Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (II parte)

di Nazareno Valente

C’è tuttavia un disastro ambientale ben più consistente d’una semplice secca che viene addossato a Pigonati e riguarda addirittura la stessa ostruzione della foce del bacino d’accesso al porto interno. Infatti, a detta dello storico locale Giacomo Carito, «fino a prima dei lavori di Pigonati, le navi entravano sicuramente nel porto interno»29 e che, solo successivamente, questa possibilità fu loro negata. Come dire in altre parole che l’interrimento non esisteva neppure, o non aveva consistenza tale da impedire la navigazione, quando l’ingegnere siracusano tracciò il tanto discusso canale, e fu pertanto lui a generarlo sbagliando l’esecuzione dei lavori. Posta così la questione, si ha il sospetto che Carito rimanga in un qualche modo legato alla ormai datata visione di Ferrando Ascoli, convinto che i problemi del bacino brindisino fossero dovuti ad un errore tecnico compiuto da Pigonati. Mentre nella realtà è ormai assodato da un secolo e mezzo e più che l’insabbiamento era dovuto a fenomeni naturali, che i tecnici del tempo non seppero certo gestire ma che, in ogni caso, prescindevano da come il canale potesse essere scavato od orientato. In particolare, l’insabbiamento era conseguente allo stato delle coste e delle correnti, come Tommaso Mati riferì nel suo progetto presentato nel lontano 25 novembre 186130. L’ingegnere aretino, «dopo accurate visite lungo le coste esterne ed interne del golfo» appurò, che nella costa Guacina e, soprattutto, nella costa Morena — collocate rispettivamente a ponente ed a levante dell’allora porto esterno — «scorgevansi indizi di grandi corrosioni antiche e recenti» e si convinse che gli interrimenti erano dovuti «quasi esclusivamente dalle avvertite corrosioni e che bastava impedire queste per render possibile la conservazione dei fondali»31. Mati in definitiva provò coi fatti che l’insabbiamento era in maniera preponderante dovuto a fenomeni di erosioni cui erano soggette le coste, del tutto indipendenti da eventuali lavori realizzati nella zona. La foce, quindi, si ostruiva per un evento naturale di corrosione, probabilmente intensificatosi sempre più con il trascorrere degli anni, che l’ingegneria romana  era stata forse in grado di gestire con protezioni, poi rese inservibili dal tempo, oppure con normali interventi di manutenzione. In definitiva, salvo che Pigonati non avesse avuto anche poteri taumaturgici, tali da rendere friabili le coste al suo solo apparire, non poteva indurre un simile fenomeno, a prescindere dai possibili errori compiuti.

In poche parole, l’ipotesi dello storico brindisini appare basata già di per sé su premesse errate e presuppone in aggiunta che le proteste dei brindisini sullo stato del porto non avessero granché motivo d’essere se, come lui afferma, «le navi entravano sicuramente nel porto interno». Per cui non si capirebbe su cosa i nostri concittadini recriminavano, se la foce non era in effetti ostruita a tal punto da inibire le principali attività che si svolgono normalmente in un porto. Ebbene, per Carito, si trattava di semplice strategia del lamento: «come spesso si fa» in queste circostanze per ottenere qualcosa, si «descrive una situazione molto peggiore di quella che è in realtà»32. Peccato che lo storico non chiarisca quale fosse questa «realtà» e dove fosse il problema, se l’insabbiamento di cui ci si lamentava tanto era per lo più solo un pretesto, un modo per ingigantire il disagio e convincere le autorità ad intervenire in fretta. Verrebbe quasi da considerare che, se le cose stavano davvero così, i nostri amati concittadini se l’erano un po’ voluta, se poi l’interrimento era effettivamente arrivato, come il lupo della storiella, dopo le tante volte che lo si era evocato a sproposito.

Ma, a parte questo, sul versante lamentele andrebbe forse ricordato che le suppliche da rivolgere al sovrano non potevano certo essere fatte dal primo venuto, ma dovevano essere avanzate da persone autorevoli, di riconosciuto prestigio, oltre che titolate a rappresentare la città. Tutta gente che non avrebbe naturalmente messo in gioco la propria reputazione per questioni di poco conto o per recriminazioni in buona parte inventate. Senza poi contare che tali suppliche, prima di arrivare al sovrano,  passavano al vaglio di chissà quanti funzionari regi che verificavano se l’istanza era supportata dai fatti. Pertanto è già di per sé troppo semplicistico lo stare a credere che fosse sufficiente piangere di più, o con più calde lacrime, per ottenere qualcosa.

Ma a prescindere da tutte queste argomentazioni, che fanno già comprendere come l’ipotesi sia difficile da sostenere, vi sono testimonianze e documenti che permettono di affermare senza ombra di dubbio che il porto interno brindisino aveva grossi problemi ben prima che Pigonati comparisse all’orizzonte e che i Brindisini avevano valide ragioni per richiedere che s’intervenisse a mettere a posto le cose. In pratica si verificherà, anche per questa via, che l’ingegnere siracusano non creò di certo lui l’interrimento. Ribadito che, anche volendolo, non l’avrebbe potuto fare, se, come più volte ripetuto, era un evento del tutto naturale.

Per avere un’idea di qual era la situazione prima di Pigonati, sarà sufficiente prendere in considerazione la documentazione e le fonti più significative che danno informazioni sulle condizioni del porto brindisino dal Cinquecento in poi.

Partiamo così dalla testimonianza del Galateo, autore di grande affidabilità, che all’inizio del Cinquecento raccontava nel “De situ Iapygiae” che, ai suoi tempi, il canale del porto interno era attraversato dalle sole imbarcazioni di piccole dimensioni, a due o a tre ordini di remi («nunc non nisi  parvis navibus, et biremibus, et triremibus pateat»33). Quindi già all’inizio del XVI secolo i navigli d’una certa consistenza non potevano accedere nei seni interni del porto brindisino e, di conseguenza, la foce del canale di collegamento era parzialmente insabbiata.

Sebbene meno circostanziata, pure la relazione di Camillo Porzio, inviata nel 1575 al viceré Don Innico Lopez de Mendoza, va nello stesso senso sospettando per altro che l’interrimento fosse creato di proposito dalla gente del posto per impedire ai «Saracinidella comodità» di accedere nel porto interno34. Aspetto questo confermato dal nostro concittadino Giovanni Maria Moricino, il quale rilevava con malizia che la medesima ragione «ha mosso a’ tempi nostri il Re di Spagna a non consentire che s’apra, e si scavi quel tratto di mare che ormai diventa terra. Dovendo al suo Consiglio (dove la cosa più volte è stata proposta) che sia maggior sicurezza de la Città lo starsene così chiusi»35.

L’interrimento pare perdurare pure all’inizio del Seicento. Anzi si aggrava. A confermarlo un documento ufficiale redatto nel 1612 da un funzionario vicereale, probabilmente il visitatore generale delle fortezze, che riferiva sulla condizione dei castelli del regno. Parlando del castello Svevo («El Castillo de’ tierra dela ciudad de Brindez») collocato nel porto interno,  c’è l’esplicita annotazione che la bocca del porto «està ciega de manera que en menguando la mar apenas pueden entrar barquillas» («è cieca, sicché essendo lì il mare basso possono a malapena entrare le piccole barche»36). La quale affermazione già di per sé non dà adito ad altra possibile interpretazione. In più, trattando del castello di Mare, che chiama «castillo de Brindez»  (castello di Brindisi), lo stesso funzionario rileva un aspetto ancor più interessante. Sottolinea infatti che, insieme al forte, il castello presidia la zona del porto situata tra l’isola e la città, il cui altro suo porto tanto famoso ha l’entrata cieca («El fuerte y el Castillo de Brindez… sobrestan á un puerto muy capaz, que de su naturalezza se haze dentro la ysla, y la Ciudad, cuyo puerto tan famoso está ciego enla entrada»37). Lasciando così chiaramente intendere che il porto, quello «tanto famoso» che abbraccia la città, quindi in definitiva l’interno, è inutilizzato, sicché quello che si trova tra l’isola e la città, vale a dire il bacino portuale esterno, è divenuto il solo porto utilizzabile. Per cui nel 1612, non solo l’interrimento esisteva, causando l’inagibilità del porto interno, ma questa circostanza faceva sì che era la rada ad essere considerata il porto di Brindisi.

Uno dei punti di forza dell’ipotesi che prima di Pigonati i seni interni erano praticabili e che sia stato lui a causare la loro inagibilità, si collega alla guerra quasi personale che Pedro Téllez-Girón de Osuna, viceré di Napoli, aveva ingaggiato tra il 1617 ed il 1618 contro i Veneziani e che ebbe a volte, come teatro delle operazioni, proprio il porto di Brindisi. Carito afferma infatti che nel porto interno c’era normale attività tanto che «addirittura intorno al 1618, si concentrò qui tutta l’armata spagnola»38. A parte che lo storico confonde l’armata spagnola, che non c’entrava nulla con queste operazioni militari, con quella del vicereame napoletano, di gran lunga meno consistente, il fatto che la flotta fosse giunta a Brindisi non vuol necessariamente dire che fosse approdata nel porto interno. E, nella realtà, dove questa armata abbia effettivamente gettato l’ancora, ce lo fa sapere un testimone illustre, don Diego Duca di Estrada, protagonista di rilievo di quegli avvenimenti bellici. Nelle sue memorie racconta infatti che, giunto nel porto di Brindisi nel giugno del 1617 con una flottiglia di cinque galeoni, ormeggiò, insieme ad altri tredici galeoni, trenta galee e quattro brigantini, vicino a «una Fortaleza que está sobre un escollo grande» («vicino un forte che sta su un isolotto»39). Risulta pertanto del tutto evidente che l’armata vicereale non approdava nel porto interno, ma attraccava  vicino a Forte a Mare, se non proprio nella sua darsena. A dissipare ogni eventuale dubbio, don Diego spiega perché la flotta gettasse l’ancora così lontano dalla città, dichiarando che a Brindisi ci sono di fatto due porti: quello interno cieco («ciego»), le cui acque sono quasi morte («las aguas casi muertas»), e l’altro, appunto vicino alla fortezza, che invece ha la capacità di ospitare molte navi («hai capacitad para muchos bajeles»40). A confermare le parole di don Diego, un personaggio ancor più compromesso in quegli avvenimenti, vale a dire Francisco de Quevedo, famoso scrittore politicamente impegnato che, in quel periodo, era addirittura corresponsabile con il viceré di Napoli di quella strana guerra avviata contro i Veneziani, essendone  segretario delle finanze e condividendone l’odio per la Serenissima. Nel suo “Lince de Italia”,  de Quevedo decantava i seni interni del porto di Brindisi ritenendoli una risorsa inestimabile, potenzialmente in grado di far rivaleggiare lo scalo brindisino con quello di Venezia come postazione commerciale strategica con l’Oriente. Peccato però, soggiungeva papale papale che il porto interno di Brindisi «è cieco, come quelli che non vogliono disturbare Vostra Maestà per farlo pulire» («ciego, como los que no importunan a Vuestra Majestad que le limpié»), lasciandolo così in uno stato di totale abbandono41. Quindi testimonia anche lui che la foce del canale di accesso al porto interno era a quei tempi ostruita e che di conseguenza le armate potevano essere ospitate solo nel porto esterno.

C’è da aggiungere un’altra considerazione. Il fatto che si era costretti a svolgere le attività portuali nella zona esterna, limitava di certo il porto brindisino che però restava ugualmente una risorsa preziosa, per il semplice motivo che in quel particolare momento storico tutti i porti del regno erano in condizioni precarie e che c’era quindi penuria di approdi. E questo avveniva soprattutto sulla sponda adriatica, dove il vicereame poteva contare solo su due porti in grado di ospitare un consistente numero di navigli: quello di Manfredonia — pur esso mezzo insabbiato — e, innanzitutto, di Brindisi che, sebbene privato dei seni interni, aveva un bacino esterno molto ampio e protetto in cui le navi da guerra potevano essere proficuamente ospitate. In pratica ci si doveva accontentare di quello che passava il convento, ed il porto esterno brindisino, visto il contesto, svolgeva bene il suo compito soprattutto d’inverno, mentre d’estate la cattiva aria della città poneva, a detta dei cronisti del tempo, più d’un problema.

Era da un punto di vista commerciale che l’inagibilità del porto interno creava, invece, grosse complicazioni. Erano di fatto le operazioni di sbarco ed imbarco ad essere penalizzate, perché si dovevano usare le barchette, in grado di navigare nel canale, a mo’ di moderne navette per trasportare le merci dall’ormeggio delle navi vicino Forte a Mare ai moli interni, e viceversa. E questo comportava un aggravio non banale nei costi e nei tempi di svolgimento delle operazioni.

Che nel Seicento i galeoni, i brigantini e qualsiasi legno appena consistente non potesse ormeggiare nei seni interni è ribadito in aggiunta dai portolani o dalle carte che prevedevano questo specifico tipo di informazione, rappresentando le guide dei viaggiatori dell’epoca.

Significativa in questo senso è la pianta del 1650, firmata dall’ingegnere militare Onofrio Antonio Gisolfo (figura n. 8), dove nella legenda è esplicitato che nel porto di Brindisi si ormeggia solo nel porto esterno. In corrispondenza ad esso, è  infatti specificato: «mare grande dove danno fondo li vascelli et distante due miglia dalla città è il loco dove sta’ il forte et è tutto porto». Mentre nessun ancoraggio è previsto per il porto interno.

 

Ancor più chiara, quantomeno da un punto di vista visivo, l’indicazione contenuta nel portolano del cartografo olandese Johannes van Keulen, pubblicato nell’ultimo ventennio del Seicento nei volumi dell’atlante “De Nieuwe Groote Lichtende Zee-Fakkel” (figura n. 9): tutti i simboli delle ancore sono disegnati nel porto esterno, mentre quello interno ne risulta privo. Altro aspetto interessante i seni interni non fanno neppure più parte del porto brindisino, identificato in questo portolano dalla sola rada.

 

C’è quindi documentazione più che sufficiente per ritenere che il porto interno di Brindisi era nel Seicento negato ai bastimenti. Ed ancor più agevole dimostrare che questa situazione persisteva pure nel Settecento. Aiuta in questo senso una vivace disputa accademica, accesasi  agli inizi del Settecento, a cui partecipano tre intellettuali del tempo.

Il tutto ha inizio quando Nicolas Lenglet Du Fresnoy, un erudito pieno d’interessi e senza peli sulla lingua, tanto da incappare più volte nella censura ai tempi di Luigi XV ed in svariati periodi di prigionia anche alla Bastiglia, compone nel 1718 “Méthode pour étudier la geographie” in cui parla del regno di Napoli. Uno storico napoletano, Matteo Egizio, trova lo scritto del Lenglet lacunoso, così gli indirizza una lunghissima lettera polemica in cui gli contesta tutta una serie di errori, uno dei quali riguarda proprio il porto di Brindisi che l’abate francese aveva citato come uno dei più rinomati tra quelli esistenti. «Sarebbe uno dei più belli del Mediterraneo — lo riprende lo storico — se non fosse chiuso»42. Lenglet, che non si dà pensiero neppure del giudizio del re, figuriamoci se bada a quello d’un comune mortale, per cui non replica neppure. Interviene invece in sua difesa un geografo campano, Giuseppe Antonini, il quale fa presente ad Egizio che è vero, come lui afferma, che il porto di Brindisi «è guasto, o chiuso, o (come volgarmente diciamo) ciccato», però, «bisogna distinguere, e sapere, che i porti di Brindisi son due: l’interiore, ed il più vicino alla città, anzi che quasi tutta intorno la cinge, è quello, che capace d’un numero grandissimo di navi, ed a cui per istrettissima bocca si entra, è chiuso; l’esteriore, ed a l’uscir di questo primo, è formato, e coverto da un’isola, su di cui sta fabbricato un Forte con buon presidio. Questo porto è bello, grandissimo, ed intero, poiché per qualunque arte, e spesa non si può mai chiudere»43. In pratica è vero che il porto interno è chiuso, ma è aperto, e pienamente operativo, quello esterno. Per cui — per Antonini — è evidente che Lenglet si riferisca, pur non avendolo specificato, al porto esterno, visto che è risaputo che quello interno è “ciccato”.

In risposta Agezio ammette d’essere in torto, riconoscendo che, non essendoci stata precisazione, avrebbe dovuto capire che il Lenglet alludeva al porto «esteriore». In ogni caso, precisa: «So che Brindisi abbia due porti come Tolone, l’uno interiore, l’altro esteriore, e che l’interiore, che sarebbe più sicuro per una grande armata, sia chiuso per i vascelli grandi, e che perciò, l’area sia resa mal sana… Ne fui informato circa 30 anni addietro da D. Antonio di Felice, che ivi era stato giudice e governatore»44.

Così come era consuetudine negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo di dare per scontato che, quando si parlava del porto, s’intendeva senza dubbio alcuno di quello interno, perché in quelli medio ed esterno non si svolgeva praticamente nessuna attività portuale, l’opposto avveniva nel Seicento e nel Settecento. Allora si dava per certo che, quando s’indicava il porto di Brindisi senza nessun’altra specificazione, ci si riferiva implicitamente al porto esterno. Pertanto è del tutto usuale trovare in scritti di quell’epoca la citazione generica del porto di Brindisi, ma questo non significa che si stia parlando del porto interno. Anzi sarebbe esattamente vero il contrario. Basterebbe, ad esempio, consultare la raccolta della “Colección de documentos inéditos para la historia de España”, contenenti i documenti sugli episodi bellici che coinvolsero negli anni 1617 e 1618  i Veneziani ed il viceré de Osuna. Come sappiamo dai racconti dei protagonisti Diego Duque de Estrada e Francisco de Quevedo in quegli anni il porto interno di Brindisi era inagibile e pertanto qualsiasi naviglio spagnolo ormeggiava nei pressi della «Fortaleza» (Forte a Mare). Ebbene nei documenti questa specificazione non viene molto spesso fatta, pur tuttavia, quando si tratta d’ormeggi, magari tra le righe, grazie a  qualche piccolo indizio, si desume che si tratta in ogni caso del porto esterno.

Ciò non toglie che vi possano essere stati dei periodi il cui la foce di collegamento venisse pulita rendendola per brevissimi intervalli di tempo navigabile per i navigli di limitata consistenza, che quindi potevano entrare nel porto interno. Di questi particolari periodi se ne conoscono sia dopo, sia prima l’intervento di Pigonati. Ad esempio, a seguito dell’operazione di spurgo del bacino progettato nel 1828 dall’ingegnere Lorenzo Turco, il canale scavato da Pigonati fu portato ad una profondità di 10-12 palmi (tra 2,63 e 3,15 metri circa) «onde vi passano i legni di 100 a 120 tonnellate; e prima non dava passaggio che a piccole barche»45, come ebbe a dichiarare Francesco Antonio Monticelli, nella terza memoria in difesa della città e del porto.  Allo stesso modo, quando verso la fine del periodo di dominazione austriaca, il viceré Giulio Borromeo Visconti tra il 1733 ed il 1734 tentò in ogni modo di non cedere il regno alla dinastia spagnola dei Borbone, vi furono analoghi lavori di pulitura della foce che portarono, quasi in una parata, a vedere navigare cinque feluche tra il molo di Porta Reale e Forte a Mare46. Situazione talmente particolare da essere ricordata nella “Cronaca dei Sindaci” la quale in genere parla anch’essa, nei fatti narrati per il Settecento, genericamente di porto di Brindisi, lasciando però facilmente intuire che si riferisce al porto esterno, in quanto se scende nei dettagli fornisce località che si trovano nell’attuale porto medio o nelle immediate vicinanze. In tal senso si ha più di un esempio. Il notaio Perrino, raccogliendo l’attestazione di un capitano di ventura nel 1703,  aggiunge, dopo aver parlato del porto di Brindisi, in località «le Calcinari»47, cioè un posto che si trovava dalle parti di Forte a Mare nel porto esterno. Un’altra volta, il 30 giugno 1734, per timore che «li Tedeschi non facessero qualche disbarco» nel porto, si presidiano le zone della «massaria di Pascale Blasi e tutta la marina di S. Leonardo»48, vale a dire zone vicine alla Cala della Navi che si trovava nel porto esterno. Oppure quando il 22 maggio 1741 arrivano nel porto delle tartane sbarcando attrezzi militari vicino alla masseria di Pascale Blasi49; o la volta in cui il 7 settembre 1742 tal Felice Chisiena approda con una tartana nel porto, scaricando un elefante a San Leonardo50. E, come già riportato, sia la masseria di Pascale Blasi, sia la marina di San Leonardo erano vicine alla Cala delle Navi che era l’approdo ufficiale. In definitiva si desume che, quando la “Cronaca” parla di sbarchi nel «porto di Brindisi», implicitamente dà per scontato che si tratti di ormeggi nella Cala delle Navi, in caso contrario indica in maniera esplicita la zona dove l’ancoraggio avviene. Infine qualora l’approdo non avviene nel porto esterno, tale circostanza viene evidenziata affermando che il porto di cui si parla è quello «interiore» oppure indicando l’ormeggio di Porta Reale.

Anche i portolani conosciuti del Settecento attestano, al pari di quelli del Seicento, che nel porto di Brindisi i bastimenti ed i velieri possono ormeggiare solo nella rada. Ne è un tipico esempio il portolano firmato da Roux nel 1764 (figura n, 10), dove le ancore, a simboleggiare gli approdi, sono disegnate tutte nel porto esterno, mentre quello interno ne è del tutto privo. Anche in questo portolano, lo scalo brindisino è limitato al solo porto esterno; quello interno, non avendo approdi, non è infatti più ritenuto un porto.

 

Già così ce ne sarebbe davanzo per non avere dubbi che, anche prima dei lavori di Pigonati, le navi non entravano nel porto interno e che, quindi, non fu lui ad ostruire la foce. Tuttavia c’è disponibilità di altra documentazione che discolpa Pigonati e, tanto per convincere anche i più indecisi, ci sono due preziosi documenti del 1762 e del 1763, collegati con l’intervento di Pigonati, che sgombrano il campo da ogni possibile equivoco.

Il primo l’abbiamo già in parte descritto in quanto riguarda le lamentele sulle condizioni critiche del porto interno brindisino esposte nel 1762 al sovrano dall’arcivescovo di Brindisi. Il secondo è la relazione del 1763 d’un funzionario governativo — redatta proprio a seguito della predetta supplica —  contenente le proposte di Giovanni Bompiede, ingegnere idraulico delegato a verificare lo stato dello scalo brindisino; l’elenco fatto dall’arcivescovo stesso dei fondi con cui il comune di Brindisi avrebbe potuto partecipare all’eventuale spesa ed il parere del capitano generale di marina sulle proposte avanzate da Bompiede.

Intanto, diversamente da quanto raccontato da Carito che anche in questo caso equivoca, l’arcivescovo che avanzò la supplica non fu Annibale de Leo51, allora ancora giovane canonico di belle speranze impegnato negli studi di diritto ecclesiastico a Roma e che, solo un trentennio e passa dopo (1798), avrebbe ricoperto quell’incarico. L’arcivescovo che si rivolse al sovrano è, come già riportato, Domenico Rovegno il quale scrisse a re Ferdinando IV quando ormai era consapevole di essere all’epilogo della sua esistenza — quindi in un momento in cui si fa ammenda delle bugie dette, e si cerca di non aggiungerne delle altre — per una malattia dovuta proprio a l’aria insalubre di Brindisi su cui l’arcivescovo si soffermò abbastanza per convincere Ferdinando IV ad intervenire. Allo stesso modo Rovegno si soffermò sull’altro aspetto critico che penalizzava la città, vale a dire la situazione precaria vissuta dal porto. «La negoziazione del mare poi è oltremodo difficile — segnalò con decisione — poiché alla bocca del porto interiore non possono accostare i legni grossi da carico, e l’imbarco dell’oglio, e d’altre derrate non può farsi che in due miglia di distanza dalla città, caricandosi prima su piccole barchette, che incagliando talora nello stretto, bisogna con grande stento tirar fuori con le funi, e per tal motivo un porto tanto rinomato si vede oggi abbandonato da tutti»52. L’arcivescovo faceva poi presente che questa condizione difficile avrebbe sollecitato le attenzioni de «l’Augusto Genitore Vostro», che sicuramente sarebbe intervenuto per aggiustare le cose, come fatto per i porti di Taranto e Cotrone53, «se ei non fosse andato a dimostrare la sua paterna Pietà a’ regni più ampî»54, in quanto aveva rinunciato al regno di Napoli, abdicando a favore del figlio Ferdinando, per succedere sul trono di Spagna. Per questo si rivolgeva a lui: «animato dalla clemenza della M.V. in nome del mio povero gregge umilmente la supplico ordinare gli espedienti più propri per l’apertura del porto predetto»55.

A sentire l’arcivescovo Rovegno, anche le barchette stentavano a passare il canale e dovevano essere trainate con le funi; i vascelli ormeggiavano così due miglia lontani dalla città e dovevano essere caricati e scaricati dalle merci al largo, proprio grazie al via vai delle barchette. Il che è in linea con quanto riscontrabile negli altri documenti dell’epoca, nei portolani ed anche nel più volte citato dipinto di Filippo Hackert.

La barchetta usata prevalentemente come navetta è infatti disegnata dal pittore nel momento in cui è impegnata in operazioni di scarico (n. 6 del dipinto). Si tratta di una chiatta che i brindisini chiamavano lontro, dal basso pescaggio e dalla forma piatta (in questo caso allargata) che ricorda le famose caudicarie impiegate dai romani per il trasporto fluviale mediante un sistema di alaggio. Lo si nota pure dagli scalmi presenti a poppa e a prua, ed invece assenti ai lati dove comunemente trovano posto i remi, la qual cosa chiarisce che l’imbarcazione era trainata a braccia con l’aiuto di una fune. D’altra parte era del tutto usuale, nei porti pugliesi con i fondali bassi o interriti, che le navi restassero ancorate al largo e che le operazioni di carico fossero svolte con barchette dallo scarso pescaggio, molto simili a quelle ancora in uso sui fiumi. C’è però da precisare che i lontri più comunemente usati dai brindisini erano molto simili alle canoe e, quindi, con una struttura ben più limitata di quella raffigurata da Hackert. In quei periodi di inagibilità, i navigli approdavano così esclusivamente nelle anse del porto esterno e l’ormeggio più favorevole si trovava sulla costa Guacina, nelle insenatura situate nei pressi delle Fontanelle, ed era di uso talmente comune che il suo toponimo, Cala delle Navi, veniva riportato nelle mappe e nei testi di navigazione.

Come però detto, Carito è convinto che l’arcivescovo esagerasse e che invece anche i grossi vascelli entravano nel porto interno. Ribadito che, non si comprenderebbe di cosa l’arcivescovo si doleva, se in realtà le attività portuali si potevano davvero svolgere nel porto interno, occorre aggiungere che la supplica era fatta con tono pacato e triste, più che a fosche tinte. Forse, a cercare il pelo nell’uovo, calcava un po’ la mano sulle questioni finanziarie in quanto a simili aspetti i burocrati incaricati dell’esame preliminare delle suppliche erano particolarmente sensibili, mettendo in rilievo che le molte difficoltà avrebbero potuto portare  il porto brindisino ad essere «abbandonato da tutti», con un costo economico non banale per la corona. Ma, a parte questa timida sottolinetura, non c’era nessuna esagerazione riguardo all’interrimento e l’arcivescovo brindisino riportava le cose come per davvero stavano: quando c’era bassa marea neanche le barchette riuscivano ad attraversare la foce. Figuriamoci se erano in grado di farlo i navigli.

E non era il solo a dichiararlo.

Lo affermava a chiare lettere pure Bompiede, l’ingegnere idraulico incaricato dal sovrano di verificare quali erano le condizioni reali del porto brindisino. E lo confermava il capitano generale di marina che era perfettamente a conoscenza della situazione critica in cui versava la struttura portuale.

Queste opinioni sono contenute nel secondo documento, sottoposto all’attenzione del sovrano da un funzionario deputato a raccogliere ed a riassumere i progetti e i pareri su un possibile intervento sullo scalo brindisino. Re Ferdinando IV, ricevuta la lamentela di Rovegno, aveva infatti ordinato un accertamento di cui era stato incaricato Giovanni Bompiede, un ingegnere di marina molto stimato, mentre, allo stesso tempo, era stato richiesto all’arcivescovo brindisino di quali possibili fondi disponeva il comune per un eventuale concorso alla spesa.

Nel dicembre del 1763, quando Rovegno era nel frattempo morto, il funzionario governativo stende appunto la sua relazione in maniera asettica  raccogliendo le opinioni di un tecnico, che non aveva nessun interesse a ingigantire le cose, e quelle di un politico, il capitano generale di marina, portato semmai a sminuirle per non essere accusato d’essere stato negligente. Ebbene il quadro che ne emerge non è per nulla meno fosco di quello tratteggiato dall’arcivescovo brindisino, tanto è vero che l’ingegnere Bompiede conferma appieno la condizione tragica in cui si trova il bacino interno dello scalo brindisino. Valutata infatti la situazione generale del porto interno di Brindisi, Bompiede sottolinea in maniera perentoria che: «tanto dalla parte di fuori dell’imboccatura, quanto internamente, essere un tal porto inservibile e pregiudiziale alla salute, ed al Commercio, perché in tempo di basso mare, oltre il non potervi passare nemmeno le barchette scariche, si rendono altresì li due bracci di mare, che ne formano l’interiore, privi di flusso e riflusso»56. Per questo «in tempo d’esta’, come da’ stagni ne derivano perniciose esalazioni, le quali crescono sempre più a caggione delle acque piovane, che mischiate co’ ristagni medesimi danno più materia all’infezione dell’aria e producono frequentemente nella città e luoghi vicini delle più pertinaci e mortali malattie, anche per caggione del limo con l’alga [alaga] infracidita che lasciasi steso sul suolo de’ suddetti due bracci dalle Sciabiche, che in tempo d’esta’ vi pescano»57.

Oltre alla curiosità che l’ingegnere Bompiede riteneva la pesca con le sciabiche nociva per lo stato delle acque dei seni interni e ne suggeriva il divieto58, l’aspetto che salta agli occhi è quindi il giudizio netto che lui dà sullo stato del porto interno stesso: «inservibile e pregiudiziale alla salute». Un parere che non ammette repliche e che riconosceva pertanto del tutto valide le lamentele esposte da Rovegno. Per migliorare le cose Bompiede prendeva in considerazione due possibili rimedi in alternativa tra loro: uno di basso profilo volto a «render l’imboccatura del porto navigabile alle barche ed alli schifi che tragittavano le botti dell’olio alli bastimenti»59;  l’altro di ampio respiro che rendeva possibile «il beneficio dell’entrata de’ bastimenti mercantili nel porto interiore»60. Per la prima soluzione che avrebbe mantenuto almeno «aperta la imboccatura del porto interiore necessaria alle barchette» e al «libero flusso e riflusso alle acque interiori con miglioramento dell’aria» era prevista una spesa dai 3.500 ai 4.000 ducati61. La seconda soluzione più radicale prevedeva che fosse scavato  un canale dove edificarvi «due moli paralleli di fabbrica; dovendo il primo verso ponente e per lungo palmi 1.800; ed il secondo verso levante di lunghezza maggiore»62, con un progetto quindi molto simile a quello poi adottato da Pigonati. La spesa però prevista da Bompiede era di gran lunga superiore, in quanto avrebbe potuto «ascendere a ducati centoottantanovemila»63, salvo imprevisti. Se si pensa, che Pigonati eseguì le stesse opere con una spesa di poco superiore a 54.000 ducati, quindi di neppure un terzo, occorre dire che l’ingegnere siracusano trattava i soldi pubblici con la stessa parsimonia di quanto avrebbe fatto con i propri. E fu, forse proprio questo suo voler essere a tutti i costi troppo sparagnino a fargli commettere gli errori più gravi: la mancata bonifica totale e la parziale fragilità delle sponde del canale. Tra questi però non si può annotare quello che gli addebita lo storico, cioè a dire l’aver creato lui i problemi di interrimento del bacino di accesso al porto interno, per il semplice motivo che questo era insabbiato da almeno un paio di secoli, come s’è potuto verificare nei documenti e nelle testimonianza appena elencati. L’ultima, quella del capitano generale di marina è, con ogni probabilità, la più composita ed esplicativa delle condizioni in cui, almeno dagli inizi del Seicento, versava il porto interno di Brindisi e del perché non si pensava di modificare le cose.

Il capitano generale di mare, pur riconoscendo a sua volta che i seni interni erano interdetti alla navigazione, fa intendere che era da così tanto tempo che si era in quella situazione da essersi ormai abituati ad utilizzare il porto esteriore per tutte le attività militari e commerciali, per cui riteneva eccessivo impegnarsi in un’impresa tanto costosa per ridare vita al porto interno del quale si faceva da molti decenni a meno senza eccessivi scompensi64. Mentre si dichiarava d’accordo per il progetto, volto a migliorare le condizioni ambientali ed a vietare la pesca «che si fa d’esta’ nei due bracci di detto porto con sciabiche», che avrebbe portato sollievo alle sofferenze della città65.

In conclusione, dieci anni prima dell’avvio dei lavori di Pigonati, il porto interno era, a detta di tutti, «inservibile», essendo la foce di comunicazione completamente ostruita, e paiono di conseguenza del tutto infondate le accuse rivolte all’ingegnere siracusano d’aver generato lui l’interrimento. Anzi, al contrario, occorrerebbe porre in rilievo che, sia pure per un periodo limitato di tempo, Pigonati rese possibile l’agibilità nei seni interni. Lo attestano Giovanni Monticelli e Benedetto Marzolla nella loro “Difesa della città e del porto di Brindisi” affermando che benché le opere del Pigonati «non furono ben dirette né durevoli, pur tutta volta qualche utilità portarono a quelle popolazioni… Intanto tornarono a vedersi nel porto interno legni da guerra e navi mercantili di qualunque portata sino al 1800»66.  Chiarendo quindi anch’essi — non certo estimatori di Pigonati — che prima del suo intervento il porto interno era precluso alla navigazione e che successivamente, sia pure per breve tempo dal 1778 al 1800, grazie ai lavori dell’ingegnere siracusano, poté ospitare navigli di ogni portata. Quanto riportato dai due illustri nostri concittadini trova conforto in un portolano dei primissimi anni dell’Ottocento nel quale, dopo due secoli e più, il simbolo dell’ancora compare anche nel porto interno (figura n. 11).

 

In conclusione, diversamente da quanto asserisce Carito, se c’è qualcosa di sicuro è che il porto interno era del tutto fuori uso ben prima dell’arrivo di Pigonati e che le navi erano di conseguenza costrette ad ormeggiare in quello «esteriore». Ed il suo pare un accanimento persino esagerato quando, in altra occasione,  ribadendo che Pigonati «sbagliò completamente i lavori», ritiene bizzarro che la foce abbia «il nome di colui che in effetti l’ha chiusa»67. Peccato che pure in questa circostanza lo storico si sia mantenuto sul generico, senza specificare in alcun modo quali siano stati questi errori e senza chiarire, in particolare, come essi avrebbero potuto comportare l’ostruzione della foce.

Pigonati non fu certo esente da colpe — sponde fragili, orientamento del canale non del tutto adeguato, mancata bonifica della valle di Ponte Grande e, soprattutto, l’invenzione della favola dei moli di Cesare che avevano, a sua detta, dato esca all’interrimento — malgrado ciò nessuno di questi suoi errori era in grado di far insabbiare la foce. Per il semplice motivo che tale fenomeno, come ampiamente spiegato dall’ingegnere Mati nel suo progetto del lontano 1861, era dovuto allo stato delle vicine coste ed al gioco delle correnti.

In fondo, sarebbe bastato perdere un po’ di tempo a leggere il progetto di Mati, per convincersi che Pigonati, pur non avendo saputo risolvere il problema che attanagliava da secoli il porto interno di Brindisi, non era di sicuro stato lui ad originarlo.

( 2 – fine)

 

Note

29 G. Carito, intervento webinar della presentazione del libro di G. Perri,  Pagine di storia brindisina, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI (visitato il 9 luglio 2022).

30 T. Mati, Lo zibaldone di casa Mati, A cura di l. salvestrini, Montaione.net, p. 145.

31 Ibidem, pp. 139 e 140.

32 G. Carito, Cit.

33 Galateo,  De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae 1558, p. 64.

34 Autori vari, Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli, 1839,  pp. 18 e 19.

35 G.M. Moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, manoscritto ms_D12, 1760-1761, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 233r.

36 Los Castillos del Reyno de Napoles Maniscrito, manoscritto n. 1933, Biblioteca Nazionale di Spagna, p. 27.

37 Ibidem, p. 29.

38 G. Carito, Cit.

39 D. De Estrada, Comentarios del desengañado, ó sea vida de d. Diego Duque de Estrada, escrita por él mismo, in Memorial Histórico Español, Imprenta Nacional, Madrid 1860, pp. 166 e 167.

40 Ibidem, p. 166.

41 F. De Quevedo villegas, Obras de Don Francisco de Quevedo Villegas, Tomo primero, colección completa, corregida, ordenada e ilustrada por Aureliano Fernández-Guerra y Orbe, M. Rivadeneyra, Madrid 1852, p. 244.

42 M. Egizio, Lettera amichevole di un napoletano al signor abate Langlet du Fresnoy, in g. antonini, La Lucania: discorsi di Giuseppe Antonini, parte III, Francesco Tomberli, Napoli 1797, p. 151.

43 G. Antonini, Lettera scritta al signor d. Matteo Egizio, in g. antonini, Cit., p. 188.

44 M. Egizio, risposta, in g. antonini, Cit., pp. 209-210.

45 F.A. Monticelli, Terza memoria della città e de’ porti di Brindisi, Gabinetto bibliografico e tipografico, Napoli 1833, p. 33.

46 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., p. 296.

47 Ibidem, p. 153.

48 Ibidem, p. 308.

49 Ibidem, p. 357.

50 Ibidem, p. 361.

51 G. Carito, Cit.

52  D. Rovegno, Cit., 195v-195r.

53 Crotone.

54  D. Rovegno, Cit., 195v.

55 Ibidem.

56 Memoria sul porto di Brindisi 3 dicembre 1763, Casa reale antica, fascicolo 864, Archivio di Stato di Napoli, p. 2.

57 Ibidem.

58 Ibidem, p. 6.

59 Ibidem, pp. 2-4.

60 Ibidem.

61 Ibidem, p. 5.

62 Ibidem, p. 3.

63 Ibidem, p. 4.

64 Ibidem, pp. 8 e 9

65 Ibidem, p. 8.

66 G. Monticelli – b. marzolla, Difesa della città e del porto di Brindisi, II edizione, Gabinetto Bibliografico e Tipografico, Napoli 1832, p. 24.

67 G. Carito, Gli interventi sul porto: pillole di storia, History Digital Library https://www.youtube.com/watch?v=r9-vy1ZvTRQ Brindisi s.d., (visitato il 9 luglio 2022).

 

Per la prima parte:

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

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2 Commenti a Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (II parte)

  1. Vi sarei grato che comunicaste all’autore che, siccome le ricerche amo condurle negli archivi e non su Internet, ciò che ho detto in conferenza ha ampi riscontri documentari. Consiglio all’autore una salutare immersione negli archivi di stato di Brindisi e Lecce.
    Cordiali saluti
    Giacomo Carito

    • L’autore ci prega di risponderle che le sarebbe grato se fosse così cortese da indicare, visto che nella conferenza non ha avuto modo di farlo, gli estremi quantomeno del documento dell’archivio di Stato di Brindisi o di Lecce da cui ha potuto derivare che “intorno al 1618” nel porto interno di Brindisi “si concentrò… tutta l’armata spagnola” e quelli della lettera del de Leo che provocò, a sua detta, l’intervento di Pigonati.

      Le fa inoltre presente che, almeno per lui, è alquanto difficile trovare in internet (ad esempio) la pianta del Gisolfo oppure documenti quali “Memoria sul porto di Brindisi 3 dicembre 1763” ottenuti “immergendosi negli archivi” oppure facendone richiesta scritta ai relativi archivi di Stato. Documenti questi che chiariscono, senza ombra di dubbio, che la foce del porto interno di Brindisi era ostruita ben prima dell’intervento di Pigonati.

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