
di Marcello Gaballo
Un beneficio restituito
Il documento, relativo alla restituzione dei beni al padre cassinese don Giuseppe Logerat, investito della cappellania di Santa Maria della Coltura dal 1827, elenca numerosi terreni e beni annessi al beneficio. Ma il cuore spirituale del complesso era proprio la cappella, situata “a circa passi sessanta distante dall’abitato” di Parabita. Essa si trovava in un’area strategica, confinante con il giardino del duca di Parabita, con una chiusa olivata del Capitolo, con un’area demaniale e con una cisterna pubblica: segno evidente della sua centralità non solo religiosa, ma anche sociale.
La descrizione architettonica della cappella offre un raro scorcio sull’edificio.
Era “composta ad una nave, di una mediocre grandezza a lamia”, con copertura a volta e due ingressi: uno principale, rivolto a occidente, e uno laterale più piccolo, rivolto a mezzogiorno. Le porte erano in ordine, munite di ferri e maschiature. Due finestroni, uno sopra la porta maggiore e uno sull’altare, garantivano luce all’interno.
L’altare, in pietra leccese dorata “a guazzo”, custodiva un’immagine affrescata della Madonna della Coltura, racchiusa in un ovato di pietra, così come fu “ritrovata”. È qui che affiora il cuore leggendario della devozione: «si diete la denominazione Coltura perché fù svelta coll’aratro, mentre si coltivava quel luogo, ove si denominava nei tempi antichi Le Colture». Il legame tra sacro e terra, fede e agricoltura, appare profondissimo.
Alla cappella erano annessi due ambienti “a lamia” sul lato sud: uno destinato a sagrestia e l’altro all’oblato. Entrambi comunicavano con l’aula sacra mediante porte in ordine. All’interno della sagrestia si trovavano tre stipi in legno, anch’essi in buone condizioni. Il primo custodiva una statua della Madonna in carta pesta verniciata, con piede dorato in legno. Il secondo conteneva l’apparato dell’altare, in foglia dorata e argentata, mentre il terzo era adibito alla custodia degli arredi sacri.
L’inventario degli oggetti liturgici è sorprendentemente ricco per una cappella rurale: un calice con coppa e patena in argento dorato, ampolline di vetro, vesti liturgiche variopinte (pianeta, amitto, stola, borsa, velo), corporali, purificatori, tovaglie d’altare, cuscini per il messale, una tovaglia per il lavabo e persino un bacile da sagrestia.
Il contesto fondiario
Il beneficio comprendeva anche numerosi fondi agricoli, estesi su Parabita e Matino: oliveti, seminativi, vigne con toponimi come Conche, Carignani, Signora Vecchia, Pigno, Tammali, Paduli, Insite, Boggi. Questi erano affittati a coloni locali, con un sistema ben regolato di canoni e scadenze. Il documento riferisce che la rendita complessiva ammontava a 83 ducati e 5 grana annui, somma non trascurabile, che contribuiva al sostentamento del cappellano.
Una memoria da recuperare
Questa testimonianza del 1829, oltre al suo valore storico-documentario, permette di ricostruire la fisionomia di una chiesa oggi scomparsa, ma fondamentale per comprendere le origini del culto mariano a Parabita.
Prima del maestoso santuario che oggi domina la piazza, esisteva quindi un luogo più modesto ma profondamente radicato nella pietà popolare, custode di una leggenda contadina e di un patrimonio artistico e devozionale di sorprendente ricchezza.
La cappella della Coltura, con il suo altare, gli affreschi, le suppellettili e l’intima semplicità architettonica, rappresenta un importante tassello nella storia religiosa e sociale del territorio, un’eco di una spiritualità antica che merita di essere riscoperta.
Per la prima parte vedi qui: