Salento: un ritratto antico e una traduzione moderna poco edificanti

di Armando Polito

In piena estate come siamo, col diluvio di offerte turistiche che ci inonda, il titolo può sembrare un messaggio pubblicitario all’incontrario, non di promozione, ma di bocciatura. Non ho nessuna autolesionistica velleità di sostituire col mio nome il Bastian del noto detto; al contrario, ciò che sto per esporre nasce dal’amore per la mia terra, il Salento appunto, e dalla rabbia che provo di fronte alle offese di cui sono autori gli stessi conterranei, di ieri e di oggi.

Comincio con Nicola Leonico, che agli abitanti della Iapigia1 dedica due passi del suo De varia historia libri tres, In aedibus Lucae Antonii Iuntae Florentini, Venetiis, 1531, pp. 104-105. L’autore (1456-1531) è un letterato veneto e c’è da scommettere che, se fosse vissuto oggi, quanto state per conoscere sarebbe stato divulgato senza perdere tempo da tutti i giornali della Padania. Presenterò i due pezzi (la tentazione di aggiungere un complemento di materia è immensa ma non voglio cedere ad essa) nei ritagli originali seguiti dalla mia traduzione letterale (mi sono accorto che quella cosiddetta libera ormai serve solo a mascherare lo squallore della presunta conoscenza della lingua) e da qualche riflessione ansiosa di pregiarsi del vostro parere, anche e soprattutto se motivatamente negativo.

(La dissolutezza dei Tarantini, loro disgrazie e fine.

Clearco2 nel quarto libro delle Vite scrive che gli uomini tarantini, dopo aver raggiunto la supremazia, furono di costumi sfrontati e corrotti a tal punto che, unici, decisero di depilare tutto il corpo e a dargli importanza e presero l’abitudine, secondo il costume delle ragazze, di coprirsi, uscendo da casa, con tessuti di lino sottilissimi e trasparenti. Dice che essi, passati da questa follia di vita e di costumi all’insolenza (come per lo più accade), in seguito pagarono pesanti pene dei loro delitti, dopo aver espugnato, dice il medesimo, Carovigno, città dei confinati Iapigi, senza alcun motivo. Si dice che per un giorno intero esposero crudelmente i loro ragazzi e ragazze in età adulta, che si erano rifugiati presso i templi, denudati negli stessi luoghi sacri e nelle case degli dei, sottoposti alla libidine di tutti. Racconta che questa cosa fu tanto sgradita agli uomini e agli dei da risultare che tutti quelli che avevano perpetrato la scelleratezza e avevano agito tanto ingiustamente contro la gioventù di Carovigno subito furono annientati da folgori e fulmini. Dice che per questo anche fino ai suoi tempi a Taranto stavano di fronte alle singole case di coloro che, partiti un tempo contro la Iapigia, non erano tornati, nella zona della porta, delle steli presso le quali non era usanza lamentarsi o piangere i morti né offrire loro sacrifici, come è d’abitudine, ma furono soliti ogni anno sacrificare soltanto a Giove infernale).

Va precisato che l’opera del Leonico è una sorta di collezione di fatti sensazionali, tratti da varie fonti, che oggi potrebbero ispirare la stesura di un racconto distopico, che attualmente ha tanto successo, probabilmente perché soddisfa gli istinti peggiori, ma se lo merita tutto, lo dico con l’amaro in bocca, perché forse è perfino più “educativo” di tante favolette melense che celebrano un buonismo ipocritamente consolatorio e autoassolutorio.

Nonostante tutto questo, è possibile ravvisare nel brano la perenne attualità della guerra da un lato e della fede dall’altro con l’assunto duro a morire (rispolverato ai tempi del covid da uomini di Chiesa rimasti al Medioevo) che calamità di ogni tipo sono un segno della giustizia divina.

Se il Leonico in questo primo brano si rifà ad Ateneo, il quale, a sua volta, si rifà a Clearco, il quale  molto probabilmente l’avrà appreso da qualche autore che, a meno di fortunate scoperte dell’ultima ora, possiamo chiamare Ignoto1, il secondo brano, non cita alcuna fonte ma sarà sarà sfruttato quasi subito; come e da chi lo vedremo dopo il trattamento, analogo a quello del primo, cui ora sarà sottoposto.

(Dicono che gli Iapigi dall’inizio furono i cretesi che, partiti dalla patria per cercare Glauco figlio di Minosse, risulta chiaramente esser giunti presso quei luoghi e aver stabilito lì le loro sedi. È fama che questi, succedendosi poi le generazioni, giunsero a tanta mania di lusso e dissolutezza di vita che, dimentichi del decoro e della moderazione della patria, tintisi il volto, ornati di chiome posticce e altrui, sono soliti mostrarsi in pubblico sempre coperti di morbidissimi mantelli e tuniche e splendide stole e si dice che a tutto ciò ogni altra ragione anche di vita aveva corrisposto ed aveva quadrato nei numeri, se è vero che tramandano che uomini privati, anche di mediocre condizione, hanno dimorato magnificamente e splendidamente al punto che accadeva che perfino le loro case senza dubbio ampie e decorate sembravano più scolpite e più belle dei templi degli dei immortali. E dicono che tra loro i cittadini più importanti giunsero infine a tanta cecità di mente e furore che, ignorata la potenza degli dei, attraverso l’offesa e la demenza in tutta la regione, abbattute le loro immagini e saccheggiati empiamente i sacri templi, pubblicamente si vantavano pure che era giusto ormai che essi cedessero a migliori e più potenti. Per questo tramandano che morirono assolutamente tutti colpiti da sfere di fuoco e blocchi di rame dal cielo e quella regione restò a lungo coperta dal rame celeste)

Il passaggio dal laico (mollezza) al religioso (sacrilegio e punizione degli dei) è il filo conduttore delle due storie, ma quest’ultima, che riguarda il Salento più da vicino, invita ad ulteriori considerazioni. Se solo  i  lampi e i fulmini (è una tautologia, presente anche nel brano precedente, ma sto ricalcando una tipica interiezione salentina (lampu e ffurmine!) sono riservati ai Taratii, mentre gli Iapigi oltre ai globi di fuoco (evocanti più che i fulmini una pioggia di meteoriti?) debbono sorbirsi pure la pioggia di blocchi di rame (una sorta di legge del contrappasso, identificando il rame con la mone, la cui abbondanza, inflazione a parte, è sinonimo di ricchezza?).

Questo secondo passo del Leonico, come ho anticipato,  non tardò ad essere sfruttato; lo fece il brindisino Giovanni Battista Casmirio, del quale ho recentemente  occasione di occuparmi, sia pure indirettamente (https://www.fondazioneterradotranto.it/2025/06/17/dialetti-salentini-spatiddhare-ovvero-dallantica-roma-al-rinascimento-e-da-questo-alle-comiche-dei-nostri-tempi/). In aggiunta a quanto chi fosse interessato vi troverà, dico che l’unica sua opera conosciuta (Lettera panegirica a Quinto Mario Corrado) rientra nel filone della storiografia locale, ieri (l’opera è datata 1567) come oggi, pagante uno stupido tributo ad un campanilismo che di regola nulla ha a che fare con la storia scientificamente intesa. In più l’opera mostra una scrittura pomposa e roboante, articolata in periodi interminabili composti di un numero sterminato di proposizioni dipendenti collegate a cascata, per cui la proposizione principale molto spesso si riduce al solo soggetto. E poi la ripetizione a tratti esasperante di un’argomentazione già trattata, che avrebbe mandato in bestia non solo il destinatario della lettera (strumento formale che a quel tempo sostituiva spesso il saggio camuffandone l’intento polemico) ma chiunque l’avesse letta.

La traduzione di qualsiasi testo (e, di conseguenza, l’interpretazione e il commento) esigono una conoscenza amorevole (non solo professionale) della lingua originale, nel nostro caso il latino. L’opera del Casmirio è rimasta manoscritta fino al 2017, anno in cui fu pubblicata da  Roberto Sernicola, ma l’umanità ha dovuto attendere il 2024 per leggere la mirabile, esemplare traduzione di Luciano Ancora, due perle della quale (ma sono infinite e mai viste quelle di questa collana)  ho avuto occasione di presentare (vedi link precedente). A quest’altro link (https://www.facebook.com/luciano.ancora.9/posts/pfbid037bvsf2jXwXVV78nEYFXwCCQnhuGM72fM49kJdsd7LKPyzxKmn3SMcWZ98TET33Pzl?locale=it_IT) è possibile vedere  come il sublime traduttore dava notizia del capolavoro appena uscito, per partecipare dopo appena nove giorni la pubblicazione della seconda edizione riveduta e corretta. Da quando ho letto mi sto ancora chiedendo se i non tanti mi piace  siano espressione di solidarietà per un genio incompreso o, al contrario, di sarcastico sberleffo …

Per non farvi mancare nulla, passo al dettaglio del manoscritto (carte 59v-60r) , a quello della stupefacente traduzione di Ancora (pp. 129-130) e chiudo con il mio commento, perché tutto sia più chiaro anche a chi, lungi dal ritenersi, lui sì, un latinista, col latino non sta manco a rosa/rosae ….

 

 

L’autore ha solo quattro anni più di me e per questo mi posso permettere di sospettare e pubblicamente dichiarare che, se ha frequentato il liceo classico, sicuramente in latino sarà stato meno di una schiappa. L’allievo più scadente del più scadente insegnante di allora, infatti, non sarebbe cascato nel trabocchetto degli omofoni, esiziali al nostro traduttore/divulgatore per ben due volte, con esiti di fronte ai quali la comicità (consapevole …) di Nino Frassica è acqua fresca.

Li passo rapidamente in rassegna riproducendo volta per volta il testo originale, la mia traduzione, quella di Ancora (in corsivo) e il dovuto commento.

ut Glaucum Minois filium quaerent

per cercare Glauco figlio di Minosse

si lamentarono con Glauco figlio di Minosse

Qui scatta la prima trappola con la sua omofonia parziale. In latino esiste il verbo quaerere (col dittongo ae), che significa cercare, e queri (con e, non ae, dunque senza dittongo), che significa lamentarsi. A parte ogni altra considerazione (tra cui il caso diversa da essi retto: quaèrere l’accusativo (qui Glaucum), queri l’ablativo di causa) quaererent non è è forma teoricamente possibile di esclusiva di queri ma esclusiva di quaerere.

privatos conditionis et mediocris homines

uomini privati, anche di mediocre condizione

gli uomini comuni, privati della loro condizione

Qui privatus è stato maldestramente inteso come participio passato di privare e non col valore sostantivato che significa privato cittadino. Oltretutto privatus come forma verbale regge l’ablativo di privazione e non il genitivo (conditionis et mediocris) che qui è di qualità. Il comuni, infine, secondo Ancora, tradurrebbe il mediocris (genitivo singolare) accordato, non si sa come, con homines (accusativo plurale). La traduzione, insomma, viene assimilata al prodotto di un immaginario frullatore impazzito in cui sono state inserite le parole del periodo.

inter illos principes viri

tra loro i cittadini più importanti

nelle loro teste

Qui debbo ricorrere a tutta la mia fantasia per tentare di capire da dove nasce teste, presunta traduzione di principes. Spesso, però, la fantasia spiega l’irrazionalità, per cui cedo di poter affermare che Ancora deve aver trovato da qualche parte princeps col significato di capo e per passare da capo a testa il passo è breve e pericoloso perché il salentino  capu e l’italiano testa sono parte di una locuzione tanto inflazionata che qualcuno arriva pure ad interpretarla come un complimento.

celesti constratam aere diutus perseerasse

restò a lungo coperta dal rame celeste    

rimase per molto tempo lastricata d’aria celeste

Ancora una semplice omofonia aggiunge ulteriore comicità a questa impresa da armata Brancaleone. In latino aere può essere ablativo singolare tanto di aes (che significa rame) che di aer (che significa aria). Eppure, per evitare questa lastricatura di aria (celeste sta per divina o azzurrina?) che ricorda certe strade asfaltate dei nostri giorni, sarebbe bastato ricordare il masse di bronzo (io ho tradotto massi di rame per motivi di antipatia politica …) di tre righe prima, che traduce aeneis … massis, in cui aeneis è ablativo plurale di aeneus/a/um, aggettivo connesso con aes. Ma forse da masse di bronzo era trascorsa una settimana …

Quando Umberto Eco rilasciò la sua famosa dichiarazione (https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02/26/umberto-eco-quando-disse-che-i-social-media-danno-diritto-di-parola-a-legioni-di-imbecilli/2498746/) poteva immaginare che dopo pochi anni l’editoria tradizionale (pur con i suoi difetti ampiamente compensati da un controllo di dignità di pubblicazione) sarebbe stata soppiantata da quella biecamente commerciale disposta a pubblicare, senza rischio o pericolo ma per solo profitto le scemenze e cialtronerie  di sedicenti letterati, esperti, divulgatori. E, pur sapendo benissimo che per progredire nel male l’uomo ha a disposizione praterie sterminate ed inesplorate, poteva immaginare che l’editoria fatta in casa, con un semplice PDF e la complicità tutt’altro  che disinteressata di siti che rapidamente hanno perso la loro iniziale serietà col pretesto della democraticità della cultura, avrebbe diffuso il virus dell’informazione, della divulgazione della cultura fasulla, che nulla ha da spartire con la democrazia?

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1 Nome antico della Puglia. Era suddivisa In Daunia, Peucezia e Messapia. Quest’ultima corrispondeva all’attuale Salento.

2 Clearco di Soli, filosofo discepolo di Aristotele, visse tra il IV e il III secolo a. C.; delle sue opere, tra cui il De vitis, restano solo frammenti, per quanto numerosi. Quello citato dal Leonico ci è stato tramandato da Ateneo di Naucrati (III-II secolo d. C.) nel suo  Δειπνοσοφισταί (Saggi a banchetto).

3 Ταραντίνους δέ φησι Κλέαρχος ἐν τετάρτῳ Βίων ἀλκὴν καὶ δύναμιν κτησαμένους εἰς τοσοῦτο τρυφῆς προελθεῖν ὥστε τὸν ὅλον χρῶτα παραλεαίνεσθαι καὶ τῆς ψιλώσεως ταύτης τοῖς λοιποῖς κατάρξαι. Ἐφόρουν δέ, φησίν, καὶ παρυφίδα διαφανῆ πάντες, οἷς νῦν ὁ τῶν γυναικῶν ἁβρύνεται βίος. Ὕστερον δ᾽ ὑπὸ τῆς τρυφῆς εἰς ὕβριν ποδηγηθέντες ἀνάστατον μίαν πόλιν Ἰαπύγων ἐποίησαν Κάρβιναν, ἐξ ἧς παῖδας καὶ παρθένους καὶ τὰς ἐν ἀκμῇ γυναῖκας ἀθροίσαντες εἰς τὰ τῶν Καρβινατῶν ἱερὰ σκηνοποιησάμενοι γυμνὰ πᾶσι τῆς ἡμέρας τὰ σώματα παρεῖχον θεωρεῖν καὶ ὁ βουλόμενος καθάπερ εἰς ἀτυχῆ παραπηδῶν ἀγέλην ἐθοινᾶτο ταῖς ἐπιθυμίαις τὴν τῶν ἀθροισθέντων ὥραν, πάντων μὲν ὁρώντων, μάλιστα δὲ ὧν ἥκιστα ἐκεῖνοι προσεδόκων θεῶν. Οὕτω δὲ τὸ δαιμόνιον ἠγανάκτησεν ὥστε Ταραντίνων τοὺς ἐν Καρβίνῃ παρανομήσαντας ἐκεραύνωσεν πάντας. Καὶ μέχρι καὶ νῦν ἐν Τάραντι ἑκάστη τῶν οἰκιῶν ὅσους ὑπεδέξατο τῶν εἰς Ἰαπυγίαν ἐκπεμφθέντων τοσαύτας ἔχει στήλας πρὸ τῶν θυρῶν, ἐφ᾽ αἷς καθ᾽ ὃν ἀπώλοντο χρόνον οὔτ᾽ οἰκτίζονται τοὺς ἀποιχομένους οὔτε τὰς νομίμους χέονται χοάς, ἀλλὰ θύουσι Διὶ Καταιβάτῃ.

(Clearco nel quarto libro delle Vita dice che i Tarantini, dopo aver acquistato forza e potenza, giusero a tal punto di effeminatezza da levigare tutta la pelle e da anticipare tutti gli altri in questa depilazione. Tutti portavano poi anche, dice, vesti trasparenti delle quali ora si adorna la vita delle donne. Successivamente, passati dall’effeminatezza all’oltraggio, distrussero Carovigno, una città degli Iapigi, dalla  quale, dopo aver radunato ragazzi, ragazze e le donne in giovane età nei templi dei Carovignesi ed aver eretto un palco, per un iorno esibirno a tutti i corpi nudi da vedere e chi lo voleva come saltando qua e là verso un infelice gregge divorava coi desideri la bellezza dei radunati, mentre tutti guardavano, soprattutto quelli che si curavano minimamente degli dei. La divinità si sdegnò a tal punto che colpì col fulmine i tarantini che avevano commesso quel crimine e ancora oggi a Taranto ciascuna delle case ha davanti alla porta tante steli quante e ha ricevute da quelli che furono inviati contro Iapigia, davanti alle quali ogni volta che giunge l’anniversario della loro morte né piangono i morti né versano le consuete libagioni, ma fanno sacrifici a Giove Tonante).

4 Nel manoscritto si legge quererent, ma è un uso grafico molto ricorrente (dovuto alla pronuncia ecclesatica dei dittonghi ae ed oe), come quello inverso (dovuto. questa volta, ad ipercorrettismo, di usare ae invece di e. Nell’introduzione alla sua trascrizione senza la quale, afferma Ancora nella sua prefazione, questa traduzione non sarebbe stata possibile, Sernicola accenna a questo usus scribendi, ma Ancora, visto come le cose inequivocabilmente stanno, anche se l’avesse letto, che ne avrebbe saputo e potuto fare?

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