di Gilberto Spagnolo
Giovan Battista Pacichelli nelle sue Memorie, a proposito di un suo viaggio compiuto nel 1684 (citato dal Vacca) nel Salento dava questo “rendiconto” di quello che all’epoca è il fabbisogno ceramistico della famiglia salentina, in genere: “Dui scansie piene di faenze con piatti, boccali ed altro”; “un pisari dentro lo quale vi è uno staro uno d’aglio in circa”; “un altro pisari da tenere acqua”; “sette sottocoppe di Faenza, undici bucali di Faenza de la Terza e delle Gruttaglie e due bacili”; “dudici piatti (de) minestre et lancelle, quattro boccali de pesare de Nardò”; o “tre boccali alla leccese”.
Da tutto ciò si può notare quanto fosse importante la ceramica per i nostri avi perché, è evidente, “oltre che per gli usi pratici, recipienti ed oggetti di ceramica, offrivano al popolo, a poco prezzo la possibilità di decorare l’ambiente domestico che si rendeva più accogliente e festoso.
Ognuno, a prezzi modesti poteva soddisfare tanta richiesta di stoviglie, per uso comune e per uso di decorazione, e per l’uno e per l’altro insieme”.
E questo era possibile in quanto le officine locali erano ricche di materia prima, l’argilla, che attingevano dal sottosuolo salentino che ne è fortemente provvista.
La ceramica salentina ha avuto dunque un certo rilievo non soltanto dal punto di vista storico, etnografico ed artistico, ma anche da quello economico, perché una non trascurabile parte della popolazione di detti paesi, traeva guadagno dai prodotti di questa piccola industria artigiana alla quale la classe dirigente dedicò anche qualche attenzione.
Nicola Vacca, indicato da Giuseppe Palumbo come un “profondo studioso di cose salentine in genere nonché diligente ricercatore in materia”, nel 1954 pubblicò su questo argomento un’esauriente monografia (già nel 1937 aveva pubblicato un interessante saggio su Rinascenza Salentina) che ancora oggi rappresenta un imprescindibile punto di riferimento per questo campo d’indagine, per antiquari, collezionisti e studiosi.
I centri in cui si sviluppò la ceramica salentina e che sono stati indicati e documentati dal Vacca furono: Laterza, Martina Franca, Grottaglie, Taranto, Francavilla, Mesagne, Brindisi, Salice, Lecce, San Pietro in Lama, Cutrofiano, Nardò, Lucugnano ed appunto Novoli. Una ceramica il cui carattere era spiccatamente di “tipo popolare e popolareggiante, lontana, quindi, dal carattere d’arte intesa crocianamente come rielaborazione fantastica della realtà. Una produzione istintiva che lascia intravedere nell’atecnicismo quelle manifestazioni arcaiche ed arcaistiche che giacciono su un unico piano dai tempi più remoti”. Una ceramica in cui, quel che più ti colpisce (scrive ancora il Vacca) “è la vivacità dei colori, la policromia che perfettamente s’intona in una gamma sorprendente. Non dallo studio è stato guidato l’artigiano nel fondere piani e forme e colori, perché studio non ha mai fatto, ma dal suo istinto naturale formatosi attraverso la tradizione. Ceramica rustica, non grossolana, saporita e sana come la giovane contadina che non al belletto e alla cipria o al maquillage affida il successo delle sue attrattive, ma alla soda opulenza delle forme, alla freschezza naturale della mente alla vivezza accesa del colorito, alla semplicità del suo atteggiamento e delle sue movenze”.
Per quanto riguarda Novoli, più in particolare, sappiamo che nella “Numerazione dei fuochi del 1658” che è andata distrutta e che era presso l’Archivio di Stato di Napoli, erano registrati alcuni figuli operanti in Santa Maria de Novis (antica denominazione di Novoli), rispettivamente i “Mastro Tomaso, Mastro Carlo, Mastro Pietro” tutti figli di Mastro Cesare Romano di Campi (ma a Campi, per quanto io sappia, non si produceva ceramica) e i “Mastro Francesco, Mastro Pietro, Mastro Giuseppe e Mastro Angelo” tutti figli invece di “Mastro Antonio Elia” di Cutrofiano.

La più antica notizia documentata su Novoli risale comunque al 24 marzo 1707, anno dell’Apprezzo di Novoli e Nubilo fatto dall’ingegnere Gallerano. In questo documento si legge: “La decima delle codame e di tutte quelle opere e lavori di creta che si fanno in detto feudo la quale si paga per ciascuna cotta di fornace grana diece e grana quindeci per la grande ed il barone l’assegna il luogo per cavar la creta compensatamente annui ducati sei, tari due e grana dieci”.
In virtù di queste affermazioni a Novoli risultavano quindi in media 28 fornaci all’anno.
Sempre nel citato Apprezzo si legge ancora: “... una stanza terragna affidata ad un cretaro o codomaro per carlini 15 che tiene la fornace per cuocere pignate”, fornace che era in Piazza Castello, oggi denominata Regina Margherita.
Secondo quanto scrive ancora il Vacca, circa 60 anni or sono, in contrada Madonna di Costantinopoli (attuale Madonna del Pane), durante i lavori di demolizione di vecchie case fu trovata nel sottosuolo una fornace figulina con diverse stoviglie.
Lo Spoglio, invece, del Catasto Onciario del 1751 che è nell’Archivio di Stato di Lecce, non registra alcun figulo. Infatti, appaiono solo le voci quali “spiziale (farmacista), viticale (mulattiere), bracciale (contadino), ecc.”.
Ciò farebbe pensare alla scomparsa della figulina in questo paese.
Ma questo sembra non trovare riscontro poiché figuli dovevano esservi operanti nel 1761 e alla fine del secolo XVIII, in quanto, nota il Vacca, il Sacco nel suo Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli vi nota “una fabbrica di vari lavori di creta” (l’opera fu pubblicata a Napoli nel 1746). Il signor Santo Mancino di Novoli poi conserva un piatto (diam. cm. 41,5 fondo cm. 5) con nel campo la leggenda: “Novolli 1761”.


Il piatto dimostra anche che a Novoli si produsse ceramica decorata. Cosi infatti lo descrive il Vacca: “… è a fondo bianco con decorazione grossolana all’orlo di fogliami verdi e con listelli azzurri e neri; al centro è disegnato uno scudo cimato di elmo piumato volto a destra con visiera abbassata e graticolata a quattro cancelli”.
Il signor Santo Mancino che conserva anche altri interessanti oggetti in ceramica (come ad esempio un bel catino finemente lavorato) che per tradizione di famiglia si affermano essere usciti dalle officine novolesi, ricorda con simpatia la “meraviglia” e lo gioioso stupore che provò il Vacca (trattandosi di un raro documento datato e con l’indicazione del sito di provenienza) allorquando Romeo Franchini, sindaco e studioso del passato novolese (che aveva all’epoca l’abitazione accanto alla sua), gli mostrò il piatto in questione, la “delicatezza” e la “religiosità” con cui lo osservò e lo misurò. Avrebbe fatto certamente qualunque cosa pur di averlo, ma dovette accontentarsi di fotografarlo e di immortalarlo nel suo libro.
Una “rarissima e fortunata eccezione” in quanto, come scriveva Giuseppe Palumbo, “i prodotti di queste popolari fabbriche di Terra d’Otranto non erano contrassegnati da marche, da sigle, da firme, da date”. Lo stesso Palumbo poi in un suo articolo, a proposito delle varie raccolte private che stava elencando, faceva presente che la sua era costituita “da una sessantina di pezzi procurati prevalentemente a Novoli e in misura ridotta a Lecce, Veglie, Strudà, Calimera, Serrano, Botrugno”. Lo studioso in un saggio successivo riguardante “Spunti sul paesaggio nella vecchia ceramica popolare di Terra d’Otranto” descriveva un “orciolo di vino” proveniente sempre da Novoli con una raffigurazione rappresentante “una torre sghembata a quattro piani affiancata da altre due torri e due piani pure queste sghembate. Tre i portali: molte e piccole le finestre. L’intero edificio è a sua volta affiancato da due pini”. Dopo la descrizione di questo importante pezzo scrive poi testualmente: “Il pezzo che non reca sigla di fabbrica né data mi è pervenuto da Novoli – campo di ricerche sempre fruttuose prossimo al capoluogo provinciale – nel 1946; e mi diceva il cortese donatore che secondo una vecchia tradizione familiare, la decorazione rappresenta la torre denominata di Pozzo Nuovo in agro dello stesso comune a Nord dell’abitato, abbattuta or è un cinquantennio durante la costruzione del tronco ferroviario Lecce-Francavilla. La notizia potrebbe forse trovare il suo credito nel fatto che la terracotta non pare di fattura recente ed ancora nella circostanza che a Novoli – come è ormai risaputo – si esercitò la figulina per lo meno fino al XVIII secolo”.

E in effetti il Vacca non si sbagliava perché la ceramica a Novoli è attestata ancora nei primi anni dell’Ottocento.
Infatti, nella memoria legale Per l’Università di S. Maria di Novoli e suoi naturali contro l’utile possessore di quella, datata Napoli 11 gennaio 1805, secondo il XXXIV capo d’accusa per gli abusi feudali dei Carignani il barone “pretende la decima da’ lavori de’ Cretaioli. Un carlino per il forno piccolo, grana quindici per il forno grande. Il Barone oppone che la decima delle crete fu venduta dal fisco, e nell’apprezzo si parla in questo modo: la decima delle codame di tutte quelle opere, e lavori, che si fanno in detto Feudo. Il Fisco ha fatto l’istanza: Baro se abstineat: la Regia Camera deve decretare non solo che si astenga per l’avvenire di esiggere la suddetta decima, ma che restituisca a Cretaioli l’indebito esatto. Egli è vero, che nell’apprezzo si menziona l’espressata decima, ma questa si corrispondeva un compenso dall’abitazione franca e del luogo d’onde la creta si dovea cavare siccome lo stesso Barone confessa nella sua istanza fd 89 e siccome costa dagli atti istessi dell’apprezzo. Se dunque il Barone ha esatta la decima senza dare l’abitazione o la creta, ragion vuole, che debba restituire quanto ingiustamente, e senza titolo ha esatto, e debba astenersi in avvenire di esiggere decima da lavori de’ miseri Cretaioli”.



Il Vacca, inoltre, nel corredo illustrativo del suo libro, pubblica le foto di altri pezzi prodotti dalle officine ceramistiche novolesi e appartenenti alle collezioni: Petraglione, Palumbo, Ammassari e Serinelli, collezioni delle quali, attualmente, non se ne conosce l’esito e che purtroppo possono essere andate disperse. A Novoli, infine, capita spesso di ritrovare tra le fondamenta di vecchie case in demolizione o in antichi pozzi “nfucati” cioè riempiti e chiusi con materiale di risulta perché non utilizzabili pezzi o frammenti di ceramica probabilmente di produzione locale (io stesso conservo un oggetto in proposito, probabilmente una lucerna, molto caratteristica, a forma di candelabro, smaltata di verde e ritrovata in via Pendino nel corso appunto di alcuni lavori di demolizione e di scavo) e alcuni Novolesi custodiscono gelosamente “ursuli e ucale”, cioè orcioli e boccali ovvero gli orcioli da vino e le giare per bere o da riporvi alimenti secchi che per tradizione di famiglia si affermano usciti dalle officine dei “cutimari” novolesi (nella parlata locale è ancora vivo il proverbio: “Lu mesciu cutimaru, minte l’asula a ddu ole”).



Va aggiunta infine un’ulteriore e significativa testimonianza sull’argomento. In una delle ultime edizioni della mostra d’antiquariato che si svolgeva a Copertino qualche anno fa nel locale castello (esattamente la VI ovvero quella del 1992) furono esposte, per la prima volta, dall’antiquario barese Domenico Toto (oltre ad alcuni pezzi pregiati di Laterza e Grottaglie) alcune preziose ceramiche provenienti da Nardò e appunto da Novoli.
Tralasciando gli splendidi manufatti neretini brevemente annoto le caratteristiche dell’inedito pezzo uscito dalle officine novolesi; si tratta infatti di un piatto (molto raro come tipologia di produzione) le cui misure ricalcano quasi fedelmente quelle del piatto posseduto dal signor Santo Mancino. Il piatto della splendida collezione Toto ha invece molti punti in comune con un altro del secolo XVIII che Nicola Vacca pubblica nel suo libro sulla Ceramica Salentina e che nella didascalia risulta posseduto, all’epoca, da Giuseppe Palumbo. Come si può notare osservando le fotografie, i due manufatti sembrano essere usciti dalla mano dello stesso artigiano: coincidono, incredibilmente, il tipo di decoro lungo i bordi, la forma del vivace volatile posto nella stessa posizione (cioè al centro e in alto), la stessa idea che ha animato l’artigiano nella rappresentazione complessiva e che si differenzia solo nel tipo di fiorame rappresentato e nel numero dei volatili (tre in quello del Palumbo e uno in quello della collezione Toto).
Blu, verde e arancione i colori rappresentati con una decorazione quasi monocromatica essendo il blu impiegato in quantità maggiore.
Considerando il numero dei volatili, quello dell’antiquario barese, per possibile elaborazione cronologica, sembra aver preceduto quello del Palumbo che si presenta appunto leggermente più complesso.
Non ho avuto il tempo di approfondire con il signor Toto (che comunque ringrazio per avermi concesso di fotografarlo) la provenienza di questo piatto (smaltato e anche rotto, ma perfettamente restaurato) facente parte delle ceramiche novolesi che lo stesso Toto ha definito “le più preziose”, ma è fuor di dubbio, considerati gli elementi di confronto, la “matrice” del centro salentino, che evidenzia, come diceva il Palumbo, “il genio creativo del rozzo artigiano con concezioni quasi sempre elementari a volte schematiche, ma prettamente personali, da disegnatore e coloritore autodidatta qual egli era”; un genio che per fortuna ci ha lasciato qualcosa che il nostro popolo ancora ci conserva e ci tramanda per la gioia dei nostri occhi e del nostro spirito, che è sempre in ricerca perenne di ciò che è caratteristicamente nostro, e per rivalutare, in quel che è possibile, la storia della nostra terra, anche attraverso questa “rude arte dei vecchi figli salentini”, arte che il Palumbo definisce “modestissima, quasi primitiva, silenziosa, anonima”, ma anche (grazie a questo mistero che circonda la mite personalità dell’artefice) con un eccezionale “senso di seduzione e di grazia”.


In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XXII, Novoli 19 luglio 2015 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 135-140, Novoli 2024.
Riferimenti bibliografici
Archivio di Stato di Napoli, Sezione Amministrativa, Numerazione dei Fuochi, Santa Maria de Novis, anno 1658, vol. 889, foll. 8, 11, 19 t., 26, 29, 32 (citato da N. Vacca in La Ceramica Salentina, p. 75);
Archivio Privato, Mario Rossi, Novoli; .
Apprezzo di Novoli e Nubilo Fatto dall’ing. Gallerano, datato 24 marzo 1707 (copia dattiloscritta, l’originale che si conservava presso l’Archivio di Stato di Napoli è andato perduto);
G. Palumbo, Figulina vinaria nel Leccese, estratto da “La Ceramica”, n. 9, Milano, settembre 1953;
Id., Note agiografiche sui figuli di Terra d’Otranto, Ivi, n. 6, Milano, giugno, 1953;
Id., Gli “Ursuli” e le “Ucale” nella vecchia Ceramica Salentina, estratto da “Faenza”, a. XXXVI, fasc. III, Faenza 1950;
Id., Gli ultimi figuli di Lecce, Ivi, a. XXXVII, fasc. II-III, Faenza 1951;
Id., Spunti sul paesaggio nella vecchia ceramica popolare di Terra d’Otranto, Ivi, a. XXXVIII, fasc. VI, Faenza 1952;
Id., Ceramica Popolare del 1800 in Terra d’Otranto: i Piatti e Bacili, in “La Ceramica”, a. IX, n. 3, Milano 1954;
O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Bibliotheca Minima, Tip. Rizzo 1986;
F. Sacco, Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli, ecc. Napoli MDCCXLVI, Tomo II, p. 425; scrive il Sacco: “Novoli Terra nella Provincia di Lecce, ed in Diocesi di Lecce medesima, situata in una pianura, d’aria buona, e nella distanza di sette miglia dalla Città di Lecce, che si appartiene con titolo di Ducato alla Famiglia Carignano Marchese di Trepuzzi. In essa sono da notarsi una Chiesa Parrocchiale; un Convento de’ Padri Domenicani; tre Confraternite Laicali sotto l’invocazione del Sacramento, dell’Immacolata Concezione e della Buona Morte; un magnifico Palazzo Ducale con varj deliziosi giardini; ed una fabbrica di varj lavori da creta. Il suo territorio poi produce grani, vini, olj, e bambagia. Il numero finalmente de’ suoi abitanti ascende a duemila seicento novantadue sotto la cura spirituale d’un parroco”;
G. Spagnolo, La Ceramica salentina. La ceramica a Novoli, in “Paise Miu”, n.u. a cura del Gruppo Teatrale Novolese “La Focara”, Novoli 1972;
Id, Lu cuccu te Sant’Antoni. Una singolare testimonianza sulla devozione per il guardiano del fuoco, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XIV, Novoli 17 gennaio 1990, p. 4;
Id., Antica ceramica salentina: un inedito piatto delle officine novolesi, in “Lu Lampiune”, Anno VIII, n. 3, dicembre 1992;
B. Tizzani, N. Turfani, Per l’Università di Novoli e i suoi naturali contro l’utile possessore di quella, Napoli 11 gennaio 1805;
N. Vacca, Saggio Storico sulla moderna ceramica salentina, in “Rinascenza Salentina”, n. 4, Lecce 1937, pp. 281-333;
Id., La Ceramica Salentina, Lecce 1954.