
di Marcello Gaballo
Prima che il Santuario della Madonna della Coltura in Parabita fosse affidato stabilmente ai padri domenicani – oggi suoi custodi – si susseguirono, nei primi anni Venti del Novecento, diversi e complessi tentativi da parte del vescovo di Nardò, Nicola Giannattasio (1908-1926), di affidarne la gestione spirituale e materiale ad altre famiglie religiose.
Le fonti documentarie conservate nell’Archivio Storico Diocesano di Nardò, restituiscono con chiarezza un quadro articolato di proposte, speranze, interlocuzioni e, infine, rinunce che costellarono questo travagliato percorso.
Le date cruciali del 1923 segnano una serie di approcci falliti con tre importanti congregazioni religiose: i Redentoristi, i Servi della Carità (Opera Don Guanella) e i Carmelitani Scalzi. Queste vicende, poco note ma illuminanti, raccontano non solo le difficoltà logistiche e organizzative di quegli anni, ma anche la determinazione del vescovo Giannattasio nel voler affidare il Santuario a una presenza religiosa solida e capace di animare la vita spirituale e sociale della comunità.
Il primo approccio: i Redentoristi
Il primo tentativo, risalente al marzo 1923, coinvolse la Congregazione del Santissimo Redentore. Il vescovo si rivolse direttamente al Superiore Generale, padre Patrick Murray, per sondare la disponibilità della congregazione a prendere in carico non solo la parrocchia della Madonna della Coltura, ma anche una fondazione annessa di tipo pastorale e sociale. La risposta, datata 9 marzo 1923 e inviata dalla Curia Generalizia di Roma, fu cortese ma sostanzialmente negativa. Padre Murray spiegò che, secondo le regole interne dell’istituto, l’iniziativa spettava prima al Provinciale (nella fattispecie il padre Biagio Parlato, della provincia redentorista di Pagani, in provincia di Salerno), il quale avrebbe dovuto valutare con i propri consultori la proposta.
Più rilevante, tuttavia, fu il contenuto sostanziale del diniego: i Redentoristi, per statuto, sono dedicati al ministero apostolico e missionario, e le regole interne proibiscono ogni altra forma di occupazione che possa distogliere da tale missione. Inoltre, la provincia napoletana era già impegnata in due nuove fondazioni – una in Calabria, l’altra a Francavilla Fontana – e dunque non era in grado di avviare una nuova opera a Parabita in tempi brevi. La possibilità di una futura apertura “fra alcuni anni” non poteva soddisfare le urgenze pastorali del Vescovo.
I Servi della Carità e l’intercessione personale
Deluso dal primo tentativo, Giannattasio si rivolse allora all’Opera Don Guanella, cercando un’intercessione personale: quella di don Mauro Mastropasqua, sacerdote guanelliano e amico personale del vescovo e della sua famiglia. L’interesse iniziale sembrò promettente. Tuttavia, nella lettera dell’11 settembre 1923, il vicario generale dell’Opera, don Leonardo Mazzucchi, pur esprimendo simpatia e apertura, fu costretto a comunicare un rinvio o, in caso di urgenza, un rifiuto.
Le motivazioni erano pratiche e prudenti: la grande distanza di Parabita dalle case già esistenti dell’Opera Don Guanella rendeva difficile reperire, con prontezza, religiosi adatti alla nuova fondazione. La proposta fu ritenuta degna e interessante, ma necessitava almeno un anno di preparazione. In caso contrario, scrisse con rammarico don Mazzucchi, si sarebbe rischiato di “agire sconsideratamente”, con il rischio di “ingannare la fiducia di Monsignore” e “nuocere” all’Opera stessa. La lettera si chiude con un tono di sincero dispiacere, sottolineando quanto il progetto avesse suscitato speranze anche all’interno della congregazione.
L’ultima via prima dei Domenicani: i Carmelitani Scalzi
A seguito dell’esito negativo anche con i guanelliani, il vescovo Giannattasio si rivolse a un terzo ordine religioso: i Carmelitani Scalzi della Provincia di Napoli. Lo fece tramite un canale personale e spirituale: la Madre Priora del monastero delle Carmelitane di Gallipoli, dove era stata monaca anche la sorella del vescovo. L’intercessione fu efficace: un gruppo di padri si recò effettivamente nel Salento per una visita esplorativa, alloggiando presso le Carmelitane gallipoline.
La risposta del Provinciale, padre Cirillo dell’Immacolata, datata 21 settembre 1923, lasciava intravedere un possibile esito positivo. La proposta fu accolta con entusiasmo a Napoli e fu inviata a Roma, in attesa di approvazione da parte del Definitorio Generale dell’Ordine. Il tono della lettera, pur non vincolante, era carico di fervore e di fiducia nella Provvidenza. Il Provinciale invitava la Priora a intensificare le preghiere affinché “la Beata Maria spianasse tutte le vie”. Tuttavia, anche questo tentativo, per motivi non documentati nei materiali conservati, non giunse mai a compimento.
Una ricerca lunga e faticosa
I documenti dell’ASDN mostrano come nel solo anno 1923, il vescovo Giannattasio si adoperò con tre importanti famiglie religiose, mobilitando reti di amicizie personali, contatti istituzionali e relazioni spirituali. Il suo intento era chiaro: garantire al Santuario della Madonna della Coltura una guida religiosa stabile, capace di coniugare spiritualità, predicazione e azione sociale, in un contesto – quello di Parabita – in crescita e bisognoso di solide strutture pastorali.
L’insistenza del vescovo si spiega anche con il significato crescente che il Santuario aveva assunto nella pietà popolare e nella vita ecclesiale locale. La ricerca di un ordine religioso a cui affidare il culto, la gestione della parrocchia e, possibilmente, l’apertura di un convento, fu un tentativo lungimirante, anche se ostacolato da limiti oggettivi, come le distanze geografiche, la scarsità di personale e le priorità interne delle congregazioni.
L’arrivo dei Domenicani
Soltanto dopo questi tentativi falliti, maturò l’affidamento del Santuario ai Domenicani, che ne divennero poi i custodi e promotori. La loro presenza, radicatasi negli anni successivi, rispose infine al desiderio del vescovo: un ordine capace di coniugare la predicazione colta e popolare, l’animazione del culto mariano e la gestione pastorale della comunità. Ma questa tappa, spesso considerata scontata, fu in realtà l’esito di un lungo e articolato discernimento, in cui si alternarono aperture, entusiasmi, delusioni e rinunce.
La memoria di questi tentativi rimasti incompiuti offre oggi un quadro prezioso della vita ecclesiale del primo Novecento, restituendo dignità e rilievo a quel processo – non privo di fatiche – che portò alla configurazione attuale del Santuario di Parabita. Un processo che testimonia, più che un fallimento, la serietà e la determinazione con cui fu cercata, con preghiera e lungimiranza, la soluzione più adatta per custodire e sviluppare un luogo sacro tanto caro alla devozione salentina.
Dal 1928 (20 luglio) al 1954 il Santuario di Parabita è retto dai Padri della Consolata di Torino; dal 1954 al 1955 dai Missionari del S. Cuore; dal 1955 (8 maggio) e ad oggi dai Padri Domenicani.
Ciao Marcello, ma prima dei Domenicani non c’è stato un periodo in cui il Santuario parabitano era affidato alle cure dei Missionari della Consolata di Torino? Almeno così mi pare di ricordare. Un saluto. Enzo Pagliara
si, certamente. Sarà oggetto di un altro articolo