Cavallino: un cenotafio, un’epigrafe e tre anagrammi funebri (1/2)

di Armando Polito

Amore e Morte sono tra gli ingredienti più significativi della vita umana e forse proprio per le caratteristiche contraddittorie che li concretizzano hanno ispirato la poesia di ogni tempo. Il titolo dato al post col suo Cavallino mostra un lì per lì inspiegabile toponimo, al pari di anagrammi, che, però, rientrando nella categoria dei giochi enigmistici, sembra essere il meno adatto a sfoggiare l’attributo funebri, l’unica parola del titolo in accordo con Morte.

La cripticità del titolo si ridimensiona subito ricordando che Cavalino è nota soprattutto per la storia d’amore di più di quattro secoli fa tra Beatrice Acquaviva d’Aragona e Francesco Castromediano. Il tempo non cancella tutte le memorie e tra queste quelle dei potenti sono destinate a sopravvivere più a lungo, soprattutto in virtù delle loro connesse possibilità economiche, grazie alle quali il ricordo può essere affidato ad un monumento più che, per esempio, ad un libro, meno visibile e, dunque, più difficilmente fruibile, nonostante l’esistenza di almeno qualche copia. Questo vale anche per la nobilissima coppia di Cavallino, il cui amore, infelice per la prematura morte di lei, trova celebrazione nel cenotafio visibile nell’ex convento dei Domenicani e in un libro raro e pressoché sconosciuto, che chiarirà il senso di anagrammi.

Comincio dal cenotafio, che mostra in alto una rappresentazione, tutto sommato, piuttosto stilizzata (per l’epoca barocca) della coppia e in basso un’epigrafe.

foto di Corrado Notario

 

 

Essa è stata pubblicata da Valentina Vissicchio, ‎Enrico Spedicato e ‎Maria Elisabetta De Giorgi in Iscrizioni latine del Salento: Trepuzzi, Squinzano, Cavallino, Galatina, Congedo, Galatina, 2004 ed a questo studio (così per brevità lo indicherò da ora in avanti) farò costante riferimento, anche con dettagli tratti dalla pubblicazione, espediente per non perdere tempo nella trascrizione e col rischio di errore, ma soprattutto per consentire al lettore di comprendere e valutare più agevolmente il singolo raffronto.

Lascio giudicare a chi legge quanto le obiezioni che muoverò siano fondate; se così fosse, però, abbia contezza, come me, che,  se gli autori avessero sottoposto a dettagliata autopsia ciascuna delle epigrafi da loro pubblicate, molto probabilmente il loro libro sarebbe ancora un progetto in esecuzione più o meno avanzata.

Parto necessariamente dalla lettura dell’epigrafe e dalla sua trascrizione. Per quanto riguarda questa fase, oggetti della divergenza sono tre sole parole, che ho evidenziato con la sottolineatura. Ogni parola che precede / corrisponde alla lettura dello studio, quella che lo segue alla mia: DÒMINIS/DOMÌNIS; OB/OPE; PERTOSAE/PETROSAE).

 

                                                  D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)

KYLIANI EX LIBERIS LYMBURGICUM HEROUM DOMINIS ANNO MCLVI

GUGLIELMI NORMANDI UTRIUSQUE SICILIAE REGIS IN AUXILIUM ADVENTA(NT)IS

AC, CASTROMENSANI OPE PETRAE PETROSAE CASTROBELLOTTI, ET CASTROMEDI(AN)I COGNOME(N) ADEPTI

                                                   CINERES EXCITA

UT BEATRICIS AQUAVIVAE DE ARAGONIA SUAVIS(SIM)CORDI DESTERA(M) TRIUNPHORU(M) PALMIS INTESTA(M)

                                                    SEMPITERNO  IUNGERET IMENEO

D(OMINUS) FRANC(ISC)US  DE CASTROMEDIANO CABALLINI MARCHIO, DUX MORCIANI

               CERCETI, ET USSANI XVI BARO, MILITIAE CALATRAVAE EQUES

VIVE(N)S TUMULU(M) HOC SIMULQ(UE) CONVENTUM PROPRIO AERE A FUND(AMENT)IS EREXIT ET DOTAVIT

              QUO VITA FUNCTUS FAMA SEMPER VIVENS CLAUDERETUR

              D(OMINUS) DOMINICUS ASCANIUS FILIUS INCOSOLABILIS

              PIE LACRIMANS POSUIT ANNO MDCLXIII

 

 1) DOMINIS

 

Nello studio si traduce:

 

DOMINIS risulta letto DÒMINIS, cioè ablativo plurale di DÒMINUS=signore. Tale lettura e traduzione non mi convincono per un motivo di ordine stilistico, uno epigrafico ed uno semantico.

Comincio dal primo: se la lettura dello studio fosse corretta, si avrebbero due complementi partitivi (nel novero dei liberi signori e tra gli eroi di Limburg) in brevissimo spazio (e questo potrebbe, al limite,  starci) ma in questo caso  con il secondo (LYMBURGICUM HEROUM) incastrato tra la preposizione del primo (EX) e il sostantivo con attributo  (LIBERIS DOMINIS) da essa retto.

L’incastro del genitivo (LYMBURGICUM HEROUM) sarebbe possibile solo se esso fosse di specificazione o di possesso, non partitivo. E allora? Basta considerare che in latino ci sono due DOMINIS (omografi ma non omofoni per pronuncia: uno è DÒMINIS quello della lettura dello studio, l’altro DOMÌNIS, sempre ablativo plurale, ma di DOMÌNIUM=dominio. DOMÌNIS è la variante per contrazione di DOMÌNIIS, fenmeno normale, come mostra la trafila deis>diis>dis (tutte forme attestate), nonché l’uso epipigrafico (i vari repertori, CIL in testa, grondano di epigrafi in cui si legge, per esempio, IMPERI ROMANI per IMPERII ROMANI, scelta scontata in testi pullulanti di abbreviazioni.

La lettura DOMÌNIS risolve il problema stilistico emerso con DÒMINIS, al quale, fra l’altro, poco si addiceva lo scontato LIBERIS (se un signore non è libero, che signore è?) e tutto diventa all’istante più lineare anche sul piano semantico: di Chiliano che dai liberi domini degli eroi di Limburg accorreva

 

2) OB/OPE

Nello studio una nota del commento recita:

 

La difficoltà grammaticale sorgente da OB orfano del suo accusativo viene superata ipotizzando che sia sottinteso un NOMEN o DOMINATUM o simili oppure che OB sia dovuto ad un errore. Per quanto riguarda la prima ipotei, obietto che si sottintende, anche in latino, un termine citato prima, ma mai quando è retto da una preposizione. Pure per assurdo DOMINATUM o simili mi pare improponibile, ancor più NOMEN, perché con COGNOMEN a poca distanza, avrebbe costituito una figura etimologica alla quale in epoca barocca sarebbe stato un delitto rinunciare. E, oltretutto, quelli erano tempi in cui, almeno in testi e contesti simili, l’ignoranza della grammatica non era ammessa o spacciata per creatività artistica.

Solo parzialmente condivido la seconda ipotesi, ma l’errore non va mai frettolosamente liquidato, ma bisogna sempre chiedersi anzitutto chi possa essere stato a commetterlo e perché. Siccome è da escludere, per quanto detto poco prima, la responsabilità del committente o dell’estensore o dello scrivano, resta quella dello scalpellino e un indizio di un suo dubbio, mai sciolto ma immortalato sulla pietra, potrebbe essere proprio nella presunta B di OB. Di seguito come si vede nell’epigrafe:

Se la prima lettera è inequivocabilmente O, la seconda appare come B, priva, però del segmento sinistro. Eppure lo scalpellino non avrebbe avuto alcuna difficoltà a saldare le due lettere, come fa con altre  in cui il nativo andamento rettilineo a sinistra della seconda lettera si fonde e confonde con quello curvilineo della parte destra della prima.

Ora, se di errore di incisione si tratta, esso poteva passare inosservato agli occhi del committente o di chiunque avesse funzioni di controllo del manufatto solo se non fosse stato macroscopico e si fosse ridotto all’incisione di due lettere invece di tre, tale da giustificare, comunque, la sua permanenza o la mancata correzione.

Credo non azzardato supporre che quello strano OB costituisce un momento di distrazione o, forse di dubbio, dello scalpellino di fronte ad un OPE del committente, parola per lui strana rispetto ad un OB inciso chissà quante volte.

Se le cose fossero andate così, tutto tornerebbe con il corretto OPE, ablativo con valore strumentale di OPS, come nel noto nesso ope legis (=in virtù, per forza di legge), per cui il rigo 4, dopo tale emendamento, andrebbe tradotto con e che ottenne, in forza di Castelmezzano, Pietra Pertosa, Castrobellotto anche il cognome di Castromediano.

E nel testo latino, emendato in AC, CASTROMENSANI OPE, PETRAE PETROSAE, CASTROBELLOTTI, ET CASTROMEDIANI COGNOMEN ADEPTI (con OPE invece di OB e l’aggiunta di una virgola dopo PERTOSA), OPE, in ossequio allo stile latino, è preceduto dal genitivo che esso regge (CASTROMENSANI), che è il più significativo (perché, in pratica, il successivo CASTROMEDIANI è una sua variante o, se si preferisce, la forma moderna), mentre gli altri genitivi (PETRAE PERTOSAE e CASTROBELLOTTI) seguono in secondo piano, retti sempre da OPE sottinteso perché subito prima usato, anzi immolato sull”altare di CASTROMENSANI.

3) A liquidare, invece, in un attimo la seconda discrepanza di lettura (PERTOSAE/PETROSAE) sarebbe sufficiente il dettaglio sottostante dell’originale:

La lettura PERTOSAE nello studio non è accompagnata da alcun commento, ma ad integrazione e conferma di PETROSAE riporto quanto si legge in  Syllabus membranarum ad Regiae Siciliae archivum pertinentium, Tipografia Regia, Napoli, 1824, nota 1,  pp. 256-257:

(Questo castello si trova chiamato ora di Petra-Perciata, ora di Petra-Pertosa, ora anche di Petra-Petrosa, poiché nel registro segnato 1269 C foglio 147 dal tomo il castello di Petra-Pertosa dal distretto di giustizia della Basilicata il 12 marzo 1269 da Carlo I viene concesso a Guglielmo Tornaspe nel registro poi segnato 1275 A foglio 86 dal tomi il 9 novembre 1275 il re ordina al medesimo amministratore della giustizia della Basilicata di risolvere le controversie circa i territori dello stesso castello detenuto dal medesimo feudatario, che tuttavia è chiamato nome di Petra-Perciata. Infine più tardi lo stesso castello è ceduto al re, dal quale il 19 aprile 1278 è concesso a Pietro de Burbura dopo che, tuttavia, ha assunto il nome di Petra-Petrosa. Abbiamo dato queste notizie per questo, perché qualcuno poco versato nella topografia del nostro regno non cerchi parecchie città quando +sono parecchi i nomini di una sola medesima città)

Altre discrepanze riguardano la valutazione anche grammaticale di alcune voci, con conseguenze interpretative che coinvolgono anche il giudizio, per così dire, politico sull’intera epigrafe:

1) CINERES EXCITA nello studio è reso con un blando invoca le ceneri. Io userei un energico sveglia le ceneri, che mi pare più in linea con lo spirito con cui la locuzione era allora usata.

Ad esempio, in Bonifacio Agliardi, Saggi sacri, ed accademici, Rossi, Bergamo, 1648, s. p. (ho evidenziato c0n la sottolineatura  anche gli altri elementi in comune con l’epigrafe, cioé ALLIARDORUM Hertoum, parallelo a LIMBURGICUM HEROUM della prima linea e UT, parallelo a quello che è all’inizio della sesta.

Nello stesso testo, poi, si legge:

Se non è una coincidenza, si direbbe che tale pubblicazione fu tenuta presente nella stesura del test dell’epigrafe, dove alla linea 6 si legge: DESTERAM TRIUNPHORUM PALMIS INTESTAM.

 

Inoltre, ancora nel commento, si legge:

A parte quanto emerso dal dettaglio precedente, aggiungo che EXCITA CINERES, è modellato sul  SISTE GRADUM, VIATOR (Ferma il passo, o viandante) e simili, che si legge in innumerevoli epigrafi funerarie romane antiche di persone non titolate o di agiata condizione e che sarà riesumato, come vedremo più avanti, nel primo dei tre anagrammi annunciati nel titolo. E, il viandante (o la Fama, come nel testo precedente?), è quasi una sorta di messaggero intermediario tra il passato che quasi si rianima della prima parte e il presente del quale prende atto nella seconda parte, proprio come nelle epigrafi antiche di cui sopra e delle quali si offre un esempio (RIU-06, 01554a): D(IS) M(ANIBUS) / TU QUI FESTINAS PE/DIBUS CONSISTE VI/ATOR ET LEGE QUAM / [DUR]E SIT [MI]HI VITA / [

(Agli Dei mani Tu, viandante  che vai di fretta, fermati e leggi quanto duramente sia per me la vita …).

 

2) La terzultima linea (QUO VITA FUNCTUS FAMA SEMPER VIVENS CLAUDERETUR nello studio è resa con dove, una volta estinto lui, fosse conservata sempre viva la sua fama, come se QUO (reso con ove) fosse ubi o in quo. Senza una preposizione che lo regga (qui è così) e con un verbo al congiuntivo (qui è così: clauderetur) quo è senza ombra di dubbio un ablativo di causa efficiente e la proposizione che esso introduce  ha valore finale. Esso, inoltre, essendo al singolare (quo, non quibus), si riferisce solo  a conventum, per cui la traduzione corretta è (il convento) dal quale, dopo aver terminato la vita, fosse conservato sempre vivente per la fama. Insomma, almeno per quello che è scritto, Francesco dava più importanza al convento che al tumulo che pure l’ospitava, come se la sfera pubblica del sentimento religioso in generale e la funzione, pur parzialmente pubblica del conventum prevalesse su quella privata e personale del tumulum. La resa dello studio di QUO con nel quale potrebbe indurre a pensare che si sia in presenza di una tomba e non di un cenotafio.

L’inganno, poi, potrebbe essere alimentato da quel CLAUDERETUR, la cui traduzione letterale sarebbe fosse chiuso. Preciso che questo verbo in unione a tumulus ricorre in parecchie epigrafi apposte su cenotafi (esempi in abbondanza tra le circa mille iscrizioni sepolcrali riportate in Placido Puccinelli, Istoria delle eroiche attioni di Ugo il Grande, Malatesta, Milano, 1664), retaggio di un uso frequentissimo nelle epigrafe funerarie romane antiche (tra gli innumerevoli esempi: CIL XI, 00312: Claudutur hoc tumulo …).  

Qui il significato traslato di fosse conservato mantiene un sottile collegamento con quello letterale se si pensa che ad un convento si addice come attributo più chiuso che aperto.

Aggiungo pure  che la traduzione dello studio considera fama (col suo participio congiunto vivens) soggetto di clauderetur, perdendo di vista la contrapposizione col precedente vita functusm, in cui functus è participio congiunto (con valore temporale) di Franciscus e, sempre di quest’ultimo,  vivens è simmetricamente complemento predicativo. E, con fama ablativo e non più soggetto usurpante a Franciscus il ruolo di protagonista, la traduzione è: … dal quale dopo aver portato a termine la vita fosse conservato sempre vivente per fama. Nel dettaglio metto in risalto quanto appena notato.

Oltretutto la traduzione dello studio (con fama soggetto) introduce un anacoluto, strumento espressivo della lingua parlata, che non può trovare certo albergo in un documento straufficiale e solenne come un’eigrafe.

 

3)  In riferimento alla linea 6 nello studio si legge:

In realtà la prima forma, intermedia tra la classica dextera(m) e la volgare destra, già diffusa nei manoscritti, si era estesa all’inizio del XVI secolo anche ai libri a stampa e da questi all’uso epigrafico.

Caones Concilii Provoncialis Coloniensis anno celebrati 1536, Giolito, Venezia, 1544, p. 11

 

        

Lo stesso vale per TRIUNPHORU(M)/TRIUMPHORU(M), mentre appare strano che non ci si sia accorti del vicinissimo INTESTA(M) per INTEXTA(M).

 

4) In riferimento alla linea 12 nello studio:

A differenza dei precedenti DESTERA(M) e INTESTA(M), qui siamo in presenza del secondo errore dello scalpellino (più che errore dimenticanza), meno grave del visto OB, perché manca solo la tilde sulla prima O.

A conclusione di questa disamina riporto la traduzione dello studio e la mia.

 

A Dio Ottimo Massimo. Desta le ceneri di Chiliano che dai liberi domini degli eroi di Limburg accorreva in aiuto del normanno Guglielmo re delle Due Sicilie, nell’anno 1156 e che, in virtù di Castromezzano, Pietra Petrosa e Castrobellotto, otteneva il cognome di Castromediano. Affinché Don Francesco Castromediano, marchese di Cavallino, duca di Morciano, 16° barone di Cerceto e Ussano, cavaliere dell’Ordine di Calatrava, congiungesse la destra adorna delle palme dei trionfi al soavissimo cuore di Beatrice di Aragona con eterne nozze, mentre era in vita nell’anno 1663 eresse dalle fondamenta e dotò questo sepolcro e nello stesso tempo il convento, dal quale, dopo aver portato a termine la vita, fosse custodito sempre vivente per fama. Don Domenico Ascanio, figlio inconsolabile, piamente piangendo pose nell’anno 1663.

 

PER LA SECONDA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2025/02/10/cavallino-un-cenotafio-unepigrafe-e-tre-anagrammi-funebri-2-2/

 

 

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