di Giuseppe Corvaglia
Ci sono dei luoghi che esprimono, anche nella loro essenzialità, un’importanza che non ti sai spiegare, che percepisci solamente, e pensi che potrebbero completarsi con un elemento come: una maiolica, un bassorilievo, una pittura o una scultura.
Talvolta puoi arrivare a pensare, in cuor tuo, che ci sia un predestinato che compirà l’opera; poi ti rendi conto che sono pensieri irrazionali. Eppure, a volte accade qualcosa di simile.
Per gli archi muti nello spazio della fiera era evidente, o quantomeno auspicabile, che dovessero abbandonare quel mutismo per parlare, e cosa dovevano raccontare se non lo spirito di quella fiera che a fine ottobre, da secoli, anima questi luoghi diventando devozione, sapori, occasioni, affari, desideri… Insomma, festa. Una festa che raccoglie migliaia di persone che quella festa aspettano, vivono, godono.
Quando pensi alla fiera ti vengono in mente l’odore della carne arrostita, il gusto di quella “dilissata”, il profumo delle caldarroste e della cupeta, quello dei mustacciuoli, delle noccioline tostate e poi la confusione che eccita, ma un poco spaventa, che avvolge e ti fa sentire come un flusso umano che vive quel momento consueto, ma unico.
Dall’anno passato gli archi muti parlano di tutto questo: di storia, di usanze, di sensazioni, di devozione, di ricordi e sentimenti, tutti legati alla fiera di San Vito, e non ce ne parlano con parole, ma con immagini semplici e allo stesso tempo pregne di vita e di ricordi. Chi poteva fare questo miracolo narrativo se non Antonio Chiarello?
Così è stato, grazie all’interessamento dell’Amministrazione Comunale e all’amore spassionato che Antonio ha per queste Terre.
Lo incontriamo e chiediamo di parlare dell’ultima sua opera.
Quest’opera sono i murales della fiera. Colpisce di questi la capacità di evocare ricordi sensazioni sentimenti… Che cosa ha significato per te questo dipinto del cuore?
L’opera è nata dopo una riflessione molto ponderata sull’evento “fiera” nella sua totalità. Inoltre, io sono nato proprio qua nell’area della fiera e di questa ho una memoria, praticamente da sempre. Naturalmente tutti i ricordi, i documenti e le testimonianze, andavano raccolti, inquadrati e sedimentati. L’evento andava storicizzato. Quindi raccogliendo immagini, ricordi, testimonianze e vivendola per tanti anni, vedendo io stesso le trasformazioni che la fiera ha avuto con il passare del tempo, sono andato a ritroso nel tempo coi ricordi e ho recuperato la documentazione iconografica più significativa per fare questa operazione “murales”.
L’occasione ce la davano quei tre archi sul lato est del nuovo edificio degli stand fieristici con quell’elemento che riprende gli archi della Cappella. L’elemento architettonico si prestava benissimo ad accogliere un’opera dedicata alla fiera perché, a mio avviso, altri tipi di interventi decorativi potevano risultare fuori luogo. Questa diventava un’occasione per storicizzare l’evento e dare a questo una valenza a livello grafico. Così ho “saccheggiato” il mio archivio fotografico e quello di altre persone, che mi avevano affidato le foto più antiche, e ho sintetizzato tutto in questi tre lavori. La cosa più importante, che io volevo fare all’inizio, era quella di inquadrare storicamente e dare rilevanza soprattutto alla data in cui questa fiera ha avuto inizio, andando alla ricerca dei documenti e quindi facendo riferimento, soprattutto, al convegno organizzato da Filippo Giacomo Cerfeda, “Vitus colitur coliturque Marina”, e al suo preziosissimo contributo, da cui si evinceva che la fiera si svolgeva già dal 1500.
Quindi non mi interessava tanto proporre immagini fotografiche realistiche, quanto dare un’idea grafica che storicizzasse l’evento in maniera sintetica.
Sono partito solo con due elementi, tratti dal mosaico di Otranto e da incisioni antiche che mostravano la conduzione del maiale al macello e la cottura della carne. Quindi scrivere soltanto che San Vito si tiene la quarta domenica di ottobre. Questa era l’idea iniziale. Come si può comprendere qualcosa di veramente sintetico.
Poi ho pensato a immagini più esplicative della fiera che però fossero rese, come dicevo, con una modalità grafica, sintetica e non per forza di tipo naturalistico/fotografico: così è nato il progetto e così ho proceduto.
Naturalmente occorreva studiare non solo il modo di rendere le immagini, ma anche il contesto dove proporle, perché in quell’ambito non si poteva invadere lo spazio con figure incongrue o con colori non consoni. Così abbiamo studiato anche a livello cromatico il progetto e abbiamo pensato a tonalità come grigio pietra e seppia che di per sé evocano il mondo dei ricordi e del passato.
Infatti, io prima parlavo di dipinto nel cuore, perché come giustamente hai citato prima, l’inquadramento storico è stato dato dal libro meraviglioso “Vitus colitur coliturque Marina” curato da Filippo G. Cerfeda che organizzò quel convegno interessante, partecipato e molto bello, che è un caposaldo di storia locale e riporta documenti che fanno originare la fiera al 1500.
Hai parlato di foto. Le foto mostrano una realtà, ma per utilizzarle per un lavoro come questo anche queste vanno interpretate alla luce dei dati storici e con rigore intellettuale, ma anche con quell’empatia che suscita emozioni. Ci illustri i soggetti dei tre archi?
Nei tre archi sono rappresentati i tre aspetti pregnanti della fiera: nell’arcata centrale si fa riferimento alla foto più antica del 1939 che sintetizza l’identità contadina della fiera, sottolineata anche con una citazione di Antonio L. Verri: “Quel che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo…”. Quel rapporto con la natura che noi con le tecnologie a volte riteniamo superfluo e superato, ma che invece e parte essenziale della nostra vita.
Qui, si vedono alcune donne che cuociono sul fuoco e sul treppiedi la carne di maiale in una “farsura” e la folla varia che viene a comprare qualcosa con i mezzi dell’epoca.
Un’altra immagine racconta della devozione a San Vito, santo molto invocato nel mondo contadino, e aspetti della festa come il consumare sul posto, “sui cuti” o sull’erba, gustosi cibi tipici della festa o uno spuntino portato da casa. A sinistra si rappresenta il mercato del bestiame e degli attrezzi da lavoro, da sempre appuntamento rilevante per i contadini.
Ho cercato di dare alle immagini un dinamismo che evocasse la vita e il movimento di quei giorni.
A proposito di dipinti del cuore, la parte in alto, che poi doveva sintetizzare l’opera, cita una delle opere a cui tu sei proprio visceralmente legato: il mosaico della cattedrale di Otranto…
Si ho voluto citare il mosaico e un’antica incisione per mostrare i diversi momenti della preparazione della carne di maiale e riferire che questi momenti gastronomici nostri hanno un’origine antica, nel senso che queste pratiche tradizionali già esistevano nel periodo medievale.
Quindi ritroviamo le fasi della preparazione e la cottura delle carni, ispiratemi dal mosaico di Otranto, e il maiale portato al macello, ispirata da una antica xilografia che ho trasformato in una specie di mosaico per rendere omogeneo il tutto.
Non ti definirei propriamente uno studioso in sé, ma piuttosto un cultore appassionato di storia e cultura di questa terra, dotato di una grande curiosità del mondo: che cos’è per te la fiera e che cosa ha significato per te rappresentarla in quest’opera”
Sono intimamente legato a questo evento sia perché sono nato e vivo da sempre in questo spazio, poi, quando si dice le coincidenze, sono nato proprio il giovedì di San Vito, quindi, era quasi naturale che mi interessassi di fiera.
Ogni anno da più di 60 anni ne sono coinvolto, avrò saltato soltanto l’anno dell’emigrazione: ne ho visto lo svolgimento, l’evoluzione, gli esperimenti… mi definisco un testimone oculare.
Ce lo hai accennato prima, però volevo specificarlo meglio: da cosa traggono origine e perché sono stati pensati questi archi?
Questi archi in origine sono stati pensati come abbellimento di una struttura che si doveva realizzare per sostituire le casette fatte per la fiera negli anni ‘50, non più adatte, ed erano stati pensati come elemento di abbellimento e come ornamento, perché ogni edificio pubblico, per legge, dovrebbe avere elementi qualificanti di tipo estetico, oltre agli aspetti statici e funzionali.
I progettisti hanno pensato a questo anche come citazione dei tre archi della Cappella che potevano essere usati come ricovero dai pellegrini.
D’altra parte, le casette erano inadatte (c’erano solo un lavandino e due ferri a uncino per appendere le parti degli animali macellate) e le norme igienico-sanitarie richiedevano spazi adeguati, sanificazione, celle frigorifere per una gestione sana e sicura del cibo.
I finanziamenti erano stati stanziati e quindi si è proceduto a fare una struttura su cui si potrebbe anche discutere, ma che è più adatta alla dimensione della fiera di oggi, che vede accorrere tante persone e si articola su più giorni. Prima la fiera si faceva il sabato e la domenica, la gente arrivava, prendeva la carne e poi se la portava a casa a godersela con la famiglia; la fiera era più genuina, più autentica, certo, ma oggi le esigenze sono cambiate, il pubblico arriva numeroso e ha esigenze culinarie e ludiche più complesse.
Le strutture vecchie potevano andare bene per la Fiera di una volta, con un pubblico contenuto, diciamo una cosa più alla buona, ma con i visitatori che in questi anni abbiamo visto occorrevano strutture adeguate a una ricettività più alta.
Quest’opera mi richiama un’altra tua pittura murale abbastanza recente che raffigura i Santi Martiri di Vaste. Anche lì il muro di una casa è diventato una grande nicchia. Come nasce quest’altra tua opera?
In quel caso c’è stata una richiesta specifica del Comune di Poggiardo. C’era un progetto che si chiamava “Santi Numi”, dedicato, appunto, ai Santi di Poggiardo e Vaste: i Santi Martiri vastesi e San Giuseppe da Copertino, che a Poggiardo era stato ordinato sacerdote o, come si dice popolarmente, aveva “preso messa”.
A me fu affidato un dipinto sui Santi Martiri Alfio, Filadelfio e Cirino. Quando ho visto il sito con quel muro ampio su quell’incrocio di strade non ho avuto dubbi.
Fra parentesi è in una posizione di straordinaria visibilità, perché tutti i turisti, che tornano da Santa Cesarea per andare a Lecce, passano da lì e lo possono ammirare.
Sì, non solo. A parte questa posizione felice, nel muro c’erano pure due residui di volta, quelle che chiamiamo “mpise”, che davano al sito una dimensione particolare e quindi ho immaginato subito come poteva materializzarsi l’opera.
I Santi Martiri di Vaste sono un elemento fortemente identitario per il territorio, essendo nati a Vaste, per poi trovare il martirio in Sicilia. Questo comporta un forte e sentito legame con la comunità, così come per Poggiardo il legame con San Giuseppe da Copertino che era di Copertino e quindi anch’esso salentino doc, ma che pure in questa cittadina raggiunse un traguardo mirabile e importantissimo per lui: l’ordinazione sacerdotale. Santi che più salentini di così non potevano essere. Una volta deciso e deliberato abbiamo proceduto.
L’idea iniziale era quella di rappresentare i santi nella loro iconografia classica, con gli strumenti del martirio e porli nel contesto migliore. Poi ai santi in posizione preminente abbiamo affiancato due piccole icone con l’effige dei loro genitori, Benedetta e Vitalio, e abbiamo unito idealmente Vaste, dove nacquero, Lentini, dove morirono, e tutti quei luoghi accomunati dalla devozione per i Santi.
A completamento ci voleva un segno della festa: la luminaria. Inizialmente si pensava di sormontare la figura con una luminaria dipinta, poi, strada facendo, insieme con il sindaco abbiamo pensato di mettere proprio delle vere luminarie e così abbiamo completato felicemente il tutto ed è venuta fuori quella che altro non è che una grande edicola votiva.
Questa tua esperienza con i murales è per me significativa e si è giovata di luoghi particolari che li valorizzano. Però consideriamo che il murales oggi acquisisce un’importanza rilevante pensiamo a murales come quelli per Maradona, per Pino Daniele o San Gennaro a Napoli, ma tanti altri murales, compresi quelli realizzati a Brindisi nel quartiere Paradiso da Paradiso Urban Art (Paradiso Urban Art – Brundarte) e, non ultimo, quello dedicato a Raffaella Carrà in via Teulada a Roma… Voglio dire che il murales è diventato un modo per esprimersi in libertà e allo stesso tempo un modo per dare dignità ad alcuni luoghi e rigenerarli …
Certo, è vero l’arte abbellisce e dà dignità ai luoghi, ma ci vuole misura, perché si rischia di eccedere. Intanto occorre studiare per bene il sito e progettare un dipinto che si adatti bene a quel posto.
A questo punto mi viene anche da citare l’altra novità che completa un’opera di cui abbiamo parlato nella nostra intervista precedente: il murales della legalità con Falcone e Borsellino, che hai ulteriormente completato inserendo due figure importantissime per la nostra storia, anche loro, come Falcone e Borsellino, uccisi da criminali per le loro idee per le loro opere. Perché hai pensato a loro?
Rimaneva un altro pezzo di muro e qualcuno insisteva per completare quel murales. Pensandoci, sempre d’accordo con il proprietario, abbiamo inteso che si poteva progettare qualcosa. Io avevo già pensato a Renata Fonte, figura di civismo trasparente, però andava accostata almeno un’altra personalità e abbiamo pensato ad Aldo Moro che sintetizzava un po’ il fatto che fosse Salentino e fosse anche lui una figura rilevante, una figura importante per la nostra Repubblica e la nostra democrazia.
Per entrambe c’era un richiamo al senso del dovere dovuto alle istituzioni e ai cittadini che, come dice Aldo Moro, spesso manca un po’ a tutti, ma che non è mancato né a lui né alla stessa Renata Fonte che per questo e per salvare il suo territorio dalle mani della mafia e del malaffare è stata sacrificata.
La citazione di Aldo Moro: “La stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere” è davvero eloquente e pregna di significato, specie di questi tempi dove l’elettorato non sembra avere una visione del bene comune, ma insegue chi promette, spesso sapendo di non poter mantenere, piccoli privilegi che soddisfano la propria condizione, ma non il bene di tutti. Un elettorato che pensa molto ai propri diritti e poco ai propri doveri.
A noi sono sembrate entrambe figure degne di essere ricordate e fondamentali per il nostro territorio e abbiamo pensato di affiancarli ai due giudici antimafia, celebrandoli poi con corona di alloro.
Grazie per questi regali, perché queste opere sono doni che tu fai alla tua comunità.
Ora posso dire di aver completato tutta l’area della fiera perché, oltre a questi citati, ce n’è un altro dedicato allo sport, un murales che sta nel campo sportivo, sulle gradinate che ora fanno parte del campo di calcetto, che riporta personaggi significativi per lo sport, campioni che ci hanno entusiasmato ed esempi per i giovani.
L’hai fatto tutto tu da solo o ti sei fatto aiutare dai ragazzi?
Ho pensato a un lavoro estivo e ho voluto coinvolgere i ragazzi. Non c’è stata una grandissima partecipazione, ma per chi ha partecipato è stata un’esperienza coinvolgente. In quei giorni d’estate abbiamo collaborato pensando al messaggio della canzone di De Gregori che guarda allo sport come metafora della vita e che vede lo stesso non solo come gesto atletico, ma come coraggio, altruismo e fantasia, cose che servono a vivere bene non solo a giocare bene.