di Armando Polito
Gli agganci di cui si parla sono solo etimologici, poiché la voce sarebbe in grado di evocare, tutt’al più, lo sganciamento definitivo, come conferma il trattamento del lemma, quale appare nel vocabolario del Rohlfs.
Vi si registrano due sole varianti: cònnula per Manduria (registrato come lemma principale (e questo probabilmente per un condizionamento, secondo me fuorviante, del quale dirò a breve) e còndula per Nardò col significato evocato dal componente destro della vignetta, la cui ragion d’essere si comprenderà alla fine. L’etimo proposto, il latino, aggiungo medioevale, cunula (da leggere cùnula) non mi convince per i seguenti motivi:
1) Cùnula è diminutivo del classico cuna (sopravvissuto nell’italiano letterario) e ha dato vita all’italiano culla attraverso la seguente trafila: cùnula>cunla (per sincope)>culla (per assimilazione). Non si comprende per quale motivo il cònnula di Manduria avrebbe geminato la n.
2) Proprio la variante di Manduria col suo significato non funereo avrebbe, secondo me, indotto il maestro tedesco a pensare a cuna prima e a cùnula dopo.
3) Se cùnula fosse plausibile e se cònnula fosse la variante di partenza, dovremmo ipotizzare che il neritino còndula sia figlio di cònnula per dissimilazione. Tra i dialetti salentini però, proprio il neritino è uno dei pochissimi tra quelli del Leccese in cui il gruppo originario latino –nd– si conserva: p. e. dal latino quando nel neritino si ha quandu, in altri dialetti del Leccese e in tutti quelli del Brindisino e dl Tarantino quannu).
4) Per quanto fin qui osservato bisognerebbe, forse, percorrere un’altra strada e questo farò senza abbandonare di colpo il cammino avviato, anche perché, come vedremo, la nuova s’incontrerà con le vecchia, anche se non dal punto di vista etimologico.
Se la metafora della culla mi avesse convinto, fatta la tara per Nardò delle differenze dimensionali e d’uso, avrei parlato dell’accostamento del sonno o del riposo provvisorio e infantile a quello senza età ma eterno. Non avrei, poi, sprecato l’opportunità di ricordare che il citato latino classico cuna ha dato vita al medioevale incunabula1, da cui poi, con passaggio al singolare, è nato l’italiano incunabolo. Incunabula, dall’iniziale significato coincidente con quello di cuna, assume quello bibliografico molto tempo dopo, ad invenzione della stampa avvenuta da più di due secoli e precisamente nel 1688, quando uscì ad Amsterdam il primo repertoriio di incunaboli col titolo di Incunabula tipographiae.
Incunabola typographiae sive catalogus librorum scriptorumque proximis ab inventione typographiae annis, usque ad annum Christi MD inclusivè, in quavis lingua editorum. Opusculum saepius expetitum, notisque historicis, chronologicis, et criticis intermixtum (Contenitore di cullette della tipografia ovvero catalogo dei libri e degli scrittori pubblicati in qualsiasi lingua negli ultimi anni, dall’invenzione della stampa fino all’anno di Cristo 1500 incluso. Opuscolo più volte richiesto, richiesto e fornito di note storiche, cronologiche e critiche).
Fatto questo doveroso omaggio alla nascita del libro, abbandono cuna, anzi ne continuo la demolizione come presunto etimo; e dico presunto e non presumibile, altrimenti il Rohlfs avrebbe aggiunto, come avviene per altri lemmi, un punto interrogativo).
Eppure, a prima impressione, sembrerebbe che còndula sia deformazione di gondola, una sorta di metafora funereamente turistica. Al primo acchito l’ho pensato pure io e per conferma ho effettuato il consueto e doveroso controllo che ha dato l’esito mostrato all’inizio suscitando le perplessità di cui ho già detto.
Appare arduo inizialmente trovare punti di contatto tra la gondola, la culla e la bara, e non certo perché il detto non è vedi Venezia e poi muori, ma per il fatto che gondola ha il suo etimo più accreditato nel greco bizantino κονδοῦρα (leggi condùra), che era un tipo di barca. E allora? È il Nonostante questo, continuerò a cullarmi (lo ammetto, sono testardo …) ma sulla laguna, restando però, metaforicamente, con i piedi per terra …
Abbiamo visto come còndula/cònnula abbiano un bacino di utenza ristrettissimo, il che potrebbe essere indizio dell’adozione di una voce estranea all’ambiente salentino ma entratavi, attraverso gli imprevedibili percorsi, dalle tappe non agevolmente ricostruibili, che caratterizzano le vicende umane. Se già còndula non suscita allegria, guerra non è da meno, per cui sorvolerò sulle vicende che vide coinvolta la Terra d’Otranto, in particolare Nardò e Gallipoli, e l’armata veneziana al tempo della Congiura dei baroni. Ricorderò, invece, l’usanza, tipicamente neritina, di preparare nel giorni di Ognissanti (1 novembre) la veneziana, una cioccolata calda e cremosa che parenti, amici, fidanzati o semplici vicini di casa si scambiavano puntualmente, almeno fino a ieri … Le numerose leggende circolanti sull’origine dell’usanza hanno, come tutte le leggende, un nucleo di verità storica che fa della veneziana in un colpo solo un prodotto (e una parola) importata da un luogo dove il cacao ed altre spezie erano ben conosciute, anche se fruibili solo da chi se lo poteva permettere. Se l’origine veneta della veneziana è certa, quella di còndula purtroppo, non gode del suffragio di alcuna leggenda, anche se alla veneziana l’accomuna la caratteristica aristocratica di essere, almeno inizialmente, un simbolo di condizione sociale (e questo vale pure per còndula, bara di lusso, per ricchi). Non sono rari, poi, i casi in cui una voce dialettale contiene un riferimento di origine dotta, se non un richiamo letterario, il cui gradimento popolare ha poi propiziato il passaggio di quuella parola dall’uso, per così dire, specialistico a quello comune. L’immagine della gondola-bara, infatti, è un topos, che, però, è in sintonia col sentimento in tutti suscitato dal colore nero, dal suo scivolare lento nel silenzio (quando non c’erano i motoscafi …) dei canali: un’atmosfera, insomma, surreale, fuori dal mondo e dal modo di vivere e sentirsi quotidiano. Se l’uomo comune prova soltanto, l’artista prova ed esprime. Sul topos della gondola-bara riporto, tra le tante, alcune delle più significative variazioni.
Johann Wolfgang von Goethe (Venezianische Epigramme, 1790)
Diese Gondel vergleich’ ich der sanft einschaukelnden Wiege,
und das Kästchen darauf scheint ein geräumiger Sarg.
Recht so! Zwischen der Wieg’ und dem Sarg wir schwanken und schweben
auf dem großen Kanal sorglos durchs Leben dahin.
(Paragono questa gondola alla culla che dondola dolcemente,
e la scatola sopra sembra una spaziosa bara. Giusto! Tra la culla e la bara oscilliamo e galleggiamo
sul grande canale spensierati E la gondola va, negra E la gondola va, negra attraverso la vita.)
Matilde Serao (La grande fiamma, in Nuova antologia, terza serie, volume XIX, Direzione della Nuova antologia, Roma, 1889, pp. 338-339)
… incontrarono la più tetra barca della laguna. Era tutta nera, come le altre, ma mancava di quella grazia civettuola della gondola di passeggiata: non aveva, a prua, il rostro lucido; era più larga, più piatta, si dondolava goffamente sulle acque: e i due gondolieri, invece del solito gabbano fra cittadino e marinaro, invece del solito berretto, portavano una giacchetta nera e un cappello a cilindro, con una coccarda nera. Stava ferma, la gondola, innanzi a un portoncino aperto; due o tre donne erano sotto il portoncino. – Che è quella gondola? – disse Grazia al gondoliere, scattando in piedi. – È la gondola dei morti, eccellenza: quelli sono i becchini …
Gabriele D’Annunzio (L’innocente, 1892)
… Piovigginava. Le nebbie su l’acqua prendevano talvolta forme lugubri, camminando come spettri con un passo lento e solenne. Spesso nella gondola, come in una bara, io trovavo una specie di morte imaginaria.
(Il fuico, 1900)
… Lei sola consente il tema inquietante e ossessivo del franare del tempo, con il corredo di figurazioni tardo rinascimentali e barocche: la “clessidra spaventosa”, la morte, con la sua rappresentatività macabra (i “drappi funebri” della gondola-bara, la maschera cupa della notte” …
Alessandro Varaldo (La gondola dal Letto di Rose, sonetto da 1° Libro dei Trittici, Tipografia di Pietro Gibelli, Bordighera, 1897, s. p.))
Passano i morti solo in questa pace
sopra quest’acque nere e lentamente?
Forse scorre veloce una silente
gondola di giustizia o di fallace
vendetta? Sul Canale Orfano sente
il marinaio un tremito: si tace
ogni canto, ogni bacio in questa pace
funebre: stanno le civette intente.
Ma una gondola passa in un istante
di terrore ed à rose in su i cuscini;
rose bianche d’amore e di desio,
e scorre sopra tanti morti e tante
vendette sola poi che ai mattutini
sogni i fantasmi cantano l’addio.
Thomas Mann (Der Tod in Venedig, S. Fischer, Berlin 1912, pp. 42-43).
Wer haette nicht einen fluechtigen Schauder, eine geheime Scheu und Beklommenheit zu bekaempfen gehabt, wenn es zum ersten Male oder nach langer Entwoehnung galt, eine venezianische Gondel zu besteigen? Das seltsame Fahrzeug, aus balladesken Zeiten ganz unveraendert ueberkommen und so eigentuemlich schwarz, wie sonst unter allen Dingen nur Saerge sind, es erinnert an lautlose und verbrecherische Abenteuer in plaetschernder Nacht, es erinnert noch mehr an den Tod selbst, an Bahre und duesteres Begaengnis und letzte, schweigsame Fahrt. Und hat man bemerkt, dass der Sitz einer solchen Barke, dieser sargschwarzlackierte, mattschwarz gepolsterte Armstuhl, der weichste, ueppigste, der erschlaffendste Sitz von der Welt ist? (Chi non proverebbe un brivido fugace, una misteriosa timidezza nel salire per la prima volta o dopo molto tempo dalla prima di salire su una gondola veneziana? Quello strano veicolo, tramandato completamente immutato dai tempi delle ballate e così stranamente nere, come sono solo le bare, ricorda avventure silenziose e criminali nell’increspatura della notte, ricorda ancora di più la morte stessa, la bara e l’inizio oscuro e l’ultimo viaggio silenzioso. E tu hai notato che il sedile di una simile barca, questa bara nera, la poltrona imbottita laccata nera, opaca, la più morbida, soffice, è il sedile più decadente del mondo?)
Giulio Vitali, Spirito sovrano, in Rivista bibliografica italiana, a. XVII, n. 22 del 16 novembre 1912: E la gondola va, negra e severa come una bara, leggiadra e molle come una cuna.
Diego Valeri (Venise, da Poesie 1910-1960, Mondadori, Milano, 1962, p. 304)
La gondole, en sortant de la verte splendeur
du grand canal, s’enfuit, svelte, dans l’ombre bleue
d’un très petit rio. Un pan de mur, couleur
d’ambre, avale ce noir fantôme à longue queue.
(La gondola, uscendo dal verde splendore
del Canal Grande, se ne fugge fugge, affusolata, nell’ombra azzurra
di un piccolissimo rio. Una striscia di muro, colore
d’ambra, ingoia questo nero fantasma dalla lunga coda.)
E, a proposito di gondola, nella penultima testimonianza associata, come nella prima di Goethe, a bara e a cuna, simbolo sinteticamente ossimorico del principio e della fine, della vita e della morte, è tutt’altro che irrilevante il fatto che già Francesco D’Ovidio, Il dialetto di Campobasso, in Archivio glottologico italiano, v. IV, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1878, p. 170, nota 1) si era chiesto se la voce potesse derivare da cùnula, manifestando la sua perplessità sulla geminazione di n (con successiva dissimilazione nn>nd) per mancanza di esempi nei dialetti veneti, come io, con analoga motivazione, ho manifestato la mia per quanto riguarda i dialetti salentini.
Non voglio con questo insinuare che il Rohlfs potrebbe aver sfruttato la nota de D’Ovidio per salvare capra e cavolo, cioè culla e gondola-bara, ma forse sarebbe stato più opportuno collocare al primo posto la variante neritina.
Se le cose dovessero stare veramente così e queste riflessioni non fossero il frutto di una sorta di campanilismo etimologico (non so, è il caso di dire dove morirò, ma sono nato a Manduria e ho vissuto a Nardò) Nardò e Manduria, pur con risultati semantici opposti, avrebbero elevato al rango di sintetica metafora quello che nei letterati era una semplice ma, quasi paradossalmente, prolissa similitudine.
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1 Molto probabilmente in uso da tempo, è presente in autori deL XIV secolo (Petrarca, Epistulae; Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam. Neutro plurale di un inusitato incunàbulum, modellato sul tipo dei classici cubìculum (=camera da letto), turìbulum (=incensiere), etc. etc.
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