fossato scavato nella roccia, una spessa muraglia, quattro imponenti bastioni lanceolati e novanta feritoie distribuite su tre ordini di costruzione (fig. 1 e 2).

Fig. 2, il cortile interno del castello oggi

 

Essendo una struttura difensiva Don Alfonso si premurò di dotarla di un’adeguata guarnigione e un discreto apparato di armi da fuoco: cannoni, colubrine, schioppi e armi bianche di vario genere. Ma in che misura quegli armamenti avrebbero consentito di respingere il nemico è difficile stabilirlo. E soprattutto di quante unità era composta la guarnigione che presidiava il castello? Un’idea in tal senso la si potrebbe ricavare da un atto notarile del 21 febbraio 1553 allorquando il castellano nonché governatore di Copertino, Hernando de Bolea, originario di Saragozza consegnò al suo vice, Stefano de Ayala nativo di Toledo, una quantità di beni alimentari tra cui diversi tomoli di grano, orzo, fave, 700 barili di vino, 10 di aceto, 10 di sarde salate contenenti ciascuno  25.900 unità, 600 forme di formaggio e 100 staia di olio destinati a sfamare la guarnigione e la servitù presente nel castello, per un arco temporale presumibilmente lungo. Essendo le cronache del tutto avare di avvenimenti riconducibili ad attività militari abbiamo ragione di ritenere che da quelle feritoie non fu mai sparato un solo colpo di arma da fuoco e per lungo tempo i soldati dovettero restare pressoché inattivi, fino ad una verosimile riduzione numerica. (fig. 3)

Fig. 3, il mastio

 

Ipotesi non del tutto peregrina se il 17 aprile dello stesso anno avvenne la cessione di armature di cavalleria leggera a favore di militari dislocati nel castello di Lecce. Per ordine di Ferdinando Loffredo, vicerè delle province di Otranto e Bari, Hernando de Bolea incaricò Tommaso Caputo e Mauro Greco a trasportare 25 spalle (spallacci) e piedi (scarpe d’arme) con le corchette (uncini), 25 calotte, 25 brazzali e spallarde (avambracci e cubitiere), 25 morioni (elmetto di origine spagnola) e diademi; 13 elmi di ferro e mezze calotte alla burgognone.

Più tardi, il 16 maggio è ancora Stefano de Ayala che provvede al trasferimento di importanti pezzi di artiglieria. Il regio commissario di Terra d’Otranto, Ascanio de Maya, infatti, prese in consegna una quantità di armi spedite da Copertino che fece trasportare nel castello di Brindisi dove si registravano intermittenti rivolte popolari a cui gli Aragonesi rispondevano anche con armi da fuoco. Si trattava di due cannoni, gli unici di cui era dotato il castello che sarebbero stati spostati lungo la spessa muraglia a seconda dei dispacci che avrebbero annunciato imminenti pericoli.  Uno dei due cannoni era adatto al lancio di palle di pietra ed era contrassegnato con l’aquila bicipite, l’arma dei Castriota, mentre l’altro, idoneo allo sparo di palle di ferro, era marchiato con il leone di S. Marco. Unitamente ai due cannoni fu trasportata anche una quantità di palle in ferro e di pietra e una colubrina (fig. 4).

Fig. 4, rappresentazione grafica di cannoni e colubrine

 

Ecco il testo: Uno cannone petrero et le arme castriote, due casce ferrate e due rote ferrate. Un altro cannone di bronzo  serpentino et le arme di S. Marco  et casce e rote ferrate. Una mezza colubrina di ferro et una cascia ferrata  e più palle di ferro, grocchi, cintruni, sarandri. Palle 64 di ferro curate del cannone serpentino e palle 105 di petra del cannone petrero. (Fig. 5).

Fig. 5, falconetto del XVI sec

 

Intanto, scomparsi anche gli ultimi eredi di Don Alfonso la Contea tornò sotto la giurisdizione del Viceregno. A nulla valsero gli forzi del sindaco Virgilio Della Porta di lasciarla nell’amministrazione del Regio Demanio perché nel frattempo il genovese Uberto Squarciafico l’aveva acquistata per 29.700 ducati.

Un passaggio di consegne del 1556 tra il castellano uscente Stefano de Ayala e il suo successore Pedro Lopez de Marca inviato da Ludovico de Bariento, consente di conoscere tanto la consistenza delle riserve alimentari quanto i dispositivi destinati alla difesa del maniero.

In primis viene descritta un’asta con lo stendardo sul quale erano riportate le insegne di Carlo V (l’aquila imperiale con un Crocifisso in mezzo alle due teste); una campana collocata sopra lo campanile di detto castello che serve a fare la guardia di notte” (si tratta della campana situata nell’edicola al vertice del portale d’ingresso).

Tutta l’artiglieria in bronzo che consisteva in un falconetto di nove palmi (due metri e mezzo); altro falconetto di tre palmi e mezzo con le insegne di S. Marco; un carro di otto palmi e mezzo con cassa dotata di ruote di ferro nuove; un carro rinforzato di dieci palmi e mezzo; un curtaldo (piccolo cannone trainato da cavalli) di sette palmi; 27 smerigli (piccoli pezzi di artiglieria) di varie grandezze su alcuni dei quali è incisa la figura di S. Barbara, un altro smeriglio rinforzato di poco meno di cinque palmi, uno scudo e una croce. Dell’artiglieria in ferro facevano parte: 5 bombarde, 26 mascoli grandi e altri 26 più piccoli, 26 archibugi (fig. 6), 24 fiaschette (piccoli recipienti per conservare polvere da sparo), 46 tenaglie, altri 98 archibugi, 53 chilogrammi di polvere da sparo, 2000 chilogrammi di salnitro contenuto in cinque casse, 23 cantàre di zolfo e 70 palle di ferro.

Fig. 6, soldato spagnolo con archibugio

 

Tra le armi bianche si contavano alabarde, lance e punte di lance. E ancora: zappe, picconi, numerosi attrezzi in ferro, corde, funi, 2800 fascine, 29 carrette di legna e 362 canestri.  Non appaia inverosimile, dunque, la notizia riportata dall’anonimo cronista del ‘700 contenuta nelle  “Memorie dell’antichità di Copertino” secondo cui “Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artigliaria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro.

Nell’aprile del 1557 a Hernando de Bolea subentrò un altro spagnolo,  il governatore Bartolomeo Diez al quale, il 23 maggio seguente, su disposizione di Carlo V, fu ordinato di consegnare ai marinai Giorgio de Candia e Marco de Michele una quantità indefinita di munizioni per essere trasportate, via mare nel porto di Pescara a disposizione della guarnigione di soldati presenti nella fortezza pentagonale progettata dall’architetto militare Gian Tommaso Scala e terminata di costruire proprio il 1557.

Ma, se il castello cominciò a perdere la funzione difensiva le sue mura continuarono ad offrire un tetto a coloro che a vario titolo erano stati destinati alla sua difesa tra cui Giovanni de Sisegna, alfiere di armatura pesante della compagnia del duca di Urbino; il suo collega Gaspare della Porta, soldato di armatura pesante; il lombardo Alessandro de Valbona che aveva servito Hernando de Bolea; Pietro de Valandia, spagnolo di Ordegna e Stefano de Ayala che nel frattempo aveva sposato Laura Roccia di Gallipoli.

Quando nel maggio del 1603 la genovese Nicoletta Grillo – vedova di Cosimo Pinelli iunior, II duca di Acerenza, III marchese di Galatina e V conte di Copertino – stabilì di procedere all’inventario dei beni presenti nel castello di Copertino, armi e armature si erano notevolmente ridotte. L’incarico fu affidato a notar Pietro Torricchio  che il 2 giugno inventariò  16 pietti forti da combattere (fig. 7), dispensati ad altrettanti soldati a cavallo incaricati di sorvegliare le campagne del feudo e 50 pistole con altrettanti foderi.

Fig. 7, pettorale in cuoio

 

Dissolto il pericolo turco  e nella certezza che il castello non sarebbe mai stato al centro di assalti gli Squarciafico scelsero di renderlo più accogliente facendo edificare nuovi ambienti e una cappella intitolata a S. Marco al cui interno collocare i loro sarcofagi. Nel 1602, essendo già scomparsi Livia e suo figlio Cosimo Pinelli, il maniero e le possessioni feudali passarono a Galeazzo Pinelli che, data la tenera età, furono amministrati dalla madre, la genovese Nicoletta Grillo. L’anno dopo costei – che nel frattempo con la figlia Clementina aveva eletto a residenza stabile la lussuosa dimora di Giugliano in provincia di Napoli – stabilì di procedere all’inventario dei beni del palazzo marchesale di Galatone (dimora preferita dai suoi predecessori) e quelli presenti nel castello di Copertino.

Il documento ci restituisce la presenza di arredi e attrezzi di uso comune presenti negli ambienti destinati alla preparazione dei cibi e delle sale destinate al riposo notturno il cui mobilio risentiva delle influenze stilistiche spagnole e veneziane che non si modificarono mai del tutto e rapidamente. I costi, la scarsezza della materia prima, l’assenza di maestranze locali specializzate ne rendevano difficile l’aggiornamento e gli arredi erano rimasti pressoché quelli del secolo precedente. Non sappiamo se la trabacca  principale fu la stessa sulla quale Alfonso Castriota ci dormì con la prima moglie Cassandra Marchese, sposata il 1499. Ma non possiamo escludere che dovette preferire queste mura lontane dagli occhi indiscreti della corte partenopea per incontrarsi con la gran dama napoletana, Giulia de Gaeta. Di certo l’imponente dimora rinascimentale la dovette includere tra le tappe del viaggio di nozze con la seconda moglie, Camilla Gonzaga il cui rito nuziale fu celebrato il 1518 nel castello di Casalmaggiore.

Fig. 8, una sala del piano nobile

 

La camera da letto situata al piano nobile (fig. 8) era arredata con  elementi in cuoio turchino e oro con fregi rossi. Alle finestre e ai vani di porta vi erano in tutto sette tende lavorate in oro e argento. Il  proviero (padiglione del letto con cortina e zanzariera) era di seta verde di Calabria con cappitella (copertura), tornaletto  (larga striscia di tessuto decorato posto intorno al letto). Tre teli di cuoio  di colore rosso con frange in oro; tre materassi ripieni di lana finissima, mentre altri sette erano destinati alla servitù.  Vi erano due coperte di lana bianca fine, una di lana rossa, cinque coperte di lana paesana bianca, un capizzale di lana (stretto guanciale che va da un lato all’altro del letto), cinque cuscini di dimensioni diverse foderati di taffetà verde ed altri due di tipo ordinario. Il mobilio era costituito da una trabacca a mezze colonne di noce, alle cui estremità vi erano pomi e barre indorate. Altre due trabacche  di noce, semplici e a mezze colonne erano dislocate in altra stanza, insieme a due lettère (letti costituiti da tavole poggiate su tristelli); un torciero di legno per la sala; una torcia; tre appendiabiti in ferro;  undici sedie imperiali di noce; quattro sedie veneziane vecchie di legno; tre sedie di velluto verde; due sedie di velluto giallo; cinque tavolini di noce usati; due banchi di noce lunghi con ferri indorati; due sgabelli di noce lavorati; un tavolo di noce lungo un metro e mezzo sorretto da piedi con catene; una seditoia di legno con il suo vaso da notte; un tavolino di legno con tre piedi.

Notevole la quantità di attrezzi e utensili presenti nei locali a piano terra adibiti a lavanderia e cucine. Nell’elenco vengono riportati un porta coltelli di legno; due grandi cofanaturi di creta per fare la colata e una pressa di legno per strizzare salvietti e musali; due alari di cucina grandi; uno scaldacrusca; un grande stipo per contenere alimenti; tre appendiabiti; due canestri per contenere sprovieri. Al centro dell’ampia cucina c’era un grande tavolo da lavoro in legno poggiato su due tristelli in ferro. Il camino era dotato da un paio di capifuoco con pomi in ottone, due palette, un grosso ciocco, un paio di molle, due treppiedi di misure diverse, una zagaglia. E ancora: un grande calderotto in rame; una grattugia; un recipiente in rame per contenere vino; cinque fiaschi in rame; due grandi bracieri di diversa misura di cui uno con base di legno. La preparazione e la somministrazione del cibo non avveniva in stoviglie di creta bensì in contenitori di rame. Quindi vi erano tre vecchie teglie, trenta piatti tra grandi e piccoli; due contenitori di liquidi destinati alla servitù; due scalda vivande di ottone;  due saliere in peltro; tre coperchi per pignatte; due coperchi per teglie; una cucuma di rame grande per scaldare acqua;  altra cumumella in latta bianca; un secchio di rame con rispettiva catena e una carrucola per attingere acqua dal pozzo; una grande cassa di legno destinata al contenimento di orzo.

Nei decenni successivi l’imponente fortezza veniva lentamente svuotata. Non sapremo mai se si trattò di saccheggi o dispersioni agevolate da guardiani distratti. Ai “distaccati” Pinelli seguì la dinastia dei Pignatelli che si legò ai marchesi Di Sangro e ai Ravaschiero. Infine fu la volta dei principi Granito di Belmonte a cui vanno ascritti i tentativi di “rianimare” il castello tra cui il conte Angelo Granito che vi dimorò con i figli e la moglie Adelaide Serra di Corsano. Costoro affittarono diversi ambienti a contadini e artigiani del luogo i cui ricavi non furono mai abbastanza per consentire il ritorno del castello agli sfarzi di un tempo (fig. 9 e 10). Da qui ebbe inizio il lento declino del maniero che si arrestò solo nel 1885 quando fu dichiarato Monumento nazionale, seguito con l’acquisizione al demanio dello Stato il 1956.

Fig. 9, scorcio del cortile interno del castello agli inizi del ‘900

 

Fig. 10, facciata della cappella di san Marco nel castello agli inizi del ‘900

Fonti essenziali

ARCHIVIO DI STATO LECCE, notar Bernardino Bove, coll. 29A, atto del 16 giugno 1553, cc 191v-192r; 175r-176v;  atto del 17 aprile 1553, 152r ;  atto del 21 febbraio 1553 cc 67r-69r.

S. CALASSO, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966.

A. LAPORTA, Copertino, Suppl. in “Rassegna Salentina”, a, III, n, 1 1978.

AA. VV. Fonti per il Barocco Leccese, a c. di C. Piccolo Giannuzzi, Congedo , Galatina 1995.

AA. VV. I castelli della difesa Otranto – Copertino, a cura di M. Milella, Martano Editrice, Lecce 2003.

M. CAZZATO, Evangelista Menga e l’architettura del Cinquecento copertinese, Besa, Nardò, 2002.

L’enigmatico enigmista di Copertino (2/2)

di Armando Polito

Dimostrerò ora come in Giusepp il talento poetico fosse in grado di andare oltre le metafore, ingrediente caratteriizante tutta la produzione barocca, coniugando abilmente la finalità encomiastica (caratteristica anch’essa tutt’altro che secondaria della cultura di quell’epoca) col divertissement. Nella fattispecie il gioco enigmistico è l’anagramma numerico.

Chi legge avrà senz’altro incontrato almeno una volta la forma più corrente, quella alfabetica,  che, com’è noto, consiste nell’utilizzare i fonemi di una parola di partenza per dare vita, disponendoli in diverso ordine, ad un’altra parola di senso compiuto. uno degli esempi più banali sarebbe il caso di Roma/amor, ma, volendosi complicare la vita, non ci si deve lasciar sfuggire pure ramo, mora, orma, Omar e (tronco come amor) arom, senza far torto, a questo punto, a marò; e poi, per chi è masochista, perché non pensare di inserire le quattro parole in un componimento in rima, senza trascurare, magari, la polisemanticità di mora (donna bruna/frutto del rovo/ritardo)? Oggi, se vuoi fare qualcosa del genere, c’è il pc che ti fornisce tutti gli anagrammi della parola (o delle parole, in tal caso si parla di frase anagrammata) che gli hai digitato.

Spetta poi a te tra tutte le parole proposte quelle che più si adattano al contesto che vuoi creare. Troppo complicato? Se per qualcuno  è così, fra poco ci sarà l’ IA (acronimo di Intelligenza Artificiale o di Idiozia Acquisita?) alla quale non sfuggirà certamente la possibilità di tener conto degli acronimi, sovente impronunciabili, che si saranno aggiunti alla miriade di quelli esistewnti, noti e pure registrati. E così, per tornare al nostro esempio, potranno essere utilizzati MRAO (Mirabile Raccolta Rifiuti Ospedalieri), RMAO (Retribuzione Misurata A Orario), lasciando alla fantasia del lettore il compito di anticipare lo scioglimento di MRAO, MROA, MAOR, OMRA e ORAM. Mentre i solenni soloni della UE, dopo aver meticolosamente valutando i rischi connessi con l’IA hanno disposto gli adeguati provvedimenti (a tutti “raccomandazioni” senza sanzioni, all’Italia imposizioni e processi per infrazione), l’IA sarebbe già ora in grado pure di mettere in rima gli impronunciabili acronimi di cui sopra, destinati, come gli altri, a competere  con i grugniti, con ogni possibile rispetto per i porci, che saranno l’unico linguaggio comprensibile per un’umanità sempre più, irreversibilmente , decerebrata.

C’è da giurare  che nessuno sarà in grado di anagrammare una parola di quattro fonemi (magari l’impotenza si limitasse a questo!), figurarsi se dovesse cimentarsi, magari in una sfida con se stesso, in un anagramma numerico , del quale il copertinese ci fornisce tre esempi (i primi due sono in Castaliae stillulae). Esso consistente nel costruire due frasi con parole dalle lettere diverse assegnando ad ognuna di esse un valore numerico (nel nostro caso ogni lettera assume quello corrispondente al suo posto nell’alfabeto), in modo tale che la somma dei valori delle prima frase coincida con quello della seconda.

Come se non bastasse, entrambi gli anagrammi del Fapane sono seguiti da una dedica in distici elegiaci che funge da commento esplicativo dell’anagramma. Mi auguro che la mia traduzione  e le relative note riesca a far comprendere anche al lettore digiuno di latino la difficoltà di dar vita ad un gioco enigmistico più complicato del solito con esiti così felici.

Il primo è dedicato a Cesare Miraballo, principe di Castellaneta e marchese di Bracigliano. A seguire la trascrizione del testo:

Prima di passare alla traduzione faccio notare (tramite le due sottolineature aggiunte,che nessuno, nemmeno il Fapane, è perfetto. Pure lui è stato costretto da ragioni metriche a far seguire al Caesar (forma corretta) iniziale il successivo Cesar (formalmente scorretto, anche se ricalcante la pronuncia ecclesiastica). In fatti la conservazione del dittongo ae, lungo per natura, sarebbe stato inconciliabile con la struttura del verso.

Don Cesare Miraballo principe di Catellaneta

O fulmine che si abbatte sulle arni dei Gallia

Se desideri conoscere l’Augusto dei tempi antichi, già redivivo c’è ai nostri giorni. Colonna di virtù, a nessuno secondo per sensibilità, amore della religione, onore della nobiltà. chi è tuttavia costui? Il nome mostra prodigi in guerra, è colui al quale la fama è minore del nome, questo è maggiore. Cesare splendente in entrambi i campi, nella spada e nella penna, sia che risuonarono le trombe, sia le lire. Ma numerando le lettere avrai un presagio più grande, Bagliori ai nomi, nomi ai bagliori. Sia che cosa? O fulmine che si abbatte sulle armi dei Gallia. Ciò è di Giove, da qui Cesare, tu sarai più grande di Cesare.

a Allude alla strage di Francesi che al comando del duca di Guisa nel 1654 aveva tentato di conquistare Torre Annunziata difesa pure da Cesare Miroballo.

Passo al secondo anagramma, dedicato a Geronimo De Choris, che fu vescovo di Nardò dal 1656 al 1669.

Anche qui, prima di tradurre traduziome, faccio notare come il Fapane, sempre per motivi metrici, è stato costretto a sopprimere la preposizione de che precede Choris. Infatti essa, sillaba lunga, sarebbe stata inconciliabile con la struttura del verso. Inoltre, per quanto riguarda la parte numerica, il 135 suppone un errore di stampa (o frutto di una piccola distrazione dell’autore) nella corrispondente sezione grafica (D. Hieronimus), nella quale D. (abbreviazione epigrafica di Dominus) va emendato in Dn (altra abbreviazione epigrafica di Dominus, al pari di DNS e di DNUS . Così il totale della sezione è 135 e non 123, quale risulterebbe senza l’emendamento.

All’Illustrissimo Signore Don Geronimo De Choris senese già vescovo di Nardò anagramma numerico

Don Geronimo De Choris

Egli (è) il vescovo di Nardò

Bisognava trovare un pastore che pascesse benevolmente con la dolcezza dell’amore il gregge di Nardò, Alessandroa valuta: alla fine assegna a te l’onore, poiché tu sei autorevole con la devozione, devoto con l’autorevolezza. Ma quale motivo d’indugio c’era? Il volere divino mostrava il nome e se conti bene i presagi tuttavia sono noti. Geronimo De Choris Egli è vescovo di Nardò. Non basta solo che il responso l’abbia dichirato piuttosto chiaramente, ma sotto il nome si nasconde una volontà divina più grande e Geronimo è vicino alla porpora della quale è assai degno di essere decorato. Allora è questo il destino di Nardò; e se una forza raddoppiata potentemente si dedica all’opera, che rimane da succedere?

a Papa Alessandro VII.

Il terzo anagramma numerico è in Giuseppe Battista, Delle giornate accademiche, Combi & La Noù, Venezia, 16733, p. 305.

Prima di pasare alla traduzione, faccio notare che i due totali qui non coincidono. Si tratta di un errore di stampa in quanto Iosephus ha comecorrispondente numerico 102 e non 202.

Don Giuseppe Domenichi

Anagramma numerico

 

Don Giuseppe Battista da Grottagliea

Per gli dei Orfeob del nostro tempo

 

a  Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

b Persnaggio della mitologia greca, in grado di ammaliare col suono della sua lira gli animali e tutta la natura-

Lavorando un po’ di fantasia e mettendomi nei panni del Fapane, mi sono chiesto quale anagramma numerico avrebbe creato in onore di Copertino. Per evidentidenti ragioni cronologiche non avrebbe poturto  sfruttare il riferimento prima al santo dei voli e poi alla città californiana    (vedi      ) . Improvvisamente, però, mi son sentito afferrare la mano e guidare le dita sulla tastiera del pc a digitare quanto segue:

Chi avrebbe mai potuto immaginare

che tutto si sarebbe combinato

perché alla storia fosse consegnato

il nome tuo che già era rinomato?

Lo era già per il tuo Giuseppe santo,

di studenti e aviator provvido manto,

ma bisognava a completar l’incanto

che internazional diventasse il vanto.

Il millesettecentoseantasei eraa,

quando fra’ Pedro, giunto alla frontiera

di California, a mane o forse a sera,

senza piantare ombra di bandiera,

a un fiume che scorreva pian pianino

senza esitare, fattosi vicino,

della culla del santo salentino

gli diè lo stesso nome: Cupertino.

passaron gli anni e una città vi sorse.

Preveder nemmen san Peppino forse

potuto avrebbe quel che ieri occorse

con Silico valley e le sue risorse.a

a Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/02/s-giuseppe-da-copertino-1603-16639-in-due-ulteriori-testimonianze-della-sua-internazionalita/

Al lettore che dovesse accusarmi di aver aggiunto ai due espedienti dei quali ho detto all’inizio della prima pare, un terzo, quello della dissacrazione, voglio solo dire, com ampia possibilità di replica, per quanto mi riguarda sempre graditissima, che l’ironia e il sarcasmo, anche dissacranti, nascondono più amore e rispetto di quelli esibiti da tante ipocrite santificazioni.

 

PER LA PRIMA PARTE

https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/06/lenigmatico-enigmista-di-copertino-1-2/

 

 

L’ambiguità artistica dei due pittori salentini Catalano e D’Orlando

Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”

 

di Santo Venerdì Patella

Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.

Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.

In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.

Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.

Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.

Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?

Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.

Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.

Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.

Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:

La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;

La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;

Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;

Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;

Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;

La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.

I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.                            Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.

Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.                  

Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.

Fig. 1. Tratto da “La Puglia, il Manierismo e la Controriforma”, Galatina : Congedo, 2013

 

Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.

Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.

 

Fig. 2

 

Fig. 3

 

Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.                                                                                                                           

  

Fig. 4 tratta da Anronaci, Muro Leccese, Panico, Galatina 1995

 

Fig. 5

 

Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.

Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).

 

Fig. 6, tratta da “La Puglia, il manierismo e la Controriforma”

 

Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.

Fig. 7A

 

Fig. 7B

 

Fig. 7C

 

Fig. 8A

 

Fig. 8B

 

Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].

Fig. 9A

 

Fig. 9B

 

A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.

Fig. 10

 

Fig. 11

Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.

Fig. 12

 

Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].

 

Fig. 13A

 

Fig. 13B

 

Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.

Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].

In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.

La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.

Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?

La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.

 

Bibliografia essenziale

E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.

S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.

L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.

A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.

 

Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.

Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.

 

L’enigmatico enigmista di Copertino (1/2)

di Armando Polito

 

Dichiaro senza vergogna di aver voluto ricorrere fin dall’inizio a due espediente che, soprattutto il primo,  io stesso, s ho stigmatizzato  ripetutamente  su questo blog e non solo: il titoli “sparato” e la diluizione in più puntate, per attrarre il lettore impegnato pure nell’attesa speranzosa del prosieguo se l’inizio non lo avesse entusiasmato, stimolandone la curiosità, che può essere animata dai più disparati interessi, tutti astrattamente connessi al teoricamente nobile fine della conoscenza oscillante, però,  da quella dell’ultimo amorazzo del vip di turno, a quella di un’opera letterario degno di questo nome.

Perciò, se avessi scelto un titolo diverso, avrei perso l’occasione di tentare di dare il giusto rilievo ad un salentino il cui nome stranamente non è citato nei manuali di letteratura italiana nella schiera, pur folta, dei poeti marinisti, nella cui ammucchiata il letterato di Copertino avrebbe meritato, secondo me, di occupare un posto appena appena a ridosso del caposcuola Giambattista Marino.

Anzi, se la qualità fosse direttamente proporzionale alla quantità, Giuseppe Domenichi Fapane  non avrebbe rivali con i suoi epigrammi di Castaliae stillulae1, opera in sei volumi, pubblicati il primo nel 1654, l’ultimo nel 1671, per un totale di ben 1770 pagine, senza calcolare le mon poche non numerate.

Si tratta di un’opera rara (e da questo potrebbe esser dipeso il disinteresse degli studiosi) e gli esemplari per ciascun volume si contano sulle dita di una sola mano. Addirittura del sesto libro, dal quale ho tratto il gioco enigmistico che presenterò a breve, esisterebbe una sola copia custodita nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò , la cui esistenza, insieme con quella del secondo, pure l’OPAC mostra di ignorare. Quegli stessi appunti a suo tempo presi, che qualche anno fa mi consentirono di riesumare la memoria di questo figlio del Salento2, mi danno oggi la possibilità di chiarire il significato di enigmatico e di enigmista dominanti nel titolo.

Dell’enigmista tratterò nella seconda parte e dico preliminarmente che enigmatico è usato impropriamente per esigenze del titolo sparato, anche se in realtà rientra nella figura retorica dell’ipallage, per cui il mistero non riguarda la personalità del nostro ma solo il suo nome e cognome.

Ma, se ho già scritto Giuseppe Domenichi Fapane, non è evidente che il cognome del copertinese consta di due elementi? Nei manoscritti di una stessa opera, è cosa arcinota,  le varianti e la collazione, cioè il confronto, serve per la scelta della forma più attendibile, che teoricamente dovrebbe essere quella del manoscritto più antico, ma non sempre la teoria trova corrispondenza nella pratica. Lo stesso mi accingo a fare con l’autore di Castaliae stillulae, sfruttando, proprio il titolo completo che si legge nel frontespizio (riprodotto nel secondo link di nota 2) e che di seguto trascrivo:

Castaliae stillulae quingentae quae sextum rivulum Permessi conficiunt hoc est epigrammaton Iosephi Domenichi Fapane à Cupetino (Cinquecento gocce di poesia che formano il sesto affluente del Parnasso [fiume sul monte Elicona sacro alle Muse], ciòè degli epigrammi di Giuseppe Domenichi Fapane da Copertino). Questa prova schiacciante (quasi un autografo, più avanti ne vedremo un altro) del doppio cognome, trova conferma  nella lettera indirizzata da Antonio Muscettola ad Angelico Aprosio, custodita nella Biblioteca dell’Università di Genova (Ms. E.IV.14, Muscettola Antonio), che di seguito riproduco, mettendo in rilievo con la sottolineatura il dettaglio e trasctivendone la parte che ci interessa.

 

Appena giunto in Napoli, mi sono accinto a servir Vostra Paternità e perché so quanto le siano care le lettere degli amici, ho dolcemente violentato il nostro Battista, il Crasso, a risponderle, come vedrà dall’incluse. In quanto alle notizie per l’Atene Italica, speriamo mandargliene a dovizia. Per Giuseppe Domenichi, tutte l’opere sue sono stampate in octavo. La parte prime in Lecce appresso Pietro Michiele l’anno 1654 da lui dedicata alla Maestà d’Apollo. La seconda in Napoli presso Luca Antonio de Fusco, 1658 all’illustrissimo don Giovanni Vargas. La terza in Padova per Paulo Frambotto ad Alomso Vargas Principe di Carpino, Duca di Cagnano. Con questo la riverisco ..

La citazione del 1658, data di pubblicazione del terzo libro, ci consente di collocare cronologicamente la lettera tra dopo il 1659 (data in cui uscì il terzo libro).  Importante, ai fini di questa indagine, è il fatto che i precedenti citati Battista e Crasso sono cognomi (con i rispettivi nomi di Giuseppe e Lorenzo) e sarebbe strano che Domenichi non fosse la prima parte di un cognome.

A questo si aggiunga che in tutti i componimenti del nostro non facenti parte di Castaliae stillulae  e pubblicati sparsamente in altre raccolte di vari autori coevi (una sorta di antologia è nel primo link segnalato in nota 2, ma i successivi non pochi rinvenimenti mi hanno convinto dell’opportunità di un aggiornamento, che fornirò a breve) compare sempre Giuseppe Domenichi e l’assenza di Fapane dà la certezza che Domenichi era il cognome, anche se è poco probabile che, a questo punto un po’ di ironia non guasta (come, spero, quella che evoca l’ambientazione della vignetta della prossima seconda e ultima puntata, alla cui lettura nessuno vorrà rinunciare …), che Fapane fosse il soprannome legato all’attività di fornaio esercitata non da lui ma da qualche antenato.

E ppure, nonostante questo, le varianti, sia pure di epoca posteriore, non mancano.

In Nicola Toppi. Biblioteca Napoletana, 1678 a p. 172 si legge Giuseppe Domenico Fapano (sic!), più avanti (p. 245) Domenichi Giuseppe, che infine nell’indice generale (s. p.) diventa Fapane Giuseppe Domenichi.

In Domenico De Angrelis, Le vite de’ letterati salentini, parte prima, s. n., Firenze, 1710: nella parte finale, pagina non numerata, dell’elenco dei letterati che l’autore  si riprometteva di trattare nella prima parte di Istoria de’ scrittori salentini, opera che mai vide la luce, si legge Giuseppe Domenico Fapane.

In Giovanni Bernardino Tafuri, Serie cronologica degli scrittori nati nel Regno di Napoli in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, tomo XVI, Venezia, Zane, 1738,  p. 206:  Giuseppe Domenichi Fapane.

In Camillo Minieri Riccio, Notizia delle accademie istitute nelle provincie napolitane,  in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 294: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Napoli nobilissima, volume XIV, fascicolo II, s. n. Napoli, 1905, p. 27: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Michele Maulender, Storia delle accademie d’Italia, Cappelli, Bologna, 1930, p. 10: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Luisa Cosi e Mario Spedicato, Vescovi e città nell’epoca barocca, Congedo, Galatina, 1995, p. 122: Giuseppe Domenico Fapane.

 In Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto a cura di a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci e Loredana Pellè, Lacaita, Manduria, 1999: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza e F. Rizzo, Congedo, Galatina, 2003, p, 12: Giuseppe Domenico Fapane.

In Le antiche memorie del nulla a cura di Carlo Ossola, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, p. 91: Giuseppe Domenico Fapane.

Dalla collazione, lasciando da parte il Toppi che con le sue tre varianti, soluzione diplomaticamente irresponsabile, mostra, facendo onore non al cognome del copertinese ma al suo, di aver toppato, risulta che merita attenzione il Domenico del De Angelis. Egli mostra di intenderlo come traduzione del Domenichi del titolo del libro del copertinese. Anche se la forma latina di Domenico è Dominicus (il cui genitivo è Dominici) sono attestate fin dal secolo XIV le varianti Dominichus  (con genitivo Dominichi) e Domenichus (con genitivo Domenichi). Da questo probabilmente è nato il Domenico del letterato leccese contro il Domenichi che abbiamo visto ricorrere puntualmente nella cronologia a lui precedente.

C’è da aggiungere, dettaglio non secondario, che sicuramente la maggior parte della vita, come tanti letterati del suo tempo, il Fapane la trascorse lontano da Copertino e che i rapporti stretti con l’ambiente napoletano, del quale il Muscettola della lettera è uno dei rappresentanti, come tutti napoletani sono gli altri letterati (Giuseppe Campanile, Baldassarre Pisani, Tommaso di S. Agostino e Pietro Casaburi Urries, per loro vedi il primo link di nota 2), tutti suoi contemporanei,  che lo ricordano come Giuseppe Domenichi Fapane.

E, a dare poca credibilità al Giuseppe Domenico Fapane del salentino De Angelis c’è il Giuseppe Domenichi di un altro letterato salentino, Giuseppe Battista di Grottaglie (pure per lui vedi il link appena segnalato), contemporaneo del copertinese e posteriore, dunque, al De Angelis. Appare credibile che essi abbiano concordemente propalato un dato fasullo? Fuori gioco, per quanto prima detto, resta il Toppi che, pur essendo nato a Chieti, trascorse la parte più significativa della sua vita a Napoli, dove morì.

Se il Domenichi del frontespizio di Castaliae stillulae (al pari di Iberi fulminis scintilla breuia poemata. D. Iosephi Domenichi Phapanis a Cupertino. Poetae, et academici furibundi, Micheli, Lecce, 1654) continua a lasciare qualche dubbio, la pistola ancora fumante il valore di cognome di Domenichi la offre il frontespizio della terza ed ultima opera pubblicata autonomamente (le altre due sono quelle che avevo appena citato), quasi una seconda (non nel senso di alternativa) firma, dopo la prima di Cataliae stillulae.

Si tratta di Musarum lessus in obitu. Iosephi Baptistae. À Iosepho Domenichi, Cavallo, Napoli, 1675  (Il pianto delle Muse in morte di Giuseppe Battista. Da Giuseppe Domenichi). Se Domenichi fosse stato nome, avremmo letto,  À Iosepho Domenico(o, al limite, Domenicho) e, oltretutto, l’assenza di Fapane conferma la natura di cognome di Domenichi.

La demolizione dell’enigmatico del titolo è stata completata. Mi auguro che la mia fatica serva almeno ad apportare la dovuta correzione almeno ai due cataloghi considerati un punto di riferimento3. Appuntamento a breve con l’enigmista.

 PER LA SECONDA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/11/lenigmatico-enigmista-di-copertino-2-2/?fbclid=IwAR2yAqYaB2OHfEgOBZY0aVSLPaS50ZeoMPekSFlAr038FV3xbcvMRbRXEqw_aem_Abye8qV6DFwRycNFNi1GZHgU31caxiAQ7ngnk1y-OQcvDNVZtM29dgZ_rJSxnmkbPkUV7YRp4viTJEBdb_eJ_r9L 

_________________________

1 Traduzione: Gocce di poesia. Castalia è una fonte che prende il nome da quello della ninfa che in essa si gettò per sfuggire alla libidine di Apollo. Secondo una variante del mito fu Apollo a trasformarla in fonte conferendo alle sue acque il potere d’infondere ispirazione poetica a chi avesse bevuto le sue acque.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/26/galeazzo-pinelli-il-marchese-fatuo-di-galatone-nella-celebrazione-di-giuseppe-domenichi-fapane-di-copertino/

 

3 https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata?fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40&fieldvalue%5B1%5D=Domenichi+Fapane&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016#1712050322253

https://www.beweb.chiesacattolica.it/benilibrari/libro/859871116/Castaliae+stillulae+trecentae%2C+quae+quintum+riuulum+permessi+conficiunt.+Hoc+est+epigrammaton+Iosephi+Domenichi+Phapanis+a+Cupertino+liber+quintus#action=ricerca%2Frisultati&view=griglia&locale=it&ordine=&ambito=XD&liberadescr=Castaliae+stillulae&liberaluogo=&highlight=Castaliae&highlight=stillulae

 

Una nuova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese

di Santo Venerdì Patella

Sino a non molto tempo fa l’unico pittore conosciuto del tardo manierismo napoletano a Muro era, secondo quanto si evince dall’Antonaci, il neretino Donato Antonio D’Orlando con le tele della Madonna con bambino tra il Battista e San Francesco (firmata e datata 1596), il San Giovanni Battista (senza firma) ed il Perdono di Assisi (datata 1608, senza firma) conservate nella chiesa di Maria S.ma Annunziata matrice della città[1].

Da buon murese e per motivi di passione e studio, essendo al termine degli studi universitari in beni culturali, ammiro di frequente queste tele e spesso mi son domandato come mai una delle tre tele, il Perdono di Assisi fosse, a mio parere, diversamente bella dalle altre due.

Anche il De Giorgi ne aveva intuito la diversa bellezza e scrive, nei Bozzetti di Viaggio: “Due altri quadri sono collocati… (nella chiesa dell’Annunziata)…, uno S. Gio. Battista, l’altro Gesù Cristo che benedice S. Francesco (il Perdono). Sotto quest’ultimo si scorgono, alla base del dipinto, le effigie votive dei donatori. Sono del 1608 e di buon pennello, specialmente l’ultimo dei summentovati”.

Dopo questo breve preludio arrivo immediatamente all’oggetto del contendere.

Antonio Donato D'Orlando
Fig. 1 tratta da “La Puglia, il manierismo e la controriforma / a cura di Antonio Cassiano, Fabrizio Vona”, Congedo, Galatina 2013

 

Propenderei ad attribuire la tela del “Perdono di Assisi” [fig. 1] non più al D’Orlando bensì al Catalano, anche alla luce delle molteplici prove di seguito fornite.

Anzitutto faccio una sintetica descrizione dell’opera: la scena è pensata geometricamente; l’ipotetica metà verticale, che bipartisce in due la composizione del Perdono, a prima vista sembrerebbe passare tra le figure di Maria e Cristo con la mano destra alzata (vertice dell’altrettanto ipotetica piramide che inscrive le due figure), e per la croce greca al centro dell’altare damascato, su cui esse sono assise in trono.

In realtà la linea, che bipartisce la composizione, passa attraverso il centro della figura della Vergine ed il mazzo di fiori posto davanti al San Francesco, che in ginocchio contempla a bocca aperta, quasi inebetito, le divinità sovrastanti.

Ai lati sono presenti due scenette con paesaggi riguardanti la storia del Perdono: nella parte superiore schiere d’angeli (alcuni musicanti) completano l’opera bilanciandola ed impreziosendola; in quella inferiore i tre busti dei committenti.

Ora addentriamoci nell’analisi delle prove.

-Dato di non poco conto, è la presenza a Muro sempre nella chiesa matrice, della tela della Madonna con bambino tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola, attribuita tempo fa da Mario Cazzato al gallipolino Catalano[2] ritenuta dall’Antonaci di autore ignoto (opera su cit.).

Grazie a M. Cazzato sfatata è quindi la presenza del solo D’Orlando come unico pittore conosciuto ed attivo tra il 500 e 600 a Muro (oltre la tela della Madonna del Carmine attribuita allo Strafella, ritrovata poco tempo fa dopo il furto del 1987).

Perciò, ad arricchire la schiera degli artisti che hanno onorato Muro con le loro opere, v’è già il Catalano artista locale tra i più interessanti se non il più importante del suo periodo storico.

La Madonna con bambino è la prova del contatto dei committenti muresi col Catalano. Altro dato interessante è che la tela, anche se non datata, non è stata compiuta prima della canonizzazione di San Carlo Borromeo, anno 1610, pertanto realizzata dopo il Perdono di Assisi, datato 1608 che diviene la prima opera murese conosciuta del gallipolino.

-Anche se simile è l’impostazione originale nel trattare il Perdono, in confronto con le altre due tele del D’Orlando, non si ritrova però quello stile leggermente “arcaizzante” del modo di presentare i personaggi del neretino.

La linea delle figure del Perdono si presenta meno rigida, più fluente e sinuosa, bellissima ed elegante nei tratti dei visi e dei panneggi, specie nella maniera di dipingere le varie figure angeliche e le nubi.

Tipiche del Catalano le capigliature bionde ed ondulate delle creature celesti leggermente stempiate (quasi una “firma” dell’artista), disposte in cerchio sovra le nuvole, anche se nel gruppo di destra si potrebbe ipotizzare l’intervento della bottega.

-Altra “firma” si ritrova nelle scene con paesaggi poste ai lati dell’opera, specie nella città che è sita in alto a destra, usuale paesaggio fantastico dell’artista.

Quasi costante è la presenza dell’edificio a pianta centrale con cupola e relativa lanterna e la chiesa con facciata a capanna di gusto romanico, strutture simili a quelle dipinte nella tela dell’Annunciazione nella chiesa del Rosario, a Gallipoli.

Pongo all’attenzione dei lettori due curiosità:

1) questi paesaggi sono tanto interessanti che un altro grande pittore presente a Muro, il settecentesco Serafino Elmo, nella sua gigantesca tela del David che danza davanti al trasporto dell’Arca (posta nel coro della chiesa matrice) riprende quasi fedelmente l’architettura che il Catalano dipinse sulla tela della Santa Caterina d’Alessandria (conservata nell’oratorio di S. Giuseppe, a Gallipoli) specie nella struttura difensiva della torre; tutto questo quasi 130 anni dopo!

2) non manca a Muro anche la copia di un’altra tela del Catalano, la Salita al Calvario, il cui originale e conservato a Scorrano: anche se riprende in massima parte lo schema compositivo della tela scorranese, viene però realizzata col gusto di un’icona bizantina, opera curiosa e affascinante d’un artista “Bizantino-Naif”, esempio ultimo in città del gusto stilistico orientale del meridione; già il Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese menziona queste pitture in tal modo: “…sono da rimarcarsi alcune pitture di antichissima data condotte alla maniera greca del mezzo tempo”.

-Altra caratteristica del nostro artista è di riutilizzare in più opere i cartoni o disegni preparatori; questo lo si noti nelle figure del San Domenico e del committente nella tela di Madonna con bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino [fig. 6], ex chiesa dei domenicani: identiche le teste effigiate di profilo del nostro San Francesco e del San Domenico matinese, come identica la postura dei committenti maschili, specie nelle mani giunte, tanto simili da sembrar fratelli (per il nostro Perdono, l’opera matinese attribuita giustamente al Catalano, rappresenta quasi una pietra di paragone che avvalora le attribuzioni di entrambe.

Anche uno degli angeli posti a destra della Madonna nella tela murese è identico ad uno degli angeli posto a destra sopra l’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione della chiesa matrice di Specchia, come simili sono alcuni degli angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli.

Si noti che equivalenti sono i posti, ed in parte le posture, che queste figure hanno nelle rispettive opere.

Ora è fuor di dubbio che questa tela appartenga al Catalano; possiamo anche escludere che essa appartenga al D’Orlando che imita lo stile del gallipolino, perché semmai così fosse, in questa opera esso si sarebbe in realtà annullato come produttore d’opere originali, divenendone solo un “emulo-falsario” e verrebbe meno pure la loro ipotizzata rivalità, fatto questo che dichiarerebbe la “vittoria”, in termini artistici, del Catalano sul D’Orlando.

Pertanto possiamo ora esser certi della veridicità di quanto scritto, ed affermare che il Perdono di Assisi sia anche tra le migliori opere realizzate dal Giandomenico Catalano.

A Muro la partita tra i due grandi pittori, alla luce dei fatti sin ora scoperti, ebbe com’esito un salomonico risultato di parità: CATALANO – D’ORLANDO: 2 a 2.

 

(pubblicato in “Il Bardo”, XIII, n. 1, ottobre 2003, p. 2)

 

Note

[1] cfr. A. Antonaci, Muro Leccese Storia e Arte, Galatina 1994, p. 364.

[2] cfr. E. Pendinelli – M. Cazzato, Il Pittore Catalano, Alezio 2000, p. 41.

S. Giuseppe da Copertino (1603-1663) in due ulteriori testimonianze della sua internazionalità

di Armando Polito

Del tema mi ero occupato qualche anno fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/18/s-giuseppe-da-copertino-e-un-inno-del-xviii-secolo) e questo post vuole essere un’integrazione, soprattutto per la parte americana,  di quanto allora ebbi occasione di riportare a più riprese.

La sapienza antica aveva sentenziato Faber est suae quisque fortunae (Ognuno è l’artefice della propria sorte), ma, pur condividendo il concetto in essa compreso della responsabilità personale, mi sembra ingiusto attribuire quest’ultima sempre e comunque, magari anche alla memoria, ad ogni essere umano, sia nella buona che nella cattiva sorte, poiché fattori vari, casuali e imprevedibili possono intervenire anche post mortem in un senso o nell’altro. Questo vale anche per i beati e i santi, compreso il figlio di Copertino. Se, per esempio, il missionario frate francescano Pedro Font nel 1776 non avesse accompagnato, per giunta anche nel ruolo di cartografo, Juan Bautista de Anza nella sua spedizione e non avesse chiamato un fiume da loro incontrato arroio de san José  de Cupertino (di seguito la targa del 1968 che ricorda l’evento), oggi la città californiana avrebbe un altro nome e un santo non sarebbe restato coinvolto, a sua insaputa, nel fenomeno, spesso tutt’altro che santo o, quanto meno incruento, dell’esplorazione, prima tappa della colonizzazione e, poiché l’appetito vien mangiando e il cattivo esempio ispira sempre emulazione, del colonialismo, fenomeno antichissimo, che oggi si manifesta con modalità sempre più sofisticate e subdole, di cui sono interpreti privilegiate multinazionali che all’agricoltura sottraggono non solo braccia ma terreni su cui installare impianti di produzione di energia alternativa a quella di origine fossile, in primis la fotovoltaica, in cui il silicio la fa da padrona (e Cupertino è nel territorio della Silicon Valley, anche se oggi è la Cina a dettar legge), con l’ipocrita quanto criminale intento di cavalcare i timori per la salute dell’ambiente ai fini di un sempre maggiore profitto, con la connivenza, ancor più criminale, di governi (come il nostro con gli ultimi provvedimenti in materia del decreto semplificazioni) preoccupati solo, da decenni a questa parte, di mantenere, se non consolidare, il potere sciacquandosi la bocca con la parola democrazia e cercando il consenso con generiche promesse e comodi ammiccamenti.

This arroyo honoring San Joseph, patron saint of flight and students, was first discovered and traversed by Spanish explorers in 1769. On March 25-26, 1776 Colonel Juan Bautista de Anza made it his encampment n. 99 as mapped by his cartographer Padre Pedro, before continuing on to the San Francisco Bay Area where he initiated steps to found a colony, a mission and a presidio.

California reistered historical landmark nu. 800

Plaque placed by the state department of parks and recreation in cooperation with the Cupertino historical society inc. may 29 1968 

(Questo fiume in onore di San Giuseppe, santo patrono del volo e degli studenti, fu scoperto e attraversato per la prima volta da esploratori spagnoli nel 1769. Il 25 e 26 marzo 1776 il colonnello Juan Bautista de Anza ne fece il suo accampamento n. 99, come mappato dal suo cartografo Padre Pedro , prima di proseguire verso l’area della Baia di San Francisco dove iniziò i passi per fondare una colonia, una missione e un presidio. Targa posta dal dipartimento di stato dei parchi e delle attività ricreative in cooperazione con la Cupertino  historical society incorporation 29 maggio 1968)

Se al santo nessuna responsabilità va in questo caso ascritta, al beato, invece, va riconosciuto il merito di una notorietà che, prima ancora di approdare nella modalità che abbiamo visto in America, si era già manifestata, comunque ben oltre i nostri confini, come mostra, oltre a quanto segnalato col link iniziale, il frontespizio, di Diarium seu tractatus asceticus, quo novitii actiones suas diurnas rectificare docentur1 di Benedetto Sigl, uscito per i tipi di Enrico Ignazio Nicomede Hautt a Lucerna nel 1761 (segue il frontespizio).

Le pp. 358-366 sono dedicate al nostro (di seguito la 358).

PICCOLO RITO DEL BEATO GIUSEPPE DA COPERTINO

AL MATTINO

 

O Signore, aprirai le mie labbra       versetto 17° del Miserere

e la mia bocca rcconterà la tua lode.

Dio, in mio aiuto etc. Gloria al Padre ertc.

Inno

O Giuseppe, ornamento,

luce e decoro dell’Ordine!

Tu già dal fiore dell’età

ciò che separa da Dio

lo espellesti competamente

dal tuo grande cuore .

Il candore della tua vita

era noto solo a Dio.

Tu scegliesti Maria,

perché allora ti difendesse,

mentre cerca di inghiottirti

lo spirito infernale.

Antifona

Chi ha perso la sua vita per me, la troverà.

Prega per noi, Beato Giuseppe,

affinché siamo resi degni etc.

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1 Diario o trattato ascetico dal quale i novizi sono edotti a correggere le loro azioni quotidiane.

 

I Carignani, signori di Novoli, fra mecenatismo artistico e mecenatismo letterario

di Gilberto Spagnolo

Con la morte di Alessandro III nel 1706, si estingueva a Novoli la stirpe dei Mattei che per circa duecento anni avevano esercitato la loro signoria nel paese. Subito il regio fisco dispose per l’apprezzo dei feudi della contea che nello stesso anno passò a Cornelia Brayda, vedova di Francesco Antonio Paladini e cugina per parte di madre dei Mattei.

Cornelia, nonostante le cospicue ricchezze ereditate dal padre, marchese di Rapolla e dal marito, non si ritenne capace di affrontare le dissestate condizioni economiche dei due suoi nuovi possessi, sicché restituì terre e titoli alla real Corte che, nel 1713, vendette i territori in questione a Felice Carignani.

Novoli, Palazzo della Cavallerizza, stemmi nobiliari dei Carignani, Della Torre, Alfarano Capece, Castriota Scanderbeg

 

Quest’ultimo nell’anno successivo ottenne per la contea di Novoli l’elevazione a ducato. I Carignani tennero Novoli per 92 anni e furono dunque gli ultimi signori del luogo sino alla soppressione della feudalità applicata nel Salento nel mese di agosto del 1806. A noi Novolesi, la dinastia dei Carignani (a differenza di quella dei Mattei, feudatari dal 1520 al 1706) ci è nota soprattutto “solo per l’avidità” di inflessibili feudatari, i quali col tempo avevano accresciuto a dismisura il loro arbitrio e la loro rapacità, lasciando in quei tempi il popolo nella miseria e nell’ignoranza. Basti ricordare al riguardo la dura controversia che vide protagonisti Giuseppe Oronzo Turfani di Lecce, possessore di alcuni poderi nel feudo di Nubilo (Villa Convento) e i fratelli D. Paolo e D. Luigi Mazzotta, Novolesi, possessori nel feudo di detta terra, i quali l’11 gennaio del 1805 contestarono al duca Giuseppe, presso la Camera della Sommaria, una quarantina di esazioni indebite fra decime, tributi e vessazioni ovvero “quei supposti diritti nati unicamente dall’anarchia feudale si sono su quella ignorante popolazione fino agli ultimi tempi accresciuti ed appesantiti dalla prepotenza baronale col timore e colle vessazioni”, contestazioni (di cui esiste un’importante memoria legale) che dettero torto al Duca che fu diffidato di esercitare il suo strapotere.

D. DE ROSSI, Provincia di Terra d’Otranto prima metà del 1700, cartiglio (dedicata a Felice Carignani, coll. Privata).

 

Memoria legale di B. TIZZANI – N. TURFANI sugli abusi feudali dei Carignani a Novoli, Napoli 1805, Frontespizio (coll. Privata).

 

Gli approfonditi studi di Mario Cazzato e Salvatore Errico sul palazzo baronale di Monteroni nonché i contributi di Giovanni Greco sul collezionismo artistico del ‘700 salentino, ci inducono ora a riconsiderare certamente il loro ruolo e a rivalutarlo in relazione ai numerosi aspetti inediti su tale famiglia e sulle loro umane vicende personali che evidentemente rimangono ancora nascoste (e quindi tutte da chiarire) tra le pagine ingiallite degli atti notarili. Ora sappiamo infatti (grazie agli importanti documenti rintracciati da M. Cazzato e S. Errico) che quando nel 1780 i Lopez acquistarono il leccese palazzo Giaconia-Carignani (per 6000 ducati) attaccato alla chiesa leccese di S. Maria degli Angeli, dai fratelli Giovanni (duca di Novoli) e Giovanni Battista Carignani, trattennero tra l’altro anche una straordinaria quadreria che i duchi di Novoli avevano costituito nei decenni precedenti e che dimostrano una spiccata inclinazione di questa famiglia ducale al collezionismo. La consistenza di tale dotazione pittorica (che risulta da un contratto d’affitto del 1744) era di ben 368 quadri “tra grandi, piccoli e tondini”, con opere della scuola del Lanfranco, con opere di Luca Giordano, della scuola del Vaccaro, del Bianco di Casalnuovo, del Ribera, che dimostrano anche che i Carignani erano una famiglia di committenti avveduti e non casuali. Altri episodi orientano in questa direzione, come l’invio da Napoli a Lecce nel 1696 della splendida tela con S. Gregorio Taumaturgo di Paolo De Matteis per l’altare maggiore della cappella del Seminario leccese, acquistato proprio da Giovanni Carignani, fratello di Felice e primo possessore della famiglia del feudo di Novoli, o l’acquisto nel l740 (da parte di Antonio Carignani) dal marchese di Ugento Domenico D’Amore di ben dieci tele in cambio dell’estinzione di un consistente debito ammontante ad alcune centinaia di ducati, valutate da Serafino Elmo “esperto et abile in materie di pitture” in 865 ducati. Che la famiglia Carignani (originaria di Taranto e le cui più antiche memorie risalgono al 1309) debba essere collocata dunque in ben altro “splendore” e “prestigio” sono inoltre diverse testimonianze letterarie che dimostrano appunto quanto tale famiglia (evidentemente per la loro vitalità ed impegno culturale, per il loro sentimento artistico) fosse tenuta in grande considerazione da letterati, storici, artisti (e non per le prepotenze feudali instaurate dai propri componenti). Le riporto sinteticamente qui di seguito riservandoci in altra occasione un necessario ed opportuno approfondimento.

S. PANSUTI, La Sofonisba, frontespizio (coll. privata).

 

S. PANSUTI, La Sofonisba, Antiporta.

 

Nel 1726, il letterato napoletano Saverio Pansuti “colto anzi maraviglioso ingegno” consacrava all’illustrissima signora D. Marina Della Torre, Marchesa di Novoli, Baronessa di Carignani, la tragedia “La Sofonisba” presso i Torchi di Domenico Antonio e Niccolò Parrino. La Signora Duchessa D. Marina, moglie di Francesco Carignani, come risulta dalla lettera dedicatoria in questo libro (ed in quello di cui parleremo successivamente) si era degnata di accettare “e sotto la sua protezione tenere” ben quattro tragedie di tale autore, tra cui “Il Bruto” e la “Virginia”. Nel decantare le lodi umane e nobili della baronessa (la cui famiglia era imparentata a quella nobilissima degli Spinola), l’autore scrive tra l’altro: “…..ben da voi questo nobil componimento doveva sì bel lume ricevere, che tanti Eroi, quanti Progenitori vantate, stelle di maggior grandezza del chiaro cielo della Liguria, che ben due volte il trono di quel Venerabile Senato occuparono. Congiunto il vostro chiaro sangue a quel della nobilissima famiglia Spinola, di cui fu germoglio l’inclita vostra madre: Famiglia le di cui chiare gesta la Liguria, l’Italia, e il Mondo tutto illustrarono, e che i bastoni di supremo comando, e le porpore quasi, che indivisibili propietadi in lei per natura contengonsi; accoppiandosi altresì alla Vostra la nobiltà del Signor marchese di Novoli, vostro degnissimo sposo, nobile dell’illustre città di Taranto, il quale per antico retaggio de’ suoi non mai fin’ora interrotti Progenitori, annovera tredici Baroni prima di lui nel possesso del suo nobilfeudo, da cui questa chiara ed antica famiglia à presso il cognome; prerogativa in vero, che pochi Baroni posson vantarsene, ricolmo poi d ‘onori dal nostro clementissimo Cesare, che al riflesso dè suoi meriti, à bene esercitata fin qui verso di lui; però non già resa stanca la sua Reale munificenza. Ma quindi a queste sin’ora addotte riflessioni un’altra di non minor peso a ciò fare mi spinge, ed ella si è il recarmi a memoria il gran numero dè benefici, i quali dalla vostra Illustrissima Casa tutto dì mi prevengono, uniti all’amore, che io godo di vivere all’ombra della vostra onorata protezzione….Nulla però di meno mi do a credere, che non vi apporti dispiacenza, che per un certo sfogo di gratitudine almen colle parole un qualche saggio io ne palesi e diffonda”.

S. PANSUTI, La Virginia, frontespizio (coll. privata).

 

S. PANSUTI, La Virginia, Antiporta.

 

S. PANSUTI, Il Bruto, frontespizio (coll. privata).

 

S. PANSUTI, Il Bruto, Antiporta.

 

Nel 1737, il sacerdote D. Giacomo Simidei, dottore di filosofia e di sacra Teologia, Patrizio di Brando, Diocesi di Mariana nella Corsica dedicava all’illustrissimo signore Fra Felice Carignani dei Duchi di Novoli, cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano la sua importante e corposa (pagg. 575 più indici) opera “Compendio della Storia degli Eresiarchi…” (con una descrizione del Regno di Corsica stampata a Napoli per il Parrino). Importanti sono i riferimenti nella lettera dedicatoria (datata Napoli 20 aprile 1737 a firma dello stampatore) alla Duchessa D. Marina della Torre, madre di Felice “Dama di alto e chiaro intendimento oltre il suo sesso fornita” e moglie di Francesco Carignani Duca di Novoli e marchese di Carignano; nonché le annotazioni storico-nobiliari sulla stessa famiglia Carignani che “può andar fastosa e superba per aver dato al mondo un albero che frutti apporta al nostro regno di gran decoro” e su quello dei della Torre unita alla (per ben due volte sul ducale trono del Senato di Genova) famiglia degli Spinola. Scrive infatti lo stampatore Nicola Parrino “E non temo in questo dire, che io dico cosa non vera: imperiocchè in sapere con che gara Voi cogli altri fratelli D. Giulio e D. Giovanni (Giovanni è d’ingegno pronto e di spirito vivace e brioso) vi siete insieme con esso loro inoltrato nelle notizie e delle lettere amene, e di più Scienze nel celebre seminario di Siena, che a coltivare e ammaestrare in sé non raccoglie, da varie Parti, anche Oltramontane, se non se chi scorge d’intelligenza vasta, acuta e penetrante; ed un vedere ora, come né studi sottili e profondi della Matematica (unica a farci daddovero sapere) spiega voli ammirandi la velocissima Vostra Mente fatto io Indovinatore verace, già miro nell’aria, del vostro volto dipinte le prodezze e le gagliardie dello Spirito Vostro nell’affrontare, combattere ed annientare il più fiero nimico di Nostra Santa Fede. E queste generose operazioni, tanto più rare e meravigliose saranno quanto più proveranno dalla difficultà delle Imprese, alle quali sempre si sono posti i valorosi Cavalieri della Sacra Militare Religione di Malta, da che incominciarono a mettere freno alla insolente Potenza Ottomana, la quale, ora di niuno altro più che di loro tema e paventa”.

G. SIMIDEI, Compendio della storia degli Eresiarchi, per il Parrino, Napoli 1737, dedicato a Felice Carignani, frontespizio (coll. privata).

 

N. CAPUTI, De Tarantulae Anatome, et morsu, D. Viverito, Lecce 1714. Dedica a Giuseppe Carignani (rist. anastatica, Ed. Dell’Iride, Tricase 2001).

 

N. CAPUTI, De Tarantulae Anatome etc., Sonetto dedicato a Giuseppe Carignani (ristampa).

 

Nel 1741, per i torchi leccesi di Domenico Viverito, Nicola Caputi stampava il suo Opusculum hoc Historico-Mechonicum intitolato De Tarantulae Anatome et Morsu dedicandolo all’Excellentisimo viro/ D. Josepho/ CARIGNANO / E Sanctae Mariae de Novis Ducibus Tripudii/Dominis, decimae quartae Aetatis Carignani / Feudi Baronibus/ Nobilissimo Tarenti Patrizio./ Morum Probitate, Pritatis ornamento/Scientiae Solertia clarisima…. Nicola Caputi, discepolo del famoso Nicola Cirillo, nacque in Campi intorno al 1695. Si laureò in Napoli in medicina ed esercitò la professione in Lecce con grande successo. Nel 1747 faceva parte anche (oltre, che della R. Accademia Napoletana) dell’Accademia degli Spioni e in Lecce tenne scuola di fisica, matematica, medicina e scienze naturali. Morì a Lecce nel 1761. Al Carignani, il Caputi, in questo testo dedica anche un sonetto del seguente tenore “….quella virtù, che tanto ormai prevale, e in te soggiorna, e ti fa gire onusto di tanto onor che il Secolo vetusto correggi, e al nostro dai vanto immortale… quella sarà, se tu proteggi e guidi queste scipite, e mal vergate carte….”.

B. TAFURI, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli 1750, frontespizio (Tomo III. Parte I, dedicati a Felice Carignani, coll. privata).

 

Nel 1750 il noto scrittore Gio:Bemardino Tafuri da Nardò pubblicava in Napoli per il Mosca, il tomo III Parte I della sua famosa opera Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli dedicandola a Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Fra. D. Felice di Carignano dell’Ordine Gerosolimitano. Nella lettera dedicatoria è presente oltre che un’importante ricostruzione dinastica della famiglia e dei suoi più illustri componenti, un vero e proprio “ritratto” del protettore (dall’eroico talento ed esemplare perfetto di cavaliere) a cui l’opera è dedicata (già ricordato, come si è scritto, in un’altra precedentemente nominata) con particolari inediti sulla sua vita (sappiamo ad esempio che Felice oltre ad aver dato “gloriosamente il nome nel Sagro Ordine Girosolimitano” aveva tenuto con insigne valore il governo di una galera in qualità di capitano) e di cui “disdicendomi l’impareggiabile vostra modestia, ch’io più m’inoltri nel meritato vostro elogio, contentatevi almeno che rammentando a voi steso la generosa vostra grandezza di cuore, vi supplichi a ricevere benignamente questo libro, che pongo sotto gli invidiabili auspici del Vostro Patrocinio, con quel vero profondissimo ossequio col quale mi do l’onore di dirmi di V. Eccellenza”.

In questo percorso di mecenatismo letterario ricordiamo infine il raro e prezioso documento cartografico che risalirebbe alla prima metà del 1700 (appartenente ad una collezione privata) di cui abbiamo già dato notizia in altro studio) ovvero la Provincia / di Terra d’Otranto / delineata dal Magini /ampliata dal Rossi / e d’ora a miglior perfezione ridotta / secondo lo Stato Presente / dedicata / al Merito dell’Ill.mo Sig.re Fra D. Felice / Carignani de’ Duchi di Novoli Cavaliere dell’ / Ordine Gerosolimitano. La carta che nel cartiglio reca al centro lo stemma nobiliare dei Carignani, è probabilmente un unicum (Novoli è presente con il toponimo Novuli), misura mm 440×540 e sembra facesse parte anche di un atlante o di qualche testo poiché sul margine superiore destro vi è riportato la dicitura pag.585 con a fianco il n° 18 riferito forse alla numerazione delle tavole.

Felice Carignani era nato a Napoli da Giulio Cesare e Francesca Alfarano Capece. Quando i feudi di Novoli e del Convento, dopo i Mattei, furono messi in vendita, fu proprio Felice Carignani a dare l’incarico al suo agente Nicola Latronico di acquistarli. La stipula venne rogata dal notaio Giuseppe Raguccio di Napoli l’11 febbraio 1713. Felice morì a Napoli il 3 marzo 1716.

Epistola di Paolo Moccia (professore di eloquenza) a Francesco Carignani “Novolensium Duci” (in Epistolae, Napoli Tipografia Simoniana 1764, coll. privata).

 

Parte conclusiva dell’epistola di Paolo Moccia a Francesco Carignani.

Pubblicato in “Lu puzzu te la Matonna”, Anno VI, 18 luglio 1999, pp. 19-21.

 

Riferimenti bibliografici essenziali

M.Gaballo, I Carignani ultimi signori di Novoli, in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. IV, 20 luglio 1997.

M. Rossi, Circa le decime, ivi.

G. Greco, Il Duca di Novoli e una vicenda sul collezionismo artistico del ‘700 salentino, ivi.

M. Cazzato, La quadreria del Palazzo Ducale, in “Vita Cristiana”, Monteroni, ottobre 1994, supplemento a “L’ora del Salento”.

O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Novoli 1986.

Id., Novoli (18061931), Novoli 1990.

G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, Novoli 1987.

Id., Storia di Novoli, Note e Approfondimenti, Lecce 1990.

L.G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Vol. I, La città, nuova edizione postillata da Nicola Vacca, Lecce 1964.

M. Cazzato, S. Errico, Il Palazzo baronale di Monteroni, Contributo alla Storia dell’Architettura Salentina, Galatina 1998.

M. Cazzato, Fortune nobiliari e interessi artistici. I Lopez y Royo nella seconda metà del ‘700 in “Presenza Taurisanese”, nov. dic. 1995.

G. Spagnolo, Fonti Bibliografiche per la Storia di Terra d’Otranto; memorie legali dei secoli XVIII e XIX, in “Lu Lampiune”, a. IX, n. 3, Lecce, dicembre 1993.

M. De Marco, Il tramonto della feudalità nel Salento. Una causa a Novoli contro gli abusi dei Carignani, in “Quaderni Salentini”, a. I, n. 3, 18 aprile 1981.

S. Pansuti, La Sofonisba. Tragedia, in Napoli MDCCXXVI, presso Domenico-Antonio e Niccolò Parrino.

Gio: Bernardino Tafuri, Istoria degli Scrittori nati nel Regno di Napoli, Tomo III, Parte I, in Napoli, Per lo Mosca, 1750.

G. Simidei, Compendio della Storia degli Eresiarchi, MDCCXXXVII per il Parrino in Napoli.

N. Caputi, De Tarantolae Anatome et Morsu, Domenico V. Viverito, Lecce 1741.

Seclì e un suo figlio dimenticato del secolo XVII

di Armando Polito

La vita è molto strana. È toccato proprio a me, laico fino a tal punto da considerare tutte le religioni come favolette consolatorie e illusioni nemmeno tanto pie, viste le guerre che ancora oggi scatenano, di imbattermi casualmente nel personaggio genericamente evocato dal titolo ma che ora specifico appartenere alla sfera ecclesiastica. Nello sfruttare per ricerche di altro tipo le immense risorse della rete ho acquisito un dato che ho ritenuto meritevole di essere partecipato ad altri. Forse qualcuno ha colto in quel dimenticato del titolo una nota di rimprovero. Non è così, ho solo voluto approfittare di una fortuita quanto fortunata circostanza per colmare una lacuna  che nella ricostruzione del passato è sovente legata alla maggiore o minore importanza, reale o presunta, attribuita ad un personaggio, concetto che ribadirò nella domanda finale.

Se, infatti, sono ben note le figure di altri figli di Seclì del XVII secolo, quali Padre Francesco e Suor Chiara1, di Padre Marcellino nulla sapremmo se non fosse possibile leggere la sua biografia in un libro  del 17322, che è, credo, l’unica fonte per chi abbia voglia e tempo di saperne di più. Anzi, alla riproduzione del frontespizio faccio seguire quella delle poche pagine coinvolte (184-186).

Abbastanza scontato è il repertorio di dettagli che ne esaltano le virtù e, purtroppo, l’unica data riportata è quella della morte avvenuta il 26 ottobre 1702 all’età di 65 anni, dato che consente di collocarne la nascita al 1637.  ll titolo Venerabile Servo di Dio che si legge all’inizio fa pensare ad un processo canonico di beatificazione già avviato. Se è legittimo pensare che alla data del libro non si fosse concluso, sarebbe interessante conoscerne l’esito. A costo di essere accusato di maliziose allusioni chiudo lasciando al lettore l’adesione, la contestazione o l’indifferenza che suscita la domanda: se Padre Marcellino avesse pubblicato qualcosa, avrebbe avuto la notorietà di Padre Francesco e, se fosse disceso da nobili lombi, la sua biografia avrebbe avuto l’estensione di quella di Suor Chiara, scritta in ben quattro tomi (di seguito il frontespizio del primo) da Francesco Maria Severino (de’ Duchi di Seclì, Conte di Tamarano, come si legge nella dedica)?

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1 Il primo (1585-1672), teologo, fu autore molto prolifico:

Paragone spirituale, Giacomo Gaidone, Bari 1634

Viaggio di Gierusalemme nel quale si have minuta, e distinta notitia delli Santi Luoghi, Pietro Micheli, Lecce, 1639

Discorso, e conchiusione, che la religione futura de’ catenati profetizzata dal padre frat’Ugone da Dina, e la congregatione futura de’ Cruciferi di Giesu Cristo, profetizzata da Santo Francesco da Paola, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Regola e vita, che denno osseruare li fratelli della congregatione de’ catenati nouellamente eretta nella diuotissima citta di Gallipoli, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Paradiso terrestre del molto reuerendo padre fra Francesco da Secli. Trattato breue, non men dottrinale, che curioso, nel quale si proua con autorita, che detto luogo durera sino al giorno del Giudicio, e che hoggi e nell’istesso essere, mel quale in principio fu piantato dal mistico agricoltore, Dio, Pietro Micheli, Lecce, 1671

Suor Chiara (1618-1693), al secolo Isabella D’Amato, era figlia del duca Francesco e della marchesa Caterina D’Acugno, feudatari di Seclì e Temerano.

2 Arcangelo da Montesarchio, Cronistoria della riformata provincia di S. Angiolo in Puglia, Mosca, Napoli, 1732.

Girolamo Marciano e i Discorsi di Guillaime Du Choul, gentiluomo lionese

Girolamo Marciano e i Discorsi di Guillaime Du Choul, gentiluomo lionese. Contributo su una biblioteca perduta

 

di Gilberto Spagnolo

A Enzo Maria Ramondini.

Alla sua memoria.

Nel 1992, nel corso di una ricerca sulla storia del Seminario Vescovile di Lecce e della sua Biblioteca, la “Innocenziana”, lo studioso Oronzo Mazzotta fortuitamente si imbattè (ironia della sorte), in ben 23 cinquecentine, di cui 13 tomi stampati a Parigi da Dionigi Duval nel 1586 (che contengono “l’Opera Omnia” di S. Agostino curata dai teologi di Lovanio) e altri 10 tomi stampati a Venezia dai Fratelli Sessa nel 1596, che contengono i “Commentaria” al Vecchio e al Nuovo Testamento di Alfonso Tostati filosofo, teologo e vescovo di Avila.

Tutti i volumi, come annotato sui frontespizi, provenivano dalla “biblioteca di Alessandro Mattei.

Improvvisamente, di fronte a una traccia così tangibile, quella biblioteca tanto decantata dal Marciano, scomparsa misteriosamente, dispersa nel nulla, tanto da far pensare a una pura e semplice invenzione del filosofo di Leverano (ospite dello stesso conte) si materializzava, assieme al suo “eruditissimo, saggio e prudentissimo principe” nelle mani di chi aveva avuto “molti interrogativi e poche certezze” al riguardo. Questo corposo numero di libri proveniente “dalla biblioteca di Alessandro Mattei” è stato, dopo il Mazzotta, censito nel 1997 da Lorella Ingrosso e nel 2004, ha avuto un “posto di rilievo” nell’accurato lavoro archivistico condotto con perizia e con lodevole impegno da Maria Elisabetta Buccoliero e Francesca Marzano, studio che valorizza il patrimonio antico (incunaboli e cinquecentine) della Chiesa di Lecce.

La “vicenda” della Biblioteca Mattei, del suo “Museo di libri” di cui ci dà informazione il Marciano che trascorse l’ultimo periodo della sua vita in un “rapporto privilegiato” con il giovane Alessandro, si arricchisce di una nuova e significativa testimonianza, di una “traccia letteraria” (se così possiamo definirla) che oltre a dare un ulteriore riscontro – seppure indiretto – sulla sua esistenza, fornisce soprattutto un certo valore sulla “ricerca delle fonti” del Marciano stesso che qui a Novoli (vi dimorò dal 1615 al 1620) ultimò la sua Descrizione di Terra d’Otranto discorrendone con Alessandro e usando i suoi libri (vi era, infatti, venuto perché “attratto dalla fama del suo sapere e dalla sua ricca biblioteca”).

Scrive Natalia Aspesi, in una recensione su un interessante libro di Alexandra Lapierre che “i colpi di fulmine che fanno innamorare gli studiosi avvengono nella solitudine degli archivi sfogliando vecchie carte consumate, col cuore che batte per una scoperta, una rivelazione, una traccia, una domanda senza risposta, un segreto che si svela”.

Qualcosa di simile mi è personalmente accaduto qualche anno fa quando ho potuto consultare un libro antico bellissimo (appartenente a un privato che lo ha poi immesso sul mercato dell’antiquariato librario) di grande rarità e con un ricco e pregevole apparato figurativo. Il libro in questione è l’opera cinquecentesca (1569) del gentiluomo francese Guillaime Du Choul intitolato DISCORSO / DELLA RELI/GIONE ANTICA / DE ROMANI, / Insieme un’altro (sic) Discorso della Castrame(n)tatione, et / disciplina militare, Bagni, essercitj an-/tichi di detti Romani, / Composti in Franzese (sic) dal S. Guglielmo Choul, Gentil huomo / Lionese, a Bagly delle Montagne del Delfinato, / et tradotti in Toscano da M Gabriel Simeoni Fiorentino. / Illustrati di Medaglie & Figure, tirate de i marmi antichi, / quali si trovano à Roma, & nella Francia / IN LIONE, / APPRESSO GUGLIELMO ROVILLIO. / M.D.LXIX.

1. G. DU CHOUL, Discorso della religione antica de Romani, frontespizio.

 

Da ricerche effettuate, l’opera di DU CHOUL, era appartenuta, come dimostrano le iniziali R.T. incise in oro con il titolo sul dorso verde di una rilegatura ottocentesca, a Raffaele Tarantini (1850-1912), sindaco di Novoli dal 1884 al 1889. Il Tarantini, come abbiamo ricordato in altra occasione, ebbe cura di trascrivere integralmente e fedelmente nel 1876 il testo stampato dall’arciprete Oronzo De Matteis sulla parte riguardante la descrizione di Novoli del Marciano estratta dal manoscritto fatto nel 1783 dal sacerdote cartografo Giuseppe Pacelli di Manduria, facendolo precedere da un frontespizio vergato con il titolo Memorie Antiche di Novoli. Il libro è di notevole importanza per diverse ragioni. Il Du Choul è innanzitutto espressamente citato (anche se non in maniera perfettamente corretta) dal Marciano stesso nel I Libro (“Del Sito e delle Province d’Italia”) Cap. V della sua “Descrizione” e precisamente nel “Della Venuta di Messapo in Italia, dal quale ebbe la provincia il nome di Messapia, del suo Padre Nettuno, e delle Antiche Lettere Messapie ritrovate nel Paese”. Non solo! II Marciano lo utilizza (come si può constatare nelle illustrazioni riportate) ampiamente trascrivendone pari pari il testo a proposito della descrizione delle “monete tarantine” e sulla “venuta di Messapo figlio di Nettuno e dal quale questa nostra Provincia ebbe il nome di Messapia”.

2. G. DU CHOUL, Discorso sopra la castrametazione et disciplina militare de Romani, frontespizio.

 

3. Stemma araldico e motto di G. du CHOUL (retro primo frontespizio).

 

Ma ancora più significativo (se non clamoroso) è il suo utilizzo (come si può verificare), che ne fa nella descrizione di S. Maria de Nove a proposito “di un antico costume de’ Romani” che soleva celebrarsi “il secondo di Pasqua in un’antica chiesa che ivi è di S. Niccolò”.

Del libro di Guillaime Du Choul vanno ancora messi in evidenza altri due aspetti. Nel Discorso De Bagni et Essercitii Antichi De Greci et De Romani la splendida tavola xilografata a piena pagina che illustra il “LABRUM” (“Bagno in volta degli Antichi Romani”), nel suo “linguaggio architettonico” della volta «ad ombrello», essa richiama incredibilmente l’ottagona chiesa novolese del Salvatore (poi di S. Oronzo) voluta da Filippo Mattei II (padre di Alessandro) negli anni Settanta del XVI secolo, su ispirazione del Gesuita Bernardino Realino e che ricorda, come tutti sanno, la soluzione adottata nell’abside della chiesa leccese di S. Croce realizzata dall’architetto-scultore Gabriele Riccardi per la congregazione dei Celestini, nonché artefice della chiesa del convento dei Domenicani nel feudo di Nubilo.

4. G. DU CHOUL, Discorso De bagni et esserciti antichi de Greci et de Romani, il “Labrum” (bagno in volta degli antichi Romani).

 

Ma c’è di più! Sempre nello stesso Discorso, a pag. 135, nella descrizione dei “ginnasij” e de “la Palestra” s’incontra sottolineata a penna la parola stampata a margine XYSTO che il Du Choul così spiega: Per mez(z)o questi alberi, si facevano hypetri spasseggiamenti, chiamati da Greci παραδρομεδες, al modo nostro scoperti, sotto al sole: dove il verno (quando il tempo era chiaro, bello, il Cielo sereno) gl’Athleti chiamati Xystichi; à causa del Xysto, che era coperto, scendevano per passeggiare, correre, essercitarsi. Dopo il xysto era lo stadio luogo della corsa, che era fatto in modo che ogniuno poteva vedere correre gl’Athleti: i quali erano (come scrive Giulio Polluce) tutti quelli, che s’essercitavano nel gynnasio della palestra” (pag. 135). Il termine lo si ritrova, come è stato accertato, nell’epigrafe classico-umanistica di cui è provvista la “fontana” che nel 1700 l’ultimo dei Mattei (Alessandro III) fece erigere “al Dio dell’Ospitalità” sulla “terrazza” del Palazzo Baronale dal Cino, uno dei più importanti artefici del barocco salentino (il Cino poi nel 1704, sempre su incarico di Alessandro Mattei III, realizzerà l’altare nella chiesa del Salvatore con ai lati lo stemma dei Mattei).

Sulla “peculiarità” di questo termine “colto”, correttamente volto in «terrazza» o meglio ancora “con portico coperto”, in tempi non sospetti, ci eravamo già soffermati nel 1998 con l’amico e studioso Mario Cazzato.

Esaminando l’epigrafe, infatti, (in cui sembra condensarsi “la profonda tradizione umanistica della nobile famiglia Mattei”) si era individuato in questo termine classico un “esplicito riferimento, non solo terminologico, all’architettura classica e umanistica”. L’epigrafe di Alessandro III Mattei non era dunque “semplicemente la richiesta di onesti giorni tranquilli; esprimeva invece un concetto più complesso: la sua dimora che non aveva voluto imponente e che invece aveva ornato con la fontana e col portico, offriva agli aristocratici ospiti perché, confortati dall’«ozio onesto», insieme potessero ricreare una perduta e vagheggiata dimensione umanistica”.

In conclusione. Girolamo Marciano ebbe tra le mani, anzi lesse i Discorsi del Du Choul servendosene ampiamente per la sua Descrizione (sono comunque tantissime le citazioni bibliografiche di altri testi, oltre al Du Choul che certamente il Marciano, se li possedeva, non poteva portarsi appresso nelle sue “peregrinazioni” per fare le sue ricerche e i suoi studi).

“Perché” un esemplare di questo libro di straordinaria bellezza e importanza per quei tempi si trovasse a Novoli, come fosse pervenuto nelle mani di Raffaele Tarantini (che tra l’altro ebbe “interesse per le patrie memorie – la trascrizione della “Descrizione” del Marciano su S. Maria de Nove, come a suo tempo abbiamo riportato, ne è indubbia testimonianza) – sono domande per le quali lascio la risposta ai singoli lettori.

Questo contributo sulla biblioteca perduta dei Mattei si è proposto, soprattutto per dimostrare, come abbiamo sempre sostenuto e creduto, la veridicità della testimonianza del Marciano, gli indubbi meriti di Alessandro II Mattei (la cui fama, particolare inedito, era nota anche a Pietro Pollidori, tanto che lo ricorda come coautore, assieme al Marciano, della Descrizione) nel campo culturale e artistico, le virtù mecenatiche e liberali di questa famiglia, i loro rapporti intellettuali che furono certamente non casuali, ma inseriti in “un sistema locale ben determinato nel quale centro e periferia” erano legati da rapporti e da uno scambio continuo di “esperienze e fermenti culturali”.

D’altra parte, come scrive Umberto Eco, “quello che l’infelice non sa è che la biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno nel momento fatale potrai trovare quello che altri hanno letto prima di te”.

 

* In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XVII, Novoli 18 luglio 2010.

5. Lecce, Archivio Curia Arcivescovile, “Augustini Hipponensis Episcopi”, frontespizio (ex Bibliotheca Alexandri Mathej).

 

6. Nel riquadro a sinistra: Guillaime du Choul dalle pagg. 102, 103, 104; nel riquadro a destra: Geronimo Marciano dalle pagg. 24-471.

 

 

Riferimenti bibliografici essenziali

N. Aspesi, William l’Avventuriero, recensione a Vita Straordinaria di William Petty, avventuriero, erudito e conquistatore, in “La Repubblica – Cultura”, 10 dicembre 2004.

M.E. Buccoliero – F. Marzano, Incunaboli e Cinquecentine della Biblioteca Innocenziana di Lecce, Lecce 2004.

M. Cazzato, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “gallaria”: per una storia del collezionismo aristocratico in Terra d’Otranto, in M. Fagiolo (a cura di), Atlante tematico del Barocco in Italia. Il sistema delle residenze nobiliari. Italia Meridionale, Roma 2010.

M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei, Signori di Novoli, in “Camminiamo Insieme”, a. XII, n. 1 gennaio 1998.

G. Cosi, Nuovi documenti sulla vita di Geronimo Marciano, in “Contributi”, a. IV, n. 4 Maglie 1985.

F. De Pascalis, Altare con sorpresa, la firma di Cino, in “Quotidiano”, 25 novembre 2003 (durante i lavori di restauro e conservazione dell’altare situato all’interno della chiesetta di sant’Oronzo sono state trovate incise, nella parte superiore destra, le due lettere G. C. ovvero, con molta probabilità, le iniziali di Giuseppe Cino).

U. Eco, Le avventure di un Bibliofilo, “Lectio inaugurale” della XX edizione della Fiera del Libro di Torino, in “La Repubblica – Cultura”, 10 maggio 2007.

L. Ingrosso, Proposte per un recupero del Patrimonio librario della Biblioteca Innocenziana di Lecce. Un fondo da salvare: la biblioteca di Alessandro Mattei Signore di Novoli, in “Lu Lampiune”, a. XIII, n. 2, 1997.

O. Mazzotta, Ex Bibliotheca Alexandri Mathej, in “Camminiamo Insieme”, a. VI, n. 3, marzo 1992. Nel suo breve intervento, il Mazzotta, pur di non ritrattare completamente le sue convinzioni, oltre a dare la notizia del “ritrovamento”, “supponeva” quanto segue (riporto testualmente): “Tutti i volumi, come annotato sui frontespizi, provengono dalla biblioteca di Alessandro Mattei. Sappiamo che Paolo Bonaventura, figlio di Alessandro II, entrò nell’Ordine dei Predicatori e prese il nome di Alessandro. Paolo Bonaventura lasciò il convento, ma i libri vi rimasero, e dopo la soppressione degli Ordini religiosi nel periodo napoleonico, dallo Studio generale dei Domenicani di Terra d’Otranto arrivarono alla biblioteca Innocenziana. Rimane da appurare se i volumi furono da Frà Alessandro (Paolo Bonaventura) comprati oppure ereditati dal padre. La critica testuale mi porta a ritenere che molto probabilmente i libri appartenevano alla biblioteca paterna. Ma mi riservo di tornare più diffusamente sull’argomento in altra occasione”. E in effetti il Mazzotta ci tornò sull’argomento, ma per richiamare Lorella Ingrosso che aveva attribuito impropriamente i libri trovati nell’Innocenziana ad “Alessandro Mattei II, Signore di Novoli, conte di Palmariggi, umanista e Mecenate” (si vedano “Le Fasciddre te la Focara”, a. 43, gennaio 2005). A sostegno di ciò ribadiva di aver dimostrato (sic) nel 1994 “che i libri appartenevano a Paolo Bonaventura Mattei undicesimo figlio di Alessandro II che aveva preso l’abito domenicano col nome di Alessandro” (ivi). Su tale sua “dimostrazione”, personalmente, nel suo libro Il Seminario di Lecce (a parte la pubblicazione dell’elenco dei libri) rilevo solo questa sua dichiarazione: “I Commentari del Tostato insieme all’edizione parigina delle opere di Sant’Agostino, appartenevano alla biblioteca di Alessandro Mattei barone di Novoli. Questa biblioteca tanto decantata dal Marciano all’inizio del Seicento, pare che fosse scomparsa misteriosamente prima ancora dei Mattei tanto assoluto è stato il silenzio delle fonti di ogni genere ad oggi. Nient’altro! Vero è che Paolo Bonaventura Mattei dopo essere diventato frate lasciò il saio e si sposò con la leccese Barbara Paladini dalla quale ebbe un figlio e poi rimase vedovo. Il 13 novembre 1661 avvenne la “consegna di doti e stipula di contratto matrimoniale con d. Paolo Bonaventura Mattei conte di Palmariggi in castro Terrae Sanctae Mariae de Novis”. Nell’inedito documento che abbiamo rintracciato presso la Biblioteca Provinciale di Lecce vi è anche la firma autografa del Bonaventura. Da un confronto fatto con l’ex-libris della biblioteca Innocenziana, le due scritture (particolare non trascurabile) risultano calligraficamente completamente diverse.

O. Mazzotta, Il Seminario di Lecce (1694-1908), Lecce 1994.

O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli, Novoli 1989.

D. Novembre, Terra d’Otranto nella Descrizione di Geronimo Marciano (Primo Seicento), introduzione alla ristampa fotomeccanica della Descrizione, Origini e Successi della Provincia d’Otranto del Filosofo e Medico Girolamo Marciano di Leverano con aggiunte del Filosofo e Medico Domenico Tommaso Albanese di Oria, Galatina 1996.

P. Pollidori, Expositio / veteris Tabellae / Aereae, /Qua / M. SALVIUS / VALERIUS / Vir Splendidus / EMPORII / NAUNANI / PATRONUS COOPTATUR / AUTORE / PETRO POLLIDORO / VENEZIA, ZANE, 1732. Scrive testualmente Pietro Pollidori: “Non ignobile vetustatis monimentum Jampridem ab aliis de scriptum, Viri carissimi Hieronymus Martianus Liberanensis, & Alexander Matthaejus Palmarici Comes libro 3. descriptionis Sallentinae Provinciae Cap. 15 vulgarunt”.

G. Spagnolo, Tra fonti letterarie e fonti manoscritte: sulla “Geografia di Terra d’Otranto” del Conte Alessandro Mattei, Signore di Novoli, in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. X, 20 luglio 2003.

Id., Memorie antiche di Novoli (note su un manoscritto ottocentesco della Descrizione di S. Maria de Nove di Girolamo Marciano), in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XII, 17 luglio 2005. Raffaele Tarantini di Pietro nacque a Novoli il 16 di agosto del 1850 e vi morì nell’anno 1912. Sposò Teresa Colaci Sansò figlia di Leonardo Colaci Sansò e Nicoletta dei Baroni D’Amelio di Melendugno il giorno 7 giugno del 1884. Lo sposalizio fu benedetto con una messa speciale ed annesse benedizioni da monsignor Luigi Zola, Vescovo di lecce, quando il Tarantini era già sindaco di Novoli. La famiglia Tarantini, una delle “più rinomate famiglie novolesi” si è estinta alcuni anni fa con la morte di Maria Teresa Tarantini, ultima discendente “donna a dir poco straordinaria per intelligenza e cultura” (cfr. M. De Marco, In ricordo di Maria Teresa Tarantini, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XXVII, 17 gennaio 2003, p. 16).

Id., Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di Mario Cazzato, Lecce 1992.

Id., Il Principe Perfetto Giovanni Antonio Albricci terzo (testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), estratto da Quaderno di Ricerca, Salice Salentino, ottobre 1989.

Id., Storia di Novoli. Note ed Approfondimenti, Lecce 1990.

Id., Dalle rime del Mannarino un sonetto ad Alessandro Mattei, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XVI, Novoli 17 gennaio 1992.

 

*   *   *

Il libro in perfette condizioni del Du Choul è in 4° mm. 165×235 h, antiporta con inciso lo stemma di Choul + pp. 296 + 8 di indice con 46 xilografie di medaglie e marmi; antiporta ancora con lo stemma di Choul + [6] + pp. 145 + 6 nn + 43 xilografie nel testo anche a piena pagina + figura del campo dei Romani fuori testo più volte ripiegata.

Vi sono belle marche tipografiche al frontespizio, testatine e capilettera incisi.

La sua legatura è, come già detto, ottocentesca, con titolo e iniziali di Raffaele Tarantini in oro sul dorso verde e piatti marmorizzati rossi.

Note manoscritte di antichi possessori sul primo frontespizio tra cui è leggibile “Soc. Iesu” (vi sono bruniture sparse dovute al tipo di carta).

A tal proposito un’ultima annotazione.

I Gesuiti con Bernardino Realino, proclamato poi santo, ebbero una grande amicizia con la famiglia Mattei.

La famiglia Tarantini ebbe, invece, intensi rapporti con i Carignani che, con Felice, nel 1712 si aggiudicarono i feudi di Novoli e del Convento messi in vendita dalla R. Camera della Summaria dopo la morte di Alessandro III ultimo dei Mattei.

 

Gli scritti di Gilberto Spagnolo nella sua ultima fatica letteraria

 

La ricerca storica sul territorio
ovvero la costruzione dell’identità dei luoghi

 

di Mario Cazzato

(introduzione al volume)

In questa ponderosa opera di oltre 600 pagine Gilberto Spagnolo riunisce parte dei suoi scritti che datano a partire dai primi anni ottanta del secolo scorso e che in nuce risalivano, come metodologia d’indagine e orizzonti d’interesse almeno al decennio precedente quando intorno alla figura, più volte richiamata in queste pagine, di Enzo Maria Ramondini, la “memoria storica” di Novoli, nasce e si coordina in un gruppo di giovani ricercatori novolesi interessati alla storia della piccola patria, dove emerse, come si vedrà, il più promettente di loro, che seppe riunire l’interesse erudito per le faccende locali con la necessità di recuperare la documentazione archivistica che già dalle prime battute dimostrava che per questa via poteva riscriversi anzi scriversi, la storia della comunità di appartenenza fino a raggiungere risultati inaspettati.

E tutto questo si accompagnava e si accompagna ancora alla passione bibliografica dell’autore, acquisendo nel corso di decenni vere e proprie rarità bibliografiche che sono utilizzate non per uno sterile e solipsistico piacere collezionistico, ma come volontà di farne parte ad una comunità sempre più ampia e attenta, spesso inconsapevole di possedere tale patrimonio bibliografico i cui percorsi geografici costituiscono vere e proprie avventure per tale genia di accumulatori di cui G. Spagnolo ne è fieramente parte: una specie di piccola comunità che ha come obiettivo la ricostruzione di un patrimonio dilapidato nel corso dei secoli.

L’opera è divisa in cinque parti e la prima non poteva che essere dedicata alle fonti e ai documenti, dove emerge la figura e i significati dell’opera di G. Marciano che qui a Novoli, come dimostra l’autore, stese la sua Descrizione servendosi della cospicua biblioteca dei signori locali, i Mattei, che della loro residenza avevano fatto una vera e propria piccola corte rinascimentale celebre tra i letterati salentini dell’epoca e ai raccoglitori di “antiquità”, come Vittorio de Prioli.

La seconda parte è dedicata ai “luoghi” e contiene le prime prove dell’autore come quella sui menhir del 1988, sui trappeti sotterranei, sulle cappelle rurali, sul teatro comunale ma soprattutto sul magistrale saggio sui Discorsi di Guillaime Du Choul (1496 ca. – 1560) il più eminente antiquario lionese della sua generazione, pubblicato postumo nel 1569, opera che faceva parte della dispersa biblioteca dei Mattei, opera rarissima miracolosamente recuperata.

La terza parte è dedicata agli “uomini insigni” che hanno reso notevole la storia di Novoli, e sono, tra i tanti, spesso emersi dall’oscurità, i rappresentanti della famiglia Mazzotta (Benedetto, Nicola, Pietro) o Guerrieri. E di Ferruccio Guerrieri G. Spagnolo ripropone qui un raro scritto sul tarantolismo salentino. E non a caso, poco prima l’autore aveva biografato il violinista Pasquale Andrioli che all’autore rammenta un altro e precedente violinista, Francesco Mazzotta, musico delle tarantate ricordato dal De Simone e quindi dal De Martino affascinati dalla credenza popolare per la quale la “vera pianta della taranta” è a Novoli.

La sezione termina con due interventi su Oronzo Parlangeli, l’illustre studioso novolese del quale si ripropone un significativo scritto sul mosaico di Otranto. Con I cinque talenti di Oronzo Parlangeli si chiude la sezione, un breve scritto, questo, che l’autore dedica ai suoi alunni. Infatti non possiamo tralasciare che G. Spagnolo è stato per decenni, per professione, un educatore e come tale e in quanto tale ha sempre misurato i suoi contributi che hanno quasi sempre un colloquiale tono didascalico senza mai rinunciare al rigore delle affermazioni, sempre controllatissime e quasi sempre costruite su materiali inediti o sconosciuti.

La penultima sezione, la quarta, è dedicata alla santità e alle sue manifestazioni esterne. E qui emerge il costante interesse dell’autore, per un elemento che connota l’identità storica della comunità novolese che ogni anno si ritrova intorno alla famosa fòcara per testimoniare la sua secolare devozione a Sant’Antonio Abate. E di questo santo taumaturgo sul quale l’autore ha scritto un volume fortunatissimo (Il fuoco sacro. Tradizione e culto a Novoli e nel Salento) ricorda i delicati componimenti poetici di E.G. Caputo, Novolese di fatto, raccolti in un rarissimo volumetto – il bibliofilo spunta sempre da ogni angolo – stampato nel 1953 appunto col titolo di La Focara.

Occasioni è il titolo della quinta e ultima sezione, dove l’autore raccoglie interventi su amici che non ci sono più, come S. Arnesano, Gioele Manca e lo stesso Ramondini. Qui ripropone il recente (2023) intervento sul volume collettaneo Lecce svelata e che riguarda il protettore di Lecce e della Provincia, S. Oronzo: una lunga e documentata storia dell’arte tipografica leccese, argomento sul quale l’autore è una delle massime autorità anche per il suo essere, come abbiamo detto, e non poteva essere altrimenti, accanito bibliofilo, argomento al quale ha sacrificato tempo e sostanze.

Nella stessa sezione è inoltre riportato un articolo di G. Gigli del 1909 sulla cartapesta leccese, nel periodo, cioè, della sua massima fioritura. Chiude la sezione un intervento sul quadrato magico sator, dove traccia le coordinate storico-geografiche del fenomeno in area salentina e, ultimo, il lungo accenno del famoso scienziato francese Nicolas Lemery sulla “tarantula di Puglia”: entrambi non potevano essere scritti se l’autore non avesse scoperto, nelle sue pazienti ricerche bibliografiche, quel materiale che all’improvviso fa balenare la seducente possibilità di approfondire in maniera innovativa l’argomento.

L’attività studiosa dell’autore non si ferma qui. Nel 1987 scrisse un nutrito volume sulle origini di Novoli; nel 1990 un altro sulla storia complessiva della stessa comunità. Nel 1992 pubblica la vicenda bio-bibliografica del cappuccino e apprezzatto geografo Lorenzo di “S. Maria de Nove”. E relativamente al metodo non può notarsi che quando parla di collezionismo e di collezioni si colloca in un campo d’indagine innovativo che ben poco spazio ritrovano nelle consuete storie municipali costruite secondo l’ottica ottocentesca nelle quali l’interesse per gli aspetti minuti della piccola patria mette in ombra i rapporti con la storia generale.

Questo e molto altro contiene questo complesso volume che deve essere letto tenendo presente i tempi di composizione dei singoli interventi che hanno costruito, nei decenni, una solida impalcatura di conoscenze storiche che non ha eguali in Provincia. Ma, come scrisse diversi anni fa Mario Manieri Elia per Melpignano, il fine non ultimo e più avvincente di un’opera come questa, è quello di porre all’attenzione di tutti proprio Novoli; centro, il quale, in conseguenza dell’arricchimento di conoscenza e di sensibilizzazione che ad esso si lega dopo tale lavoro non è più quello di prima. Un luogo fisico come Novoli, non è portatore di significati oggettivi dati una volta per sempre; è percepito per quello che di esso sappiamo e memorizziamo, consapevoli che la ricchezza di messaggi storici e di identità – è questa una delle funzioni degli scritti di G. Spagnolo – rende plausibile la lotta per la sua sopravvivenza fisica ma anche la lotta perché la memoria di chi ha animato per secoli lo spazio degli uomini non venga mai meno. È l’auspicio di questa fatica dell’amico G. Spagnolo che, siamo sicuri è già impegnato a continuare quest’operazione culturale di grande valore civico.

 

Gilberto Spagnolo è nato a Novoli (Le) il 3/6/1954. Si è laureato presso l’Università di Lecce nel 1977, conseguendo una laurea in Pedagogia a indirizzo psicologico. Ha svolto l’incarico di operatore culturale nei Centri Regionali di Servizi Educativi e Culturali (CRSEC) del Distretto Scolastico di Campi Salentina; dal 1991 al 1994 ha insegnato nelle scuole italiane all’estero (in America Latina, nel “Collegio Raimondi” di Lima – Perù e in Spagna nella scuola italiana “M. Montessori” di Barcellona); è stato dirigente dell’Istituto Comprensivo di Novoli dal 1995 al 2019. Da oltre 40 anni, si dedica alla ricerca e alla storia patria e ha pubblicato numerosi saggi e monografie, con particolare riferimento a Novoli (dove risiede), alle sue tradizioni e alla Terra d’Otranto.

Fra le sue pubblicazioni si citano in particolare: Novoli. Origini, nome, cartografia, toponomastica (1987); Storia di Novoli. Note e approfondimenti (1990); Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove (1992); Il principe perfetto: Giovanni Antonio Albricci Terzo. Testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino; Il fuoco sacro. Il culto di Sant’Antonio Abate a Novoli e nel Salento (1a ed. 1998, 2a ed. 2004, 3a 2018); Il pane del miracolo. Il culto della Vergine del Pane di Novoli nel panegirico del passionista A. Librandi; Memorie del passato. Il diario di Salvatore Cezzi e la Focara di Novoli (1872-1874) “Superba come ogni anno” (2023); I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario (2016); Bernardino Realino e i Mattei Signori di Novoli (2017).

 

Seclì: il suo abitante si chiama “seclioto”?

di Armando Polito

 

Se c’è un campo di formazione delle parole in cui regna l’anarchia ed è tutt’altro che agevole individuare la paternità, è quello degli etnonimi. Le differenze spesso sono sottilmente legate a vicende storiche intrecciantisi con evoluzioni fonetiche e suggestioni semantiche, il che, innocente all’inizio, finisce per assumere una valenza dispregiativa, se non razzista.

Per esempio: italiota, usato per stigmatizzare certe caratteristiche negative riguardanti non pochi italiani, prima fra tutte l’insofferenza per le regole. La voce è da ᾿Ιταλιώτης (leggi italiotes), con cui i Greci indicavano più di due millenni e mezzo fa il connazionale delle colonie dell’italia meridionale; Σικελιώτης (leggi sicheliotes) per il colono di Sicilia), da cui siceliota o siciliota o sichelota.

Ho sentito più di un ignorante, anzi idiota (per lui sì, il suffisso –iota assume valore dispregiativo …) usare italiota con gratuita allusione dispregiativa ai meridionali. Debbo, tuttavia, dire che anche il campanilismo locale con lo stesso intento ha sfruttato, forse inconsapevolmente, un altro suffisso greco (-ιάτης, leggi –iates): Nardiati per gli abitanti di Nardò, Sichiliati per quelli di Seclì.

Queste due forme (che sembrano, lasciando da parte il suffisso greco, participi passati di verbi fantasiosamente pittoreschi ed icastici da usare quasi come un marchio a fuoco; per Seclì, inoltre, la costruzione è avvenuta sulla forma dialettale Sichilì) hanno avuto pure l’onore della citazione in Miscellanea Giovanni Mercati Studi e testi 126, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1946, p. 520.

Tornando a Seclì: non so chi abbia inventato seclioto, che è l’unica forma registrata da un vocabolario per l’italiano indubbiamente affidabile tra quelli fruibili in rete perché della stessa matrice di quelli per il latino e il greco che, per l’uso continuo che ne faccio, ho avuto modo di apprezzare (https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?lemma=SECLIOTO100).     

Seclioto utilizza chiaramente il suffisso greco e questo ci può pure stare poiché strettissimi sono i rapporti di Seclì con la cultura greca, in particolare bizantina. L’inventore di questa forma, però, ha rovinato tutto il suo dotto procedere italianizzando il suffisso greco mediante la sostituzione di a finale con o in funzione distintiva rispetto a un femminile secliota, come se italiota fosse femminile di un inesistente italioto e non bastasse nel riconoscimento del genere il semplice articolo: il secliota/la secliota. Unica eccezione alla regola, ma sconsiglio di usarla come giustificazione …,  è l’italiano antico idioto per idiota, che, non a caso, è dal latino idiota(m), a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes).

Disperata impresa sarebbe quella di individuare la data di nascita di seclioto, anche se questa difficilmente servirebbe ad individuarne l’autore. Con il pur formidabile aiuto dei motori di ricerca non son riuscito ad andare più indietro del 10-8-1998, come mostro nel dettaglio tratto dalla Gazzetta ufficiale Serie generale n. 185 di quella data.

Oltretutto rimane un dubbio: se non si fosse trattato di una società ma di un ristorante avremmo letto ristorante Il secliota o Il seclioto?

A questo punto qualcuno potrebbe ironicamente dirmi: – Dottor sottile, quale sarebbe la sua proposta? Non sa che la lingua la fanno i parlanti? -.

Rispondo prima all’ultima domanda, perché ciò che dirò è funzionale rispetto alla risposta che darò alla prima.

È incontrovertibile che la lingua la fanno i parlanti (tutti), ma sarebbe ora che anche gli scriventi (non tutti, me, forse, compreso) avessero voce in capitolo, con la funzione di filtrare e depurare la lingua parlata dalle eccessive libertà che essa da sempre ha il diritto di prendersi. E per questo non è necessario essere un novello Dante o Petrarca o Boccaccio, basta aver coltivato lo spirito critico, quello che motiva le sue sentenze …, ed avere un minimo di buongusto e di buonsenso.

Passo alla seconda risposta. Ho già dimostrato come il creatore di seclioto abbia perso l’occasione di coniugare il ricordo della storia col rispetto della grammatica e, in riferimento a italiota (e non italioto), dell’analogia. E proprio da questa muoverò per quelle che a me sembrano le più sensate  e corrette alternative.

Diamo un rapido sguardo ad alcuni altri toponimi che presentano forma tronca: Nardò, Castrì, Patù

Per Nardò l’etnonimo è neritino o neretino, dal nome latino della città (Neretum) attestato da Ovidio (Metamorfosi, XV, 5O) e dallo stesso etnonimo (Neretini) attestatato da Plinio (Naturalis historia, III, 105). La forma attuale, però, non deriva dal latino ma dal bizantino Νερετόν  (leggi Neretòn) attestato da due pergamene un tempo custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò, oggi perdute ma che Francesco Trinchera fece in tempo a trascrivere ed a pubblicare nel suo Syllabus Graecarum membranarum, Cattaneo, Napoli, 1865. Da notare che il prima citato Nardiati si rifà al nome moderno e non al latino Neretum (che pure si mostra nella forma volgare Nerito o Neritono o Neritone prima dell’affermazione di Nardò), il che rivela una formazione relativamente recente.

Castrì ha come etnonimo castrisano, distinto da castrense, etnonimo di Castro. 

Patù ha come etnonimo patuense o veretino (il primo utilizza un suffisso latino, il secondo è da Veretum, città che sorgeva nel suo territorio).  

Bastano questi tre esempi per dare ragione dell’anarchia di cui ho detto all’inizio. Tra tutti e tre il toponimi Castrì è il più sorprendente, perché avrebbe potuto benissimo avere come etnonimo, valendo anche qui i legami con la cultura bizantina, castriota, non adottato, forse, per evitare confusione con l’omonima famiglia di origini albanesi.

Sempre in nome dell’analogia e in parallelo con Patù l’etnonimo di Seclì alternativo a secliota potrebbe essere sicliense, dal latino moderno ecclesiastico Sicliensis, usato nelle visite pastorali (nelle stesse il topoimo è Siclium).

Morale, valida sempre, per il passato, per il presente e per il futuro, della favola: se per un intervento chirurgico molto impegnativo ci si affida (mi riferisco a chi può permetterselo …) all’esperienza di un luminare, nella creazione di un qualsiasi neologismo, particolarmente nell’intricato campo campo in cui oggi mi sono avventurato, chi ha l’incarico ufficiale di provvedere deve (tanto più che le eventuali spese saranno a carico della collettività) affidarsi a chi ha competenza per farlo.

Seclioto non è stato partorito certo oggi ma, a differenza di un intervento chirurgico con esito nefasto, si può sempre rimediare, tanto più che l’avvicendamento del colore politico ha portato finora, soprattutto nella toponomastica viaria, a cambiamenti radicali che mi sembrano una comoda damnatio memoriae, cioè la trionfale e tronfia vendetta di un’ideologia, qualunque essa sia, su un’altra, qualunque essa sia.

Aldo de Bernart. In memoria

                            

di Paolo Vincenti

In questi dieci anni di assenza del maestro Aldo de Bernart, una serie di manifestazioni e poi scritti e celebrazioni hanno contribuito a serbarne vivo il ricordo. Immediatamente dopo la morte, nel numero di marzo 2013 della rivista «Presenza Taurisanese», il direttore Gigi Montonato dalle pagine del Brogliaccio Salentino dedica a de Bernart un breve ricordo, scrivendo di lui: “un autentico signore, nel senso più tradizionale ed ampio del termine”[1].

Non poteva mancare un omaggio della rivista «NuovAlba» con la quale de Bernart ha avuto un lunghissimo e proficuo rapporto di collaborazione. Nel numero del marzo 2013 della rivista parabitana, un bell’editoriale, a firma di Serena Laterza, ricorda Il nobiluomo dal cuore grande[2], e un articolo di Ortensio Seclì, Non è più con noi, traccia anche un excursus bibliografico con tutti gli scritti di de Bernart apparsi su «NuovAlba», dal primo numero del 2001 fino all’ultimo del dicembre 2012[3]. Su un numero di aprile 2013 della rivista a diffusione locale «Piazza Salento», compare un ricordo di de Bernart a firma di Aldo D’antico, il quale scrive: “Se ne è andato un altro. Un altro di quelli che non solo hanno dedicato la propria vita alla produzione culturale, ma hanno avuto ruoli definitivi nello sviluppo delle conoscenze storiche di questa terra. Aldo de Bernart, scomparso lo scorso marzo a 88 anni, ha attraversato tutto lo scorso secolo con uno spettro ampio di impegno, approfondimento, produzione…”[4].

Sulla rivista «Il Galatino» di Galatina, del 26 aprile 2013, è riportato uno scritto di Paolo Vincenti dal titolo Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato[5]. Sabato 18 maggio 2013, nell’Aula Magna del Liceo Classico “Francesca Capece” di Maglie, viene presentato il numero XXIII della miscellanea della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, «Note di Storia e Cultura Salentina». Nel libro, dedicato alla memoria del socio de Bernart, è presente il saggio di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina[6], già pubblicato da Vincenti col titolo La figura e le opere di Aldo de Bernart (con Bibliografia) in Di Parabita e di Parabitani del 2008[7].

A Ruffano, la sua città adottiva, non si poteva mancare di ricordare il maestro. Infatti, in occasione dei festeggiamenti civili e religiosi in onore del patrono Sant’Antonio da Padova, sabato 8 giugno, nella Chiesa Parrocchiale “B. M.Vergine”, su impulso del parroco Don Nino Santoro, si tiene un convegno su “La Chiesa Natività di B.M.V. – a 300 anni dalla sua riedificazione”, con una “Memoria del prof. Aldo de Bernart”, a cura di Alessandro Laporta e Giovanni Giangreco. Inoltre, martedi 11 giugno 2013, organizzata dalla Biblioteca Comunale di Ruffano e con il patrocinio del Comune, si tiene una serata dedicata a “Pietro Marti. La figura di un intellettuale poliedrico”, per celebrare un personaggio di spicco del passato ruffanese, ovvero lo storico, giornalista e operatore culturale Pietro Marti, in occasione del 150° della nascita e dell’80° della morte.

Dopo gli interventi dell’allora Sindaco Carlo Russo e di Orlando D’urso, Alessandro Laporta ed Ermanno Inguscio, Paolo Vincenti legge un intervento di Aldo de Bernart tratto da una delle sue ultime plaquette: Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, perché del Marti de Bernart era stato il primo biografo. E il ricordo di de Bernart fa da leit motiv fra i vari interventi della serata[8].  Sul numero 63 della rivista gallipolina «Anxa News» (maggio-giugno 2013) è riportato un bellissimo scritto di Alessandro Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart[9].

Ancora, nel numero del luglio 2013 della rivista «NuovAlba», un altro scritto di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria. Vincenti, che apre il pezzo con una citazione dal libro Cuore di Edmondo De Amicis (“Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo”), scrive: “Ancora qualcuno, degli amici più giovani o a lui più lontani, mi chiede incredulo: -ma è vero, il professore de Bernart è scomparso?-. È passato qualche mese dalla dipartita di Aldo de Bernart ma il vuoto che ha lasciato in chi, come me, lo ha conosciuto, frequentato, amato, è incolmabile…Gli amici e tutti i collaboratori si sono stretti attorno alla sua famiglia, la figlia Ida ed il figlio Mario, e la comunità salentina di studi umanistici è rimasta orfana di così alto nobile esempio.

Noblesse oblige, mi veniva da dire spesso, pensando al caro Aldo, ma nel suo caso questa non era una formula vuota o di circostanza, bensì manifesto di vita di chi aveva fatto dell’eleganza e dell’aristocrazia dei modi il proprio tratto distintivo”[10].

Nell’ambito dell’annuale rassegna “Identità Salentina” organizzata dall’associazione Italia Nostra sezione Sud Salento, che si tiene dal 27 settembre al 6 ottobre 2013 a Parabita, in Piazzetta degli Uffici, nel corso della serata inaugurale viene ricordato Aldo de Bernart con interventi di Alessandro Laporta, Mario Cazzato e Gigi Montonato, presenti i figli dello scomparso. Della serata dà notizia il periodico «Presenza Taurisanese» nel numero di novembre 2013. Ancora, su «Presenza Taurisanese» del marzo 2014 compare un toccante articolo di Vittorio Zacchino (“Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa), il quale scrive: “Fino quasi all’ultimo, Aldo ci ha riservato le sue nitide ed accattivanti plaquettes, i suoi profili di uomini illustri, nobili, patrioti, artisti, letterati, Pirro Castriota, Francesco Valentini, Raffaele Viva, Saverio Lillo, Antonio Bortone, Pietro Marti… Al povero Aldo, al di là della mestizia rievocativa, il grazie infinito per averci insegnato ad alleggerire la narrazione storica, a renderla accessibile ad ogni fascia di lettori, con l’ausilio di qualche verso, di un aneddoto, di un sorriso”[11].

Il 2 giugno 2014, è da segnalare una serata a Palazzo Ferrari di Parabita, “Ricordando Aldo de Bernart”, organizzata dal centro di cultura Il Laboratorio-Archivio Storico Parabitano, con Aldo D’Antico e gli interventi di Alessandro Laporta, Paolo Vincenti e dell’allora Sindaco Alfredo Cacciapaglia.

Nel 2015 l’operazione più importante ed il più compiuto omaggio al maestro de Bernart prende corpo editoriale grazie all’impegno della famiglia e della Società Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce: un corposo volume, più di 550 pagine, intitolato Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, uno dei titoli più belli dell’intera collana “I quaderni de L’Idomeneo” nella quale è ospitato. I curatori sono Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio[12]. In copertina uno scorcio della terra di Ruffano in una elaborazione grafica di Donato Minonni. Dopo la Prefazione di Mario Spedicato, nella prima parte del libro, L’uomo e l’intellettuale, si fa un focus sulla figura e sulle opere di de Bernart, con un profilo bio-bibliografico del maestro, curato da Paolo Vincenti, e poi vari contributi che lumeggiano la sua multiforme attività culturale che spaziava dal campo dell’arte a quello della critica letteraria, da quello più prettamente storiografico a quello musicale, fino all’aspetto religioso del culto dei santi e dell’arte sacra.

La storia moderna è l’oggetto privilegiato dell’indagine di de Bernart, dal Cinquecento fino all’Ottocento, con rari sconfinamenti nel Novecento, sempre con riconosciuta competenza e un’acribia che ne facevano un erudito nel senso più pieno del termine. Dunque, le testimonianze di affetto per l’amico, il collega, lo studioso, il concittadino, nelle parole di Gigi Montonato, Gigino Bardoscia, Mario Cazzato, Giulio Cazzella, Gianpaolo Cionini, Stefano Ciurlia, Gino De Vitis, Enzo Fasano, Mario Marti, Maria Rosaria Palumbo, Gemma Preite, Mario Stefanò, Vincenzo Vetruccio. Un numero elevatissimo di testimonianze perviene in occasione del libro. “Nella cittadina natia di Pietro Marti e Antonio Bortone, che il direttore ha scelto quale sua residenza elettiva”, scrive Mario Spedicato nella Prefazione, “per buona parte della sua vicenda esistenziale, egli ha saputo riunire un gruppo di appassionati con i quali è rimasto in contatto fino agli ultimi giorni di vita, mostrandosi sempre disponibile all’ascolto, interessato a quel mondo esterno che non poteva più frequentare direttamente e prodigo di consigli a chi gliene faceva richiesta”[13].

Nella seconda sezione, L’eredità della ricerca, compaiono contributi che seguono da vicino l’area degli interessi del commemorato, con saggi di Maria Antonietta Bondanese, Ermanno Inguscio, Andrè Jacob, Alessandro Laporta, Antonio Romano, Ortensio Seclì, Vincenzo Vetruccio, Vittorio Zacchino. La sezione terza, Arte, storia, cultura del Mezzogiorno, è incentrata invece sulla storia del territorio, secondo la linea della prestigiosa associazione culturale che patrocina la pubblicazione, quindi con una maggiore curvatura scientifica nei saggi di P. Giovan Battista Mancarella, Pietro De Leo, Angelo D’Ambrosio, Maria Antonia Nocco, Maria Antonietta Epifani, Roberto Orlando, Sergio Fracasso, Arcangelo Salinaro, Stefano Zammit, Giacomo Filippo Cerfeda, Alberto Tanturri, Giancarlo Vallone, Antonio Brigante, Francesca Cannella, Carlo Crudo, Oronzina Greco[14]. Il libro viene presentato a Ruffano, presso il Teatro di via Paisiello (Istituto Comprensivo Statale), sabato 20 giugno 2015, davanti a un pubblico numeroso ed interessato. Dopo i saluti del Sindaco Carlo Russo e della Dirigente Scolastica Madrilena Papalato, gli interventi di Vincenzo Vetruccio, Alessandro Laporta, Gigi Montonato, Hervé A. Cavallera.

Le Conclusioni sono di Mario Spedicato. La presentazione si ripete a Parabita, presso il Teatro Comunale “Carducci”, il 29 febbraio 2016. Coordinati da Flora Della Rocca, dell’Associazione “Progetto Parabita”, che organizza l’incontro, dopo i saluti del Sindaco Alfredo Cacciapaglia e dell’Assessore Sonia Cataldo, intervengono Alessandro Laporta, Vittorio Zacchino, Aldo D’Antico e Ortensio Seclì. Mario Spedicato conclude i lavori.

E veniamo al 2020 e al volume Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta. Nel contributo pubblicato all’interno di questo libro, Alessandro Laporta si occupa di un’opera poco nota di de Bernart, per quanto censita nella più volte citata Bibliografia degli scritti del maestro. Si tratta di L’epopea otrantina del 1480, una importante pagina di storia locale, che de Bernart pubblicò nei “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, nel 1968[15]. Questa “chicca” si rivela una ghiotta occasione per Laporta di rispolverare uno scritto “minore”, cioè poco conosciuto dell’illustre parente, ma anche di dare allo stesso la migliore destinazione possibile, ovvero quella di un libro dedicato a Mons. Quintino Gianfreda che dell’epopea d Otranto degli ottocento beati martiri ha fatto l’oggetto privilegiato dei suoi studi[16]. Sempre nel 2020 si tiene la prima edizione del premio letterario intitolato a de Bernart, organizzato dall’Associazione Culturale “Diciottesimomeridiano” di Ruffano, con il patrocinio del Comune di Ruffano e del Comune di Parabita e con una Commissione esaminatrice di tutto rispetto, composta da Carlo Alberto Augeri, Alessandro Laporta e Daniele Sannipoli. Le premiazioni, per i settori narrativa, poesia e saggistica, avvengono il 28 dicembre 2020, in teleconferenza a causa della pandemia da covid[17]. Il nome di de Bernart continua a circolare fra gli addetti ai lavori e resta vivo nella mente e nel cuore di chi lo ha frequentato; le iniziative messe in campo in quest’anno 2023, in occasione del decennale della scomparsa, sono a confermarlo. “Nessuno muore per sempre”, e rinverdire il ricordo allevia l’assenza.

 

     [1] G. Montonato, Aldo de Bernart. Scomparso a 88 anni. Un signore della cultura, storico e poeta raffinato, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n. 254, marzo 2013, p. 5.

     [2] S. Laterza, Il nobiluomo dal cuore grande Omaggio all’amico-maestro, in «Nuovalba», Parabita, a. XIII, n.1, marzo 2013, p.1.

     [3]O. Seclì, Non è più con noi, Ivi, p. 2.

     [4] A. D’Antico, Ricordo di Aldo de Bernart, in «Piazza Salento», Alezio, 4-7 aprile 2013, p. 4.

     [5] P. Vincenti, Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato, in «Il Galatino», Galatina, 26 aprile 2013, p. 3.

     [6] Idem, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina, in «Note di Storia e Cultura Salentina. Miscellanea di studi “Mons Grazio Gianfreda”», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, Lecce, Edizioni Grifo, 2013, pp. 9-14.

     [7] Idem, La figura e le opere di Aldo de Bernart- per il suo 82esimo compleanno, in Idem, Di Parabita e di Parabitani, Parabita, Il Laboratorio Editore, 2008, p. 124-138.

     [8] A. de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, agosto 2012.

     [9] A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart, in «Anxa News», Gallipoli, n.63, maggio-giugno 2013, pp. 6-9.

     [10] P. Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria, in «NuovAlba», Parabita, a. XIII, n.2, luglio 2013, pp. 11-12.

     [11] V. Zacchino, “Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n.262, marzo 2014, p.10.

     [12]  Aa. Vv., Luoghi della cultura e cultura dei luoghi. In memoria di Aldo de Bernart, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, “I quaderni de L’Idomeneo”, Lecce, Grifo, 2015.

     [13] M. Spedicato, Prefazione, in Luoghi della cultura, cit., pp. 7-8.

     [14] Una puntuale recensione del libro a cura di M. A. Bondanese, in «Il Nostro Giornale», Supersano, n. 83, dicembre 2015, pp. 14.15.

     [15] A. de Bernart, L’epopea otrantina del 1480, in “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, n.1, Taurisano, 1968.

     [16] A. Laporta, Aldo de Bernart. L’epopea otrantina in una plaquette di 50 anni fa, in Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta, Lecce, Edizioni Grifo, 2020, pp. 85-91.

     [17] M. Zezza, Nel segno di Aldo de Bernart. Un Premio per ricordare il valore della cultura, in «Il Nostro Giornale» Supersano, luglio 2021, pp. 62-63.

 

Pubblicato in Tra Scuola, Ricerca e Memoria. Aldo de Bernart dieci anni dopo (2013-2023), a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti, Società Storia Patria puglia-Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2023

Nardò, San Biagio nella chiesa di Santa Teresa. Si rinnova il rito della benedizione della gola

Nardò. La statua di S. Biagio venerata nella chiesa di S. Teresa (Maccagnani, cartapesta, 1886) (foto Raffaele Puce)

 

Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggia il 20 febbraio, la città di Nardò celebra un altro santo dell’Armenia, Biagio, vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia. Per sua intercessione si rinnova, come ogni anno, l’antichissimo rito della benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa (nei pressi della Posta centrale).

Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono a San Biagio, medico in vita, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola, tanto che tra i diversi miracoli a lui attribuiti si menziona a simbolo quello del salvataggio di un bambino col rischio di soffocamento a causa di una lisca di pesce.

Il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, questi ultimi lo vollero designare quale loro protettore. Il corpo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste.

Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie; lo elessero protettore e ne conservarono parte dei resti (torace) nella basilica sul monte San Biagio (a Carosino, provincia di Taranto, è custodito un pezzo della lingua, chiuso in un’ampolla incastonata in una croce d’oro; a Ostuni si conserva un osso usualmente posto sulla gola di ogni fedele in pellegrinaggio al santuario; nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venerano i resti del braccio esposti entro un reliquiario a forma di arto benedicente). Particolarmente sentito il culto in Avetrana.

In provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il santo.

Il motivo dell’antica venerazione nella chiesa di Santa Teresa a Nardò potrebbe ricollegarsi non tanto alla protezione per le comuni malattie delle prime vie aeree, quanto alla grave malattia infettiva della difterite, di cui sono accertate epidemie nella prima metà del XVII secolo in città e che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, deceduti per asfissia a causa del morbo.

Non è da escludere che il particolare culto cittadino sia strettamente collegato con la locale famiglia dei baroni Sambiasi, anticamente Sancto Blasio, i cui discendenti fecero realizzare in suo onore ben due chiese.

La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi sull’attuale Via De Pandi, che la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, oggi non restano che i muri laterali e parte della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse valida dal punto di vista artistico.

L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata, per distinguerla dalla precedente, fu edificata nel pittagio San Salvatore.

Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte ritrae Biagio come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.

A Nardò si contano due raffigurazioni scultoree del santo armeno, entrambe in cartapesta policroma. Una certamente proviene da abitazione privata, anche se attualmente custodita nella chiesa di San Giuseppe, forse donata dal proprietario; l’altra è oggetto di venerazione da parte dei fedeli nella chiesa di Santa Teresa e veniva portata in processione la mattina del 2 febbraio.

A grandezza naturale, quest’ultima è eccellente cartapesta policroma. Il santo, a figura intera, caratterizzato dalla folta barba grigia come nel primo, indossa i paramenti vescovili orientali con la caratteristica mitra sormontata dalla croce, il pastorale dalle estremità ricurve verso l’alto, il classico omoforion (lunga sciarpa ornata di croci). La mano destra rivolta in alto e l’espressione estasiata del bambino indicano che il miracolo è già avvenuto e il santo, pur continuando a fissare il piccolo, sembra congedarsi dopo aver ringraziato il Padre per l’evento miracoloso appena compiuto.

Un’iscrizione sul basamento documenta che fu realizzata a spese dei fedeli neritini nell’anno 1886, dal validissimo Antonio Maccagnani (1807-1892) o dal più giovane Achille De Lucrezi (1827-1913). La resa plastica, i particolari assai curati e i tratti somatici delle due figure, ma anche l’equilibrio fra le parti e la posa ieratica del santo, portano a considerare l’opera tra le più qualificate dei migliori cartapestai leccesi.

Il rito della benedizione della gola viene esercitato nella chiesa neritina il 3 febbraio, sin dalle prime ore e fino a tarda serata (con interuzione dalle 12 alle 15), e i festeggiamenti in onore del santo sono preceduti da un triduo, che si tiene nella medesima chiesa di Santa Teresa, per interessamento e cura della confraternita del SS.mo Sacramento.

 

 

 

 

Antonio Oliviero, il bombardiere di San Cataldo

di Armando Polito

Quante volte in tv abbiamo sentito dire Non faccio il nome … , in ossequio al detto Si dice il peccato, non il peccatore! Si tratta di pura vigliaccheria, anche perché, se hai prove inconfutabili, nessuno avrà interesse a querelarti; se non le hai, fai una figura migliore non nominando neppure il peccato. Lo stesso vale quando, soprattutto i politici, fanno a gara a sparare all’impazzata dati figli di nessuna fonte che non sia quella del loro truffaldino intento di ottenere consenso.  Con questo mio post, allora, mostro di essere coraggioso oppure  incosciente ?

Né l’una né l’altra cosa, anche perché ho scritto bombardiere, non bombarolo. Quest’ultimo vocabolo negli anni ’70 ha etichettato colui che compiva attentati con esplosivi, ma dalle nostre parti designava da tempi notevolmente anteriori colui che esercitava la pesca di frodo utilizzando lo stesso strumento di distruzione e morte, anche se in quantità ridotta1.

Antonio, dunque, non era un bombarolo, anche se il toponimo che lo accompagna nel titolo si riferisce, come ben sanno non solo i Salentini, ad una località di mare ove in passato sorgeva un castello2, fabbrica che per la sua natuta militare era particolarmente esposta a rischi di assalto. Non mi risulta nemmeno che si sia reso protagonista di atti vandalici ai danni di qualche icona o statua del santo. Eppure, il nostro con l’esplosivo aveva dimestichezza per motivi professionali e ne ho le prove.

Esibisco, per non far perdere ulteriore tempo a chi finora mi ha seguito per sana (almeno, mi auguro …) curiosità non la pistola, ma la bombarda fumante (fonte: una relazione manoscritta di ben 334 fogli, parecchi dei quali, per mia fortuna bianchi …, contenente un quadro completo della fiscalità del regno di Napoli per l’anno 1571, custodita nella Biblioteca Nazionale di Spagna e per me oggetto da pochi giorni di famelica attenzione, nel senso che, se non avessi famiglia, per lei salterei volentieri qualche pranzo e qualche cena.

 c 74v (dettaglio)

in la terra di san cataldo ala marina de leccie

Al Castellano per sua provisione ducati 120

al vice Castellano ducati 36

a tre compagni, a ducati tre lo mese per ciascuno ducati 108

                                                                                                    _____

                                                                                        ducati 264                   

Al mastro antonio oliviero bombardiero deputato per lo illustrissimo signor vicere inla torre di san catalde con provisione di scuti quatro lo mese ducati 124

Le immagini di chiusura sono tratte da Luigi Colliado3, Pratica manuale di arteglieria, Dusinelli, Venezia, 1586. La prima mostra  la tecnica di sollevamento per rendere operativa la bombarda su una torre,  la seconda la traiettoria  parabolica del suo colpo.

________________

1 A confermare la protervia umana nel perseverare a soddisfare il primitivo istinto di violenza, che nelle cosiddette bestie si è mantenuto entro i limiti naturali della sopravvivenza e della difesa, basterebbe considerare tutti i figli di quella radice onomatopeica che ha generato un’ampia serie lessicale che annovera, per restare al tema di oggi, bomba, bombo, bombicebombola, bombolone e l’insospettabile salentino ‘mbile (per quest’ultimo e i suoi rapporti con le voci italiane appena citate vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/ e  https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/12/17/dialetti-salentini-mbile-approfondimento-etimologico/). Una riflessione diacronica sulle voci con specializzazione bellica ci mostrano obsoleta la sola bombarda, mentre bombardiere si avvia rapidamente ad esserlo con l’avvento dei droni, mentre bombardamento è più che mai vivo e vegeto nonostante le postazioni missilistiche abbiano da molto tempo preso il posto delle bombarde (non si finisce mai di peggiorare …). Confortiamoci pensando che le graziose bombolette spruzzanti  di tutto (dalle vernici ai deodoranti e agli anestetici), grazie all’adozione di propellenti ecologici, ci terranno compagnia e che bomboloni e bombette continueranno a deliziarci il palato.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/12/27/lecce-il-giallo-del-castello-di-s-cataldo/

3 Come si legge nel frontespizio,  Ingegnere del Real Essercito di sua Maestà Cattolica in Italia.

Aldo D’Antico e la sua Parabita

 

a cura di Gabriele Federico

Oggi, 31 gennaio 2024, Parabita piange la scomparsa del maestro Aldo D’Antico, illustre studioso di questa terra, dove era anche nato.

Figlio di braccianti agricoli, Aldo D’Antico nasce a Parabita nel gennaio 1947 e, dopo aver conseguito il diploma magistrale, svolge il ruolo di insegnante elementare in diversi comuni salentini.

Già componente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, è fondatore del Centro di Cultura “Tommaso Fiore” e della casa editrice “Il Laboratorio”.

Curioso e accanito ricercatore di notizie sulla sua amata cittadina e delle sue dinamiche storiche e culturali, è stato punto di riferimento per intere generazioni di ragazzi, che si sono formati nella sua biblioteca privata sita all’interno di Palazzo Ferrari, contenente più di 25.000 libri e l’Archivio Storico Parabitano.

 

Il latte di calce nell’edilizia salentina

venditore ambulante di calce (archivio Ezio Sanapo)

 

di Mario Colomba

La calce, sotto forma di pasta untuosa, che veniva utilizzata per la produzione del latte di calce,  proveniva da una lunga stagionatura attraverso la quale  acquistava  maggiore consistenza e corposità.

Il latte di calce più o meno denso a seconda della percentuale di acqua, lungamente agitato e filtrato, , veniva usato nella scialbaltura, nella imbiancatura o  nella tinteggiatura.

Queste lavorazioni venivano praticate da due categorie di lavoratori del settore: gli imbianchini e i pittori edili.

La scialbatura e l’imbiancatura venivano praticate dagli imbianchini che applicavano il latte di calce o su superfici rustiche delle murature (scialbatura) o sulle superfici intonacate (imbiancatura), utilizzando pennelli rotondi costituiti più frequentemente da fibra vegetale e, abbastanza raramente da crine animale. Per raggiungere altezze elevate anche di alcuni metri, senza l’uso di scale,  il manico del pennello veniva legato ad una canna o ad una pertica con un sistema particolare, atto a  consentire piccole rotazioni intorno al fulcro, in modo che il pennello si disponesse  sempre in posizione ortogonale rispetto alla superficie del muro, durante i movimenti alternativi, verso l’alto o verso il basso, che venivano impressi dall’imbianchino. L’operazione veniva ripetuta più volte (due o tre mani) ed il risultato finale  era una imbiancatura, che aveva più funzione igienica che decorativa, caratterizzata da evidenti striature dovute alla stesura non uniforme del latte di calce.

I pittori edili eseguivano lavori più raffinati di tinteggiatura con l’uso di pennelli a mano (spatole) e quindi con  interventi sulle superfici più diretti, che permettevano di raggiungere una maggiore cura dei particolari ed una perfetta uniformità nella distribuzione superficiale  della soluzione di calce, il più delle volte colorata.

La coloritura del latte di calce veniva ottenuta con l’aggiunta di pigmenti in polvere (terre minerali) disponibili nelle tinte base che, opportunamente mescolate, producevano tutte le gradazioni di colore richieste.

 

Per le parti precedenti vedi qui:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Le coperture “alla margherita” – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La malta – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’intonaco nell’edilizia salentina – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’intonaco nell’edilizia salentina

di Mario Colomba

 

L’intonaco (tunica), come si evince dalla terminologia dialettale, era un rivestimento della muratura che veniva praticato non solo per motivi estetici ma anche per preservare la muratura dal degrado derivante  dall’esposizione diretta agli agenti atmosferici.

Di solito, la malta impiegata nell’intonaco era confezionata con maggior cura sia nella scelta dell’inerte (tufina) che incideva anche sulla colorazione che della calce che si preferiva stagionata.

Generalmente veniva eseguito in due tempi: In un primo tempo si procedeva alla esecuzione dei primi due strati: rinzaffo o arricciatura a secondo dei casi. Il secondo strato, la stuccatura, veniva eseguita dopo un certo periodo di stagionatura. La malta dello stucco era una malta grassa (più ricca di calce) lavorata con cura per evitare la formazione di grumi e setacciata adoperando un setaccio metallico attraverso i cui fori veniva fatta passare, tamponandola con un piccolo frattazzo di legno.

Nel caso in cui la superficie della muratura da rivestire era particolarmente deformata, si realizzava un primo strato di rinzaffo grosso che, se aveva una spessore di oltre un centimetro, veniva ringrossato scagliando sulla malta fresca manciate di detriti minuti di tufo (pipirielli) che vi venivano annegati forzandoli con la cazzuola. La spianatura in piombo ed in piano veniva ottenuta con l’uso di regole di legno che, spesso, a contatto con l’umidità della malta si deformavano e non garantivano la planarità richiesta.

Poiché ancora non era in uso il frattazzo di acciaio, la posa in opera della malta e la sua lisciatura avveniva con l’uso della cazzuola che non consentiva di avere delle superfici perfettamente spianate poiché la pressione che si esercitava con quell’attrezzo non era uniforme. Ma questo rientrava nella normale tollerabilità. Nei casi in cui veniva richiesto, si realizzava l’intonaco “piombato” che si otteneva dividendo la superficie interessata in zone della larghezza di circa due metri distinte da guide verticali verificate in piombo ed in piano, che garantivano la perfetta planarità dell’intera superficie.

Prima dell’applicazione dell’ultimo strato (tonachino) la superficie dell’intonaco fresco veniva uniformata, asportando anche eventuali “bave” di malta lasciate dall’uso della cazzuola, con l’uso di un “fratazzo” di legno

Particolare cura veniva posta nella lisciatura che, quando era praticata con la necessaria energia rendeva lucida la superficie trattata e per questo, si usava anche l’aspersione di albume.

Le superfici esterne colorate si ottenevano aggiungendo, alla malta bianca dello stucco, una soluzione di terra colorata e acqua, nelle proporzioni necessarie per ottenere la tonalità richiesta. I colori più ricorrenti erano il rosso, il giallo ed anche l’azzurro.

Per ottenere particolari effetti decorativi si ricorreva all’intonaco a graffito che consisteva sostanzialmente nella sovrapposizione a fresco di strati di intonaco a colori diversi che venivano rimossi (sgraffiati) secondo le linee del disegno riportato con lo spolvero, facendo riemergere gli strati sottostanti fino a formare un decoro.

Si ottenevano così effetti decorativi di gran pregio che esigevano abilità e competenze artistiche di rilievo con l’uso di attrezzi appositamente studiati (ferri) e abilità manuali molto rare.

 

 

Per le parti precedenti vedi qui:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Le coperture “alla margherita” – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La malta – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

La ‘Nunziata di Castro

di Rocco Boccadamo

 

Anche se, da alcuni anni, ‘Nunziata non è più fra noi, rimane nitido il ricordo della sua figura.

 

A beneficio dei non indigeni, nel titolo delle presenti note è riportato, in corsivo, il nome proprio di persona, abbreviativo diminutivo di quello ufficiale e completo di battesimo, a sua volta ispirato dalla devozione verso la Madonna protettrice del luogo, circostanza, quest’ultima, che lo fa trovare assai diffuso anche adesso.

Ad ogni modo, la figura femminile che, nella specifica fattispecie, lo porta e cui s’intende riferirsi, è a tutti nota esclusivamente con detto appellativo.

Per parte mia, ho preso a conoscere Nunziata circa sessantacinque anni fa, quando a un suo fratello, Benedetto, di mestiere elettricista e perciò detto mesciu Tettu, capitava di giocare qualche partita di pallone, da aggregato o da avversario, unitamente alla squadra di noi ragazzi marittimesi.

La donna, alta e, al contrario del germano, di taglia solida e formosa, è da sempre contrassegnata da una carnagione scura, il suo volto aperto e simpatico sembra quasi abbrustolito dai raggi del sole, e ciò, forse, per via delle lunghe stagioni trascorse lavorando all’aria aperta.

A proposito di attività, Nunziata, per decenni, si è interessata della vendita di frutta e verdura, con la sua baracca piantata e dischiusa, dalla primavera all’inizio autunno, nella piazza della Marina, di fronte alla rotonda. Un personaggio familiare, quindi, non solo per i compaesani ma, pure, agli occhi dei turisti e villeggianti abituali e/o di passaggio.

Poi, con il progredire dell’età, a un certo punto, la nostra amica si è determinata a lasciare il suo commercio a un figlio e alla nuora e lei s’è ritirata, stanzialmente, a Castro alta, nel cuore del borgo, ossia a dire nella bella piazza Vittoria, delimitata, su un lato, dalla magnifica ex cattedrale.

Così, divenendo un punto d’indicazione inconfondibile, sempre presente, lì, la Nunziata, la scorgi subito, in tutte le stagioni, vuoi sotto il solleone, vuoi in pieno inverno, quando, peraltro, in quell’angolo protetto dai venti, non si soffre minimamente il freddo e, anzi, specie se le giornate sono serene, si gode da Dio a sostare seduti su una panchina o semplicemente sul bordo del marciapiede.

Di conseguenza, non v’è personaggio del cinema o dello spettacolo o della cultura, che, arrivando a Castro, non si sia imbattuto, magari per un solo momento, nella residente in questione, la quale, per la verità e per innata dote d’empatia, non lesina ad alcuno, potrebbe essere anche il Presidente della Repubblica, immediati sentimenti e segni d’accoglienza, cordialità e gentilezza.

In qualche caso, rispondendo a domande e rilasciando interviste su Castro, sull’aspetto e sull’anima della cittadina in tempi lontani e quali affiorano oggi. Insomma, per qualsiasi informazione o notizia, Nunziata è all’altezza e soddisfa.

Da quando ha cessato il lavoro attivo, il soggetto di che trattasi trae i mezzi per sostenersi unicamente dalla pensione, che, a quanto sembra, si aggirerebbe intorno ai quattrocento euro il mese.

Con un’entrata così esigua, lei vive in un locale scantinato, sì, una vera e propria cantina nel sottosuolo di piazza Vittoria adattata a uso abitazione, appena un vano vero e propri. In più, per accedervi, dalla superficie della piazza, bisogna percorrere quattro o cinque scalini, esercizio che, per una persona ultraottantenne e dal fisico anche appesantito, non deve essere agevole e da compiersi disinvoltamente.

Tant’è che, negli ultimi tempi, nell’arco di pochi mesi, all’atto di portarsi dentro casa, la donna è rimasta vittima di cadute ben tre volte, fortunatamente senza esiti molto pesanti, e però con contusioni, ammaccamenti e indolenzimenti, esiti che, in una persona anziana, non soltanto non si superano rapidamente sotto l’aspetto fisico, ma lasciano anche il segno nello spirito.

Per effetto dell’ultima disavventura, ieri, nel transitare accanto a casa sua, l’ho notata, insolitamente, un po’ abbattuta, lei ha risposto, è vero, al mio saluto con il classico “Ciao, professore!” (chiedo scusa, siffatto titolo, ovviamente non mi compete, sennonché, attribuirmelo, è oramai divenuto una sua mera abitudine fissa), ma l’ho sentita preoccupata per aver dovuto, addirittura, compiere una puntatina in ospedale.

Al che, d’istinto il mio sguardo s’è abbassato in direzione degli scalini di cui dicevo prima, che, effettivamente, danno l’idea di un potenziale costante pericolo per l’amica, purtroppo abitante in quello scantinato.

“D’altronde – ha accennato con dignitoso ritegno Nunziata – se pensassi di spostarmi in una minuscola abitazione a piano terra in una stradina qui intorno, vicina al mio mondo che non vorrei lasciare, sarebbero quantomeno trecentocinquanta euro d’affitto il mese; ma, se, a me, il Signore (alias l’Inps) dà una pensione intorno a quattrocento euro, come faccio?”.

Evidentemente viene da sé, la risposta: hai ragione, Nunziata, per ora non ti resta che stare con gli occhi spalancati e la mente sveglia quando fai su e già, per entrare e uscire da casa.

Questo, il quadretto casualmente colto dal comune osservatore di strada, con, al centro della scena, Nunziata, una figura, semplice e umile, che, però, non passa inosservata nella Perla del Salento.

Chissà che, alla situazione, non si riesca a imprimere un tocco di colore.

Il liceo musicale Tito Schipa di Lecce e l’affidamento ai Negramaro.

di Mauro Marino
Giorni fa su La Gazzetta del Mezzogiorno, una mia riflessione sul Tito Schipa e l’affidamento ai Negramaro.
Il 2023 si è chiuso con la notizia dell’affidamento per un anno, da parte dell’Amministrazione della Provincia di Lecce, dell’ex Liceo Musicale Tito Schipa, ai Negramaro. Un tema delicato quello degli spazi legati alle politiche culturali, in un territorio che, a partire dagli anni Novanta del Novecento ad oggi ha liberato notevolissime energie creative, in particolare in ambito musicale.
Il compito dato, al gruppo guidato da Giuliano Sangiorgi, è quello di comporre a Lecce, una canzone per dare visibilità al territorio salentino ferito nella sua più intima identità culturale e produttiva e nella sua bellezza dal flagello della Xylella.
Nobile intento, ma ahimè – lo sappiamo tutti – una canzone non basta a salvare gli ulivi e, la visibilità, figlia dell’idea di un marketing territoriale spesso vampiresco, non è certo utile oggi al Salento che al contrario, a mio avviso, avrebbe bisogno di sottrazione, di decantare l’eccesso di visibilità a cui è esposto per ridare senso alle sue necessità di rigenerazione. Diventare incubatore di se stesso questo serve al Salento per prospettarsi, nel futuro, orfano del suo paesaggio.
Il Tito Schipa, che nel novembre 2023 ha compiuto i novant’anni della sua esistenza, è un’istituzione cittadina, da tempo al centro di problematiche legate alle sua valorizzazione. Il liceo, voluto e finanziato dal celebre tenore a cui è intitolato, fu inaugurato nel 1933, divenne sede del Conservatorio e poi dal 1980, dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Lecce. Dopo un breve insediamento della società di Trasporti Sud-Est fu dichiarato inagibile per l’alto livello di deterioramento dell’intera struttura. Nell’ultimo frangente della sua vecchia storia per un brevissimo periodo – per volontà della amministrazione provinciale guidata da Giovanni Pellegrino – fu sede della Casa delle Donne. Nel 2009 il finanziamento di un milione e mezzo di euro con fondi FAS dalla Regione Puglia in sinergia con la Provincia di Lecce per il recupero della struttura con la volontà di farne uno spazio aperto alle contaminazioni culturali.
Oggi, a recupero ultimato, c’è da scegliere, ma spesso si sceglie di non scegliere rifugiandosi nel glamour, nell’ultima tendenza, magari per comunicare con i “giovani” si sceglie la band più in vista ed è fatta, tutti contenti e pacificati, meglio lo spettacolo che la politica. Ma scegliere – specie se a dover scegliere è un’amministrazione pubblica per destinare un bene pubblico – significa ascoltare i desiderata della comunità che si amministra. La fila delle possibili consultazioni non è lunghissima, gli eredi Schipa-Carluccio da sempre attenti al destino di quello spazio, gli orchestrali leccesi che ad ora non hanno sede stabile per le loro prove, il Conservatorio Musicale, le altre Istituzioni culturali cittadine, i musicisti, gli operatori culturali, volendo i cittadini.
C’è poi un’urgenza e una priorità formativa (questa sì riguarda i giovani), riguarda la vicinanza del Tito Schipa con il Palmieri, liceo classico con indirizzo musicale.
Nei mesi scorsi, su queste pagine, fu riportata la necessità del liceo di reperire aule utili ad ospitare gli studenti, la soluzione fu trovata dislocando ben nove classi negli spazi della Biblioteca Bernardini in Piazzetta Carducci, la domanda sorge spontanea: non potrebbe essere il Tito Schipa la sede naturale delle necessità del Palmieri? Certo lo spazio non è tanto ma significherebbe ridare, a quel luogo, la sua vocazione originaria.
C’è da riflettere insomma e la “bega” dell’ascolto andrebbe fino in fondo perseguita per decidere il destino di un bene della comunità.
Un anno passa presto, la speranza è che, in questo tempo di attività, l’intelligenza di Sangiorgi e dei Negramaro sappia essere motore di un aggregato capace di lasciare una traccia significativa nella storia del Tito Schipa. La loro residenza sia, oltre che un atto creativo, l’avvio di un percorso di individuazione e di formazione di un nucleo di gestione dello spazio che necessariamente dovrà garantire un alta capacità di competenza ma soprattutto di attenzione e di apertura. La complessità del movimento della musica nel Salento merita uno spazio di ascolto e di messa in opera dove poter garantire il confronto delle esperienze e dove la formazione diviene pratica e consapevolezza di stile, di quella identità che la Xylella ha minato ma non totalmente azzerato.
(per gentile concessione dell’Autore. Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 5 gennaio 2024)

Brindisi arcaica: la cinta muraria

di Nazareno Valente

Dapprima i fiumi e poi il mare costituirono in epoca preistorica ed arcaica le vie quasi obbligate utilizzate dai commerci, perché rendevano più agile e veloce il trasporto e lo scambio delle merci. Nel mondo occidentale non c’era infatti nessuna città che avesse assunto il ruolo di guida e che di conseguenza potesse farsi garante dell’edificazione e, soprattutto, della gestione delle strade che avrebbero reso più proficua l’alternativa delle vie terrestri. Sicché, sino a quando i Romani, basandosi sulle notevoli conoscenze ingegneristiche acquisite dagli Etruschi, non costruirono un efficace sistema viario di media e di lunga percorrenza, erano fruibili solo tragitti di difficile percorrenza per qualsiasi mezzo di trasporto. E questo favoriva le vie marittime, anche quale usuale itinerario per le comunicazioni, sebbene la navigazione utilizzasse mezzi (le navi) particolarmente vulnerabili in condizioni di tempo estremo, sia per la limitata stazza, sia per la propulsione, imperniata com’era in modo prevalente sulle vele e quindi nella sostanza condizionata dalle bizzarrie del vento.

Proprio a causa di tali restrizioni si andava per mare con estrema cautela, ben sapendo che era fonte di vita ma anche limite alla vita stessa e che inoltre la morte in mare negava uno dei pochi — se non l’unico — diritto allora acquisito, e in aggiunta particolarmente sentito, vale a dire una degna sepoltura. Per questo c’era tutta una serie di regole auree cui attenersi per non andare incontro alle peggiori sorprese. Le principali imponevano che non si prendesse il mare nelle cattive stagioni — di conseguenza d’inverno e in parte dell’autunno le navi rimanevano in terra a secco — e, a prescindere dalle stagioni, se le condizioni del tempo e del vento non erano propizie; che si affrontasse il mare aperto solo quando era strettamente necessario e che si navigasse per lo più tenendosi vicino alle coste — la cosiddetta navigazione di cabotaggio — in modo d’avere la possibilità, se il tempo subiva un cambio repentino, di guadagnare subito la terraferma cercando riparo in una ansa di un fiume o in una insenatura protetta da qualche altura rocciosa dai venti.

Erano questi ancoraggi di fortuna che, nella prospettiva migliore, offrivano solo attrezzature costituite da semplici pali di ferro o di legno a cui le imbarcazioni si ormeggiavano con funi. E la cui funzione primaria di asilo lo si ritrova nei termini portuali usati sia dai Greci, che hanno tutti in senso figurato il significato di rifugio, sia in parte dai Romani che continuarono a chiamare refugia le strutture di tale tipo.

Con l’andare del tempo i punti di ormeggio meglio posizionati lungo i percorsi seguiti dai mercanti furono sempre più attrezzati e strutturati per essere in grado, non solo di dare protezione ai naviganti e ospitalità alle navi, ma anche di offrire i servizi più essenziali di manutenzione e di approvvigionamento idrico ed alimentare, oltre allo spazio necessario per commerciare i prodotti trasportati.

Nacquero così i porti che rappresentavano la fortuna delle città che li gestivano, essendo un bene prezioso e in aggiunta alquanto raro, almeno sino all’inizio dell’era cristiana.

Solo una struttura capace di dare tutte le prestazioni elencate meritava d’essere chiamata dai Greci limén, e dai Romani portus, mentre la postazione che forniva solo i servizi essenziali e le più usuali possibilità di ormeggio veniva chiamata rispettivamente hormos e statio.

Sin dal periodo preromano, lo scalo di Brindisi riuscì ad ottenere questa specie di bandiera blu, visto che gli autori lo nominano sempre chiamandolo, in base alla lingua usata,  limén o portus. Nel periodo romano poi si distinse ancor più, tanto da ottenere la qualifica di eulìmenon, letteralmente buon porto, concessa ai soli approdi di riconosciuto prestigio.

Per cogliere però quali fossero in antichità le reali configurazioni del porto brindisino e della città, occorre servirsi di un passo della narrativa antica a cui non è mai stato dato eccessivo peso perché, le poche volte che viene citato, è tradotto in modo talmente generico e convenzionale da non rendere per nulla il reale pensiero del suo autore.

Stando alle traduzioni, un ignoto geografo del II secolo a.C., ricordato come lo Pseudo-Scimno, fa in apparenza un’affermazione del tutto scontata visto che, riferendosi ad un’epoca arcaica, ribadisce qualcosa di già noto a tutti, cioè a dire che «il porto di Brindisi è dei Messapi» («Βρεντέσιoν ἐπίνειóν τε τῶν Μεσσαπίων»1). Asserzione quindi per niente originale, se si pensa che i Brindisini erano per certi versi i Messapi per antonomasia.

Le cose però cambiano radicalmente se, in luogo delle traduzioni, si ricorre al testo originale greco. Appare infatti subito evidente che lo Pseudo-Scimno non utilizza il solito termine generico di limén per caratterizzare l’approdo brindisino, ma quello meno usuale di epìneion.

Per quanto anche il significato principale di questo vocabolo sia porto, il ricorso ad un simile termine era fatto quando si volevano specificare meglio le caratteristiche dell’approdo. In particolare, gli autori antichi lo usavano nei casi in cui si era di fronte a sistemi portuali del tutto caratteristici, vale a dire quando il porto, pur facendo parte integrante della città, ne era al tempo stesso un elemento aggiuntivo del tutto separato. E ciò avveniva quando la città che lo gestiva non era stata edificata insieme sulla costa, ma distante qualche chilometro nell’entroterra. Ed appunto per precisare questa diversa collocazione tra città e suo porto che quest’ultimo veniva definito un epìneion.

In definitiva, diversamente da quanto generalmente si dà per certo, sono propenso a credere che in origine l’abitato di Brindisi era collocato in una zona completamente distinta da quella in cui si trovava il porto e che in definitiva, nel periodo arcaico preromano, la città era posta in posizione arretrata rispetto alla costa, probabilmente nell’attuale zona periferica situata a nord ovest, dalle parti, tanto per intenderci, della Commenda di una volta e del Paradiso.

Solo successivamente l’abitato fu spostato e congiunto al porto, e questo trasferimento avvenne quando i Romani, impossessatisi della città, fondarono nella seconda metà del III secolo a.C. la relativa colonia latina. In tale frangente, oltre a riedificarla secondo propri criteri costruttivi, la ribattezzarono con il nuovo nome di Brundisium, o meglio di Brundusium, riutilizzando di fatto il precedente nome indigeno di Brunda.

Occorre precisare che il porre l’abitato lontano dal suo porto era in tempi arcaici molto più usuale di quello che si possa credere. Basta pensare ad Atene, il cui porto, Il Pireo, era collocato ben distante dal centro cittadino, per comprendere che l’accorgimento era adottato con frequenza.

C’erano motivi di cautela che inducevano a farlo. Un porto era infatti una fortuna e, al tempo stesso, potenziale fonte di guai. Lo si può intuire dallo stesso termine usato dai Romani, portus, che si riconduceva al termine porta, vale a dire la porta delle mura cittadine — ricordiamo che l’uscio di casa era chiamato ianua — e quindi al tipico concetto latino di confine tra ciò che è noto e ciò che è ignoto o anche tra ciò che è favorevoli e ciò che è avverso. In definitiva, al pari del mare, un porto aveva in sé un duplice valore antitetico: apriva ai commerci ed ai guadagni ma nel contempo era un luogo vulnerabile da cui, come una qualsiasi porta cittadina, potevano agevolmente penetrare i malintenzionati, con tutte le brutte conseguenze del caso.

Tucidide, il celebre storico greco, giustificava tale accortezza per la presenza in tempi arcaici di una diffusa pirateria che depredava qualsiasi cittadina collocata sulla costa, riferendo in aggiunta che, sebbene non fosse una tattica più seguita ai suoi tempi (siamo nel V secolo a.C.), le città di più antica fondazione continuavano ad essere situate ancora nell’interno2. E, come già esposto, Atene ne era l’esempio più famoso.

Una inevitabile conseguenza nell’adozione di una simile strategia precauzionale è che l’epìneion era una struttura portuale che si poneva principalmente a difesa della città e, quindi, era una postazione fortificata, munita di solide mura, disponibile eventualmente ad ospitare una clientela selezionata.

Altra inevitabile conseguenza è che, a differenza di quanto ipotizzato da alcuni3, l’approdo brindisino non aveva un ruolo emporico, vale a dire di zona aperta ai commerci. Sebbene questi non fossero certo preclusi, erano però riservati come appena detto ad una clientela scelta in base a consolidate consuetudini o a formali alleanze, oppure limitati alla raccolta ed allo smercio delle mercanzie prodotte nelle zone limitrofe, ed in funzione in ogni caso secondaria rispetto a quella propria di epìneion.

Con ogni probabilità il mondo ionico frequentava l’approdo brindisino e di certo vi approdavano i navigli Ateniesi, facendo parte Atene della ristretta cerchia di comunità con cui Brindisi intratteneva rapporti più che amichevoli sin dai tempi precoloniali, come le fonti letterarie indicano in maniera più che manifesta. Mentre era di sicuro interdetto alle comunità achee e spartane, o doriche in genere, con le quali sussisteva uno stato di belligeranza quasi costante.

In tal senso appare significativo un passo in cui Polibio4 chiarisce in maniera perentoria che, prima della deduzione della colonia latina di Brundisium, il traffico proveniente dalla Sicilia e dalla Grecia era in grandissima parte convogliato a Taranto ed era nei porti dei Tarantini, che i naviganti facevano «i loro scambi e traffici». Oltre a questa esplicita considerazione, lo storico lascia in aggiunta intendere che a questi commerci il porto di Brindisi era del tutto estraneo.

Il che induce ad escludere che in periodo preromano l’approdo brindisino possa essere stato un emporion, nel senso che si dà a questo termine di luogo adibito e destinato principalmente al libero svolgimento di attività mercantili.  D’altra parte il fatto stesso che fosse un epìneion fa di per sé cadere una simile ipotesi. Sicché la struttura portuale era munita di una solida cinta muraria che la metteva in condizione di rendere vani eventuali incursioni nemiche.

A differenza di quanto comunemente si riferisce, le mura di periodo messapico non dovevano cingere la sola collinetta collocata a nord della città, di fronte al seno di Ponente del porto interno, ma anche l’area meridionale del centro e la collinetta di Levante. Come infatti già emerso da rilievi archeologici5 anche la zona meridionale risultava in periodo arcaico già abitata. A questo si aggiungono aspetti strategici e di contesto che fanno propendere per una configurazione della struttura muraria ben diversa da quella presunta dalla cronachistica locale6.

Le due collinette erano infatti separate da una depressione (l’attuale corso Garibaldi) che in antichità dava origine ad una terza insenatura abbastanza stretta — alla quale non a caso si dà il nome convenzionale di canale della Mena — che però tagliava per lungo tratto l’approdo brindisino da est ad ovest. Sicché sarebbe stato alquanto imprevidente proteggere la sola zona a nord, lasciando nel contempo parzialmente indifeso il canale della Mena e del tutto senza protezione l’intero seno di levante. Cosa questa alquanto improbabile, se si considera inoltre che la collinetta meridionale si sarebbe trovata in posizione ben più elevata rispetto alla parte meridionale delle mura e quindi in condizione di creare grossi danni se fosse caduta in mano di eventuali assalitori. Un qualsiasi nemico avrebbe infatti potuto approdare indisturbato nel ramo di levante ed avere la possibilità sia di aggirare le mura, arrivando ad aggredire il centro abitato, sia di dare l’assalto al porto con il vantaggio di poterlo investire da una zona sovrastante che rendeva di fatto inutile la stessa protezione delle mura. In conclusione la cinta muraria doveva necessariamente proteggere anche gli approdi della parte meridionale del porto interno, e non solo quelli del ramo di ponente, se si voleva rendere imprendibile l’epìneion.

Alla giusta obiezione che l’estensione delle mura sarebbe stata talmente imponente da creare non pochi problemi per difenderle adeguatamente in ogni settore, si può rispondere ricordando che Brindisi nel periodo arcaico era una città in grado di primeggiare, non solo nel contesto regionale che gli era proprio — si pensi che Floro la dichiara «capitale della regione»7 — ma anche in quello extraregionale — tanto è vero che Trogo la qualifica la città più prestigiosa dell’Apulia («urbs Apulis»8) — e quindi capace di mettere in campo un numero di effettivi non certo banale. Oltre ad aggiungere che i settori delle mura da presidiare in maniera assidua erano quelli che davano sul mare, essendo i soli da dove potevano giungere pericoli improvvisi.

I dati archeologici ed il contesto inducono pertanto a credere con una qual certa sicurezza che il circuito murario salvaguardasse tutte e tre le insenature. Tuttavia non forniscono nessuna indicazione sul percorso seguito dalle mura a sud della città, se non quella del tutto scontata che dovesse contenere al proprio interno la collinetta meridionale il cui apice era situato dove l’attuale via Taranto si affaccia sul porto.

 

La ricostruzione è pertanto del tutto ipotetica e si basa sull’usuale considerazione che, in alcuni settori (settentrionale, orientale ed in parte sud-orientale), la cinta muraria non dovesse discostarsi più di tanto dal tracciato delle mura romane e di quelle aragonesi. Mentre per gran parte del settore meridionale e, soprattutto, di quello occidentale, il suo percorso dovesse risultare con ogni probabilità in posizione molto più arretrata rispetto a quello delle mura edificate dai Romani e dagli Aragonesi.

In base a queste considerazioni, il circuito delle mura doveva percorrere via Camassa in direzione nord-est quindi, piegando verso sud-est, seguire un tragitto arretrato rispetto a viale Regina Margherita, sino a rasentare il pendio della collinetta dove si trovano le Colonne, per poi arrivare dove ora si trovano i giardinetti di piazza Vittorio Emanuele II. Avrebbe quindi costeggiato entrambe le sponde dell’insenatura della Mena proseguendo successivamente verso sud, sino a raggiungere e superare i pendii di via Taranto e di Porta Lecce. Tra via Gallipoli e via Giovanni XXIII avrebbe cambiato percorso indirizzandosi verso nord,  ricongiungendosi così con il settore settentrionale; qui giunto, dopo aver svoltato verso est, seguiva con ogni probabilità via dei Mille e via Sant’Aloy.

Difeso da queste mura viveva l’avamposto della Brunda messapica con il compito di gestire le strutture portuali ed i commerci che si svolgevano con i popoli corregionali ed alleati, garantendo al tempo stesso il centro abitato da sgradite sorprese.

Come già sottolineato, Brunda, che i Greci chiamavano Brentesion, fu congiunta al suo porto quando i Romani, conquistatala nel 267 a.C., decisero circa un ventennio dopo di dedurvi una colonia di diritto latino.

E, come ricordato da Cicerone, fu il 5 agosto 244 a.C. che la Brindisi si collocò per la prima volta sul basso promontorio prospiciente il mare.

 

 

Note

1 Pseudo-Scimno (II secolo a.C.), Descrizione della terra, v. 364.

2 Tucidide (V secolo a.C.),  La guerra del Peloponneso, I 7, 1.

3 Si veda in tal senso g. carito, Brindisi. La storia del mare, Independently published 2022, p. 13.

4 Polibio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Le Storie, X, fr. 1.

5 G. Cera, Brindisi in età messapica e romana. Topografia della Città, L’Erma di Bretschneider, Roma 2022, p. 212.

6 G. Carito, Le mura di Brindisi: sintesi storica, in Brundisii res , vol. 13 (1981), pp. 33-41.

7 Floro, Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo,  I 15, 1.

8 Giustino (II secolo d.C.?), Epitome delle storie filippiche di PompeoTrogo (I secolo a.C – I secolo d.C.), XII 2, 5/11.

Torri colombaie a Montesardo

di Michele Bonfrate

 

Una fotografia [1] molto bella ed interessante ripresa ante estate 1908 è conservata a Roma nelle raccolte fotografiche dell’Istituto Centrale del Catalogo e della Documentazione dipendente dal Ministero della Cultura e documenta la presenza a Montesardo di una antica torre colombaia che era ubicata a qualche decina di metri a sud del margine del centro storico del paese, così come si deduce osservando con attenzione la posizione della torre campanaria della chiesa matrice visibile al centro dell’immagine (fig.1).

Figura 1 – fotografia del 1908 di una torre colombaia a Montesardo

 

Figura 2 – ingrandimento della fotografia del 1908 di una torre colombaia a Montesardo

 

Osservando l’ingradimento della fotografia (fig.2) si nota che:

– la torre era stata costruita con 46 filari di conci;

– presumendo l’altezza del concio in cm 25 si può calcolare la misura dell’altezza della torre in m.11,5;

– rapportando graficamente la larghezza della torre con l’altezza, il diametro della base della colombaia risulta essere m.10,25 circa;

– il 31° filare sembra avere una altezza più bassa degli altri stimabile in circa 15 cm, sporge circa 15-20 cm rispetto alla superficie esterna della torre e secondo l’arch. Vincenzo Peluso tale sporgenza ha la funzione di bloccare l’arrampicata dei topi che potevano divorare uova e pulcini delle colombaie;

–  probabilmente la presenza della fascia di intonaco che ricopre la superficie compresa tra 6° e 10° filare potrebbe essere un altro accorgimento per impedire o ostacolare la risalita dei topi le cui unghie trovano facile appiglio sulla superficie granulosa della muratura non intonacata;

– il 41° filare è caratterizzato da beccatelli modanati sporgenti circa 15 centimetri su cui poggiano altri quattro filari con la stessa sporgenza dei beccatelli;

– il 42° filare è decorato da archetti scolpiti in stile aragonese che inducono a ipotizzare la costruzione della torre colombaia tra la fine del XV ed i primi anni del XVI secolo;

– il 46° ed ultimo filare è una cornice modanata sporgente circa 20 centimetri.

Io [2] non avevo mai visto questa immagine e quindi ne ho parlato subito (novembre 2023) agli amici Paolo Torsello, Raimondo Massaro, Antonio Piscopello e, qualche giorno dopo, anche a Vincenzo Peluso; soltanto Raimondo conosceva questa foto perché l’aveva già vista pubblicata (ritagliata e più sfocata) su internet [3] ma nessuno di loro aveva mai visto questa torre colombaia e neppure conosceva la sua ubicazione.

Vincenzo Peluso (architetto di Martignano che da oltre trent’anni sta studiando, raccogliendo e producendo documentazione archivistica, grafica e fotografica sulle numerose torri colombaie esistenti nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto) mi ha informato che nel 1985 aveva fotografato a Montesardo un’altra torre colombaia che poco tempo dopo venne demolita per costruire le attuali abitazioni in via Trieste ai numeri civici 124-128; in quella occasione un testimone oculare gli riferì che nel 1980 circa un’altra torre colombaia era stata demolita per costruire l’attuale fabbricato già falegnameria con soprastante abitazione in via Daniele Manin ai numeri civici 7 e 9; inoltre, l’architetto Peluso mi ha informato che queste due torri sono esattamente cartografate come fabbricati graffati alla particella catastale 610 (la prima, n.9 in fig.3) e alla particella 609 (la seconda, n.10 in fig.3) sul foglio 26 della mappa d’impianto catastale del Comune di Alessano.

Paolo Torsello ha raccolto le seguenti informazioni interpellando tre abitanti di Montesardo: il sig. Franco Calignano (1953) abitante in via Nazionale ha riferito di ricordare la colombaia fotografata nel 1908 nei pressi della colonna con la statua di Sant’Antonio; il sig. Mario Cazzato (1956) abitante in via Daniele Manin ha riferito di ricordare benissimo sia la colombaia che si trovava di fronte casa sua dove ora c’è la ex falegnameria e sia l’altra torre distante circa 100 metri più a sud-ovest in via Trieste e le descrive così: “Quelle colombaie erano strutture molto belle, particolari e caratteristiche, all’interno avevano in cerchio spazi pieni e spazi vuoti in cui i piccioni potevano nidificare, a volte le ho anche scalate”; il sig. Pippi Biasco (1955) abitante in via Daniele Manin ricorda che la torre che era nel suo terreno fu demolita nel 1980 dopo aver ottenuto il permesso di costruzione per la sua casa-falegnameria e la descrive così “La torre era alta circa 12 metri, aveva un piccolo ingresso dal quale si entrava abbassando la testa, era semichiusa in cima, i piccioni si allevavano sia per la carne, sia per le uova e sia per il letame che producevano. L’altra torre colombaia si trovava a cento metri dalla mia. Non ricordo la torre fotografata nel 1908”.

A questo punto, ho ritenuto utile provare a individuare con la massima precisione l’ubicazione topografica di questi tre antichi monumenti perduti di Montesardo; esaminando e confrontando la mappa d’impianto catastale[4] del 1937 (fig. 3) e la fotografia aerea[5] del 1943 (fig. 4) ho potuto rapidamente riconoscere le tre torri colombaie: la torre fotografata nel 1908 ricade nella particella catastale 539 (n.1 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1416, via Trieste n.2, adiacente al recinto della scuola), la torre demolita nel 1980 in via Daniele Manin ricade nella particella 609 (n.9 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1076, via Manin n.7) e la torre fotografata dall’arch. Vincenzo Peluso nel 1985 in via Trieste nella particella 610 (n.10 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1138, via Trieste n.128).

Figura 3, estratto del foglio 26 della mappa d’impianto catastale del 1937 di Alessano. Legenda: 1= torre colombaia fotografata nel 1908 nei pressi dell’attuale via Trieste n.2; 2= torre campanaria della chiesa matrice di Montesardo; 3= chiesa via Leuca; 4= via Nazionale SS275; 5= colonna con statua di Sant’Antonio; 6= via Ruggiano; 7= via Leuca SS275; 8= torrino dell’Acquedotto Pugliese; 9= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Manin n.7; 10= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Trieste n.128.

 

Figura 4, fotografia aerea di Montesardo del 1943 dell’Istituto Geografico Militare (IGM).
Legenda: 1= torre colombaia fotografata nel 1908 nei pressi dell’attuale via Trieste n.2; 2= torre campanaria della chiesa matrice di Montesardo; 3= chiesa via Leuca; 4= via Nazionale SS275; 5= colonna con statua di Sant’Antonio; 6= via Ruggiano; 7= via Leuca SS275; 8= torrino dell’Acquedotto Pugliese; 9= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Manin n.7; 10= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Trieste n.128.

 

Probabilmente gli ingegneri che intorno all’anno 1939 progettarono e costruirono il torrino[6] dell’Acquedotto Pugliese (n. 8 nelle figure 2 e 3) nei pressi della chiesa in via Leuca si ispirarono a quella bellissima torre colombaia che distava meno di cento metri.

Seguendo l’invito di Antonio Piscopello (bibliotecario di Alessano) di cercare notizie sulle torri presso l’Archivio di Stato di Lecce, ho consultato i registri catastali del Comune di Alessano nei quali risulta che nel 1937 la signora Maria Saveria Motolese (nata a Grottaglie nel 1889, vedova di Bartolomeo Serafini Sauli) era la proprietaria del terreno ove sorgeva la torre fotografata nel 1908 e che la signora Anna Romasi (nata a Alessano nel 1881) era la proprietaria dei terreni ove sorgevano le altre due torri.

Chi avesse la curiosità di osservare da vicino e di toccare un’altra antica torre colombaia ancora ben conservata può percorrere la strada rurale Vigna La Corte che inizia dalla strada provinciale per Specchia a meno di due chilometri a nord di Alessano[7]; chi non ha la possibilità di andare sul posto può visionare varie immagini di questa torre cercando le parole “Lu Palummaru” su Google Maps o visualizzando il link https://maps.app.goo.gl/NZ16eqGciB2hPzdy5.

michelebonfrate@gmail.com

 

Note

[1] Fotografia n.E002279 nell’Archivio Gabinetto Fotografico Nazionale presso l’ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero della Cultura).

[2] Nell’estate del 1998 su proposta di Vincenzo Santoro (allora consigliere comunale delegato alla cultura) fui incaricato (insieme al fotografo Raffaele Puce) dal Comune di Alessano di produrre ed allestire una mostra fotografica sui beni culturali del territorio intitolata “Alessano-Montesardo: Appunti” che fu esposta nel frantoio ipogeo di Villa Potenza di Alessano dall’8 al 30 agosto 1998 nell’ambito delle manifestazioni culturali dell’Estate Alessanese; in quella occasione nessuno mi parlò dell’esistenza di torri colombaie e neanche trovai menzione di esse nella bibliografia che avevo consultato per lo studio e l’esplorazione del territorio comunale svolti per individuare le cose da fotografare.

Presso la biblioteca comunale di Alessano (inventario n.2819, collocazione GEN SAL AV 292, https://www.bibliando.it/SebinaOpac/resource/alessanomontesardo-appunti/PUG02177570) è conservata ed è consultabile una copia della mia relazione dattiloscritta avente lo stesso titolo della mostra che consegnai in originale al Comune e ad alcuni amici interessati tra i quali Paolo Torsello che pensò bene di farne un’altra copia che portò al bibliotecario Antonio Piscopello che la acquisì al patrimonio bibliografico comunale.

[3] L’immagine vista da Raimondo Massaro si trova sul portale SAST – Sistema Archivi Storici Territoriali del Segretariato regionale del Ministero della Cultura per la Puglia ed è consultabile al link http://sast.beniculturali.it/index.php/teca-digitale?view=show&myId=4fdb4282-9a9f-4b58-ab6b-52dac0a5b9f9.

[4] I disegni cartacei originali della mappe catastali d’impianto dei comuni della provincia sono conservati presso l’Ufficio del Territorio dell’Agenzia delle Entrate di Lecce e documentano la situazione catastale ufficiale alla data di attivazione del vigente Catasto Terreni; il 1° gennaio 1937 è la data in cui ci fu la “Attivazione del nuovo catasto per i Comuni dell’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Alessano” stabilita dal decreto del Ministro per le finanze 17 ottobre 1936 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n.275 del 27 novembre 1936, pagina 3416..

[5] Il negativo originale di questa fotografia aerea del 24 maggio 1943 è conservato presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze.

[6] Il torrino dell’Acquedotto Pugliese a Montesardo è visualizzabile su GoogleMaps al seguente link https://maps.app.goo.gl/1pLV6yWTPfKzcRhM9.

[7] Partendo da Alessano da via Giudecca si imbocca la strada provinciale n.242 per Specchia, si percorrono km 1,4 circa, si svolta a destra in via Vigna La Corte (non asfaltata) e dopo circa 100 metri si svolta di nuovo a destra e la torre colombaia appare alla distanza di circa 70 metri. Nella mappa catastale di Alessano la torre si trova nella particella 137 del foglio 7; le coordinate geografiche 39.902527, 18.321077.

Dialetti salentini: milaffanti, metafora di guerra o di innocenza?

di Armando Polito

L’associazione di particolari piatti a determinate ricorrenze è pratica che le diverse culture hanno messo in atto da tempo immemorabile. La globalizzazione e il consumismo, però, da qualche decennio la stanno cambiando inesorabilmente, e neppure lentamente, sicché fra poco, per fare un esempio, gusteremo in piena estate un dolce che in origine aveva nel periodo del Natale la funzione di deliziare il nostro palato e di evocare nello stesso tempo ricordi e aspettative. Mi pare che oggi qualsiasi legame col tempo che non sia il presente vada cancellato dalla coscienza e pure i piatti tipici di certe ricorrenze sono disponibili in qualsiasi periodo dell’anno, al pari della frutta fuori stagione (quella della natura prima dello stupro umano).

Il piatto nominato nel titolo non si sottrae a questo destino ed è di parziale conforto considerare che il suo consumo anche nelle grandi ricorrenze non era certo appannaggio delle classi meno abbienti, annoverando tale piatto quale ingrediente finale nella sua preparazione il brodo di carne.

Non ho intenzione di continuare nella predica, col rischio di deragliare tra i pandori (prodotto della moderna ignoranza, complice anche la cosiddetta “creatività” dei pubblicitari, accolto a braccia aperte dalla lessicografia attuale1) di personaggi considerati geniali ma che in realtà sono solo furbetti che approfittano della condizione di decerebrazione in atto, e non da oggi, sulla popolazione da parte di chi, per il proprio tornaconto e non per suo conto, gestisce il potere. Passo, perciò, ad altre considerazioni, mi auguro più in linea con le mie competenze che con quelle che possono sembrare elucubrazioni da sociologo della domenica.

preparazione dei milaffanti

 

Milaffanti: se un giorno si scoprisse un’origine araba, non mi meraviglierei più di tanto, essendoci oltretutto, per motivi storici, dei precedenti, tra i quali il salentinissimo cìciri e tria2. Nel frattempo, non mi resta che soffermarmi sul nome in sé.

Comincio col dire che il Rohlfs al lemma millaffanti (varianti registrate: melinfante e mmilleffanti; mancano quella di Nardò, milaffanti e quella di Otranto, cettafanti, ma non è questo il problema) si limita a proporre un confronto col napoletano  millenfante= pastina fine, rinviando a ffanti, dove, dopo aver dato la definizione di specie di pappa di farina, rinvia al punto di partenza.

Prima di continuare, un minimo di onestà intellettuale mi impone di precisare che tutto quello che sto per argomentare sarebbe stato trattato infinitamente meglio se il maestro tedesco avesse avuto a disposizione gli strumenti formidabili, soprattutto digitali, di cui oggi chiunque può fruire, anche se il degrado della scuola e la latitante acribia lo espongono ad ogni passo al rischi di facili entusiasmi e mastodontici abbagli. E proseguo sperando, in questo senso, di cavarmela degnamente.

Così ho potuto rilevare, accanto al napoletano millenfante, i siciliani melifanti e milinfanti3 e il milanese mennafait4. Per quanto riguarda l’etimo, l’unico proposto è quello siciliano di cui do conto nella relativa nota. Esso, però, non mi convince per evidenti ragioni fonetiche, essendo arduo già spiegarsi  il oresunto passaggio da mano a mell/mili. Al di là dei vocabolari citati, in Giuseppe Gioeni, Saggi di etimologie siciliane, Tipografia dello statuto, Palermo, 1885, p. 180, si legge: “Milinfanti, semolino, forse dal greco mylìfatos o milèfatos (μυλήφατος), macinato, tritato, come in italiano chiamasi tritollo il cruschello, o altra cosa tritata”. Anche questa proposta non mi convince, perché è basata sul riferimento di un carattere comune (tutte le farine sono passate dal mulino) ad un prodotto particolare. Ad ogni modo non mi pare secondario il fatto che una indiscutibile affinità fonetica, almeno parziale, collega i nomi con cui lo stesso prodotto è chiamato in altre zone non salentine, quali prima la siciliana e la lombarda, e a Minervino Murge, Trani e Ruvo di Puglia (mbandaridde) e nel Barese mbilèmbande).

E allora?

Molte di queste voci dialettali potrebbero aver trovato una sorta di nobilitazione (ammesso, per assurdo, che il dialetto non possa vantare alto lignaggio) nella deformazione dell’italiano mille fanti, la cui più antica attestazione è in Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto di papa Pio V, come è ben evidenziato nel frontespizio, che di seguito riproduco insieme col ritratto che è all’interno, della sua opera uscita per i tipi di Tramezzino a Venezia nel 1570.

 

Le pagine (sono numerate come nei manoscritti) 55r-55v contengono i capitoli CLXXI dal titolo Per fare una minestra con fior di farina, e pan grattato, volgarmente detta mille fanti & e CLXXII dal titolo Per far mille fanti di fior di farina per conservarlo.

Trascrivo i due testi per rendere più agevole la lettura e il rlevamento di quelle differenze che molto spesso accompagnano ricette con lo stesso nome.

CAPITOLO CLXXI

Piglinosi oncie dieci di fior di farina, et oncie otto di pan grattato, passato per un foratoro, et mescolinosi insieme con la farina, et con un quarto di pepe pesto, et habbianosi quattro rossi d’uove fresche, battute con un bicchiero di acqua fredda, tinta di zafferano, e stendasi essa farina su la tavola, e sbruffasi con l’uove sbattute, mescolandola leggiermente con li coltelli, overo con una paletta di legno, in modo che tal farina venga in ballottine picciole, et le dette ballottine passinosi in una tortiera per un foratoro, overo crivello leggiermente senza porre la mano nel foratoro, et quelle che da se saranno passate nella tortiera, si poneranno su la cenere calda nel modo che si pongono le torte con il coperchio caldo sopra, et lascinosi stare fibche si asciughino, et non havendo coperchio pongonosi nel forno non troppo caldo, et perche tal compositione sempre sarà humida, aspettisi che siano asciutte però non arse, et dapoi cavinosi dalla tortiera, et mettanosi sopra una tavola, percioche come i detti grani saranno all’aere verranno sodi, et rimettanosi in un foratoro ben netto, o in un setaccio chiaro, et setaccisi fuora il farinaccio, et habbiasi apparecchiato brodo grasso che bolla, et pomganovisi dentro essi mille fanti, ogni libra de quali vuole xsei libre di brodo, et quando saranno cotti, servanosi con casciograttato, et cannella sopra. In questo medesimo modo si potrebbeno cuicere con il latte di capra, o con il butiro, o acqua. Si possomo ancho conservar tre o quattro mesi dapoi che son fatti nella tortiera, ma volendo farne quantità, la parte chè rimasta nel foratoro, o nel crivello riponasi su la tavola, e spolverizzisi di farina, et battasi leggiermente con li coltelli, rivoltandola sotto sopra piu volte fib’a tanto che si vedrà, che sia ben battuta, et dapoi nel passarle per lo foratoro, et nel seccarle tengasi il medesimo ordine che si è detto di sopra.     

CAPITOLO CLXXI

Piglisi fior di farina macinata sotto la luna di Agosto, perche è piu durabile, et la quantità sua secondo se ne vorrà fare, stendasi sopra una tavola grande, et larga, habbiasi acqua tepida, mescolata con sale, et con una scopettina di mellica sbruffisi la farina di tale acqua, rivolgendola con la paletta al modo che s’è fatto de gli altri fin a tanto, che tutta sia convertita in granelli grossi come miglio, et dapoi passinosi essi granelli con il crivello sopra un’altra tavola, et faccianosi seccare al sole, facendosi cosi fin’a tanto che sia consumata tutta la farina, et quando saranno asciutti, si crivelleranno per un foratoro minuto, o setaccio chiaro, accioche se n’esca fuora il farinaccio, et si riporranno su la tavola, et si lascieranno stare per un altro dì nel Sole, et dapoi si conserveranno in sacchetti, o in vasi di legno,per tutto l’anno. E volendone fare minestra, con brodo di carne, et con latte tengasi l’ordine delli soprascritti.

Il mille fanti dello Scappi sembrerebbe non lasciare dubbi: si tratterebbe di una similitudine di natura militare, in cui i minuscoli pezzetti di pasta apparirebbero come tanti  (mille in milaffanti, cento nella variante otrantina cettafanti). Ho usato ben due condizionali perché la sfumatura, per così dire, bellica non mi trova d’accordo. A volte, come nelle persone basta un gesto impercettibile per rivelare un sentimento profondo, per le parole è sufficiente un fonema. Credo che nel nostro caso protagonista sia la consonante f. Nelle varianti salentine riportate compare due volte la sequenza consonantica –ff– (millaffanti, milaffanti e mmileffanti) e una volta –nf– (melinfante), ricorrente anche nella voce napoletana (millenfante); la variante otrantina col suo –f- in questo quadro si mostra come un apax.

Rimane il dilemma: –ff– è frutto di quel raddoppiamento espressivo che, particolarmente nella consonante iniziale (e non è questo il nostro caso) del dialetto salentino, geminazione nella fattispecie dovuta al nome composto, come negli italiani soprattutto, soprammobile, sopraggiungere etc. etc.?; e –nf– è frutto della dissimilazione di un originario –ff-? Siccome non riesco a trovare un solo esempio di questa presunta dissimilazione, sono indotto a pensare che, invece, sia –ff– frutto di assimilazione di un originario –nf– e che i protagonisti della metafora non siano i fanti, ma gli infanti. Queste due voci hanno lo stesso etimo e, in particolare, fante deriva per aferesi da infante, che è dal latino infante(m)=muto, puerile, giovane, composto da in privativo e dal participio presente di fari=parlare. Il fante, soldato a piedi, era in origine al servizio del cavaliere (ma il diminutivo fantino rappresenta una sorta di compromesso tra l’uso del caballo 4e la necessità di non affaticarlo col proprio peso, ragion per cui chi lo cavalca di regola è di bassa statura ), concetto di subalternità presente anche in fantesca, mentre quello di giovane sussiste in fantolino e fanciullo (il prmo diminutivo di diminutivo: fante>fàntolo>fantolino; il secondo, con sostituzione di suffisso, da fancello, a sua volta per sincope da fanticello), oltre che nello spagnolo infante e infanta (titolo spettante agli eredi al trono non diretti e nel francese enfant. Per completare il tutto va detto che pure fantoccio in origine era sinonimo di giovane ragazzo e che in seguito ha assunto la valenza dispregiativa prima parziale a designare il burattino, poi totale quando la metafora ha coinvolto il singolo  adulto e perfino lo stato e il governo.

Il precedente dilemma di natura fonetica si complica ora con risvolti storici non di poco conto in un nodo pressoché inestricabile. Se –nf_ e non –ff– è il nesso consonantico originario, per milaffabti va messo in campo il fante, l’infante o l’enfant,  per cui la similitudine sarebbe guerrafondaia (!) o pacifista (?) pacifista, a seconda che l’immagine evocata sia quella dei soldatini oppure quella dei bambini. In un caso o nell’altro c’è il ricorso al concetto del piccolo, presente anche nel nome di due piatti dolci di questo periodo: purciddhuzzi5 e cartiddhate6.

L’interrogativo, poi, presente fin dal titolo ed evocato dalle due immagini di testa [(milaffanti fatti da mia moglie il 24/12/2023 )/Armata di terracotta (III secolo a. c.)] non è stato sciolto, ma l’angoscia del dubbio sia lenita, almeno parzialmente, da quella di coda (fine fatta dai milaffanti della prima il giorno successivo)!

__________

1 Sul sito dell’Accademi della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/pani-di-natale/1387) si legge: … oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale. Un po’ di pazienza: basta che per motivi commerciali da  faccia di bronzo nasca (così come per l’originario pan d’oro) un facciadibronzi perché la materia viva il miracolo della sua moltiplicazione nel complemento che da lei prende il nome). E poi, per violentare pure la creatività, quella vera, di De Andrè, prendiamo Bocca di rosa, trasformiamolo in Boccadirosa e lanciamo con questo nome un profumo; non trascorrerà nemmeno una settimana e nasceranno locuzioni del tipi: ho comprato cinque Boccadirose e nel corso dello stesso anno  la lessicografia registrerà con servile acquiescenza Boccadoro al singolare e Boccadori al plurale …

E io, che pensavo di mettendo a Ferr…agni e fuoco i pandori, sto ancora a Baloccarmi (a questo punto l’iniziale maiuscola è d’obbligo).

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/18/un-antichissimo-piatto-salentino-ciciri-e-ttria/

3 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, 1789: “Vedi Cuscusu. P. MS. dice: Insubres menafatti appellant farinae inspersione densam granorum congeriem, quasi manu facta sive coacta” (Gli Insubri chiamano menafatti un insieme di grani di farina denso con lo sparpagliamento, quasi fatto o compresso con la mano).

4 Francsco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Dalla regia stamperia, Milano, 1841: “La nostra è voce antica che leggesi negli Statuti degli offellatori milanesi, a p. 16″. Offellatori è da offella, diminutivo del latino offa=focaccia, boccone. L’indicazione p. 16 indurrebbe a supporre che si tratti di un testo a stampa (purtroppo finora irreperibile in rete) , abche se è più probabile che si tratti di manoscritto, di reperibilità ancora più difficile.

5 Trascrizione di un inusitato italiano porcellucci, plurale diminutivo del diminutivo di porco (porco>porcello>porcelluccio). Non è necessaria molta fantasia per comprendere la similitudine, anche questa, come la maggioranza, tratta dal mondo animale.

6 Trascrizione di un inusitato italiano cartellate. Qui c’è lo zampino della dominazione spagnola che ci ha lasciato, oltre la pessima abitudine di esagerare nell’esibizione di titoli e di iniziali maiuscole, anche il retaggio di molte parole, tra cui cartiglio, a sua volta da cartiglia, che è dallo spagnolo cartilla, diminutivo del latino carta.

Di due nipoti di Pietro Marti tra Lecce e Manduria: Bodini e Dimitri

di Ermanno Inguscio

 

La preziosa programmazione di un Convegno su Pietro Marti nell’aprile 2023, sapientemente suggerita dalla Presidenza della Società “Dante Alighieri” di Casarano, sotto la guida del prof. Fabio D’Astore, e dalla sezione leccese della Società di Storia Patria per la Puglia, presieduta dal prof. Mario Spedicato, proietta chi scrive in una dimensione di tipo numerologico, situazione facilmente aborrita, perché non di rado scagliata nel mondo della pura casualità. L’ anno di grazia 2023 si colloca a 170 anni dalla nascita di Pietro Luigi Marti (16 giugno 1863) e al 90° di sua morte in Lecce (18 aprile 1933). Ma più importante appare il centenario della sua nota rivista “Fede”, fondata nel 1923 nel capoluogo salentino, un’autentica perla tra la quarantina di pubblicazioni in volume prodotti dal docente-giornalista, notate anche dal grande Carducci su “Nuova Rassegna”[1].

La parabola dell’esperienza d’insegnante di Pietro Marti ebbe inizio nel 1880, nella sua città natale, Ruffano, all’età di 17 anni, come riferito in un  vecchio mio volume, edito da Congedo nel 1999[2]. Egli, conseguito il “patentino” per l’insegnamento nel biennio e poi “la patente” per il ruolo nel triennio finale della Scuola Elementare, venne nominato maestro “rurale”, dall’Amministrazione guidata da Pasquale Leuzzi[3].

Tutto ebbe avvio felice sia per la frequentazione culturale della famiglia Marti nella magione dei Leuzzi sia per la stima di quest’ultimo nei confronti  del vecchio funzionario della pretura ruffanese, Pietro senior, grande mazziniano della prima ora. L’esperienza si concluse nel luglio del 1883, quando il sindaco pro tempore Santaloja[4] sospese Marti dall’incarico e dallo stipendio “per essersi allontanato dalla residenza pria della chiusura delle scuole”.

La questione ebbe strascichi spiacevoli con comunicazioni perentorie da parte del Santaloja, che sostituiva il sindaco Leuzzi e ricorsi sino in Consiglio di Stato ad opera dell’interessato. In verità Marti si era recato a Lecce con alcuni suoi fratelli, alla ricerca di una abitazione, per poi fondare nel 1884 un rinomato Istituto Educativo, frequentato da giovani di ogni classe sociale.

Un riferimento netto venne dato a tale vicenda da Alfredo Calabrese, il 3 dicembre 1990, nel presentare sulla rivista “Lu Lampiune” la Cronologia della Penisola salentina in un manoscritto di Pietro Marti[5]. Testo che ho personalmente visionato nella biblioteca privata del nipote, nell’abitazione dello studioso Elio Dimitri, in Manduria, nella frequentazione di due anni e mezzo in quella città prima della sua scomparsa.

Lo stesso Calabrese annotò che dopo appena due anni di intensa attività didattica del Ginnasio leccese, i fratelli Marti furono costretti a chiudere l’istituzione, nel 1886, perché “caduta sotto dittatura faziosa e violenta”. Ma indiscussa dovette essere la fede dei numerosi fratelli Marti, tra cui Luigi, Antonio e Raffaele[6], tanto da far dichiarare al nostro insegnante Pietro, ma ormai proiettato verso il giornalismo speso in tutta la Puglia, che  La missione della Scuola dev’essere sacra e superiore a tutte le passioni personali e politiche… E’ triste per ogni Paese quell’ora in cui si tenta di propinare il veleno della disistima tra discepoli e maestri.

Parole scritte a Manduria, nel 1922, su un volantino a stampa, dal titolo “Per la verità…”[7] contro la sezione fascista di quel centro che aveva attaccato Marti sul funzionamento della Scuola Tecnica, da lui fondata e diretta in quella città per chiamata del locale sindaco.

Sempre negli anni Venti, più precisamente nel marzo del 1921, oltre all’esperienza dirigenziale in campo scolastico a Manduria, di cui si dirà più diffusamente altrove, abbiamo nota, in una conferenza pronunciata nell’Università popolare di San Severo, riportata nella raccolta di un volume a stampa dal titolo Il Dovere civile e Giuseppe Mazzini[8], di un incarico per Marti a direttore delle Scuole Tecniche “Zannotti”[9] di quella città. Ma non abbiamo rinvenuto altri riscontri in proposito.

Allo scoppio del Primo Conflitto mondiale, dopo l’eccidio di Sarajevo, Marti era nel pieno della sua maturità fisica e intellettuale. A Bari, intanto, il 6 gennaio 1914, gli era nato un nipotino, Vittorio Bodini, che poi finirà col coabitare col nonno sotto lo stesso tetto in Lecce, e che farà con lui utile apprendistato.

Vittorio era figlio di Anita Marti e del padre Benedetto, commissario di pubblica sicurezza nel capoluogo barese. Ma questi, minato da cagionevole salute, era scomparso dopo appena tre anni, lasciando alla giovane moglie l’ineluttabilità di convolare in seconde nozze. Al bambino Vittorio mancò sempre il rapporto con la madre e con i quattro fratelli nati dal patrigno; egli si sentì sempre “leccese” per famiglia e formazione, anzi “idruntino”, come osservato da Armando Audoli[10].  Bodini visse così con il nonno Pietro, come ricordato da Oreste Macrì, la “prima” delle sue sette vite, quella dell’infanzia e dell’adolescenza futurista[11].

Immenso fu l’affetto tra nonno Pietro e il nipote Vittorio; grandissimi i precetti etico-morali instillati nel tuttavia, ribelle nipote. Dodici anni dopo, l’8 luglio 1926, dall’altra figlia di Marti, Emma, era nato a Manduria un altro nipotino, Elio Dimitri, che ho avuto la fortuna di conoscere, due anni prima della sua morte (3 febbraio 2016)[12]. Vittorio Bodini ed Elio Dimitri, due nipoti del giornalista Marti. Il primo studiato nei corsi di Letteratura del Novecento, mai conosciuto di persona; il secondo, conosciuto e frequentato dopo che avevo appreso della sua esistenza a Manduria per il tramite di internet[13].

Studioso insigne di storia locale, che più d’una volta mi fece omaggio di qualche sua pubblicazione, come quel noto “Saggio” del 1962[14]. Spesso mi ricordava che anche il nonno Pietro, a lui bambino, regalava sempre qualche suo scritto, ogni volta che di domenica frequentava a Manduria l’abitazione della figlia Emma. Egli aveva un ricordo nettissimo del nonno e della sua notorietà in tutta la Puglia e nell’intera Penisola. Grande era l’amore del nonno per l’unicità di Terra d’Otranto, per gli studi storico-letterari, per le Belle Arti e per i siti archeologici sparsi per il territorio salentino. Tanto che Dimitri mi confidava come sarebbe calato nella tomba l’amato nonno nell’abitazione leccese di Porta San Biagio, in via G.A. Ferrari: tornato zuppo da una missione archeologica nel brindisino, a Egnazia, perché sorpreso da una pioggia torrenziale, fu colpito da una bronco-polmonite letale, che non gli lasciò scampo.  Grande fu l’amore di tutti i nipoti nei confronti di Marti. Lo stesso Bodini, ricordando il nonno sul Supplemento de “La Voce del Salento” del 18 maggio 1933, così scriveva:

 La sua vita di questi ultimi tempi avrei voluto ricostruirla amorosamente attraverso i miei ricordi densi e vivi attraverso le pagine care de “La Voce”, la sua “Voce del Salento”, ultimo suo giornale e mio primo, attraverso le sue ultime pubblicazioni, tante delle cui pagine mi dettava, con la facilità di chi legge. Se questi suoi anni costituiscono tanta parte della mia giovinezza ,io non posso, no, farne la cronaca, in poche comme…[15].

 Al nipote Bodini, Marti spesso rimarcava: Giornalista, Vittorio, non è solo l’autore dell’articolo, ma chi, trascendendolo, lo annulla per fondersi in una individualità più ampia: Il Giornale. Il grande Bodini aveva frequentato una grande scuola di scrittura e di impensabile capacità creativa.

Per il professore-giornalista Pietro Marti, sempre conscio del valore etico-sociale della cultura, scuola, istruzione e giornalismo costituivano dei grandi pilastri su cui si regge una società moderna, nella quale ciascuno può giocarsi formidabili opportunità di successo personale e di sicure ricadute positive sull’intera collettività. Due personaggi in definitiva, quei due nipoti di Pietro Marti, Vittorio Bodini ed Elio Dimitri, che hanno lasciato traccia, ciascuno nel proprio ambito, nel panorama culturale italiano e persino europeo.

 

Note

[1] Delle qualità scrittorie del giovane Pietro Marti ebbe a scrivere Giosué Carducci alla uscita della pubblicazione del salentino de Origine e Fortuna della Coltura salentina (Lecce, Tip. Coop., 1893), su  “Nuova Rassegna”, con gli elogi del grande Vate, di Ruggero Bonghi e di De Gubernatis.

[2] E. INGUSCIO, La Civica Amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo Storico, 1999, Congedo Ed. pp. 174-75.

[3] La famiglia Marti a Ruffano frequentava il cenacolo politico-culturale della potente famiglia Leuzzi, come riferito dallo stesso Marti nelle sue “Memorie” a proposito del “Battesimo Tricolore” del piccolo Pietro. Cfr. di P. MARTI, Memorie biografiche, 1933, quaderno ms, archivio privato Dimitri, Manduria.

[4] La spiacevole vicenda tra Marti e il vicesindaco Santaloja s’innescò proprio in concomitanza dell’assenza temporanea da Ruffano del Leuzzi, in buone relazioni con i Marti. Santaloja scaricò il proprio livore contro Marti e il Leuzzi, al quale egli aveva portato via una donna della famiglia, fatto maldigerito dai “galantuomini” Leuzzi. Cfr. in Appendice– Sindaci a Ruffano dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, in E. INGUSCIO, La Civica Amministrazione di Ruffano, cit. p. 211.

[5] A. CALABRESE, Cronologia della Penisola Salentina in un manoscritto di Pietro Marti, in “Lu Lampiune”, Lecce, 3 dicembre 1990.

[6] Sulla frenetica attività culturale dei fratelli Marti si vedano anche di E. INGUSCIO, A Ferrara sulle tracce dei Marti. L’attività culturale nel Polesine di Pietro e Raffaele Marti, in “Il Nostro Giornale”, Supersano, 25 dicembre 2019, a. XLIII , n. 91, pp. 42-43; ed anche in Idem, Di due salentini sul Lago Maggiore a fine Ottocento. Antonio e Luigi Marti, in “Il Nostro Giornale”, Supersano, 5 luglio 2020, a. XLIV, n. 92, pp. 54-55.

[7] P. MARTI, Per la Verità…, Volantino a stampa, archivio privato Dimitri, Manduria, 1922

[8] La fede nel mazzinianesimo era ben radicata in casa Marti, se il padre di Pietro, usciere presso l’allora pretura del mandamento di Ruffano, risultava iscritto a “La Giovine Italia” dai primi tempi della sua creazione. E la radice risorgimentale-ottocentesca del giornalista Marti, farà sempre capolino nei suoi scritti e nelle sue conferenze, tenute in Puglia e in tutta Italia. Nel 1921 Marti, invitato dalla Università popolare di San Severo, aveva parlato de Il Dovere Civile e Giuseppe Mazzini. Il testo della conferenza venne poi pubblicata in quella città, presso la tipografia G. Morrico. Di tanto do nota in “Cronotassi bio-bibliografica di Pietro Marti” (Appendice) nel volume, stampato nel 2013, Pietro Marti (1863-1933. Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, 2013, Nardò, Tip. Biesse, pag. 243.

[9] V. BODINI, In memoria di Pietro Marti. La vita… e l’opera, in Supplemento al n. 11 de “la Voce del Salento”, Lecce, 18 maggio 1933. E’ lo stesso Bodini, che nel ricordare la molteplice attività del nonno Pietro in tutta la Puglia nel ruolo di apprezzato conferenziere, riferisce di un incontro culturale nel foggiano e accenna all’incarico a preside dello stesso nelle Scuole “Zannotti”. L’istituzione scolastica ancora oggi esistente con tale denominazione, risulta però essere un Istituto Comprensivo Statale.

[10] A. LEOGRANDE, Il canto della vita. Riflessioni su Vittorio Bodini, Dimensione Font, 29 novembre 2017.

[11] Cfr. E. INGUSCIO, Pietro Marti (1863-1933. Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, 2013, op. cit., pag. 163.

[12] Al sottoscritto è toccato il triste compito di stendere una nota biografica sul grande Dimitri, studioso scomparso nell’inverno del 2016: E. INGUSCIO,  Elio Dimitri, in Archivio Storico Pugliese, Società Storia Patria per la Puglia-Bari, LXIX (2016), pp. 248-349.

[13] La madre dell’ing. Elio DIMITRI, aveva sposato Paolo, impiegato a Manduria nel ruolo del personale scolastico dell’allora Direzione didattica

[14] Conservo con grande amore una copia autografata, la prima tra i tanti omaggi, dI E. DIMITRI, “Saggio di bibliografia Salentina, Quaderni Bibliografici, n. 1, Manduria, Libreria Messapia Editrice, 1962, pp. 70.

[15] V. BODINI, In memoria di Pietro Marti. La vita… e l’opera, in “Supplemento” a “La Voce del Salento”, Lecce, 18 maggio 1933, n. 11, pag. 1

Un cold case ancora aperto: il giallo dei due ritratti di famiglia a Francavilla Fontana

di Mirko Belfiore

Della raccolta pittorica sei-settecentesca di Casa Imperiali abbiamo già avuto modo di discutere in alcune recenti pubblicazioni:  Gli Imperiali e l’arte. Uno studio sul collezionismo in Terra d’Otranto – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

e

La ritrattistica di Casa Imperiali: Andrea I e Michele III Imperiali – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

due sedi dove si è cercato di approfondire un argomento ancora poco investigato e utile a comprendere il modus operandi che alcuni membri perseguirono nel collezionare opere d’arte.

Le modalità di accaparramento, sviluppate secondo il gusto e gli stili allora in voga, furono pressoché due: attingere dalla grande fucina artistica della Napoli vicereale e borbonica o fare leva sulle maestranze locali, “allevate” all’ombra del mecenatismo di famiglia e inviate nella capitale partenopea a imparare la maniera. Un chiaro elemento ostentativo che nelle province periferiche del Regno di Napoli venne coltivato come simbolo di potere, ricchezza e ovviamente cultura, un processo che ebbe come massimo esempio il collezionismo della corte reale napoletana.

Ciò che vogliamo condividere invece in questo articolo è un’indagine attributiva che si è fatta strada dopo le prime ricognizioni effettuate sui ritratti conservati nel castello di Francavilla e in previsione del futuro progetto di restauro.

Le tele al momento dell’analisi preliminare in vista del futuro restauro (foto Mirko Belfiore)

 

Dopo aver calato dagli infissi i due enormi manufatti (220 cm x 150 cm), i presenti rilevarono fin da subito come il tipo di armatura (lo schema che determina il modo di intrecciarsi dei fili dell’ordito con quelli di trama), la struttura dei telai, la modanatura delle cornici e la tecnica pittorica, nel complesso avessero molti punti in comune. Analizzando più nel dettaglio, si è potuto evidenziare come le due grandi tele dipinte con colori ad olio, risultassero suddivise in quattro scomparti rettangolari realizzati in tessuto di juta e cuciti lungo il lato verticale (quattro su quattro) o orizzontale (due su quattro), una tecnica già in uso nelle botteghe della prima metà del 700’, in particolare per i ritratti di grandi dimensioni. Entrambe le superfici pittoriche risultavano inchiodate su un telaio ligneo fisso di tipo semplice provvisto di listelli di rinforzo agli angoli, che insieme alla cornice di colore marrone e dettagli in simil oro (pesantemente ridipinta e rattoppata in alcune parti), rimandavano a una tipologia realizzativa di matrice ottocentesca, che per motivi di gusto o necessità prese il posto dell’intelaiatura originale sicuramente più raffinata.

Particolare del telaio in legno, della cornice e della trama delle tele (foto Mirko Belfiore)

 

Alla luce di tutto questo e ricordando di come la tradizione storiografica giunta a noi ritenga ancora oggi le due tele riconducibili ai feudatari Andrea I e Michele III (quarto e quinto feudatario di Francavilla), l’insieme di alcuni elementi che adesso andremo ad approfondire, concorrono a far emergere alcuni interrogativi, mettendo in discussione una delle due attribuzioni.

Ritratto di Michele III Imperiali (Anonimo, prima metà del XVIII secolo, olio su tela, Francavilla F., castello Imperiali) (foto Mirko Belfiore)

 

Biografia e Iconografia

Se per la tela raffigurante il principe Michele III (1673-1738) sono molti gli indizi iconografici che ne confermano l’attribuzione (primo elemento): il contesto raffigurativo che evidenzia lo status sociale (l’abbigliamento ricco e sfarzoso degli incarichi che lo stesso assunse in vita presso la corte borbonica: Consigliere di Stato, Gran Camerario del Regno, Grandeza de Espagna e Gentiluomo di Camera d’entrata), la forza economica raggiunta dalla famiglia (messa in luce dagli arredi e dall’ambiente aristocratico) e l’innegabile verosimiglianza con gli attuali eredi, per il secondo ritratto raffigurante il nobiluomo ben vestito si aprono gli interrogativi di cui parlavamo prima. La tradizione lo indica come Andrea I, secondo Principe di Francavilla e padre di Michele III, il quale visse fra il 1647 e il 1678 e morì quando il figlio aveva solo cinque anni (secondo elemento). Il personaggio viene rappresentato come un giovane facoltoso, inserito in una complessa ambientazione da cui lo stesso emerge grazie alle luminose nuances del guardaroba, principale evidenza che ne attesta un certo rango. L’indumento in questione prende il nome di velada o giustacuore (terzo elemento) e divenne diffusissimo in Francia verso la fine del Seicento. Successivamente prese piede in tutta la Penisola italiana, da Venezia a Palermo, quando patrizi e borghesi cominciarono a rivaleggiare per farsi realizzare un abito di seta o di velluto dalle precise caratteristiche: aperto sul davanti con ampi bordi e maniche rivoltate, grandi tasche laterali finemente ricamate e slanciato fino all’altezza del ginocchio. In questo lavoro di sartoria, come in molti altri, i maestri del cucito dell’epoca poterono dare sfogo alla loro fantasia, impreziosendone i ricami con cristalli intagliati a imitazione delle pietre preziose o aggiungendo file di bottoni in oro, argento, acciaio brunito o porcellana policroma decorata con fiori o emblema. Il tutto veniva adagiato su una camicia di lino e una camisiola (farsetto di broccato d’oro, d’argento, seta o arabeschi), a cui si aggiungeva uno jabot di pizzo, delle brache (in casimir o nankin) indossate sopra calze bianche di seta, un tabarro (utilizzato solo nei mesi più freddi), scarpe con fibbie e infine un ampio tricorno. Insomma, parliamo di un secolo dove i toni scuri e austeri della moda “alla spagnola” furono sostituiti dai colori accesi e rococò degli habit à la française: il Settecento (quarto elemento).

Ma chi è quindi il secondo uomo (o adolescente) raffigurato?

Se partiamo dal presupposto che sia stato Michele III a commissionare i due dipinti, da questo momento in poi e tenendo presente i quattro elementi di riflessione pocanzi elencati (le conferme iconografiche sul dipinto di Michele III, la giovane età di quest’ultimo alla morte del padre, l’abbigliamento e il Settecento), possiamo ragionare sulle tre diverse ipotesi che emergono dall’incrocio dei dati biografici in nostro possesso, utili a permetterci di provare in via preliminare a dare un volto all’uomo (o all’adolescente) raffigurato nel secondo ritratto incriminato.

Ritratto di Andrea I Imperiali? (Anonimo, prima metà del XVIII secolo, olio su tela, Francavilla F., castello Imperiali) (foto Mirko Belfiore)

 

Ipotesi uno: Andrea I

Michele III fa raffigurare il padre Andrea I (come tradizione vuole).

Quest’ultimo in vita fu un grande benefattore, ma di lui sappiamo veramente poco. Se proviamo a considerare il fatto che il figlio primogenito Michele III abbia voluto omaggiarlo postumo con un abbigliamento settecentesco (anche se Andrea I visse nel secolo precedente), dobbiamo però ammettere che forti sono i dubbi che emergono nell’osservare i lineamenti molto giovanili del soggetto in questione. Difficilmente si poteva pensare di esaltare un avo defunto e di tale importanza raffigurandolo con i tratti di una figura imberbe, contando poi che Andrea I morì a 34 anni, un’età se vogliamo “vegliarda” per quelle che erano le aspettative di vita dell’epoca. Da non escludere a priori, il fatto che fra le proprietà della famiglia ci potesse essere un dipinto di Andrea I fatto realizzato dallo stesso in vita e poi ereditato dai figli, ma di cui fino ad ora non esistono testimonianze di nessun genere.

Un esempio di abito alla francese nel ritratto di Jeronimus Tonneman e figlio (C. Troost, 1736, olio su tela Dublino, Galleria Nazione d’Irlanda).

 

Ipotesi due: Andrea II

Nel ritratto non è raffigurato Andrea I, ma il figlio di Michele Andrea II.

Egli visse fra il 1697 e il 1734 ed ebbe con il padre un rapporto molto burrascoso a causa di due caratteri posti agli estremi. Il primo era austero, iracondo e rigido in quelli che erano i doveri verso l’antica stirpe di cui portava fieramente il nome, mentre per il secondo tutto questo era superfluo, avendo un carattere sensibile e aperto al dialogo, qualità che gli valsero fra le altre cose il rispetto dei suoi sudditi. Se da una parte Andrea cedette nell’accettare le nozze imposte dal padre con la principessa Anna Caracciolo (da cui nacque il 7 luglio del 1719 l’amato erede Michele IV), dall’altra parte fece di tutto per fuggire dalla vita di corte, rifugiandosi a Torino in compagnia della moglie fino alla fine dei suoi giorni.

Particolare del giovane gentiluomo.

 

Ipotesi tre: Michele IV

Perché non pensare che il giovane “adolescente” abbigliato alla francese possa essere invece il caro nipote Michele IV (1719-1782)?

Dopo l’uscita di scena del figlio Andrea II, per Michele III l’erede designato e unica grande speranza per il futuro della dinastia in Terra d’Otranto divenne proprio il nipote prediletto, il quale crebbe come successore delle enormi proprietà quanto del forte sentimento di lignaggio che tanto premeva l’illustre capostipite. Lo stesso Michelino una volta prese le redini feudali fece di tutto per non disattendere le aspettative, aumentando il prestigio della famiglia presso la corte borbonica a Napoli.

Immagine in bianco e nero di un ritratto di Michele IV Imperiali (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, trafugato).

 

Particolare dell’orologio con quadrante sorretto da una coppia di figure antropomorfe.

 

In conclusione e rifuggendo dalla fantomatica e quanto mai inutile “leggenda” del fantasma nel castello, perché non pensare invece che il bellissimo orologio meccanico sorretto da una coppia di figure antropomorfe, che fa bella mostra di sé alla destra della giovane figura, possa essere un chiaro riferimento al tempo che scorre e alla sua ineluttabilità, un passaggio di consegne fra nipote e antenato, entrambi coinvolti nell’impegnativo governo di uno dei feudi fra i più estesi e influenti del Meridione, una vita spesa fra mille onori e oneri.

A voi la riflessione finale per quello che potremmo definire un cold case “senza vittime”, che potrà trovare soluzione grazie a questo attesissimo restauro, che ci auguriamo venga messo in opera il prima possibile dopo anni di progettazioni e viste le precarie condizioni dei due manufatti; un’operazione che avrà il suo massimo compimento con l’attivazione del laboratorio di restauro allestito in quel palazzo che fu il primo palcoscenico della genesi realizzativa delle due opere d’arte. Attendiamo fiduciosi e consci di come tutto ciò possa scrivere una nuova pagina sul patrimonio pittorico diffuso e a volte troppo nascosto della nostra amata Francavilla: in questo caso e ancora una volta la città degli Imperiali.

Un sentito ringraziamento allo studioso Giorgio Martucci, il quale con il suo lavoro di catalogazione delle opere d’arte francavillesi presente sulla rivista Italia Nostra, sezione messapia, ha ispirato quest’articolo.

 

BIBLIOGRAFIA

Balestra D., Gli Imperiali di Francavilla. Ascesa di una famiglia genovese in età moderna, Edipuglia, Bari 2017.

Basile V., Gli Imperiali in terra d’Otranto. Architettura e trasformazione urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo, Congedo editore, Galatina 2008.

Abbate F., Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Donzelli editore, Roma 2002.

Vassaurd M. , La vie quotidienne en Italie au XVIII° siècle (La vita quotidiana in Italia nel Settecento), trad. di Maura Pizzorno per Fabbri editori, Bergamo 1998.

Cassiano A., Note sul collezionismo, nel catalogo “Il Barocco a Lecce e nel Salento”, a cura di A. Cassiano, collana “il Barocco in Italia”, De Luca editori d’Arte, Roma 1995.

Poso R., F. Clavica, Francavilla Fontana. Architettura e Immagini, Congedo editore, Galatina 1990.

Paone M., Inventari dei Palazzi del Principato di Francavilla (1735), Ed. Tipografica, Bari 1987.

Pasculli Ferrara M., Arte napoletana in Puglia dal XVI al XVIII secolo, Schena editore, Fasano 1983.

Galasso G., Puglia tra provincializzazione e modernità (sec. XVI-XVIII), in “La Puglia tra barocco e rococò”, Electa, Milano 1982.

Palumbo P., Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.

Lecce: il giallo del Castello di S. Cataldo

di Armando Polito

Chi si attende una storia di fantasmi e simili, magari con contorno di  fattucchiere, magiche pozioni e sangue umano e non a volontà è solo un allocco che si è lasciato incantare dal titolo e probabilmente non proseguirà nella lettura. Per tutti gli altri preciso che il colore nominato nel titolo riguarda solo la fine che fece il castello del quale mi sono già occupato per altri motivi1.

Riproduco dal secondo link indicato in nota quella che probabilmente è l’immagine più antica (seconda metà del XV secolo) del nostro castello.

 

Rimane, tuttavia, incerta la sua data di nascita, proprio come quella della sua morte, che è il giallo di cui sopra. Già qualche anno fa, nel post segnalato col primo link in nota 1, avevo riportato che in Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1,  in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.

Tale informazione, però, aggiungo oggi, era già comparsa, con le stesse parole e virgole, in Rita Auriemma, Salentum a salo: porti, approdi, rotte e scambi lungo la costa adriatica del Salento, Congedso, Galatina, 2001, p. 156.

Andando, poi, a ritroso nella clonazione (altrimenti non so definirla), si giunge a quello che sembra essere l’originale , che, sempre nella forma già riportata, è in Francesco D’Andria, Lecce romana e il suo teatro, Congedo, Galatina, 1999, p. 119.

Ad ogni buon conto, ed è questa la cosa più eclatante, considerando lo spessore degli autori citati, senza ombrta di fonte.

Noto preliminarmente che il toponimo, unito ad un simbolo inequivocabile,  risulta presente nel foglio 31 dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni pubblicato a Napoli dal 1808.

 

E le carte successive? Debbo ad un competente ed assiduo frequentatore di questo blog, che nei suoi gratificanti commenti si firma DrAnvilon, la volontà di approfondire la questione, grazie ad una mappa (Terra d’Otranto, Napoli, 1851 Eseguita sotto la direzione dell’autore B. Marzolla), della quale qualche giorno prima mi aveva fatto pervenire un ritaglio, del quale l’immagine che di seguito riproduco è un dettaglio, pensanco che potesse tornarmi utile per qualche eventuale post di interesse storico-geografico.  E questa è la prima occasione che mi si è presentata. Dal dettaglio si direbbe che alla data del 1851 il castello fosse ancora in piedi.

 

Non è finita, perché in un’altra carta, reperita in rete, dello stesso autore e datata 1859, dalla quale ho tratto il dettaglio che segue, nulla, in riferimento all’oggetto di questa indagine, appare cambiato.

 

Antonio Rizzi Zannoni e Benedetto Mazzolla furono cartografi ufficialmente al servizio del regno e, se per il la carta del primo la data del 1808 attribuita per prudenza al foglio risulta compatibile col  citato distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo, lo stesso non può certamente dirsi per le date delle due carte del Mazzolla. Mi pare poco probabile, anche perché non si tratta di mappe storiche che Castello S. Cataldo stia ad indicare solo un mucchio di rovine o che Castello sia da intendersi come Faro, ipotesi, questa, inaccettabile se si pensa che l’attuale faro alla data del 1865 era ancora allo stadio progettuale. E così il giallo del titolo per la soluzione attende un investigatore che non sia quella schiappa del sottoscritto.

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https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

Libri| Statuari, cartapistari e bellisanti

 

Non città santa ma certo popolata da santi, una sorta di Paradiso in terra dove sempre più di sovente era possibile incontrare, appena svoltato l’angolo e come in dialogo tra loro, angeli, santi, madonne. Una folla di immagini tridimensionali prodotte in operose botteghe della cartapesta, con decine e decine di lavoranti, ognuno con la propria specializzazione, e che, nel buio degli interni, sembravano statue d’improvviso animatesi… Così doveva apparire Lecce, “Paradis du rococo” tra Otto e Novecento, a quanti si addentravano nell’ inestricabile groviglio di corti, vicoli, slarghi, piazze.

Fu la cartapesta a rinnovare i fasti della Lecce barocca, riverberandone la notorietà ben oltre i confini europei…
Dopo la piena rivalutazione della scultura in legno tocca ora alla statuaria in cartapesta uscire dall’ invisibilità cui era stata condannata dal silenzio della critica….e accanto alle opere di celebrati autori quali Maccagnani, Manzo, De Lucrezi, Flora, De Pascalis, Caretta, per non citare che alcuni, focalizzare l’ attenzione su nomi poco noti se non del tutto sconosciuti…

Accantonate le semplicistiche pretese di una origine tutta salentina…va senza dubbio individuato in Napoli il ” referente artistico”, la culla della cartapesta che si diffuse nel nostro Sud.
È questo il percorso di un libro che, senza la pretesa dell’ esaustività, intende raccontare, anche con un apparato di immagini di grande impatto, opere, artisti, botteghe. Con uno sguardo anche alle realtà non solo leccesi. È il caso di Molfetta dove la cartapesta assunse forma del tutto autonoma e originale attestandosi su livelli qualitativi e interpretativi di grande rilievo, negli ateliers di Cifariello, Fornari, Binetti; infine del grande scultore temporaneamente ‘prestato’ alla plastica cartacea, nella quale eccelse, Giulio Cozzoli… La produzione nella cittadina adriatica, se mai raggiunse la notorietà di quella “leccese”, pure la surclassò da potersi ben aggettivarsi quale “cartapesta molfettese”…
Ultimata la stampa… A metà gennaio la presentazione del volume,

 

Due preziosi antichi dipinti per il patrimonio di Specchia

di Marcello Gaballo e Giovanni Perdicchia

È recente notizia che il Comune di Specchia ha acquisito due importanti opere pittoriche provenienti dalla collezione dei conti Risolo di Specchia, un tempo esposte nella pregevole quadreria del palazzo marchesale già castello baronale.

Questo grazie all’iniziativa del prof. Giovanni Perdicchia, che per diversi anni ha lavorato alla riscoperta della storia del castello e delle opere artistiche che si trovavano al suo interno, accertando anche l’esistenza della collezione. Dopo il sopralluogo, con la mediazione del professore e con il fondamentale apporto di Stefano Tanisi, si è avuta la possibilità di riportare nel palazzo due delle opere individuate tra le numerose tele che per decenni erano state spostate dal sito originario. Il trasferimento avvenne in un’abitazione privata da parte degli eredi della famiglia che, per il ramo di Specchia, si è estinta nei primi anni ‘80 del secolo scorso con la scomparsa di Gioacchino Risolo e per ultima di Gisella Risolo (+1984).

veduta dall’alto di Specchia (tutte le foto, se non diversmanete specificato, sono di Giovanni Perdicchia)

 

Sempre Specchia, vista dall’alto

 

Ad oggi la consistenza della raccolta originaria, che era esposta in almeno tre dei saloni del palazzo, è impossibile a quantificarsi, non essendosi rinvenuto alcun inventario dei beni mobili, che sicuramente doveva esistere prima dei passaggi di proprietà tra le diverse famiglie che nei secoli si sono succedute.

Si è propensi a credere che la quadreria non sia stata formata dai Risolo, che a Specchia dimorarono solo dal 1810 con Domenico, trattandosi di una raccolta assai vetusta e comprendente opere di elevata qualità che, sulla base delle testimonianze raccolte, risalgono prevalentemente al periodo compreso tra XVII e XVIII secolo.

Più facile pensare ad un nucleo originario voluto dal potente e colto Andrea Gonzaga, che nel 1567 divenne primo marchese di questa Terra, e che vi abitò con la sua corte facendo di Specchia il centro del suo Stato.

La raccolta forse fu poi accresciuta dal nipote Ferrante II, che nel 1589 vendette l’immobile e quanto in esso presente al conte di Lavello Ettore Brayda, che acquisì anche il titolo di marchese di Specchia.

Non è da escludere che nuove acquisizioni furono fatte da Ottavio Trane, IV marchese, cresciuto con il padre alla corte dei Gonzaga, che nel 1599 acquistò dal Brayda il marchesato di Specchia, comprendente anche i feudi di Tiggiano, Montesano e Melissano. Fu Ottavio ad ingrandire il castello con il suo pregevole portale in bugnato, esteso per circa 2500 metri quadrati, con oltre cento stanze, molte delle quali adornate di opere di gran pregio.

Palazzo Protonobilissimo Risolo a Specchia

 

Palazzo Protonobilissimo Risolo a Specchia

 

portale di accesso al Palazzo marchesale

 

Probabilmente contribuì ad accrescere la quadreria sua figlia Margherita (1612-1704), che nel 1633 era andata in sposa a Desiderio Protonobilissimo, barone e poi principe di Muro Leccese. Dai due il palazzo e quanto vi era in esso conservato passò ai figli ed eredi, dei quali ultimo esponente fu Giovan Battista IV, che morì senza eredi nel 1774.

La mancanza di documenti impedisce di formulare certezze sulla consistenza della raccolta, che nel tempo divenne assai pregevole, sulla base di alcune testimonianze raccolte.

In queste stanze, come annotò nel 1888 Cosimo De Giorgi, si ritrovavano dipinti dallo stesso attribuiti ad Annibale Carracci, Giorgio Vasari, Luca Giordano, Aniello Falcone, Cristiano Bader, Francesco Solimena, Paolo De Matteis, Bartolomeo Schedoni, Domenico Brandi: “Questo castello che fronteggia la piazza principale del paese e domina la campagna sottostante dalla parte di oriente, appartiene oggi ai signori Risolo […] però non è più un castello feudale ma un palazzo abitato da gentilissimi signori […] Entriamo ora nel palazzo Marchesale e diamo uno sguardo alla pinacoteca alquanto pregevole”.

Marti invece ne fece menzione nel 1932, limitandosi a scrivere che “nel Castello Palazzo […] si conservano molti quadri di vera importanza artistica”.

La scarsità di notizie sulla consistenza delle opere in esso presenti non aiuta a confermare il giudizio dei due studiosi appena menzionati. Tuttavia, conoscendo le capacità e la fondatezza dei loro studi, non vi è motivo di dubitare che si trattasse di una raccolta notevole, considerato anche il rango e la sensibilità dei possessori e dei loro avi.

Da questa raccolta dunque provengono le tele acquisite poche settimane fa dal Comune di Specchia. Si tratta di due grandi dipinti ad olio su tela, sufficienti a dare un’idea dell’originaria collezione.

Entrambe ritraggono scene trattedalla Bibbia e documentano come i soggetti siano trattati con dettaglio e consapevolezza della narrazione.

Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (ph Stefano Tanisi)

 

La prima tela raffigura Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (227×168 cm), la seconda Mosè ed il ritorno delle spie (145×196 cm).

Mosè ed il ritorno delle spie, la seconda tela acquisita (ph Stefano Tanisi)

 

Purtroppo i numerosi guasti e perdite di colore impediscono una attenta lettura delle due pregevoli opere.

Sarà dunque l’indispensabile restauro a svelarci quanto ancora non si riesce a leggere e che potrebbe aprire importanti sviluppi nella storia del collezionismo salentino e italiano.

Libri| Un genovese a Gallipoli. La visita pastorale di mons. Pelegro Cibo (1564 – 1567)

 

di Bruno Pellegrino*

 

A mezzo secolo e più dalla fondazione, la Società storica di Terra d’Otranto accoglie nella collana Fonti e Documenti la pubblicazione degli Atti della Visita pastorale del vescovo di Gallipoli Pelegro Cibo, condotta negli anni immediatamente successivi alla chiusura del Concilio di Trento. Al testo latino, edito con ogni accorgimento filologico e accompagnato dall’utile traduzione a fronte in lingua italiana, Elio Pindinelli premette un denso profilo biografico di mons. Cibo al quale non può non rivolgersi subito l’attenzione del lettore richiamata da titoli come Pelegro Cibo e il mistero della sua morte e La Famiglia Torriglia.

Attraverso una scrupolosa esplorazione di fonti individuate in biblioteche ed archivi pubblici e privati, dalla Città del Vaticano a Genova, da Napoli a Bergamo e Milano, oltre, naturalmente, l’Archivio della curia vescovile di Gallipoli e la Biblioteca del Comune di Gallipoli, della interessante personalità del “genovese a Gallipoli” vengono ricostruiti i movimenti concreti nel corso dell’attività pastorale nella sede affidatagli e vengono percorsi gli importanti precedenti passaggi legati, in un orizzonte di ampissime dimensioni, al processo delle nomine dei vescovi decise in un campo in cui si muove la grande politica imperiale spagnola e la crescente forza economica e finanziaria delle classi egemoni della Repubblica di Genova, dalle quali il vescovo proveniva.

La visita pastorale – è noto – risale ai tempi apostolici ed è del VI secolo la sua presenza quale istituto giuridico nel concilio provinciale di Tarragona del 516, radicata in una pratica ormai consuetudinaria in Italia e da quell’anno in via di consolidamento e diffusione specialmente sotto il pontificato di Gregorio Magno toccando ormai anche la Francia. Dal Decretum di Graziano (1150 circa) in poi si entra nelle compilazioni autentiche, delle quali si hanno attestazioni in alcune diocesi della penisola a partire dal XIII secolo, per diventare un po’ più diffuse nel XIV e più frequenti nel XV, fino a giungere alla decretazione tridentina che va a ricadere su una nuova sensibilità episcopale e sulle esigenze di riforma della chiesa sancite nei canoni del Concilio.

Seguendo questa linea mons. Cibo decreta di iniziare la visita personale e locale per il 2 maggio 1564, “con l’obiettivo dichiarato -annota Pindinelli- di agire per la riforma dei presbiteri, del clero, dei benefici e delle cappellanie, e così per essere informati della loro vita, dei costumi e dell’onestà nonché nel modo in cui sono gestiti e curati da loro i servizi ecclesiastici e i benefici”. Avvertendo che in conseguenza avrebbe corretto e sanzionato gli ignoranti e i negligenti, mentre avrebbe elogiato e promosso coloro che avesse trovato adeguati esperti della vita, onesti, diligenti, degni di lode nel Signore.

L’importanza della documentazione presente negli atti delle visite pastorali ha fatto si che la storiografia tout court, non solo quella specificamente dedita alla storia religiosa, ma quella interessata a ricostruire a tutto tondo la storia della società nella complessità dei vari aspetti, da quello economico a quello demografico, dalla produzione culturale a quella artistica, dalla mentalità alle caratteristiche etnologiche, ha potuto registrare la costituzione di veri e propri centri di ricerca specificamente dedicati proprio alla pubblicazione di questa fonte, per tanti aspetti preziosa.

Del percorso compiuto dagli storici e dai ricercatori attenti a questa fonte già nel 1985 facevano un bilancio Umberto Mazzone e Angelo Turchini pubblicando presso il Mulino Le visite pastorali. Analisi di una fonte, cui fece seguito un fondamentale seminario tenutosi a Trento nell’ottobre 1993 Visite pastorali ed elaborazione dei dati. Esperienze e metodi, i cui atti, curati ancora presso la casa editrice il Mulino da Cecilia Nubola e Angelo Turchini, raccoglievano le esperienze realizzate in materia, anche in dialogo con altre esperienze europee, dal Trentino alla Sicilia, dal Piemonte al Veneto.

In particolare, proprio nel Veneto a Vicenza, nel 1975 era stato fondato “l’Istituto per le Ricerche di Storia Sociale e Religiosa” come prosecuzione e sviluppo del “Centro studi per le fonti della storia della Chiesa nel Veneto”, sorto a Padova nel 1966 presso l’Archivio di Stato, con lo scopo di registrare le visite pastorali dei vescovi veneti, le cui edizioni cominciarono ad apparire in apposita collana fondata da Gabriele De Rosa presso le romane Edizioni di Storia e Letteratura. Mi fu dato di recensirne in “Quaderni storici” del 1970 i primi volumi dedicati alla diocesi di Treviso e di avvicinarmi con sempre maggiore attenzione alle sollecitazioni metodologiche provenienti dal fondamentale Vescovi popolo e magia nel Sud, che nel 1971 lo stesso Gabriele Dc Rosa aveva dedicato alla storia sociale e religiosa delle regioni meridionali italaliane, volume nel quale campeggiava il saggio Problemi religiosi della società meridionale nel Settecento attraverso le visite pastorali di Angelo Anzani.

Già dallo stesso anno 1971, giovane docente nell’ateneo salentino, ritenni mio dovere prestare attenzione all’importante fonte assegnando delle tesi di laurea e coltivando il conseguente necessario dialogo con i responsabili degli archivi delle dieci diocesi facenti parte dell’antica Provincia di Terra d’Otranto, dalla cui unanime disponibilità ottenni che venissero pubblicati nel 1984, nel volume collettaneo Terra d’Otranto in età modema. Fonti e ricerche per la storia religiosa e sociale di Terra d’Otranto, gli inventari sommari degli archivi vescovili ed arcivescovili compresi nei confini nelle tre province ecclesiastiche di Otranto, Brindisi e Taranto.

Ne furono autori ecclesiastici e studiosi illustri da Vittorio Boccadamo (Otranto) a Raffaele De Simone (Lecce), da Vittorio Luigi Piccinno (Gallipoli) a Emilio Mazzarella (Nardò), da Salvatore Palese (Ugento) a Rosario Jurlaro (Brindisi), da Luigi Roma (Ostuni) ad Emanuele Tagliente (Taranto), da Luigi Benvenuto (Oria) a Cosimo Damiano Fonseca (Castellaneta), in quell’anno – 1984 – Magnifico Rettore dell’Università della Basilicata. Fa piacere ricordare che a quella divulgazione delle disponibilità archivistiche seguì, nel 1990, il volume di Vittorio Boccadamo, Terra d’Otranto nel Cinquecento. La visita pastorale dell’achidiocesi di Otranto del 1522.

Comparendo nel citato Terra d’Otranto del 1984, tra le fonti diverse, gli elenchi delle visite pastorali presenti nei singoli archivi, nelle pagine dedicate a Gallipoli, curate da don Vittorio Luigi Piccinno, l’elenco veniva inaugurato dalla visita pastorale di Giovanni Montoya de Cardona del 1660.

Nessuna notizia dunque della visita di mons. Cibo, i cui atti vengono qui pubblicati da Elio Pindinelli, che ha il grande merito di non essersi arreso all’iniziale presa d’atto che la visita risultasse dispersa già alla fine degli anni ’50 del ‘900 e di essersi adoperato a localizzare con esperta e intelligente azione investigativa varie trascrizioni fatte dal canonico Vincenzo Liaci con la collaborazione del canonico Sebastiano Verona giungendo, con un’attenta opera critica di collazione dei vari testi, all’edizione della quale qui il lettore può disporre col valore aggiunto della traduzione a fronte, e dell’apparato documentario inedito relativo alla diocesi e al vescovo Cibo trascritto in appendice.

Ad impreziosire l’opera l’indice analitico di tutte le Chiese e cappelle contenute nella visita e l’indice dei nomi, luoghi e toponimi, che è uno strumento utilissimo per chi persegue gli studi storici.

 

* Professore Emerito di Storia Moderna

Elio Pindinelli, Un genovese a Gallipoli. La visita pastorale di mons. Pelegro Cibo (1564–1567), Società Storica di Terra d’Otranto, Collana “Fonti e Documenti”, pp. 230, in ottavo, con illustraz., stampato da CMYK, Alezio 2023.

 

“Storia del Grande Salento”: passione, sintesi, prospettiva e identità nel libro di Lino De Matteis

di Antonio Errico

 

S’inizia da lontano: da quegli esseri umani che abitavano la penisola salentina prima dei Messapi. Si arriva ai giorni che attraversiamo; anzi, a quelli che attraverseremo. Perché il Grande Salento di cui parla Lino De Matteis nel suo saggio, è un progetto di crescita, una realtà e una condizione storica e geografica e antropologica che si costituisce e si elabora costantemente in relazione a quelle che sono le connotazioni di civiltà delle sue tre province.

Il Grande Salento è una prospettiva. È un’espressione di sintesi, dice Lino De Matteis, che prendendo atto della storia, la ripropone in chiave moderna, rispettosa delle nuove identità provinciali. È una sintesi che alla sua radice, come motivo e come movente, trova una passione per questa terra, una passione e un amore per questa Terra, dice Adelmo Gaetani in una delle introduzioni che corredano il lavoro.

Per De Matteis l’indagine storica si combina con la dimensione emozionale che il rigore del metodo poi controlla e in qualche caso neutralizza. “Storia del Grande Salento” (Edizioni Grifo), è un libro fatto di stratificazioni. Serve a farci comprendere o a farci ricordare, da dove veniamo e quali strade abbiamo percorso, dice Giacinto Urso. Veniamo da un mondo antico e allora è in quel mondo che ruotava attorno alla Terra d’Otranto che, per Fabio Caffio, De Matteis rintraccia il fattore aggregante.

Il libro ribadisce che il passato del Salento è composito, complesso, connotato da una fisionomia meticcia, da elementi ibridi, da una rete di interferenze, da una stratificazione di incognite e di storie in qualche caso ancora non concluse. Dalle contrade del Salento è passata gente d’ogni razza; ha lasciato tombe, parole, misteri, mestieri, piante, riti, poesia, cattedrali, dolmen, menhir. Come ogni passato non è mai incoerente. Ogni fatto ha le sue cause e ogni causa ha le sue ragioni: comprensibili o incomprensibili. Poi il fatto produce un effetto che può essere accettato o rifiutato, condiviso o contrastato. Ma non è mai incoerente.

In ogni espressione di stagione nuova, nella elaborazione di un nuovo pensiero, nelle mutazioni antropologiche che vive, nelle transizioni delle sue culture, nella progettazione del futuro, il Salento si ritrova a confrontarsi con quello che è stato, con la sua storia e la sua tradizione, con i suoi rituali e la sua letteratura, con la genialità e la depressione, con le accademie di monaci sapientissimi e il morso meschino della tarantola, con l’incantesimo delle chiese bizantine e la fatica che la terra ha preteso ma anche con l’abbandono che poi la stessa terra ha subito. Con tutto. Consapevolmente o inconsapevolmente. Ma con l’esclusione assoluta di qualsiasi indifferenza.

De Matteis sa perfettamente che senza una comprensione del passato, senza un recupero originario, del lievito della civiltà, non ci può essere consapevolezza del presente, non ci può essere costruzione del futuro. Alla storia De Matteis attribuisce una valenza fondamentale; al futuro attribuisce una valenza essenziale. La storia è un patrimonio; il futuro una necessità. In questo tempo forse più che in ogni altro tempo. La complessità della globalizzazione impone sinergie per affrontare le sfide dello sviluppo e della crescita, sostiene Gianfranco Perri.

Il Grande Salento è un’idea sulla quale convergono opinioni diverse, alle volte anche contrastanti, diverse visioni e interpretazioni delle circostanze storiche che hanno determinato l’attuale paesaggio culturale e che delineano un orizzonte di senso. Ma indipendentemente dalla diversa provenienza delle opinioni e anche indipendentemente dalle configurazioni culturali che esse sviluppano, quello che più di ogni altra cosa assume ragione, è il sentimento di appartenenza a questa terra.

Presepi a Casarano

di Fabio Cavallo

Natale, tempo di attesa e di preparazione… attesa per la nascita del Bambin Gesù e preparazione spirituale per la solennità del Natale.

E’ anche tempo di preparazione materiale durante il quale ogni famiglia, ogni comunità si affretta a realizzare addobbi, alberi luminosi, ricette tipiche e, soprattutto, allestire il presepe, simbolo per eccellenza di questa festa religiosa. Nelle nostre comunità, parrocchiali e confraternali, l’organizzazione del presepe rappresenta una sorta di “rituale” aggregativo che, per l’occasione, mette insieme un folto gruppo di persone – tra le più disparate – intente a dar vita alla rappresentazione della Natività, senza alcuna pretesa, consapevoli di tramandare una bella e solida tradizione cristiana. Ed ecco che ci si imbatte in colui che sa modellare la carta roccia, in quello abile a sistemare le lampadine, al falegname, chiamato di proposito ad assemblare tronchi ed assi, all’anziano agricoltore, incaricato di rifornire il presepe dei necessari muschi e licheni per ottenere il più realistico effetto scenico.

La comunità di Casarano non si sottrae da questo clima di trepida preparazione. In tutte le chiese cittadine è allestito un presepe.

Ne prendiamo solo due in esame, quello della Chiesa dell’Annunziata (la Parrocchia Matrice) e quello della chiesa confraternale dell’Immacolata. C’è da premettere che la realizzazione dei presepi nelle chiese casaranesi risale a tempi relativamente recenti, ossia dopo gli anni del Concilio Vaticano II.

In epoca preconciliare era consuetudine esporre solo la statua del Bambinello, poggiandola in una culla, al posto della croce d’altare.

interno Chiesa dell’Annunziata di Casarano

 

Nella chiesa dell’Annunziata da diversi decenni è attivo un apposito gruppo Presepe, che cura tutti gli aspetti organizzativi e logistici per la realizzazione della Natività. Degne di rilievo sono le statue di Maria, San Giuseppe, dell’Angelo, del bue e dell’asinello, realizzate dal noto cartapestaio leccese Antonio Malecore (1922-2021) nei primi anni ‘80 del secolo scorso.

La statuina in gesso del Bambino Gesù, invece, è piuttosto antica, risalente all’Ottocento. Le statue in cartapesta furono realizzate sotto il parrocato di mons. Decio Merico che ebbe la lungimiranza di dotare la parrocchia di queste pregevoli opere.

Allestimento presepe con le statue di Malecore

 

La chiesa dell’Immacolata vanta una più solida tradizione nell’allestimento del presepe. Fu il compianto don Aldo Stefàno, (1967 – 1972), rettore della chiesa e padre spirituale della confraternita, ad introdurre l’usanza di mettere in scena la Natività. Nei primi anni Settanta, le realizzazioni erano estrose, quasi anticonformiste, di chiaro stampo moderno. E’ ancora vivo nella memoria dei confratelli più anziani, il globo terracqueo rotante sul quale sovrastava il Bambinello con le braccia stese mentre dai piedi sgorgava uno zampillo d’acqua che inondava il pianeta, chiara simbologia di purificazione dell’Umanità scaturita dalla Nascita di Gesù.

facciata della chiesa dell’Immacolata a Casarano

 

Tali rappresentazioni attirarono l’attenzione dell’ENAIP di Lecce che in quei tempi organizzava annualmente un concorso provinciale per presepi artigianali. Per ben due volte il presepe dell’Immacolata ottenne il primo premio con assegnazione di una medaglia d’oro. La prematura scomparsa del sacerdote, fortunatamente, non arrestò questa tradizione e si continuò ad approntare il presepe riportandolo nell’alveo di un allestimento più classico e usuale, in cui l’elemento principale era la grotta con la Natività.

Allestimento del presepe nella chiesa dell’Immacolata a Casarano

 

Ancor oggi, alcuni membri della confraternita e del coro liturgico della chiesa si organizzano per predisporre il classico presepe. L’unico manufatto degno di nota è il Gesù Bambino, simile a quello dell’Annunziata, del sec. XIX. Le altre statue sono piuttosto recenti. Ma ciò non toglie la sacralità della rappresentazione che, ogni anno, tocca il cuore, facendo rivivere in piccoli e grandi, il momento della nascita del Signore.

Il presepe nella chiesa dell’Immacolata a Casarano

 

Libri| Opere in cartapesta di Antonio Malecore a Nardò

 

L’artistico Presepio in cartapesta nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù in Nardò è stato progressivamente realizzato in un ventennio (1978-1998) dal maestro Antonio Malecore (1922-2021), l’ultimo esponente della celebre bottega artigiana ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica.

La qualità di alto profilo delle undici statue che lo formano, mediamente alte più di un metro, fa ritenere il gruppo tra le opere più importanti di Malecore, che per ognuna di esse ha conservato il rigore compositivo e la coerenza stilistica ereditati dai suoi maestri e dallo zio Giuseppe Malecore.

Il merito per il bel Presepio di Nardò, vanto della comunità parrocchiale e della confraternita che ogni anno cura differenti scenografie, spetta a don Salvatore Leonardo (1939-1997), parroco di questa comunità, che aveva notato e apprezzato la particolare qualità esecutiva di Malecore, straordinario nell’infondere tratti di umanizzazione e realismo alle figure presepiali.

La pubblicazione, con l’introduzione di Stefania Colafranceschi dal titolo Il Presepio, universo simbolico nei linguaggi della tradizione, è corredata dalle belle illustrazioni di Lino Rosponi.

E’ un doveroso omaggio di Marcello Gaballo a Malecore e al parroco, per ricordarli e per generare conoscenza e interesse verso questo originale e prezioso manufatto artistico, utile alla narrazione del territorio e soprattutto per rievocare al meglio la lieta Novella, in coincidenza con la commemorazione degli 800 anni del Natale di Greccio (1223-2023), dove San Francesco volle far rivivere  agli astanti la Nascita del Dio incarnato.

Il libro è inserito nella Collana Artefatti di Puglia, dedicata dall’editore all’artiginato artistico regionale e destinata al grande pubblico. Dalla maiolica ai fischietti, dalle oreficerie del Gargano ai carri allegorici, passando per strumenti musicali, luminarie, tele, merletti, ricami e intrecci, ed ora per la cartapesta leccese di Malecore.

In linea con i precedenti titoli, sono pagine da leggere e da sfogliare che diventano repertorio storico ed iconografico della cultura artigianale e delle arti applicate di Puglia, dal periodo arcaico fino all’età moderna e contemporanea.

 

Marcello Gaballo, Opere in cartapesta di Antonio Malecore a Nardò. L’artistico Presepio nella parrocchia del Sacro Cuore, Claudio Grenzi Editore, colore, Foggia 2023.

 

Libri| La cartapesta leccese. Origini e maestri salentini

Caterina Ragusa, a tre decenni dalla pubblicazione della sua ricerca pionieristica sui maestri della cartapesta leccese, ha accettato l’invito dell’editore Claudio Grenzi di ampliare e rivedere il suo lavoro originale.
Questo nuovo volume della collana ‘Artefatti di Puglia’, rappresenta una nuova fase della ricerca, integrata con ulteriori scoperte e una vasta rassegna di opere in cartapesta leccese, molte delle quali mai pubblicate.
Nel contesto della storia millenaria di Lecce, la cartapesta ha svolto un ruolo significativo come forma artistica e artigianale.
Originariamente sviluppata come tecnica decorativa nel XVII secolo, la cartapesta ha trovato terreno fertile nella città grazie alla presenza di maestri artigiani abili e ad una fervente attività artistica. Le opere in cartapesta, spesso utilizzate per decorare chiese, palazzi e ambienti sacri, divennero simbolo della raffinatezza artistica e della maestria artigianale della città del Barocco.
Il confronto tra l’autrice e l’editore, in questo volume, permette di esplorare e apprezzare la cartapesta leccese in una prospettiva contemporanea, offrendo un’ampia panoramica delle opere più significative.
Il testo, ora alleggerito dalla bibliografia ormai consolidata, dialoga con un ricco apparato iconografico che consente alle immagini di coinvolgere il lettore.
Oltre a promuovere la conoscenza delle tradizioni artigianali presso un vasto pubblico, questo libro si pone come una risorsa fondamentale per giovani artigiani e designer rendendo disponibili informazioni e materiali essenziali per sviluppare nuovi progetti, mantenendo viva l’eredità delle antiche tecniche artigianali della cartapesta leccese.
Nell’appendice, inoltre, viene presentata una panoramica sintetica dei più noti maestri cartapestai ancora operanti a Lecce, veri custodi di un patrimonio storico e artistico. Oltre a rappresentare la maestria artigianale, essi incarnano la continuità di un sapere antico che continua a ispirare nuove strade per la promozione del territorio e delle sue tradizioni.

Dialetti salentini: ‘mbile (approfondimento etimologico)

di Armando Polito

Del tema mi ero già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/, ma a distanza di più di dieci anni lo riprendo, per una più precisa e  completa documentazione delle fonti. Non è necessario a chi ha interesse a leggermi sfruttare il link appena segnalato, anche perché le osservazioni più salienti di allora risultano qui imglobate.

Secondo il Rohlfs (e questo non l’avevo riportato) ‘mbile deriva dal greco βομβύλιον (leggi bombiùlion), di genere neutro, con lo stesso significato; risulta attestato, però, solo  quello che sembra il suo maschile, cioè βομβύλιος (leggi bombiùlios), che significa calabrone. A parte l’iniziale difficoltà di carattere semantico superabile se si pensa non tanto all’analogia di forma tra il recipiente e l’insetto, ma al rumore che fa il liquido contenuto al momento della sua fuoriuscita [(βομβύλιος è chiaramente da βὸμβος (leggi bombos), voce onomatopeica che indica un rumore sordo, da cui l’italiano bomba e suoi derivati)], sul piano fonetico risulta complicato disegnare la trafila che dal presunto βομβύλιον e dall’attestato βομβύλιος avrebbe portato a ‘mbile. L’una e l’altra difficoltà appaiono inequivocabilmente e definitivamente superate mettendo in campo la variante βομβύλη (leggi bombiùle) attestata dai glossari.

Ecco come la voce è trattata in H. Stefano, Thesaurus Graecae linguae, Londra, Valpiani, 1821-1822, v. III, colonna 2273: βομβύλη, ή. Apis qoddam genus magis obstreperae, quam sint ceterae, ut quidam tradunt. Item poculum quoddam angusti oris (Una specie di ape più rumorosa di quanto siano le altre, come alcuni affermano. Parimenti un bicchiere di bocca stretta).

Ulteriore contributo è dato da un altro glossario (Περὶ τὸ  ἰδιωτικοῦ βίου τῶν ἀρχαίων Ἐλλήνων, N. Filadelfo, Atene, 1873, pp. 18-19: βομβύλιος ή βομβύλη ᾗν δὲ τοῦτο ποτήριον λίαν στενόστομον. Δι’αὐτοῦ τὸ ὕδωρ κατὰ μικρὸν ἐξερχόμενον ἐποίει βόμβον, ἐξ οὗ καὶ βομβύλη τὸ ἀγγεῖον ὠνομάσθην. Ὠμοίαζε δὲ ή βομβύλη πρὸς τὴν νῦν ἐν χρήσει  παρ’ἅπασι βοτὑλιαν, ἧς τινος τὸ  ὄνομα πιθανῶς ἐγένετο ἐκ τ ῆς βομβύλης κατὰ μετάπτωσιν τῶν γραμάτων. (Il βομβύλιος o la βομβύλη: era questo un bicchiere dalla bocca molto stretta. Con questo l’acqua  passando poca per volta produceva un runore sordo, dal quale pure βομβύλη fu chiamato un vaso. La  βομβύλη infatti somigliava alla  βοτὑλια ora in uso, il cui nome venne verosimilmente da βομβύλη attraverso una deformazione delle lettere).

Ecco, dunque, la trafila: βομβύλη>*bombile>*>‘mbile (aferesi; nel Tarantino è in uso  la variante, con assimilazione mb->mm-, ‘mmile e il alcune zone del Leccese e del Brindisino vummile, con il normalissimo passaggio b->v– e la già ricordata assimilazione). Per completezza, infine va detto che l’italiano bòmbola non deriva direttamente dalla voce greca (attraverso un ipotetico intermediario latino *bòmbula) ma è un diminutivo, per dir così, autoctono di bomba.

Nicola Cacudi (Monteroni di Lecce, 26/6/1882-Bari, 8/7/ 1963), da Monteroni di Lecce a Parigi, passando per Bari: appunti per una biografia

di Armando Polito

Di Nicola Cacudi mi sono già occupato su questo blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/29/nicola-e-maria-cacudi-ovvero-una-memoria-sonora-salentina-di-100-anni-fa-fissata-e-custodita-in-francia/) quasi dieci anni fa e, a distanza di tanto tempo, il caso, come già allora, mi ha offerto il destro per un’integrazione di quel lavoro tutto incentrato su una testimonianza sonora. Non sarebbe successo se non mi fossi imbattuto, oziando sul web, in un’affermazione pomposa, come sa esserlo la pubblicità, che mi è apparsa lesiva della verità, anche storic ed ho sentito perciò il bisogno di applicare il principio dell’unicuique suum o del dare, in questo caso restituire, a Cesare, anzi a Nicola, quel che è, forse, di Nicola. In https://journals.openedition.org/studifrancesi/ si legge: “Studi francesi”  fondata da Franco Simone nel 1957, è la più antica e prestigiosa rivista italiana di studi sulla letteratura francese. Pubblica studi storici e critici, testi e documenti inediti finalizzati a una conoscenza sempre più approfondita della civiltà letteraria francese e al rinnovamento delle prospettive critiche.

Non giungo ad affermare che la  Rassegna di studi francesi, fondata e diretta da Nicola dal 1923 al 1940, trimestrale il primo anno, bimestrale nei successivi, organo della sezione pugliese dell’Union  intellectuelle franco-italienne di Parigi, che si avvalse della collaborazione di illustri letterati, filologi e critici italiani e stranieri, abbia tout court  il diritto di vedersi rivendicare, da me poi …, un prestigio, se non maggiore, almeno pari e non affermo nemmeno che essa è la più antica, ma è incontrovertibile che è più antica di Studi francesi.

Archiviato questo dettaglio non indotto, come ben sa chi mi conosce, da risentimenti di natura campanilistica in senso estensivo, continuo con altre testimonianze ed immagini, quasi un quaderno di appunti utili, credo, per chi vorrà cimentarsi in un lavoro ben più colplesso, qual è quello evocato dall’ultima parola del titolo.

Per una ricostruzione della sua carriera:

Bollettino periodico settimanale del Ministero dell’educazione nazionale, anno XV, n. 10, 11 marzo 1937, p. 603 (Dall’Elenco dei professori idonei all’ufficio di preside dei Regi Istituti di istruzione media classica, scientifica e magistrale dal 16 settembre 1936 al 15 settembre 1937Idonei all’ufficio di preside nei regi ginnasi.

Nel n. 20 del 20 maggio 1937 dello stesso bollettino a p. 1333 (Dalla Relazioine della commissione giudicatrice del concorso a professore straordinario alla cattedra di lingua e letteratura francese del Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Venezia (sezione filologica):

Mi lascia perplesso in questo giudizio, che sostanzialmente è una stroncatura, quel possesso pratico della lingua (avrà saputo usare merde! al momento opportuno?) e ancor più quel difetto di spirito critico sia gli smilzi saggi con quel che segue, quasi a confermare il triste nemo propheta in patria, vista la considerazione di cui Nicola godeva proprio nella patria degli autori che, secondo il parere della commissione, aveva trattato smilzamente.1 Come dire, ribaltando la trita locuzione di cui sono intrisi i muri di tutte le aule scolastiche  il ragazzo s’impegna ma non è intelligente

Tornando cronologicamente indietro, ecco il primo contatto di Nicola con Parigi (diploma di studi universitari rilasciato dalla Sorbona). Nell’elenco gli unici cognomi italiani sembrano essere il suo e quello di M. Ungarelli. Da Le matin del 4/6/1914:

La tappa successiva, dieci anni dopo, da Le Petit Comtois  del 18 giugno 1924

(COMUNICATI DIVERSI Facoltà di Lettere- Discussione di tesi. Il signor Cacudi, direttore degli studi francesi a Bari (Italia), discuterà, lunedì 23 giugno 1924, alle ore 11, 30, una tesi in vista del dottorato dell’Università di Besançon. La tesi ha per titolo: “La Fontaine imitateur de B occace”. Questa discussione avrà luogo nell’aula magna della facoltà di Lettere, in via Mégrevand)

E, dopo quasi vent’anni dai primi passi registrati nell’articolo del 1914, a ruoli questa volta invertiti, da Lèclair Comtois del 5/8/1932

(RICEVIMENTO DEGLI ALUNNI STRANIERI DAGLI ALUNNI DI BESANÇON

Giovedì pomeriggio, alle ore 16, nei pressi della sede dei nostri alunni in via Laconée, presentavano una vivace e gioiosa animazione gli alunni di Besançon, con la loro cortesia e la loro amabilità consueta, ricevendo degli alunni stranieri venuti per seguire i corsi estivi delle nostre facoltà. Numerose personalità erano presenti a questa manifestazione che fu tanto affascinante quanto cordiale. Si distinguevano in particolare i Signori: Van Daèle, decano di Lettere, vicepresidente dell’Istituto di Lingua e Civiltà francesi; Maugras, direttore dei corsi; Seignier, segretario delle facoltà; Fournaud, presidente dell’assemblea; Vercier, tesoriere; Piquet, Gallot, Dupré, Cacudi, Beckér, Nicolas, professori …)

Per l’anno successivo, , da  Dépêche républicaine del 28/7/1933

(Besançon. Il signor Cacudi, anche nostro ex allievo, dottore della nostra Università, fondatore e direttore della rivista franco-italiana “Rassegna di studi francesi”, che è al suo decimo anno di vita prospera e conta numerosi lettori in tutti i paesi, il signor Cacudi terrà anche in agosto , come gli anni precedenti, lezioni sempre godibilissime sulla letteratura francese).

Seguono ora le immagini relative alle pubblicazioni, a cominciare da l n. 1 dell’anno XV (1936) della rivista da lui fondata e diretta (come si legge nel sommario, alle pp. 30-46 uno dei suoi abituali contributi).

Tra le sue pubblicazioni alle quali la commissione giudicatrice di cui sopra applicò,  non senza ombra di supponente disprezzo,  l’etichetta di scolastiche (come se un testo destinato ai giovani fosse a priri meno pregevole di un saggio destinato, forse, ad essere letto solo dai non più giovani), spicca quel corso di francese, precoce applicazione del metodo globale (soppiantato solo decenni dopo da quello fonetico), tutt’altro che spregevole, come inequivocabilmente dimostra l’elevatissimo  numero di edizioni2; di seguito quella del 1957 con dedica alla moglie Maria  (A Te, Maria, che il mio insonne lavoro sorreggesti sempre col Tuo sereno profondo amore ed oggi conforti e illumini con la luce del Tuo Spirito eletto).

Delle altre innumerevoli pubblicazioni3 riproduco per brevità solo due frontespizi:

Dieci anni fa, col post all’inizio segnalato, ho potuto ascoltare e far ascoltare la voce di Nicola Cacudi e di sua moglie Maria nella registrazione datata 17/3/1914 (25 anni Maria, 31 Nicola), oggi di Nicola sappiamo qualcosa in più sulla sua carriera, sull’impegno culturale e sulla produzione letteraria, ma non abbiamo nulla che ci restituisca il suo aspetto fisico, anche se per gli uomini di un certo livello (tra gli andati e tra chi, almeno per ora, resta …) questo conta poco. Non so se avrò il tempo di colmare questa lacuna, ma lascio, comunque, una traccia.

Dalla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana, a. 107° n. 22 del 7/9/1966:

Non sarebbe bello se da Bari, che a Nicola ha intitolato una via,qualche volenteroso desse notizia, dopo averla acquisita sul campo, e dei 1502 volumi e del ritratto ad olio?

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1 La commissione era composta da Giulio Bertoni (vedi i8l penultimo dato della nota successiva)  della R. Università di Roma (Presidente), Luigi Sorrento dell’Università cattolica<di Milano, Alfredo Schiaffini della R. Università di Genova, Carlo Pellegrini della R. Università di Firenze e Francesco Picco della R. Università di Genova. Il concorso fu vinto da Italo Siciliano, mentre Nicola Cacudi si piazzò al sesto posto su nove concorrenti.

2 Oltre ai saggi nella Rassegna:

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie. Società Editrice Tipografica, Bari, 1931

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1932

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1938

Nuovo metodo di lingua francese : fonetica, letture, morfologia, sintassi, lingua : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1946

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico completo per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1955 

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1957 

 Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordin e grado, Tipografia Resta, Bari, 1960

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordine e grado, Resta, Bari, 1964

3 Alfred De Musset e I suoi canti di dolore, Tipografia A. Trani, 1905

La quistione del metodo nell’insegnamento delle lingue moderne, Paravia & c., Torino, 1906

La révolution au pensionnat: pièce en un acte pour les enfants, Paravia & c., Torino, 1906

La coniugazione dei verbi francesi. Studio analitico per le scuole medie, con l’aggiunta di un dizionarietto dei verbi irregolari, Paravia, Torino, 1907

Le verbe francais dans la proposition et la periode, a l’usage Des ecoles superieures d’Italie, E. Pantaleo & C., Torre del Greco, 1910

Psychologie de deux ames [W. Goethe et H. Foscolo], E. Pantaleo & C., Torre del Greco 1910

Impressions de lecture, Tipografia E. Capelli, Rimini, 1913

La Fontaine imitateur de Boccace, Accolti, Bari, 1924

Alphonse de Lamartine Graziella, Le Monnier, Firenze, 1924, 1931, 1938 e 1964

Molière,  L’avaro, Le Monnier, Firenze, 1926 e 1927

Spunti letterari, Società Editrice Tipografica, Bari, 1931

Gabriel Faure, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933

Gabriel Faure, Autunno, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933

Il nuovo progetto italo-francese di Codice delle obbligazioni e dei contratti : testo definitivo approvato a Parigi nell’ottobre 1927, anno VI, Società Editrice Tipografica, Bari, 1936

Alexandre Dumas fils. Les idées de madame Aubray, comédie en quatre actes, en prose, Adriatica Editrice, Bari, 1949

Un innamorato dell’Italia: Gabriel Faure, Alfredo Cressa, Bari, 1952

La Biblioteca Estense Universitaria di Modena custodisce (Carerteggio Bertoni, fascicolo Nicola Cacudi) una lettera inviata Il 2/12/1934 da Nicola Cacudi a Giulio Bertoni.

La Biblioteca Nazionale Sagarriga Visconti Volpi di Bari custodisce (Epistolario Fiore, lettera n. 082) inviata  a Nicola Cacudi il 20/6/1950

Il Salento e la sua viabilità principale in tre mappe ottocentesche

di Armando Polito

È scontato il fatto che in una mappa l’abbondanza, la dimensione e la leggibilità dei dettagli sono legati alla seconda cifra del rapporto scalare: quanto più esso è alto, tanto meno la mappa risulta dettagliata. Quelle prese in considerazione solo in una scala che rende impossibile qui una loro riproduzione che sia leggibile, per cui per ognuna di loro all’immagine ridotta seguirà un primo dettaglio relativo alle tre provincie di Terra d’Otranto ed un secondo riguardante il circondario di Nardò.

La prima, dal titolo  Atlante del Regno di Napoli ridotto in 6 fogli per ordine di Sua Maestà Giuseppe Napoleone re di Napoli e Sicilia. L’opera, di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni (disgno di Alessandro d’Anna), risalente a data probabilmente non successiva al 1807,  anticipa quella più nota, dello stesso autore, in 31 fogli e con lo stesso dedicatario, la cui pubblicazione iniziò, sempre a Napoli, nel 1808 e terminò nel 1812.

La seconda, pubblicata da Basset a Parigi nel 1822, è di Pierre Lapie.

La terza mappa è, addirittura, in scala 1: 563.000 e questo dato tradisce la sua origine militare. Essa, infatti, è uno dei 21 fogli  (disposti 3 in latitudine e sette in longitudine) disegnati e pubblicati nel 1829 a Vienna dal colonnello austriaco Franz von Weiss (1791-1858).

L’insieme dei fogli occupa una superficie di circa sei m2 e questo fa intuire che anche il foglio che ci riguarda ha dimensioni notevoli, tanto che la sua immagine digitale è un file di oltre 54 MB!. Per questa sua caratteristica sono stato costretto qui a riprodurre il foglio in dimensione ridotta compatibile con quella supportata dal blog, ma ho aggiunto, leggibile, il dettaglio relativo a Nardò ed al suo circondario.

Dialetti salentini … e non solo: pignata o pignatta?

 

di Armando Polito

Non avrei avuto nessun motivo per porre il dilemma se fossi stato disponibile ad accettare come corretta pignatta, a quanto registrano tutti i dizionari. Unica eccezione il GDLI (Grande dizionario della lingua italiana), che al lemma pignata e derivati rinvia a pignatta e derivati, dove all’inizio pignata è riportato tra le forme antiche insieme con pegnata, pegnatta, pigniacta, pigniata e pigniatta). Al di là delle altre considerazioni che via via farò, ricordo che in campo linguistico, volenti o nolenti (e io mi pongo tra questi ultimi), è l’uso che decide la sopravvivenza di un forma su un’altre e in non pochi casi è quella pIù corretta a lasciarci le penne. Ad ogni buon conto, pur rispettando l’autorevolezza di chi senza dubbio ne sa più di me, non ho mai confidato  nell’ipse dixit, locuzione che nel nostro caso, vista l’unanimità di opinioni,  sarebbe opportuno cambiarla in ipsi dixerunt. Tuttavia, anche un povero e sconosciuto ille come me ha il diritto di fare le sue osservazioni; e non è detto che alla fine si levino tanti illi a sostegno del primo ille che osò lanciare la sfida.

Ma procediamo con ordine, cercando di individuare, pur con tutte le riserve del caso, la data di nascita delle due voci, non senza aver detto che nel Dizionario De Mauro per pignatta (pignata, come prima detto non è registrato) si legge av. 1342, il che dovrebbe stare a significare che era quella  la data più antica conosciuta  al momento della pubblicazione (2000) o, per essere generosi, fino a qualche anno prima. Sorprende, però, che un testo lanciato come Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio e compilato in tempi in cui già la ricerca testuale poteva fruire dell’aiuto fondamentale dell’informatica, mostri di ignorare l’esistenza di attestazioni più antiche, molto più antiche e, aggiungo, pubblicate, cioè non ancora disperse in carte antiche e destinate a restare sconosciute per chissà quanto tempo.

Come si sa, l’italiano che oggi parliamo è, in fondo, frutto della lenta evoluzione del latino, arricchita nel tempo da molteplici entrate da altri ambiti culturali. Tuttavia, almeno fino ad oggi, la maggior parte del nostro lessico mostra origini latine e a questo non si sottraggono pignata/pignatta né deve suscitare meraviglia o essere considerato come una riduzione dell’attendibilità delle conclusioni alle quali perverrò,  il fatto che i primi documenti, dei quali riporterò solo i dettagli che ci interessano, sono in latino.

Il primo1 è custodito nell’Archivio pubblico di Bologna (Reg. Gross. v. I, p. 94) ed è un atto del 14 maggio 1200. Nel lungo elenco di oggetti risulta anche pignatam de cupro plenam de ferro extimatam cum ferro … (pignata di rame piena di ferro stimata col ferro ).

Il secondo riguarda un episodio riportato da Fra Salimbene Adami (1221-1288) nella sua Cronica, episodio tanto simpatico che mi piace riportarlo tutto, citandolo dall’edizione che ancora oggi è il testo di riferimento.2

Item tempore illo, procurante ministro, Rex Hungariae misit Assisium magnam cuppam auream, in qua caput beati Francisci honorabiliter servaretur. Cum autem portabatur, et in conventu senesi quodam sero in sacristia ad custodiendum ponetur, quidam fratres, curiositate et levitate ducti, optimum vinum biberunt cum ea, volentes in posterum gloriari quod cum cuppa Regis Hungariae ipsi bibissent. Sed guardianus conventus senensis, qui magnus zelator erat justitiae et honestatis amator, nomine Johannettus, qui etiam de Assisio fuerat oriundus, cum cognovisset haec omnia, praecepit refectorario, qui similiter Johannettus de Belfort dicebatur, ut in sequenti prandio poneret coram quolibet illorum, qui cum cuppa biberat, unam ollam parvulam, nigram et tinctam, quam pignattam dicunt, in quibus oportuit eos bibere, vellent nollent, quatinus si vellent in posterum gloriari  quod cum cuppa regis Hungariae quinque jam biberant, possent similiter recordari quod propter illam culpam cum olla tincta bibissent.  

(Parimenti in quel tempo, per interessamento del ministro il re d’Ungheria mandò ad Assisi una grande coppa di oro perché vi fosse conservata con tutti gli onori la testa del beato Francesco. Però, mentre la si trasportava e per un certo ritardo la si poneva, perché fosse custodita, nel convento di Siena in sagrestia, certi frati, spinti dalla curiosità e dalla leggerezza, bevvero con quella dell’ottimo vino, volendo in seguito vantarsi di aver bevuto proprio loro con la coppa del re d’Ungheria. Ma il guardiano del convento di Siena, che era gran assertore della giustizia ed amante della correttezza, di nome Giovannetto, che era anche oriundo di Assisi, essendo venuto a conoscenza di tutto questo, ordinò all’addetto alla refezione, che similmente era chiamato Giovannetto Belfort, che nel pranzo successivo mettesse davanti a ciascuno di quelli che avevano bevuto con la coppa una piccola pentola1, nera e sporca, che chiamano pignatta, in cui dovevano bere, volenti o nolenti, perché se in futuro avessero voluto vantarsi del fatto che cinque avevano già bevuto con la coppa, del re d’Ungheria, potessero allo stesso modo ricordare che per quella colpa avevano bevuto con una pentola sporca)

Per il momento, dunque, in anzianità, per quanto riguarda le forme latine, pignata (nominativo del pignatam del documento datato 1200) batte largamente pignatta (nominativo del pignattam della Cronica del Salimbene).

E per il volgare, le cose come stanno? Direi allo stesso modo, visto che per pignata la più antica attestazione è in una ricevuta di pagamento di affitto dell’anno 1315.3 e per pignatta nella novella IV de II Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1499), che era nato in Croazia ma che visse prevalentemente a Firenze: Son io così dappoco, ch’io non vaglia più d’una pignatta? Ho volutamente precisato l’ambito culturale del Sacchetti, il toscano, come faccio ora per quello del documento del 1200 (l’emiliano) e per quello del 1315, il veneto, mentre un caso a sé stante, di problematica classificazione mi sembra quello del Salimbene, che era nato sì a Parma, ma che si mosse in Emilia, in Toscana, oltre che in Francia.

Quanto fin qui riportato m’indurrebbe a supporre che pignatta sia la correzione toscana del veneto pignata, forma che, però,  risulta presente  nei testi a stampa di ogni argomento (letterario, religioso, scientifico) a partire dal XVI secolo. La cronologia escluderebbe la possibilità che la voce sia entrata con lo spagnolo piñata, che al pari della voce salentina, ma con reciproca autonomia, sembra confermare l’ipotesi di chi propone come etimo il latino medioevale pineata(m)=simile a pigna4, con esito –nea– largamente collaudato nel nostro dialetto (p. e.: staminea>stamegna).

Questo sarebbe sufficiente, forse, per chi si occupa della compilazione dei vocabolari, quanto meno di registrare pignata, anche se con il marchio, ancora quasi infamante, direi forma di razzismo linguistico, di voce regionale, per non dire, poi, di voce meridionale. Non ho nulla contro Dante & C., però continuare a manifestare ossequio  al fiorentino e tollerare, se non favorire, la proliferazione infestante dell’inglese anche quando non c’è nessun motivo per farlo, mi sembra contraddittorio, per non dire stupido. A tal proposito sfido chiunque si occupi, spero seriamente, di queste cose a citarmi un solo testo di culinaria, ripeto, uno solo, in cui compaia pignatta e non, come puntualmente ho rilevato,  pignata.

E la voce evoca o, almeno spero che ancora lo faccia, ambienti, colori, profumi sapori e perfino saperi della nostra terra, in cui la pignata è ancora insostituibile per cuocere, come natura e saggezza antica hanno consigliato da millenni, i legumi, la carne di cavallo  e il polpo, tutti, appunto, a pignatu.

Non deve sorprendere in pignatu il cambio di genere, perché pignato è attestato oltre che in altri autori meno famosi, nel Candelaio di Giordano Bruno, che uscì nel 1582. Bisogna, però, rivendicare al salentino una maggiore creatività per via del diminutivo pignatieḍḍu, che in triplice esemplare celebra il suo trionfo nello stemma parlante della famiglia Pignatelli, con il massimo della coerenza in Iacopo (1625-1698), nato a Grottaglie …

Dalle radici di Terra d’Otranto al Grande Salento

di Lino De Matteis*

Il “Grande Salento” è la proiezione moderna dell’antica Terra d’Otranto, una sintesi lessicale, il cui significato ha solo una valenza geografica, di contenitore delle tre province di Brindisi, Lecce e Taranto, senza alcuna pretesa egemonica, separatista o istitutiva di nuove strutture sovraordinate alle attuali Istituzioni. Eppure si registra una diffusa resistenza anche solo a pronunciare il suo nome, si ha timore a nominarlo, come se questa espressione evocasse chissà quale apocalittica modifica dello status quo, quale piano recondito per sconvolgere gli assetti istituzionali esistenti, quale strategia segreta per sottomettere un capoluogo provinciale a un altro. Riluttanza e ritrosia ingiustificate perché alimentate da errati luoghi comuni e pregiudizi, che impediscono di comprendere il significato vero e profondo di questo toponimo, che, semplicemente, fotografa, riconosce e rispetta la situazione territoriale e amministrativa data, senza volerla cambiare. Un’ingiusta distorsione concettuale e culturale che reclama una piena riabilitazione del significato dell’espressione “Grande Salento”, della sua dignità e del suo genuino spirito unitario.

Ripercorrendo le circostanze storiche della nascita del nome “Grande Salento” e dei contenuti che, sin dall’inizio, gli sono stati attribuiti ed espressi poi costantemente, si comprende che il significato che più lo connota e caratterizza si ritrova nel suo “spirito confederativo”, nel moto unitario, cioè, che, negli ultimi decenni, ha spinto e stimolato le tre province a cercare intese di partenariato e alleanze per il bene e lo sviluppo comune. L’elemento dell’associazionismo confederativo rappresenta, anche, la chiave di volta del passaggio dalle radici della storica Terra d’Otranto al futuro del Grande Salento: se, infatti, l’antica Terra d’Otranto è innegabilmente il collante storico e identitario di questo territorio, lo spirito confederativo del Grande Salento supera la sua natura egemonica, che storicamente ha visto, via via, un centro urbano predominare sugli altri, per lasciare spazio ad accordi, orizzontali e paritari, tra le Istituzioni delle tre province salentine.

Dopo millenni di unità storico-geografica, la penisola salentina è stata divisa dal fascismo, all’inizio del secolo scorso, con la creazione delle province di Brindisi, Lecce e Taranto. Questa tripartizione del territorio ha dato luogo a campanilismi e localismi, che, inevitabilmente, nel tempo, hanno radicato un naturale sentimento di appartenenza di brindisini, leccesi e tarantini alle loro realtà provinciali. Se l’attaccamento alla propria provincia ha portato, talvolta, a esasperare la competitività, se non addirittura a un’ostilità preconcetta verso le realtà vicine, la suddivisione della penisola, tuttavia, non è riuscita a cancellare quel sentimento unitario dei suoi abitanti, sopravvissuto alle vicissitudini della storia e costantemente presente in varie iniziative: dal tentativo di istituire una “Regione Salentina”, all’Assemblea costituente, fino ai numerosi accordi sottoscritti, nell’ultimo quarto di secolo, tra le principali Istituzioni locali. Un sentimento che non scaturisce, solo, dall’appartenenza alle comuni radici storiche ma, anche, dalla consapevolezza di dover affrontare insieme le sfide della modernità e della crescita. La “città polivalente ionico-salentina”, come è stata definita, rappresenta, infatti, la dimensione territoriale ottimale per costruire un sistema di “reti urbane intelligenti”, in grado di competere con le Città metropolitane e ridare al Salento quel ruolo centrale che ha avuto, in passato, nella geopolitica del Mediterraneo.

Dalla tripartizione fascista del territorio a oggi, si sono manifestate e, talvolta, contrapposte nel Salento due tendenze: da una parte, un provincialismo spinto, che ha frenato e impedito la costruzione di una nuova entità istituzionale unitaria; dall’altra, la continua manifestazione della volontà di ritrovare insieme la comune identità delle origini. Due binari che non necessariamente sono destinati a restare paralleli o divergenti, ma che, negli ultimi decenni, sembrano aver trovato una convergenza nelle politiche di partenariato e nell’associazionismo confederativo tra gli enti locali. Vanno in questa direzione, infatti, i diversi protocolli d’intesa sottoscritti, negli ultimi 25 anni, dalle principali Istituzioni delle tre province salentine: quello del 1999, che sancisce ufficialmente la volontà degli enti locali di «rivendicare spazi di federalismo»; quello del 2007, che delinea esplicitamente, per la prima volta, l’idea del “Grande Salento” come «progetto di sviluppo integrato dell’intera area jonico-salentina»; e quello, più recente, del 2020, significativamente denominato “Terra d’Otranto: dalle radici il futuro”, che sottolinea la continuità con lo spirito unitario di quell’esperienza storica.

Le distorsioni e i pregiudizi sul “Grande Salento” hanno frenato la prospettiva unitaria, determinando un ostacolo politico e culturale al raggiungimento di intese o alla realizzazione degli accordi già stipulati. La più strampalata e anacronistica motivazione, per esempio, che si sente, ancora oggi, per giustificare la difficoltà di brindisini, leccesi e tarantini di fare squadra comune è la rivalità tra spartani e messapi. Una giustificazione evidentemente pretestuosa, che, nelle pagine seguenti, si prova a dissipare, rileggendo organicamente gli eventi storici che hanno caratterizzato il territorio della penisola salentina, dalla preistoria ai giorni nostri: dai nativi salentini alla Messapia, dalla “Calabria” romana alla Longobardia bizantina, dal Giustizierato normanno di Terra d’Otranto al Principato di Taranto, dalla Provincia di Terra d’Otranto alla Provincia di Lecce e, poi, alle Province di Brindisi, Lecce e Taranto, sino alla frattura socio-economica tra la Taranto dell’Ilva e il “Salento d’amare” e ai più recenti protocolli d’intesa tra le Istituzioni salentine.

Al di là delle legittime opinioni di ciascuno sul passato e sul futuro di questo territorio, c’è un dato di fatto da cui non si può prescindere e che non può essere eluso da alcuno: la penisola salentina, proprio in quanto tale, rappresenta un territorio geograficamente compatto e omogeneo. In passato, già al tempo dell’Impero romano e, ancor più, nel Medioevo, la sua dimensione e conformazione fisica erano considerate ideali per delimitare un’unica area amministrativa, basandosi sul criterio che ci si potesse spostare a cavallo, in giornata, da una parte all’altra del suo territorio. Un criterio che, oggi, fa sorridere, se lo si rapporta ai moderni mezzi di locomozione, che rendono ancora più minuscolo questo fazzoletto di terra, e fanno apparire ancora più incomprensibili le sue divisioni socio-culturali, politiche ed economiche. La geografia fisica di un territorio, quando è così fortemente caratterizzata come la penisola salentina, condiziona e tende a rendere omogenei anche gli aspetti antropici, culturali ed economici: i suoi abitanti, che risiedano sullo Ionio o sull’Adriatico, sono tutti cittadini salentini e la sua storia, per quanto controversa e conflittuale, è tutta Storia del Salento.

Questi appunti non hanno la pretesa di delineare una ricostruzione esaustiva e scientifica, ma intendono suggerire una chiave di lettura, un punto di vista unitario, attraverso l’analisi delle principali vicende storiche, dalle origini ai nostri giorni, che hanno portato alla nascita dell’idea del “Grande Salento”. Spunti da approfondire, dunque, annotati sul taccuino del cronista, che si avventura tra i vicoli della storia. Un’incursione giornalistica, tra archivi, fonti e testimonianze, per rintracciare quel filo d’oro che unisce questo lembo di terra, nel rispetto dei “testi sacri”, che ci hanno lasciato sapienti ed eruditi scrittori, come Antonio De Ferraris (il Galateo), Girolamo Marciano, Giacomo Arditi, Luigi Giuseppe De Simone, Pietro Palumbo, Cosimo De Giorgi, e così via. Quando essi scrivevano di queste contrade, avevano davanti una terra unica, chiamata “Giustizierato di Terra d’Otranto”, “Provincia di Terra d’Otranto” e, poi, “Provincia di Lecce”. Dopo la tripartizione operata dal fascismo, bisognerà attendere, negli anni Ottanta-Novanta, gli “Inserti” curati da Antonio Maglio, e pubblicati dal “Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto”, o la “Storia del Salento” di Luigi Carducci e il mio, più recente, “Il Grande Salento da scoprire”, per ritrovare una proposta editoriale organica, una narrazione che superasse i freddi confini amministrativi delle tre province salentine. E ora questo lavoro, che prova a fare un passo avanti e tentare una sintesi identitaria, non limitandosi a elencazioni analitiche, ma evidenziando e collegando i momenti salienti che hanno caratterizzato storicamente le sorti del territorio. Un atto d’amore per il Salento, tra impegno civile e culturale, per indagarne le origini e rintracciare quel legame che, dalle radici di Terra d’Otranto al Grande Salento, ci unisce a questa terra.

 

*[Dalla Premessa dell’autore al libro “Storia del Grande Salento”]

 

Storia del Grande Salento
Dalle radici di Terra d’Otranto ai cento anni delle Province di Brindisi, Lecce e Taranto
Lino De Matteis

Edizioni Grifo, Luglio 2023, pagg. 240, illustrato

L’opera Il libro si apre con le prefazioni dell’on. Giacinto Urso, del giornalista leccese Adelmo Gaetani, dell’ammiraglio tarantino Fabio Caffio e dello storico brindisino Gianfranco Perri. Dopo la premessa dell’autore “Dalle radici di Terra d’Otranto al Grande Salento”, il libro si compone di quattro parti: l’Età antica (Dai nativi salentini alla Calabria romana), l’Età di mezzo (Dal Thema di Longobardia alla Terra d’Otranto), l’Età Moderna (Dalla Provincia di Lecce a quelle di Taranto e Brindisi) e l’Età contemporanea (Dalla divisione fascista allo spirito confederativo). Alle conclusioni dell’autore “Un progetto confederativo per il Grande Salento” segue un’appendice con l’ultimo protocollo d’intesa “Terra d’Otranto: dalle radici il futuro”, sottoscritto, nel 2020, dai sindaci dei tre comuni copoluogo Brindisi, Lecce e Taranto, dai rispettivi presidenti di Provincia e dal rettore dell’Università del Salento. Chiude l’indice dei nomi e una breve bibliografia. Il libro è corredato da una ricca serie di foto e xilografie d’epoca.

Il tema Il Grande Salento è l’erede naturale di Terra d’Otranto, della quale rappresenta oggi la sintesi lessicale, storica e geografica, con una continuità che emerge dalla rilettura degli eventi storici, dalle origini ai giorni nostri. La penisola salentina è sempre stata un’unica regione storico-geografica, divisa dal fascismo con la creazione delle province di Brindisi, Lecce e Taranto. La tripartizione del territorio, se, da una parte, ha alimentato i provincialismi, dall’altra, non è riuscita però a cancellare quel sentimento unitario, che, sopravvissuto alle tortuosità storiche, si è di continuo riproposto, dall’Assemblea costituente ai recenti accordi tra gli Enti locali. Un sentimento che non scaturisce solo dalle comuni radici storiche ma, anche, dalla consapevolezza di dover affrontare insieme le sfide della crescita e della modernità. La “città polivalente ionico-salentina” rappresenta, infatti, la dimensione ottimale per costruire un sistema di “reti urbane intelligenti”, in grado di ridare al Salento quel ruolo centrale che, in passato, ha avuto nel Mediterraneo. Sulle radici di Terra d’Otranto, innegabile collante storico-culturale del territorio, si è innestata la volontà di ritrovare una comune identità attraverso lo spirito confederativo emerso, negli ultimi decenni, con gli accordi di partenariato e la firma dei protocolli d’intesa tra le Istituzioni delle tre Province salentine.

L’autore Lino De Matteis, giornalista e scrittore, direttore della rivista ilGrandeSalento.it. Tra i fondatori del Quotidiano di Lecce Brindisi Taranto, poi Nuovo Quotidiano di Puglia, è stato direttore di Paese Nuovo, caporedattore della Tribuna del Salento e direttore di Progetto. Già collaboratore della Repubblica e dell’Espresso, ha fondato la Glocal Editrice e scritto libri di saggistica e attualità.

 

Nardò: Vora, un toponimo perduto?

di Armando Polito

È destino comune a tutti i toponimi di subire le cosiddette ingiurie del tempo, ma anche in questo caso i pesi e le misure non sempre sono equi. C’è, infatti, quello che si è conservato tale e quale (Roma), quello che è rimasto vittima di mutamenti fonetici più o meno imponenti, ma non tali da renderlo irriconoscibile almeno agli studiosi (Nardò da Neretum, Lecce da Lupiae), quello che già in tempi antichi ha cambiato veste solo parzialmente (Benevento è da Benventum, che prima aveva sostituito Maleventum), quello che, infime (ma la casistica non finisce qui) , è stato soppiantato da un concorrente non sempre sponsorizzato dalla damnatio memoriae.

Credo che nell’elenco già sterminato e che il tempo puntualmente rimpolperà potrebbe essere inserito il Vora del titolo. Per dimostrarlo mi avvarrò inizialmente dello strumento più suggestivo per il suo impatto immediato e che oggi detta legge: l’immagine. Nessuno, però, si aspetta di vedere non dico miniature tratte da qualche manoscritto ma semplici ingiallite foto d’epoca, che molto probabilmente non verranno mai  alla luce, anche perché il fenomeno naturale, più precisamente geologico, in questione è molto diffuso nel nostro territorio, ricco di spunnulate1 e inghiottitoi e la normalità non ha mai fatto notizia, salvo, negli ultimi tempi, quella del male …

I documenti che mi accingo a presentare documenti hanno la loro bella età e, pensando agli strumenti della cartografia moderna tra i quali spiccano le immagini satellitari che ne consentono, volendo, un aggiornamento in tempo reale di un paesaggio globalmente soggetto, ormai, a rapidi cambiamenti, le tavole che riproduco in ordine cronologico e seguite dal dettaglio che ci interessa opportunamente ingrandito.  fanno tenerezza.

Asciugata la lacrimuccia, comincio con la prima, che è Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia La prima è di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), pubblicata postuma dal figlio Fabio a Bologna nel 1620, con dedica, come si legge nel cartiglio in basso al centro, All’Ill.mo Sig.re, et Pron2. Coll. mo3 Ludovico Magnani dell’habito4 di S.to  Jago.

 

Ho evidenziato con la sottolineatura tre topomimi. A nord dI Nardò si legge Vora, alla destra di un simbolo inequivocabile, come altrettanto inequivocabile ai fini dell’identificazione è come riferimento posizionale Logliastro5. La posizione corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato ufficialmente Vora del Parlatano6, da sempre nota al popolo col nome di Ora ti li Culucci (dalla masseria Colucci, in prossimità della quale si trova).

Un nome comune, dunque, (vora) qui sembrerebbe diventato per antonomasia un toponimo, cioè un nome proprio. Tale dettaglio, insieme con le dimensioni del simbolo in rapporto alle proporzioni scalari e con la constatazione che le altre numerosissime vore presenti nella tavola sono rappresentate col solo simbolo (con la sola eccezione di un altro Vora che si legge accanto al simbolo a nord ovest di Casalnuovo, l’odierna Manduria), sottolinea  la fama che da sempre questo inghiottitoio ha avuto, tanto da dar vita ad una similitudine popolare nell’espressione mi pari l’ora ti li Culucci (mi sembri la vora dei Colucci), con la quale viene stigmatizzata la voracità di qualcuno che pare inghiottire il cibo senza masticarlo.

E io, che di ghiottonerie linguistiche vado pazzo, posso perdere l’occasione di aprire una breve parentesi di dilettantesca (mi auguro dilettevole per qualche lettore) filologia? L’ora dell’espressione  appena riportata nasce da vora con aferesi  della v, fenomeno più che usuale nel nostro dialetto (valere>alire, vedere>itire; vincere>incìre; voce>oce, etc. etc.). Per le ulteriori considerazioni rinvio alla nota (altrimenti, dove starebbe la brevità della parentesi? …).7

Siamo ora alla seconda tavola: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Jean Blaeu pubblicata ad Amsterdam nel 1648.

Nel cartiglio in basso a  sinistra si legge (il lettore potrà farlo agevolmente con l’immagine che segue) la dedica, sulla quale mi soffermo perché riguarda direttamente Nardò:  ll.mo ac Rev.mo Domino D. FABIO CHISIO  Episcop. Neritonensi, S.mi   D. PP. Innocentii  X, ad tractum Rheni et Infer. Germ. partes, Ordinario, nec  non, ad tractatus generalis pacis Munasterii, extraordinario, cum potestate de latere Legati, Nuncio, Patrono suo colendiss.mo , D. D. D. Joh. Blaeu (All’illustrissimo e Reverendissimo Signore Don Fabio Chigi, Nunzio Ordinario del Santissimo Divino Pontefice Innocenzo X presso il tratto del Reno e le parti inferiori della Germania, nonché straordinario con potestà di legato a latere per i trattati di pace di Münste, suo padrone onorabilissimo  Giovanni Blaeu diede dedicò in dono).

 

Mentre per Fabio Chigi rinvio a quanto indicato in nota 8, ricordo che il Blaeu (per par condicio …) dedicò un’altra sua tavola (Civitas Neritonensis vulgo Nardo) a Girolamo Acquaviva d’Aragona duca di Nardò.

Riprendendo l’esame già iniziato della mappa faccio notare come il titolo sembra plagiato dal Magini, il che non lascia presagire alcuna novità, per quanto in questo tipo di rappresentazione esse siano per natura rare. E infatti …

 

È la volta della terza: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Gerard Valck, pubblicata ad Amsterdam fra il 1670 e il 1690. Anche per questa valgono le considerazioni di scarsa originalità, al meno nel titolo …,  fatte per la precedente.

 

L’osservazione riguardante, comunque, le caratteristiche dimensionale del simbolo, non fa escludere, a mio parere, che esso fosse connesso con il sistema di inghiottitoi di cui il Parlatano fa parte e che, perciò, il avesse una funzione di rappresentazione collettiva. È, infatti difficile immaginare che il sito, fra l’altro ancora oggi non eccessivamente antropizzato, abbia subito uno stravolgimento del suo aspetto e, in particolare, una riduzione della bocca del Parlatano.

È probabile, invece, che in breve tempo il toponimo Vora abbia perse la sua importanza, tant’è che esso è assente nella tavola che il De Rossi pubblicò presso la sua Stamperia alla Pace a Roma nel 1714, nonostante nel cartiglio si legga PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO GIÀ DELINEATA DAL MAGINI E NUOVAMENTE AMPLIATA IN OGNI SUA PARTE SECONDO LO STATO PRESENTE.

 

E Vora, quasi a sancire definitivamente la fine di un toponimo,manca pure nell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni  del 1808, dove, nonostante il rapporto scalare imparagonabile con quello delle tavole precedenti, non si nota neppure il simbolo del nostro inghiottitoio.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/29/la-palude-del-capitano-la-donna-malaffare

2 2 Abbreviazione di Padrone.

3 Abbreviazione di Colendissimo (latinismo:=omorabilissimo).

4 Per Ordine.

5 Ogni toponimo va preso con le pinze, nel senso che bisogna tener conto dei fattori che ne possono aver condizionato il rilevamento, tra cui il più importante coinvolge il settore degli informatori che, giocoforza, sono locali e, dunque, soggetti a problemi linguistici che spesso devono fare i conti con l’inttreccio tra forme dotte e popolari. È il caso tutt’altro che isolato, come fra poco vedremo anche con Vora, di Logliastro, frutto dell’agglutinazione dell’articolo, secondo la trafila Ogliastro>l’Ogliastro>Logliastro.

6 Nel 1749 Federico Colucci è proprietario della masseria Colucce, che comprende, oltre l’abitato, alcuni terreni: il pezzo Dell’Arene, del Parlatano, Dell’Otano, delle Ore e la chiusura della Ratta (Archivio di Stato di Lecce, atti del notaio Saverio Felline, anno 1749, cc. 46v-54r). Debbo questa preziosa informazione all’amico Marcello Gaballo. Essa, però, se ha sancito la relativa antichità del toponimo, ha suscitato in me ulteriori interrogativi, non per nulla l’appetito vien mangiando …, circa l’etimo del nostro e dei restanti toponimi. Posso solo avanzare ipotesi destinate a restare tali in assenza di pezze giustificative. Arene potrebbe alludere alle caratteristiche fisiche del terreno, come anche Ore (per vore, secondo quanto si dirà più avanti e soprattutto in nota 7) e lo stesso potrebbe valere per Otano, se è italianizzazione  del dialettale  lòtanu (=terreno fangoso, forma aggettivale dal latino lutum=fango, argilla, che continua nel latino medioevale lutare, che può significare lavare, ma anche il suo opposto, sporcare) attraverso la discrezione dell’articolo (Lotanu>l’Otanu>l’otano). Restano Ratta e, ironia della sorte, proprio Parlatano, per i quali, sempre ipoteticamente, potrebbe essere avanzata un’origine prediale.

7 Questo ha comportato che con l’aggiunta dell’articolo da la vora si è passati a la ora e, infine, a l’ora, in cui ora, anche se si conosce il latino ma si è sbrigativamente superficiali, può essere interpretato come derivante da ore(m), accusativo di os, che significa bocca e che in italiano  ha dato solo la forma aggettivale orale e alla prima parte di composti come oro-faringeo, mentre il denominale orare (=parlare in pubblico, pregare) ha dato vita all’italiano orare e ai suoi derivati (oratore, oratorio, orazione). L’equivoco etimologico potrebbe essere ulteriormente  alimentato, oltre che dall’affinità fonetica tra ore(m) e ora, anche da quella semantica, dal momento che la vora ella sua parte visibile non è altro che una grande, grandissima bocca. Bisognerebbe, però, dimostrare che il latino ore(m) e l’italiano vora sono parenti, il che non è. L’italiano vora, infatti, non nasce da un latino vora(m), che non esiste,  ma è deverbale da vorare, che sempre in latino, ha dato vita a vorago (da cui l’italiano voragine) e vorax (da cui l’italiano vorace). Oltretutto orare comporta sì l’apertura della bocca, ma per un’emissione, mentre vorare coinvolge il concetto esattamente opposto, quello dell’immissione.

8 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/10/lo-stemma-di-fabio-chigi-vescovo-fantasma-di-nardo-e-poi-papa-celebrato-in-versi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/12/fabio-chigi-facebook-e-il-motore-di-ricerca-ovvero-quando-lironia-rende-piu-simpatiche-le-persone/

 

 

 

La pittura figurativa è morta? Parola all’artista Mino di Summa

di Mirko Belfiore

Oggi, 19 agosto del 1826,

siamo qui riuniti per celebrare la dipartita della pittura figurativa.

Ne danno il triste annuncio Joseph Nicéphore Niépce

e l’amico Louis-Jacques-Mandé Daguerre,

inconsapevoli assassini.

 

Una sintesi funebre di come l’invenzione del mezzo meccanico abbia cambiato il lungo cammino della pittura figurativa, oramai “liberata” dalla necessità di imitare la realtà circostante: più dell’armatura a tela, più della pittura a olio, più del Concilio di Trento, più della raffigurazione en plein air.

Un colpo al cuore della Grande stagione figurativa (italiana), protagonista indiscussa in Età moderna e nei diversi centri sparsi per lo Stivale: da Milano a Napoli, che a cavallo fra i due secoli vede avvicinarsi inesorabilmente la fine della sua epoca. Ed è proprio in giro per la Penisola, anche a Francavilla Fontana, vivace epicentro in Terra d’Otranto, vuoi per la fine di un’era, vuoi per l’esaurirsi di quella fucina di uomini e di donne, che si spegne quella rinnovata tradizione, ben stimolata dalla ricca committenza, che ha saputo produrre (accidenti se lo ha fatto!) manifatture artistiche di ogni tipo: sacra, profana e sui generis.

Quindi è giusto cedere all’idea che non ci sia proprio più nessuno pronto a rappresentare la verosimiglianza del mondo? Per fortuna non è tutto così tragico.

È giusto che qualcuno inizi a ricredersi, perché se “la realtà delle cose è ancora viva”, Essa continua a battere un colpo ogni volta che se ne presenta l’occasione. Grazie ai numerosi “martelli” – non sto qui a elencarli – che continuano a modellare il proprio pezzo sull’incudine della verità, fra i quali uno in particolare ha trovato il modo di farsi sentire: l’artista Mino di Summa.

Tramonto ad Alimini (Mino di Summa, 2023, olio su tavola)

 

Un po’ come gli artisti vicari pugliesi nei secoli del metodo scientifico e della ragione, che si recavano a imparare la maniera fuori dal loro contesto di origine, Mino di Summa ha sentito l’esigenza di uscire per studiare la G.P.F.I presso la Scuola della Valle di Lazzaro dal maestro Luciano Regoli: la verosimiglianza del soggetto, i rudimenti della tradizione paesaggistica, la sintassi anatomica e prospettica di ciò che circonda l’essere umano.

Apollo e Psiche (Mino di Summa, 2023, olio su tela)

 

Myrtus (Mino di Summa, 2020, olio su tela)

 

E poi, in giro per il mondo (Francia, Germania, Florida, Georgia, Messico) a mostrarne i risultati e al contempo continuare a ricercare il respiro della natura, degli oggetti e della migliore umanità, da riversare nelle sue opere, lasciando una porta aperta affinché l’anima di chi osserva possa entrare a emozionarsi, scoprendo il segreto che si cela oltre la reale realtà.

Ma come diceva Anton Gaudì: L’originalità consiste nel tornare alle origini. Una lezione che sicuramente mai viene dimenticata dal nostro Mino, il quale muove i primi passi nelle arti applicate della Scuola d’arte di Grottaglie, esperienza che affina con sé anche a Roma, presso la Sapienza, trovando sempre conforto nelle forme e nei colori delle origini: un leit motiv che ritroviamo sovente nelle sue immagini.

Le prospettive di Francesca Forleo Brayda, la dolce anatomia del Delli Guanti, il prezioso studio dei colori del Carella, il pathos emotivo del Pinca e dello Zingaropoli, non sono solo esempi conterranei su cui riflettere, ma piccolissimi dogmi artistici da cui trarre la forza della propria personale rilettura e ovunque ci sia spazio: tela, affresco, murales o disegno che sia. D’altronde è questo che impongono le origini, uno sguardo indietro come massima spinta in avanti, sulle ali della tradizione: l’estasi di un abbraccio ultraterreno fra due amanti, l’isolata quiete di uno scorcio del Salento, la simbologia figurativa della macchia mediterranea di una natura morta e lo stupore fanciullesco di una favola vissuta come un viaggio fantastico.

Una storia introspettiva da cui trarre lo scopo di tutta una vita: dipingere la dignità delle umane cose immerse nel meraviglioso panorama del creato.

Dove potersi far catturare da tutto ciò?

Nella città di Lecce, presso la Galleria Maccagnani, sede della Società Operaia, in Corso V. Emanuele II, 56, durante l’inaugurazione di venerdì 1° dicembre ore 18.30 e nei seguenti orari: 10–13 / 17–21 (fino al 10 dicembre).

Cava di Bauxite (Mino di Summa, 2023, olio su tela)

 

La scoperta (Mino di Summa, 2023, olio su tela)

 

 

Biografia dell’artista

Mino di Summa nasce nel 1986, vive e opera a Francavilla Fontana.

Nel 2005 si diploma in Arti Applicate, sezione Decorazione Ceramica, presso l’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie. Nel 2012 si laurea in Architettura presso l’Università La Sapienza di Roma.

Allievo del pittore Luciano Regoli, fondatore della Scuola della Valle di Lazzaro presso l’Isola d’Elba, la quale persegue la missione di insegnare e tramandare i valori della Grande Pittura, quella classica figurativa italiana sempre più dimenticata, della quale è orgogliosa sostenitrice.

Alla base della pittura di Mino di Summa vi è lo studio dal vero del soggetto, la consapevolezza che nella natura, negli oggetti e nella figura si celano dei segreti, che un occhio attento può svelare, offrendo all’osservatore un dipinto che va oltre la stessa realtà rappresentata, raggiungendo l’anima di ognuno di noi, emozionandoci, ricordando la semplicità dell’essere umano e dei suoi sentimenti.

Ritornare a meravigliarci davanti a una nuvola, un fiore, lo sguardo di un bambino, cose semplici ma profonde, che rendono dignità all’esistenza dell’essere umano.

Dal 2001 partecipa a molteplici Incontri nazionali e internazionali di arte madonnara, nei quali Mino di Summa trova una dimensione espressiva tale da potersi affermare in prestigiosi festival tenutisi in Francia, Germania, Florida, Georgia, Messico, oltre che in Italia.

Negli ultimi anni ha inoltre partecipato a rassegne di murales in Italia, realizzando opere sulle grandi pareti esterne di edifici pubblici e privati, riscuotendo recensioni positive da diverse riviste di settore.

Mino Di Summa

 

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