Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte)

di Nazareno Valente

 

  1. La supplica dell’arcivescovo al sovrano

 

«Sono già tre anni che per volontà dell’Augusto Genitore della M.V. Monarca delle Spagne che Dio sempre feliciti, essendomi stato concesso il governo della Chiesa Metropolitana di Brindisi, quando nella medesima mi condussi per quanto le forze mie debolmente il permettevano la Pastorale cura del Mio gregge intrapresi».

Questo l’incipit della lettera con cui nel 1762 Domenico Rovegno, arcivescovo di Brindisi, si rivolge a Ferdinando IV re di Napoli per chiedergli di intervenire e porre rimedio alla drammatica situazione in cui versavano a quel tempo il porto e la città di Brindisi. Per ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte». Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi». Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati». E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone. Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose inalterate.

L’arcivescovo passa poi a parlare della causa di questa tragica condizione: «la materia» che si è andata addensando nella «bocca del porto interiore» per cui «le acque del medesimo son ridotte a segno, che il necessario flusso gli manca» e questo aveva originato estese paludi nei seni interni che disseminavano puzza e morte. Il che creava problemi anche di carattere economico: «La negoziazione del mare poi è oltremodo difficile, poiché alla bocca del porto interiore non possono accostare i legni grossi da carico, e l’imbarco dell’oglio, e d’altre derrate non può farsi che in due miglia di distanza dalla città, caricandosi prima su piccole barchette, che incagliando talora nello stretto, bisogna con grande stento tirar fuori con le funi, e per tal motivo un porto tanto rinomato si vede oggi abbandonato da tutti».

A questo punto l’arcivescovo faceva poi presente che questa condizione difficile vissuta dalla città di Brindisi avrebbe sollecitato le attenzioni de «l’Augusto Genitore Vostro», che sicuramente sarebbe intervenuto per aggiustare le cose, come aveva fatto per i porti di Taranto e Crotone, «se ei non fosse andato a dimostrare la sua paterna Pietà a’ regni più ampî»1. Per questo si rivolgeva a lui: «animato dalla clemenza della M.V. in nome del mio povero gregge umilmente la supplico ordinare gli espedienti più propri per l’apertura del porto predetto».

Per meglio comprendere la supplica di Rovegno — ma pure per inquadrare nel miglior modo possibile gli argomenti che saranno in seguito trattati — è il caso di vedere a questo punto la struttura del porto di Brindisi, aiutandoci con una carta del Settecento (figura n. 1).

Carte particulière de la rade et du port de Brindisy avec les plans de la ville et chateaux situez dans le golfe de Venize au sud entre Berlette et Osrante Settecento

 

Come si può notare il porto si snoda in un golfo nel cui punto più interno, su un basso promontorio, si erge la città, la quale è quasi del tutto abbracciata dal porto interno che rappresenta il luogo storico dove avvenivano in antichità le principali attività portuali. Il porto interno ha due seni, quello di Ponente, molto più esteso, e quello di Levante, e, tramite un canale, si trova in comunicazione con la rada, o porto esterno2, la quale risulta a sua volta protetta dall’Isola di Sant’Andrea e dal piccolo arcipelago delle Pedagne.

In pratica, l’arcivescovo, considerato che l’ostruzione del canale  non consentiva il ricambio delle acque ed ai navigli di accedere al porto interno, chiedeva al sovrano d’intervenire per ovviare a questo grosso inconveniente che causava danni ambientali e finanziari di ampia portata, in quanto creava malaria e disagio alle attività commerciali. E, per quanto lo riguardava, fu facile profeta: ritornato a Brindisi il 22 dicembre 1762, si riammalò e di lì a poco, entrato in agonia, morì nell’ottobre del 1763. Seguiva così la sorte del suo predecessore, Giovanni Angelo de Ciocchis, cui l’aria malsana aveva provocato una paralisi del lato sinistro del corpo che l’aveva costretto a dimettersi e, dopo breve tempo, a morire. Per le stesse cause epidemiche, i reggimenti Virz e Giudi di stanza a Brindisi subirono delle vere e proprie falcidie e parecchi dei loro soldati morirono nelle estati del 1763, 1764, 1766 e 1767; manifestazioni evidenti di condizioni ambientali davvero devastanti.

Nel versante economico-commerciale era quello un periodo di profondi cambiamenti, dovuti alla cosiddetta prima rivoluzione industriale, che coinvolgevano pure il settore dei trasporti. Sicché, dopo essere rimasti per tempo immemorabile in ombra, i porti del Mediterraneo stavano riassumendo nuovamente grande importanza. Da un punto di vista tecnologico, il ritorno di fiamma lo si doveva in particolare alle innovazioni navali già intervenute ed a quelle che ormai si preannunciavano nei rudimentali esperimenti che si stavano conducendo sulle macchine a vapore. Per quanto la vela non fosse stata ancora soppiantata dalla propulsione a vapore, i vascelli avevano sostituito dal Seicento i galeoni e con la scoperta dell’America lo sviluppo, che sino ad allora era sempre passato per il Mediterraneo, aveva spostato il suo asse nel Nord Europa. L’importanza dei porti mediterranei era divenuta sempre più marginale ed anche questo aspetto aveva concorso all’incuria in cui tutti i porti del regno erano stati abbandonati. Grazie al declino dell’impero ottomano e della potenza navale veneziana, s’era modificato pure lo scenario politico, sicché il mare Adriatico tornava ad essere controllabile da chi ne deteneva le coste ed il Mediterraneo si riapriva ai traffici. Ed una prima avvisaglia del vuoto di potere creatosi fu dato da Ragusa, importante città mercantile della Dalmazia, che, lasciato il patronato veneziano, richiese di porsi sotto il protettorato del regno di Napoli, accentuando così le mire del sovrano Borbone di subentrare alla Serenissima nel dominio delle rotte dell’Adriatico. C’erano pertanto interessi di varia natura: sanitari, commerciali e, sia pure sorti per ultimi, ma non ultimi, politici che invogliarono ad accelerare i tempi per sfruttare il momento propizio per un rilancio in grande stile del regno.

Di là dai propositi di rinnovamento, però, i porti del regno erano in condizioni per lo più vicini al collasso e risultavano in generale inadatti alle nuove necessità mercantili e militari, privi com’erano delle più essenziali infrastrutture e delle condizioni ambientali adeguate. Bisognava pertanto sopperire ad un periodo di abbandono, che s’era prolungato troppo nel tempo, ed imporre un cambio di passo e di mentalità non sempre facili da acquisire in tempi brevi.

Brindisi, insieme a Taranto, era uno dei pochi porti naturali la cui collocazione strategica andava sfruttata se si desiderava assumere una posizione di rilievo nel Mediterraneo. Per questo l’amministrazione borbonica ritenne di giocare molte delle sue carte sullo scalo brindisino nell’intento di riportarlo agli antichi splendori. Sicché, dopo aver per un certo tempo tergiversato alla richiesta dell’arcivescovo, nel 1775 il sovrano incaricò l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare, di progettare la riapertura del porto interno brindisino.

Fu questo il primo di tre vani tentativi compiuti in quasi novant’anni dal governo borbonico, finché il regno di Napoli non fu annesso al regno d’Italia. Dopo Pigonati, toccò all’architetto idraulico Carlo Pollio e, successivamente, al tenente colonnello del Corpo del Genio, Albino Mayo, di non riuscire ad evitare che il canale, ripulito,  non si insabbiasse di nuovo. In pratica, malgrado si sprecarono ingenti risorse, non si ovviò all’interrimento del canale che continuò a creare problemi di malaria e di navigabilità.

La soluzione così fu trovata solo ad unità d’Italia avvenuta anche se, a sentire i cronisti e gli storici soprattutto brindisini, le cose sono andate diversamente da come io ora sto qui a raccontarvi. Sicché, nei resoconti storici su questo specifico punto, è raccontata invece una felice conclusione, collocandola sia pure in maniera vaga tra il 1845 ed il 1856, variando l’anno a seconda delle intuizioni e della fantasia dei singoli autori. In ogni caso, tuttavia, a dar credito alle anzidette versioni, l’epilogo e la soluzione all’interrimento del canale si ebbe sempre prima dell’avvento dei Savoia, e quindi nel periodo di amministrazione borbonica. Mentre la documentazione ufficiale non lascia dubbi in merito e chiarisce, in maniera inequivocabile, che il problema fu risolto solo dopo il 1861, grazie al progetto presentato in quell’anno da un ingegnere aretino, di cui già è tanto se si ha consapevolezza della sua esistenza.

Quindi quello che sarebbe potuto diventare un eroe, in quanto nella mia trasposizione dei fatti fu in grado con la sua trovata di dare un consistente impulso al futuro della città di Brindisi, è rimasto sino ad oggi un perfetto sconosciuto agli stessi Brindisini.

Per questo, la storia di come si riuscì a superare l’interrimento del canale e della foce del porto brindisino merita d’essere trattata una volta di più perché, per come è stata raccontata sinora, non pare che si siano ben compresi i motivi che causavano un simile fenomeno.

 

  1. Il tentativo di Pigonati

 

Parlando del tentativo fatto dall’ingegnere siracusano, una premessa è d’obbligo. La cronachistica brindisina ha fatto di lui il tipico capro espiatorio, tant’è che non c’è colpa consumata in quel periodo che non gli sia stata con faciloneria attribuita. C’entrasse o no con i successivi problemi cui andò incontro il porto, poco importava; tutto fu riversato nella direzione di Pigonati, scelto appunto come vittima espiatoria dei peccati commessi in città, anche per questioni che niente avevano a che fare con il canale e lo scalo. Tra i tanti difetti che gli vengono addossati non si può, però, certo includere l’indolenza, per il semplice motivo che i fatti testimoniano, almeno su questo aspetto, un dinamismo apprezzabile o, quanto meno, insolito per un dirigente statale. Ricevuto l’incarico l’8 luglio 1775, il 13 dello stesso mese si pose in viaggio per Brindisi che raggiunge dopo quattro giorni e notti di viaggio; quindi in un tempo notevole per le strade ed i mezzi di trasporto d’allora. Compiuto un meticoloso ed approfondito sopralluogo, il 20 luglio ripartì per la volta di Napoli, giungendovi dopo un’altra veloce scarpinata il 24 dello stesso mese e, nemmeno dopo un mese, il 15 agosto, fu in grado di consegnare il progetto dettagliato, comprensivo di disegni, fabbisogni e analisi delle spese. L’assenso del re arrivò invece con la dovuta calma cinque mesi appresso, il 27 gennaio 1776, dopo essere transitato nei vari uffici della burocrazia borbonica, insieme all’invito ad iniziare i lavori. Questi, incominciati a tamburo battente, si conclusero il 26 novembre 1778 con la cerimonia di consegna ufficiale del porto a «l’ingegnere del dettaglio, Pietro Galdo, alfiere del corpo del Genio», vale a dire al funzionario che seguiva l’esecuzione puntuale dei lavori. In definitiva, in meno di tre anni Pigonati portò a termine tutte le opere programmate. Cosa questa di non poco conto, se si considera che il suo fu il primo progetto sui porti dell’epoca borbonica ad essere completato senza interruzioni o rallentamenti in corso d’opera, senza modifiche e senza aumento di spesa: un vero e proprio record, conseguito lavorando, se occorreva, anche nelle feste comandate.

La proposta accolta dal re prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interno, ridotto ad un «lago stagnante, al mare del porto esteriore», arginandolo con strutture di sostegno realizzate con pali lignei a sezione rotonda, dotati di un’estremità a punta per l’infissione in profondità nel terreno, e fascine.  Il canale sarebbe stato prolungato con due moli della stessa materia protesi verso il porto esterno in modo da formare «angoli acuti colle spiaggie, acciò trattenuto avessero le arene, ed alghe, che per costa entrar potevano nella bocca del canale». In succinto, contemplava l’apertura di un nuovo canale e la costruzione in esso di due moli diretti verso la rada, con lo scopo di limitare l’ingresso di alghe e terra e, di conseguenza, di prevenire l’insabbiamento.

Il progetto prevedeva inoltre la bonifica della palude delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità del seno di Levante,  mentre non era nel preventivo la bonifica della  palude di Ponte Grande, collocata nell’estremità del seno di Ponente. Così, ciò «che doveva farsi» per il «riaprimento del porto», fu fatto: «un canale, che ha unito il porto interiore, col porto esteriore»; «due moli nella direzione del canale stesso», oltre a colmare «le paludi laterali al luogo dove si è formato il gran canale, non meno che la palude detta Porta di Lecce».

Nelle sue “memorie”, Pigonati si dilunga, su un aspetto interessante, vale a dire la profondità massima da dare al canale, chiarendo sin da subito che non era stata una sua scelta. Il canale doveva infatti essere progettato per garantire il passaggio di bastimenti mercantili «che pescano al più palmi 16 di acqua, che era il fondo maggiore che il re voleva si desse» al canale. Quindi la profondità del canale, non troppo superiore ai 16 palmi (poco più di 4 metri, considerato che il palmo napoletano allora era pari a 0,2636 metri), derivava da un’esplicita volontà del re e, in quanto tale, dettata da motivi non indagabili «da’ laici della ragion di stato». Come dire che essendo lui un tecnico non voleva discutere le scelte politiche o quantomeno non poteva opporsi. Si adeguava, ma con poca convinzione, ed il suo disaccordo, sia pure velato da frasi di circostanza, traspare in più di un’occasione: avesse potuto, avrebbe portato la profondità a 30 palmi (circa 8 metri). In ogni caso, a lavori ultimati la profondità era, per questioni tecniche, di 19 palmi, ovvero poco più di 5 metri.

 

Il particolare del disegno “Prospetto orientale della città di Brindisi” (figura n. 2), allegato alla memoria redatta da Pigonati, consente di vedere qual era la situazione al termine dei lavori. Come si può rilevare dalla figura, il nuovo canale tracciato da Pigonati (n. 1) e ciò che rimaneva del preesistente canale (n. 2) conferivano al bacino di collegamento una caratteristica forma ad Y con la creazione di un’isoletta (n. 5), che rimase nello scenario del porto interno per una settantina d’anni. Il nuovo canale, a cui fu assegnato il nome di Borbonico, incrociava il vecchio, chiamato Angioino, all’altezza di dove iniziavano i due moli che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto preservarlo dall’interrimento e perpetuare al tempo stesso la memoria dei sovrani. Infatti anche ai moli Pigonati attribuì un nome: Carolino, quello di ponente (n. 3) — ricordiamo che la moglie del re si chiamava Maria Carolina — lungo 210 metri; Ferdinando, quello di levante (n. 4) lungo 148 metri, che però furono poi modificati, non si sa da chi e perché, in molo di san Carlo e di san Vito. La preservazione del canale Angioino non era stata prevista da Pigonati per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. In quel canale, Pigonati aveva anche accarezzato l’idea di coltivarvi le «chiocciole nere», vale a dire le cozze di Taranto. A tale scopo, aveva fatto pure venire da Taranto un esperto, certo Diego Portolano, il quale aveva fissato «quattro luoghi addetti per piantare i pali di Pino selvaggio, acciò ivi, come è di natura delle Chiocciole, si attaccasse d’intorno il seme». Uno dei posti prestabiliti era appunto nei bassi fondali del canale Angioino; gli altri in punti imprecisati del porto interno. Il progetto del vivaio, che aveva pure ottenuto l’assenso del sovrano, non doveva tuttavia essere visto di buon occhio «per causa dell’odio, che  molti conservano per le novità», considerò amaramente il nostro ingegnere.

I lavori suscitarono dapprima apprensione in parte della cittadinanza la quale — a detta di Pigonati — temeva che «il riaprimento del porto, ed il coprimento della palude dovesse cagionare l’ultimo loro sterminio per la ragione, che le acque richiamate dall’esteriore del porto per comunicazione di canale, tutta dovessero sommergere la città, come in un nuovo diluvio». Poi, con l’andar del tempo, attirarono una sempre crescente curiosità ed aspettativa e, nell’ultimo anno dei lavori, il 18 giugno 1778, i Brindisini poterono fare la processione del «Cavallo bianco» passando per la marina tra gli spari «di vari legni ch’erano già approdati nel porto interiore». Qui, allo stupore dei nostri concittadini, si unì quello del Pigonati per l’originalità della cerimonia che apprezzò senza riserve: «o è l’unica, eccettuando Roma, o è la più distinta nel mondo». Pochi giorni dopo, il 26 giugno, una nave olandese, la Giovane Andriana, arrivò sino al molo per caricare olio. A memoria non se n’era vista una così grande neppure nel porto esterno, sicché «così osservata sull’ultima riva del porto interiore, cagionò a tutti un sorprendente piacere, giacché sino a tal punto li lontri erano stati i legni maggiori».

Certo sono parole del Pigonati il quale, raccontando della meraviglia dei Brindisini di fronte al nuovo canale, l’avrà pure accentuata per magnificare ancor più la sua creatura, come un qualsiasi oste è portato a fare con il vino che ha prodotto. Tuttavia, in questo caso, la soddisfazione per i risultati raggiunti la si coglie anche dal versante del cliente, vale a dire da una fonte brindisina, la “Cronaca dei sindaci di Brindisi”. Dalla “Cronaca” si ricava infatti che «Alla fine di marzo 1778, han principiato a caricare sul molo della porta Reale i bastimenti l’oglio, ed il primo fu padrone Francesco Alloj con gran risparmî de’ negozianti, frutto dell’apertura del canale». Ma risultati apprezzabili si evidenziano, oltre che dall’apertura del canale, anche dai lavori di bonifica. Infatti, «dal signor direttore del porto, d. Andrea Pigonati, furo fatte otturare di terre tutte quelli paludi fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città, e specialmente quelli padri domenicani del Crocifisso, che non hanno avuto più nell’està malatie secondo il solito, ma sono stati sempre bene». L’euforia è quindi tale che, quando «il capo mastro muratore Giuseppe di Simone… metté l’ultima pietra al fabbrico» sono presenti i Brindisini di maggior prestigio e «gran popolo» e la conclusione dei lavori si svolge «con gran rumore e strepito de voci che gridavano tutti, viva il re». Così pure la partenza del Pigonati è per la “Cronaca” un avvenimento da ricordare: «il giorno 30 [novembre] se ne partì il direttore d. Andrea Pigonati per la volta di Napoli, portando le piante del gran canale alla maestà del re». Nell’inverno successivo, particolarmente rigido e con frequenti nevicate, il porto attira ancora l’attenzione della “Cronaca” che annota con compiacimento e soddisfazione: «per le gran tempeste sortite nel mese di febbraro, e marzo si è veduto il porto interiore pieno di bastimenti grossi sino al numero di ventiquattro; cosa veramente da vedersi». Pure i maggiori detrattori di Pigonati dovettero riconoscere che i miglioramenti dovuti alla sua opera erano tangibili: la mortalità era diminuita e le attività commerciali avevano ripreso vigore. Anche la vita materiale evidenziava indiscutibili sviluppi positivi. In breve, il “gran canale”, lungo 492 metri e largo all’imboccatura esterna 48,80 metri ed a quella interna 42,75 metri, aveva aperto il cuore dei Brindisini alla speranza.

Gli odori pestilenziali, le paludi, le malattie sembravano preoccupazioni tutte superate e ormai lasciate dietro le spalle.

Invece erano dietro l’angolo.

Pronte a rifare capolino.

 

  1. Il tentativo di Pollio.

 

Per quel che è dato di sapere, al 10 agosto 1781, quindi a quasi due anni dalla conclusione dei lavori, la creatura del Pigonati continuava a funzionare com’era nelle aspettative di tutti. Poi una serie di circostanze sfortunate fece sì che non si svolgesse nessun lavoro di manutenzione sul canale e questo ritornò ad ostruirsi. Sicché nel giro di pochi anni si ricrearono le tragiche condizioni d’una volta, come sottolineò  Carlo Ulisse De Salis Marschlins, viaggiatore di passaggio da Brindisi nel 1789, avendo trovato il porto interno «inaccessibile e l’aria così mefitica come lo erano prima dei lavori» di Pigonati.

Con la situazione che precipitava, la cittadinanza si appellò di nuovo al re, il quale doveva essere davvero interessato alle sorti della nostra città, se intervenne ancora una volta prontamente, incaricando di un secondo radicale intervento l’architetto idraulico Carlo Pollio, «determinato — come ebbe modo di precisare nelle sue “Determinazioni per lo porto di Brindisi” — a procurare per ogni verso la conservazione del celebre porto di Brindisi, e a facilitare in quella guisa all’industria, ed al commercio nazionale una nuova, e molto apprezzabile risorsa.

I più importanti interventi assegnati al coordinamento di Pollio riguardavano: l’allargamento del canale da portarsi nella parte esterna sino a 200 palmi (53 metri) e a 160 palmi (poco più di 42 metri) nella parte interna; l’aumento della profondità del canale sino a 25 palmi (6,60 metri); il prolungamento di altri 200 palmi dei due moli di san Carlo e di san Vito; la bonifica di entrambe le due paludi di Ponte Grande e di Ponte Piccolo, e non di una sola di esse come avvenuto per il progetto di Pigonati; la costruzione di grandi fossi per la sistemazione delle «materie più consistenti», provenienti dai «corsi immondi» e dagli «scoli della città», da rimuovere periodicamente in modo che non finissero in mare; la riapertura dei canali di collegamento con il mare delle «due lagune, denominate ora Fiume grande e Fiume piccolo» facendo in modo di deviare altrove gli scoli ed i «torrenti più torbidi che v’imboccano».

Non esiste una solida documentazione ufficiale sui lavori effettivamente fatti dal Pollio, che ricevette l’incarico verso il 1789 e dovette chiuderli all’incirca nove anni dopo, probabilmente per ragioni di forza maggiore, quando le tensioni del regno con la Francia erano ormai al culmine e non perché s’erano conclusi. Se ne hanno così notizie sparse per lo più da fonti diverse da quelle borboniche.

La principale, di fattura francese databile tra il 1806 ed il 1810, non è altro che il rifacimento dei disegni, “Topografia della città e porti di Brindisi” e “Prospetto della città di Brindisi”, predisposti da Pigonati per la sua “memoria”, aggiornati con l’indicazione dei lavori eseguiti da Pollio sino al 1794 circa. Dalla “Topografia” (Figura n. 3) si deduce che Pollio scavò il canale Borbonico negli anni 1791 e 1792, dilatandolo per cento palmi napoletani, e che pulì quello angioino nel 1793, munendolo forse di due «scogliere». Dal Prospetto si ricava che la profondità del canale era stata riportata nel 1791 tra i 16 ed i 17 palmi — accanto a questa informazione venne però annotato : «Adesso il Canale Borbonico è diverso ma di 11 palmi al più» — e la collocazione degli edifici della Sanità, «il nuovo lazzaretto principiato al 1791 [e] terminato da poco» e dell’Arsenale, «fatto al 1791», strutture queste posizionate dalle parti dell’ex stazione marittima e dei Giardinetti. Pollio aveva infatti operato molto per dotare il porto delle necessarie infrastrutture, quali appunto gli uffici della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto, e l’arsenale.

Dal resoconto fatto dal “Giornale letterario di Napoli”, in occasione del passaggio a Brindisi del re Ferdinando IV nella primavera del 1797, si ricava inoltre che il canale aveva una larghezza di 200 palmi ed una lunghezza di 1.800 palmi (475 metri); che erano stati «asciugati gli stagni e colmati i bassi fondi» di Ponte Grande e Ponte Piccolo, dove era stata tracciata una strada «di un miglio e più» dalla Porta di Lecce sino a quella di «Napoli» (vale a dire Porta Mesagne); che era stata edificata «l’altra grande strada della Mena [l’attuale corso Garibaldi e corso Roma sino all’incrocio con via Conserva], che prima era ingombra di tutte le acque di scolo della città, e che oggi per canali sotterranei, laterali all’istessa strada, vanno a deporsi in ampi recipienti». Queste vasche depuratrici anche delle acque piovane erano state piazzate una «innanzi al palazzo Montenegro» e l’altra accanto alla salita che «dalla strada della Marina porta alla piazza delle Colonne».

In definitiva un bel po’ di lavori, alcuni anche criticati dallo stesso re, ad esempio l’edificio della Sanità, che tuttavia non risolvevano il problema principale  dell’insabbiamento del canale.

Quasi certamente — almeno questa è la mia opinione — Pollio non poté completare tutti gli interventi che aveva in mente di fare per la situazione politica che s’andava maturando. Lo sconcerto provocato dalla rivoluzione francese e, in particolare, dall’esecuzione di Maria Antonietta, sorella della regina Maria Carolina, i timori per le evidenti mire espansionistiche dei Francesi e, non ultima, la mancanza di liquidità conseguente alle notevoli spese per il riarmo, resero necessaria l’interruzione di ogni attività di ammodernamento dei porti, delle vie marittime più in generale, e della rete stradale.

 

  1. I Francesi pensano di riattivare il porto interno

 

Abbandonato nuovamente a sé stesso, il canale ricominciò ad insabbiarsi ed il suo stato, insieme a quello del porto interno a cui avrebbe dovuto dare accesso, fu valutato una decina di anni dopo dai Francesi, subentrati momentaneamente alla dinastia borbonica. Gli intendimenti dei nuovi dominatori erano di utilizzare il porto di Brindisi per scopi militari più che commerciali, visto il blocco continentale imposto dall’Inghilterra alla Francia proprio nel 1806, anno del loro insediamento a Napoli.

Dopo un’analisi preliminare incentrata sulla sussistenza delle condizioni adeguate per riattivare lo scalo di Brindisi — la cui documentazione s’è appena utilizzata per avere più dettagli sulle opere realizzate dal Pollio — nel 1810 il generale Campredon affidò al tenente colonnello del Genio Vincenzo Tironi (o Tirone, come appare in altri documenti) il compito di redigere una relazione anche «sul bonificamento del Porto della Città di Brindisi» nell’ottica di un suo possibile utilizzo per scopi militari.

Nel dettagliato rapporto presentato, Tironi dichiarò la configurazione dello scalo idonea ad accogliere in piena sicurezza bastimenti di ogni tipo. Riscontrava però i soliti limiti: insalubrità dell’aria, periodico ammasso di alghe e di sabbia, presenza di paludi, accentuate nelle estremità dei seni di Ponente e di Levante che rendevano la zona economicamente depressa. Forniva poi alcuni particolari sulla situazione del porto, da lui ritenuto ormai in stato di totale abbandono dal 1799: il canale di comunicazione con la rada era profondo all’imboccatura solo sette palmi ed era destinato ad insabbiarsi sempre più, tanto che, nel giro di due anni, prevedeva avrebbe nuovamente precluso l’accesso a qualsiasi bastimento; molte banchine laterali dovevano essere aggiustate e le paludi s’erano riformate in molte zone del bacino interno. Il seno di Ponente aveva ancora acque in buona parte «sempre vive» e profonde, mentre in quello di Levante il fondo era diminuito e le alghe venivano imputridite dai raggi del sole.

Tironi esaminò pure i lavori fatti in precedenza da Pigonati e Pollio, mostrandosi molto critico per le due banchine, giudicate mal edificate e, soprattutto, per i moli di prolungamento che, costruiti per  preservare il canale da ostruzioni, avevano finito per modificare la linea costiera accentuando il ristagno di alghe e sabbia e dando così origine a nuove formazioni paludose. Dava invece un giudizio decisamente positivo al sopraelevamento della strada Carolina e alla edificazione di una fogna sotterranea, compiute da Pollio. Anche se, secondo lui, sarebbe stato meglio se la strada fosse stata lastricata e se non fossero stati adottati i recipienti per bloccare e depurare le acque torbide della città, poco pratici ad essere gestiti oltre che costosi.

In particolare sui lavori svolti da Pigonati, Tironi riconosce un difetto di fondo nelle scarse risorse finanziare poste a sua disposizione ma pure suoi significativi errori commessi in sede di progettazione, tra i quali quello di maggior peso per il risultato finale era a suo dire costituito dall’orientamento “greco-levante” dato al canale, che di fatto facilitava l’interrimento, a differenza della direzione “greco” che lui riteneva più favorevole. A tal proposito, occorre precisare che questo presunto errore di Pigonati sarebbe tutto da provare, non essendo per niente pacifico che la direzione greco-levante favorisse l’interrimento rispetto a quella verso greco, come affermava Tironi, e, ancor più da provare, che l’orientamento del canale fosse in sé tanto influente da essere la causa scatenante dell’insabbiamento. Pur tuttavia questo concetto è divenuto un tema caro alla cronachistica che ne ha fatto la bandiera delle sue argomentazioni per screditare le capacità dell’ingegnere siracusano e, più in generale, l’intervento da lui compiuto per la riapertura del porto interno brindisino.

Ma soprattutto, come si vedrà, per cambiare la storia ed individuare quale causa dell’interrimento l’orientamento dato al canale.

 

  1. Come si depista la realtà

 

Il primo a ricamarci su fu Ferrando Ascoli che, in forza dell’essersi proclamato un “marino”, fu molto categorico nell’affermare che «Pigonati commetteva uno sbaglio tecnicamente grosso nel fare l’imboccatura del canale rivolta a greco-levante». Avrebbe dovuto invece orientarla nella direzione «di greco, cioè nella direzione di Forte a Mare, per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento». E, per avvalorare  la sua tesi, l’Ascoli introduce un argomento divenuto con il passare del tempo un must, asserendo in maniera perentoria che, se Pigonati «avesse interrogato i marini e i pescatori locali», si sarebbe convinto che «i tempi cattivi da greco-levante costituiscono la “traversia”,  l’unica traversia del porto esterno» e, di conseguenza, non sarebbe incorso — sempre a suo parere — nel grave errore di scegliere proprio quell’orientamento per il canale.

In effetti parecchi cronisti e storici locali hanno modificato sostanzialmente la sparata del “marino”: quella che per l’Ascoli era una mancanza di umiltà, nel non aver voluto sentire l’opinione di chi aveva una solida conoscenza pratica, per loro s‘è tramutata in vera e propria arroganza, in quanto nei loro racconti i Brindisini avevano cercato più e più volte di avvertire Pigonati dell’errore che stava compiendo a scegliere la direzione greco-levante in luogo di quella verso greco, ma invano, lui aveva fatto con alterigia spallucce perseverando nell’abbaglio.

Ora dubito che i marini ed i pescatori brindisini del tempo si siano messi a pontificare sulle direzioni più utili per evitare l’insabbiamento, ma, a parte questo, il ritenere che il fenomeno dell’interrimento potesse essere risolto con la pratica esperienza della navigazione e della pesca, o analizzando soltanto la direzione delle traversie, come fatto dall’Ascoli, appare una banalizzazione eccessiva d’un problema all’opposto molto complesso su cui in genere pesano ben altri fattori, quali, solo per citare i più evidenti, l’effetto dei venti sulle coste e la composizione delle coste stesse.

Certo, in linea teorica aveva ragione Tironi, se il canale di comunicazione con il porto esterno avesse avuto la direzione nord-est (greco), avrebbe potuto fruire della protezione dalle correnti dall’isola di Sant’Andrea, cosa che non avveniva avendolo Pigonati indirizzato verso est-nord-est (greco-levante). Una diversa angolazione volta a greco avrebbe quindi di certo salvaguardato il canale dalle correnti ma non era del tutto scontato, come affermava Ascoli, che l’avrebbe tutelato anche dall’insabbiamento, in quanto, all’atto pratico, non era per niente conseguente che i detriti e la sabbia, responsabili dell’interrimento del canale, seguissero la stessa direzione delle traversie. Ed in effetti, scopriremo che l’insabbiamento del canale del porto di Brindisi era dovuto a ben altri fattori. La stranezza è che quando Ferrando Ascoli riprende la critica fatta da Tironi a Pigonati essa era ormai da una ventina di anni destituita di ogni fondamento, visto che nel frattempo il problema era stato risolto, e non certo perché il canale era stato diversamente orientato ma agendo appunto su altri  aspetti del problema. E stranezza ancor maggior che è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad accusare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse a causa dell’orientamento che lui gli aveva dato3.

Radicalizzando tale discorso, c’è chi arriva addirittura ad affermare che l’insabbiamento abbia avuto origine proprio dagli errori commessi da Pigonati e che, prima dei suoi lavori, nel porto interno arrivavano navigli d’ogni tipo perché non era interrito4. Vedremo, ma in un altro intervento, che non fu Pigonati, con i suoi errori, a far insabbiare la foce del porto interno per il semplice motivo che l’interrimento era dovuto a cause naturali, e non allo scavare il canale in un modo piuttosto che in un altro. Senza contare che vi sono documenti e testimonianze a iosa che attestano che l’interrimento era preesistente a Pigonati, almeno dal Seicento.

In realtà Pigonati fallì, al pari di tutti gli altri che realizzarono analoghi tentativi nel periodo borbonico per non aver capito quali erano le ragioni che creavano l’interrimento della foce che, come vedremo in seguito, erano dovute appunto a cause del tutto naturali che prescindevano da possibili errori di carattere tecnico. Rispetto a tutti gli altri interventi preunitari, quello di Pigonati, ebbe piuttosto il pregio quantomeno di indicare la via: in fondo fece scavare lui quel canale che, per quanto parecchio criticato, rappresentò l’embrione del definitivo canale Pigonati e che fece in aggiunta comprendere che, con i dovuti aggiustamenti, la città avrebbe potuto sconfiggere la malaria ed avere un futuro migliore. In aggiunta il suo progetto fu quello del periodo borbonico di gran lunga meno oneroso e l’unico ad essere stato almeno completato.

Comunque sia, dopo Pigonati, anche Pollio fallì nell’intento e nemmeno con Tironi, almeno a considerare la sua dettagliata relazione, sussistevano i presupposti per risolvere alla fonte i problemi d’insabbiamento del canale. Era quindi destinato a fallire pure il tentativo francese, se la mancanza di tempo non ne avesse tarpato le ali sin dall’inizio, e, come si vedrà,  naufragò ancor più miseramente pure quello attuato dopo il ritorno della dinastia Borbone, che pure era sostenuto da un impiego ingente di risorse.

(1 – continua)

 

 Note

1 Carlo di Borbone abdicò nel 1759 a favore del figlio Ferdinando per succedere sul trono di Spagna.

 2 Attualmente c’è un porto interno che è lo stesso di quello indicato nella mappa di riferimento, un porto medio dove si svolgono le principali attività portuali ed un porto esterno. Gli attuali porto medio e porto esterno costituivano in antichità la rada e successivamente, quando il porto interno non consentiva più l’accesso ai bastimenti, incominciò ad essere chiamato anche porto “esteriore” (esterno).

3 In tal senso, ad esempio, G. PERRI, “Brindisi nel contesto della storia”, Lulu.com, 2019, p. 106: «Pigonati, agendo con buona dose d’ignoranza nonché di arroganza, aveva commesso il grossolano errore di orientare l’imboccatura del canale a greco-levante e quel grave errore d’ingegneria finì per vanificare l’ingente sforzo» e G. MEMBOLA, “Le vicende del canale d’ingresso al porto interno“, Tutto Brindisi n. 39, marzo 2012: «Ma l’evidente errore di calcolo commesso dell’ingegnere nel progettare l’imbocco del porto, orientandolo a greco-levante proprio a direzione delle correnti marine predominanti, causò nel giro di pochi anni il progressivo intasamento dell’apertura e la conseguente ricomparsa delle malattie malariche».

4 G. CARITO, intervento nel webinar della presentazione del libro di G. PERRI: “Pagine di storia brindisina”, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI

 

Riferimenti bibliografici

  1. La supplica dell’arcivescovo al sovrano

Manoscritto ms_L1, “Miscellanearum Tomus I”, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi.

  1. Il tentativo di Pigonati
  2. PIGONATI, “Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV”, Michele Morelli, Napoli 1781.
  3. CAGNES – N. SCALESE, “Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787)”, A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”,

Brindisi, 1978.

  1. Il tentativo di Pollio

Dispaccio inviato da G. Acton al sotto intendente di Brindisi, Nicola Vivenzio, il 20 ottobre 1789, riportato in “Determinazioni di Sua Maestà il Re Nostro Signore per lo porto di Brindisi”, Napoli, 1790 (Biblioteca Nazionale di Napoli).

Giornale letterario di Napoli”, volume LXXVI, giugno 1797, Michele Morelli, Napoli 1797, p. 98.

ASCOLI, “La storia di Brindisi”, Forni editore, Sala Bolognese 1981.

4. I Francesi pensano di riattivare il porto interno

Rapporto del Tenente Colonnello del Genio Tirone al Sig. Generale di Divisione Campredon, Comandante in Capo il Corpo del Genio, sul “Bonificamento del Porto della Città di Brindisi, dei terreni che l’avvicinano, e su di uno Stabilimento in questa Città di un Bagno per custodia di duemila Condannati”, Brindisi, 17 marzo 1811, BNN, Manoscritti, Biblioteca Provinciale, n. 19.

5. Come si depista la realtà

F. ASCOLI, op. cit.

G. PERRI, “Brindisi nel contesto della storia”, Lulu.com, 2019.

G. MEMBOLA, “Le vicende del canale d’ingresso al porto interno“, Tutto Brindisi n. 39, marzo 2012.

G. CARITO, intervento webinar della presentazione del libro di G. PERRI: “Pagine di storia brindisina”, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI

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