di Marcello Gaballo
In occasione dell’imminente festa patronale dedicata alla Madonna della Coltura, si propone ancora un articolo volto a far riscoprire la storia e la devozione che lega Parabita alla sua celeste protettrice. Sempre sulla base di documenti d’archivio, testimonianze e memorie del passato, si vuole offrire un viaggio nel tempo, per comprendere come si sia evoluto il culto mariano e quali siano le sue radici più profonde. Un sentito ringraziamento va al fotografo Emanuele Toma, che ha generosamente messo a disposizione il suo sguardo e la sua sensibilità artistica per corredare questi contributi con immagini che accompagnano e arricchiscono il racconto.
Nel cuore di Parabita, prima che sorgesse l’attuale santuario neogotico di Santa Maria della Coltura, esisteva un edificio più modesto ma ricco di storia e significati devozionali: una cappella campestre, con annessi poderi e suppellettili, che affondava le sue radici nella tradizione popolare e nella spiritualità locale.
Un documento del 1829, conservato nell’Archivio Storico Diocesano di Nardò, ci restituisce un’immagine dettagliata di questa antica chiesa e del beneficio ecclesiastico a essa legato, offrendo una preziosa testimonianza di com’era la Coltura prima della trasformazione ottocentesca.
Un beneficio legato all’abbazia di Cava
Il documento del 1829 menziona come titolare del beneficio di Santa Maria della Coltura un religioso benedettino: padre Giuseppe Logerat, monaco cassinese proveniente dall’antichissima abbazia della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, in Campania. La sua investitura ufficiale come cappellano avvenne il 31 agosto 1827, data in cui, per effetto di un Real Decreto, il beneficio gli fu conferito e la rendita cominciò a essere percepita dal suo procuratore a Parabita, Giovanni Dolce.
Questa designazione non fu casuale: l’abbazia di Cava aveva da secoli un’importante rete di benefici ecclesiastici e possedimenti anche nel Regno di Napoli, grazie a donazioni e privilegi ricevuti nei secoli medievali e moderni. Non era raro che chiese rurali o piccoli benefici parrocchiali del Sud Italia fossero messi sotto la cura spirituale e amministrativa di ordini religiosi di antico prestigio, come appunto quello cassinese.
La cappella della Coltura rientrava evidentemente tra i beni assegnati all’abbazia, che, pur distante geograficamente, ne traeva sostentamento economico e affidava la cura pastorale a religiosi o procuratori locali.
Tuttavia, nel clima complesso di riforme post-napoleoniche e restaurazione borbonica, molti benefici furono temporaneamente sequestrati dallo Stato. È questo il caso anche del beneficio della Coltura di Parabita, che fu sottoposto a sequestro (non meglio specificato nel documento), fino a quando, con decreto ministeriale del 30 luglio 1828, fu ordinato il dissequestro, eseguito materialmente il 1° aprile 1829. Da quel momento, tutti i possedimenti e le rendite tornarono nelle mani del padre Logerat, che ne poté disporre pienamente fino alla naturale scadenza della concessione.
Questo passaggio chiarisce come la chiesa della Coltura, ben prima dell’attuale santuario, fosse inserita in una più ampia rete di relazioni giuridico-religiose che collegavano Parabita a una delle abbazie più influenti dell’Italia meridionale, e come la sua gestione fosse tutt’altro che marginale, essendo regolata da decreti reali, canoni di affitto e contratti ben formalizzati.
(continua)