Penisola salentina romana

di Nazareno Valente

Ogni moneta ha facce antitetiche, ciascuna tuttavia legata in maniera inscindibile all’altra ed utile nell’insieme a caratterizzarne il valore. Così anche la rete, tanto ricca di notizie da saper informare su qualsiasi questione si voglia, è duplice e contrapposta, avendo anch’essa il rovescio di questa sua medaglia. Per una naturale questione di copyright, sul web girano infatti per lo più testi ed articoli datati che presentano una preziosa visione di come si siano evolute le conoscenze di uno specifico settore ma che rischiano, se letti senza considerare che moltissima acqua è passata sotto i ponti, di prendere per buoni concetti ed ipotesi ormai vecchi e superati. E ciò risulta particolarmente vero per le antichità, dove i lavori recenti e specialistici consultabili in rete sono quasi del tutto assenti ed abbondano, invece, quelli dei secoli scorsi che, se assorbiti senza spirito critico, rischiano di far aderire a teorie a cui gli studiosi non credono più da tempo.

 

Le teorie obsolete rivitalizzate da Wikipedia

Un significativo riscontro di come si possa essere portatori di posizioni ormai demodé, si ha leggendo alcune schede sull’antichità di Wikipedia nelle quali, ad esempio, è riportato che il Salento faceva parte della Magna Grecia, come si riteneva un paio, ed anche più, di secoli fa, oppure non ci si è neppure aggiornati sul fatto che a Brindisi, conquistata dai Romani,  fu dedotta una colonia latina.

Questo modo antiquato di valutare le cose, si aggiunge a certe inveterate abitudini culturali che fanno fatica a non avere una visione del mondo se non alla talebana. Ovverosia a vederlo o tutto bianco o tutto nero, senza la neppure più lontana parvenza di sfumature di grigio, oppure ripartito tra cattivi, sino all’ultima nascosta piuma, e buoni, in maniera tale da fare persino concorrenza ai santi. Non per niente, qualsiasi cosa facessero i Romani e, soprattutto, i Greci era considerata giusta e sacrosanta; ed ogni loro pur impalpabile vezzo rientrava nel disegno più generale tracciato dall’inviolabile progresso. Sicché, per indicare chi o ciò che era diverso dall’essere greco, s’adoperavano termini negativi, ed ancora adesso si parla di lingue anelleniche, di ambiti anellenici, di popolazioni anelleniche, dove quindi quel che è indigeno è caratterizzato dal fatto di non essere greco.

Sarà per questo spontaneo innamoramento per i popoli alla moda che molti preferirebbero tuttora essere gli epigoni dell’ultimo dei Mohicani, e quindi posizionarsi tra i collaborazionisti — in pratica sentirsi dire che il Salento era Greco trovandosi in Magna Grecia — piuttosto che gli eredi del cattivo Magua il quale, invece, lottò per salvaguardare le proprie radici, come agli effetti pratici fecero i nostri antichi concittadini brindisini ed i Salentini tutti che si opposero con parziale e sostanziale successo alla colonizzazione greca, difendendo la propria identità culturale. Quello stesso successo che, invece, non arrise quando toccò ai Romani di venire a pretendere le nostre terre.

Allo stesso modo, internet e certa parte della cronachistica delle nostre parti trasudano amore per la colonizzazione greca e, di conseguenza, per l’arrivo dell’aquila romana, sicché, se qualcuno volesse informarsi ad esempio sulla cittadinanza romana, scoprirebbe che essa è quasi sempre qualificata per “prestigiosa” o con altra espressione enfatica che rinvia immancabilmente agli stereotipi imposti dal periodo fascista, dove la romanità faceva tendenza. Tanto per ricollegarsi alle teorie, valide nei secoli scorsi, che la rete fa recuperare e, complice la nostra passività nell’analisi, fa credere ancora attuali e degne d’un qualche credito.

 

Non sempre la cittadinanza romana fu ritenuta “prestigiosa”

Se invece di dipendere solo da Wikipedia, si volesse talvolta dare un’occhiatina pure alle opere degli autori antichi, magari qualche dubbio sul prestigio incondizionato posseduto in antichità dalla cittadinanza romana potrebbe sorgere. Ad esempio Livio che, pur essendo un grande estimatore del mondo latino, riferisce un episodio alquanto curioso accaduto nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.). Annibale sta prendendo il sopravvento, sobillando le città Italiche,  e Roma è in grossa difficoltà, quando  all’assedio di Casilinum (216 a.C.) i Prenestini si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai Cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»1) e offre loro la cittadinanza romano per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»2); i Prenestini accettano il denaro, rifiutando però compatti l’altra gratificazione: alla cittadinanza romana preferiscono la propria che, infatti, non ci pensano nemmeno di modificare («non mutaverunt»3). Ed i Prenestini non furono certo gli unici a mostrare poco interesse per un simile dono, tant’è che, a detta di Diodoro Siculo, un Cretese fece anche di peggio. Non solo respinse l’offerta fattagli della cittadinanza romana ma, per sovrappiù,  la derise dichiarando in maniera perentoria che i Cretesi consideravano la cittadinanza romana una solenne baggianata, cui essi preferivano di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»4).

Va a questo punto ricordato che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, come per altro non si può negare che l’essere Romani comportasse indubbi benefici che rendevano una simile condizione giuridica a volte appetibile. Ma non sempre. E certo non era proprio così, quando l’Urbe intraprese la sua politica espansionistica.

 

Come Roma strutturava le comunità vinte

Inizialmente Roma era solita incorporare i territori dei popoli vinti qualificandoli giuridicamente come ager pubblicus (agro pubblico), vale a dire come suolo appartenente allo Stato da destinare a vari scopi ma che non poteva divenire di proprietà privata, salvo espressa disposizione legislativa. Successivamente adoperò strumenti giuridici che non obbedivano a schemi rigidi ma valutati, caso per caso, in maniera pragmatica secondo gli interessi del momento.

Riguardo al territorio italico che si andava acquisendo, si seguirono fondamentalmente tre vie: l’incorporamento nello Stato romano, dopo aver privato le comunità preesistenti dell’autonomia politica (municipia); l’insediamento di comunità cittadine con la fondazione di una nuova città (coloniae); la stipula di accordi (foedera) che rendevano le comunità preesistenti alleate dell’Urbe entrando esse a far parte d’una specie di stato federativo.

Quest’ultimo era il sistema maggiormente impiegato nel periodo in cui la Calabria — così i nostri antichi corregionali chiamavano la terra da noi denominata  Salento — fu conquistata (266 a.C.) e che fu appunto adoperato per tutte le città salentine le quali infatti stipularono con Roma un accordo (foedus). L’unica eccezione riguardò Brindisi per la quale fu scelta la deduzione di una colonia di diritto latino.

 

Ciascuno dei sistemi indicati aveva vantaggi e svantaggi, inoltre, all’interno dello schema generale, ogni comunità poteva vedersi accordati minori o maggiori benefici. Tutto dipendeva da come si era comportato il popolo conquistato nei confronti dei Romani. In linea di principio, più ci si era opposti alla conquista e maggiori erano gli oneri imposti alla comunità; viceversa chi aveva accettato senza reagire il potere romano, riusciva a spuntare condizioni migliori.

Così, ad esempio, se organizzati in municipia, che dava luogo alla perdita dell’autonomia ma alla concessione della cittadinanza romana, nel primo caso questa la si otteneva svuotata degli effetti politici in quanto senza titolo a votare e ad aspirare alle cariche pubbliche (sine suffragio et iure honorem); nel secondo la si conseguiva a pieno titolo, al pari di un qualsiasi abitante dell’Urbe (cives optimo iure). E certamente la prima, quindi quella priva dei diritti politici, sarebbe stata la formula adottata nei confronti dei nostri antichi corregionali, qualora fossero stati inquadrati nei municipia, per il semplice fatto che non si erano sottomessi senza combattere. D’altra parte anche se avessero ottenuto la cittadinanza a pieno titolo, avrebbero avuto grande difficoltà ad esercitare i diritti politici, visto che si votava a Roma ed un viaggio di andata e ritorno richiedeva quasi un mese per essere completato, e che sarebbero dovuti comunque andare a Roma in occasione dei censimenti predisposti con scadenza quinquennale. Per cui essere organizzati in municipia5, con una cittadinanza limitata in ogni caso nei suoi principali contenuti, avrebbe voluto dire farsi carico dei soli svantaggi derivanti da una simile organizzazione. In pratica, a nessun nostro corregionale sarebbe venuto in mente di diventare allora cittadino romano, per il semplice motivo che un tale stato giuridico avrebbe comportato solo oneri e scarsi benefici pratici. In conclusione il foedus era con ogni probabilità una soluzione di gran lunga migliore.

Ma, come già detto, c’erano diversi tipi di foedera. Gli storici dell’antichità, in genere di parte romana,  qualificano unicamente quelli vantaggiosi con i termini di aequa, come l’accordo stipulato con Napoli; aequissima, quello riguardante Camerino e, aequissimum et prope singulari, cioè a dire particolarmente favorevole di cui aveva fruito Eraclea. Tuttavia, nella loro stragrande maggioranza, tali accordi non erano poi tanto “equi” e salvaguardavano prevalentemente gli interessi romani. Per quanto le fonti narrative non li caratterizzano, ci hanno pensato gli studiosi a parlare di  foedera iniqua, con cui per lo più Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate i cui cittadini divenivano così alleati (socii o foederati) dell’Urbe, in condizione però subordinata.

Il foedus nondimeno consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro lasciata l’autorità di battere moneta. Rinunciavano però — e questa era la parte iniqua — a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). In pratica si acquisivano gli amici dell’Urbe, insieme ai loro nemici e non se ne potevano avere di propri. Nel caso dell’insorgere d’un conflitto, che solo Roma poteva avviare, c’era poi l’obbligo di fornire un contingente di truppe prefissato che operava, in posizione subalterna, nei reparti ausiliari dell’esercito romano.

Erano questi gli accordi più usuali che s’imponevano ai socii, e a queste clausole si conformarono, con le inevitabili varianti del caso quelli firmati dalle città salentine6.

Come già ricordato, l’unica che non si federò con Roma fu Brindisi, dove fu dedotta una colonia di diritto latino. Ed era questa la formula giuridica probabilmente più vantaggiosa a quell’epoca. La città ottenne questa posizione di privilegio, grazie al suo porto ed alla sua collocazione strategica, ma pure per questioni che non è qui il caso d’indagare.

Le colonie, la cui funzione prevalente era di carattere militare, ma pure un modo per diffondere la romanità, erano di due tipi: quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi partecipava conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i Romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare Latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»7), perdendo così la cittadinanza romana.

Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum8, vale a dire degli uomini in età per compiere il servizio militare) e di non stipulare accordi con altre città. Le colonie latine avevano, però, la particolarità di beneficiare di un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione  d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta. Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii, il che garantiva alla prole la fruizione dei diritti civili) e di commerciare con essi (ius commercii, per cui erano titolati a ricorrere al pretore, per tutelare i propri atti negoziali); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi) ma con l’obbligo di lasciare nella città d’origine un figlio per non depauperare la colonia; di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»9). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane. Al pari delle città federate, anche le colonie non potevano svolgere atti di politica estera e avevano l’obbligo di  assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare, fornendo, come già riportato, il contingente di truppe richiesto.

Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per i Romani, costretti a rinunciare alla cittadinanza romana in quanto si acquisiva quella latina, sia per i locali, a causa della preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. Prospettive che Brindisi sfruttò appieno divenendo, proprio grazie alla configurazione giuridica allora adottata, dapprima uno dei più importanti centri della Repubblica romana e poi una delle maggiori metropoli nel periodo imperiale.

Sarà in aggiunta che i Romani non si fidavano troppo dei Tarantini ma il porto di Brindisi soppiantò del tutto quello di Taranto nelle funzioni militari e commerciali, divenendo di fatto il tramite privilegiato per l’Oriente. Taranto seppe però conservare la reputazione di città culturale e divenne un centro residenziale ambito dalle classi intellettuali agiate che vi costruirono case e ville signorili.

In definitiva a Brindisi andò di lusso e non andò male neppure alle altre città salentine: in fondo Roma si atteggiava come il buon pastore che tosa le sue pecore con riguardo, sapendo che, se le scorticasse, sarebbe il primo a perderci. Per questo motivo, ove possibile, i Romani sceglievano il tipo di organizzazione più congeniale agli interessi propri ma anche a quelli della comunità assoggettata.

 

A lungo andare gli alleati divennero sempre più dei sudditi

Questa organizzazione rispettosa delle comunità conquistate andò comunque di lì a poco in crisi e, di conseguenza, le cose incominciarono a cambiare in peggio, soprattutto a causa di una circostanza del tutto straordinaria che si concretizzò una cinquantina di anni dopo, quando Annibale invase l’Italia nell’autunno del 218 a.C.

L’arrivo e gli iniziali successi del Cartaginese riaccesero le aspirazioni di indipendenza di quasi tutte le ex colonie greche e di molti popoli italici i quali, convinti che i Romani stessero ormai per soccombere, defezionarono schierandosi con i Punici. Tra i defezionisti Livio elenca i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli Irpini, parte degli Apuli, tutti i Sanniti tranne i Pentri, i Bruzii, i Lucani e, oltre a questi, gli Uzentini e pressoché tutti i Greci della costa, tra i quali i Tarantini («Defecere autem ad Poenos hi populi: Atellani, Calatini, Hirpini, Apulorum pars, Samnites praeter Pentros, Bruttii omnes, Lucani, praeter hos Uzentini, et Graecorum omnis ferme ora, Tarentini…»10). La ribellione di Ugento è però molto incerta, essendo la sua inclusione nella lista dei rivoltosi quasi certamente dovuta ad un errore da parte d’un amanuense che ha sostituito gli Uzentini ai molto più probabili Surrentini, i quali, non a caso, sono indicati in altri manoscritti. Comunque sia, subito dopo, a Taranto s’accodarono altri centri salentini che, però, Livio non specifica indicandoli con disprezzo città insignificanti («Sallentinorum ignobiles urbes»11), senza lasciar capire se il tono usato fosse per minimizzare l’accaduto oppure per rimarcare il loro infedele comportamento.

È invece certo che Brindisi rimase fedele a Roma e si oppose con forza ad Annibale, tanto da essere espressamente citata tra le diciotto colonie il cui aiuto consentì di far restare saldo il dominio romano e che, per questo, ricevettero il plauso ed i ringraziamenti in Senato e presso il popolo («Harum coloniarum subsidio tum imperium populi Romani stetit, iisque gratiae in senatu et apud populum actae»12).

Altra cosa certa è che l’Urbe, passata la buriana, e ripreso il controllo della situazione, si vendicò del torto subito e usò la mano pesante nei riguardi degli alleati che avevano violato i patti, imponendo clausole ancor più restrittive nei foedera stipulati. In particolare Taranto, pur riuscendo ancora una volta a limitare i danni, si vide costretta a cedere parte del suo territorio. Qui, a nord della città, in una zona strategica dell’antica periferia greca che dava diretto accesso al porto del Mar Piccolo, Roma fondò nel 123 a.C., con plebiscito proposto da Caio Gracco, Neptunia, una colonia di diritto romano con l’intento di attuare un controllo più diffuso sulla cittadina ionica.

Allo stesso tempo il possesso della cittadinanza romana incominciò a far maturare benefici economici e fiscali ai suoi possessori, discriminando sempre più gli alleati. E tale disparità di trattamento risaltava con grande evidenza in un’attività, come quella bellica, in cui i Romani e gli alleati operavano fianco a fianco. Pur partecipando attivamente alle azioni militari ed a tutti gli altri obblighi, gli alleati non godevano degli stessi vantaggi goduti dai commilitoni romani, proprio perché non fruivano della medesima cittadinanza. La disuguaglianza s’era andata accentuando già dal 167 a.C. quando, grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non fu più richiesto13 e, pertanto, i cittadini romani iniziarono a godere dell’immunità finanziaria14 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuarono a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che fornivano a Roma.

E le sperequazioni non erano solo di carattere monetario riguardando anche altri aspetti. Gli alleati erano ad esempio confinati nei reparti ausiliari, assoggettati a norme capestro, correndo anche il rischio d’essere condannati a morte dal console romano per un qualsiasi atto di insubordinazione, mentre, in analoghe situazioni, il legionario non poteva essere neppure sfiorato dalla frusta. Eppure il loro apporto andava aumentando: alla meta del II secolo a.C. i loro contingenti, uniti alle truppe fornite dalle colonie latine, erano in quantità pari a quello delle legioni romane; verso la fine dello stesso secolo erano addirittura corrispondenti al doppio. Ciononostante, sebbene il peso delle azioni belliche fosse sempre più addossato sugli alleati, questi si vedevano preclusa ogni possibilità di fare carriera nei ranghi dell’esercito romano e di avere al termine della ferma l’assegnazione di terre, come qualsiasi altro veterano romano.

La situazione s’inasprì ulteriormente con l’avvio, alla fine del II secolo a.C., della riforma dell’esercito che aveva come punto qualificante quello di far accedere alla carriera militare i capite censi (i nullatenenti). Una vera e propria rivoluzione in quanto, per la prima volta, le classi più umili si vedevano aperta la via all’arruolamento nell’esercito romano e, quindi, alla possibilità di partecipare al soldo ed ai vitalizi militari. Era questa un’opportunità unica di avanzamento sociale ed economico che, sino ad allora, era stata di esclusivo appannaggio della media borghesia. Tuttavia ne poterono beneficiare solo i cittadini romani, mentre gli Italici si videro preclusa anche questa occasione di sviluppo.

Di fatto, più passava il tempo e più gli alleati italici venivano trattati da sudditi, e questo alla lunga esacerbò gli animi creando una situazione esplosiva.

 

La guerra sociale

A dare fuoco alla miccia, fu un ulteriore episodio compiuto a danno degli alleati: Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia15ad dandam civitatem Italiae»16), venne trovato ucciso il giorno stesso in cui il provvedimento doveva essere votato, proprio per impedire che l’iter legislativo giungesse a compimento. In precedenza anche il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e poco dopo Gaio Sempronio Gracco avevano proposto invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine. Ma pure in quelle circostanze l’oligarchia romana s’era messa di traverso ostentando le maniere forti.

A questo punto molte delle città federate si resero conto di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e di muovere guerra a Roma.

In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente con poche attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, divenne talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Iniziò così nel 91 a.C. la sanguinosa rivolta, passata alla storia con il nome di “guerra sociale” perché, ad esservi coinvolti furono principalmente gli italici federati con Roma, i cosiddetti socii di Roma. I municipi che godevano già della cittadinanza romana — e che tra l’altro non avevano un proprio esercito — non avevano infatti  nessun interesse a prendervi parte. E allo stesso modo le colonie latine, con l’eccezione di Venusia, non aderirono alla rivolta e preferirono stare dalla parte dell’Urbe, il che testimonia che il regime giuridico fruito andava loro più che bene. Anche perché — va ricordato — i notabili delle colonie latine erano già stati per certi versi accontentati con la concessione dello ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum che consentiva di acquisire la cittadinanza romana a chi aveva ricoperto una magistratura locale17 e che, quindi, accordava loro questo beneficio per altra via.

Brindisi si schierò pertanto con Roma, e questo fu forse uno dei motivi che consiglio le altre  comunità salentine a fare altrettanto. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»18 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede più creative. Neppure Taranto osò infatti ribellarsi. Né poteva essere diversamente, considerato che di fatto aveva in casa un presidio romano, la già citata colonia romana Neptunia, pronto ad intervenire senza tante sottigliezze al minimo accenno di sollevazione.

La guerra sociale fu la prima occasione in cui trovò spazio il concetto di “Italia”, sia pur solamente inteso come comunità dei suoi abitanti. Infatti i rivoltosi, sebbene di etnie diverse, si autoidentificarono in questo nome e adottarono come proprio simbolo la figura del vitello/toro associato al nome dell’Italia. E questo emblema fu vissuto in funzione antiromana, come emerge con chiarezza nelle loro emissioni monetali in cui il toro assale e sconfigge la lupa, raffigurazione di Roma.

 

Dopo un anno in cui i risultati sul campo erano stati poco più che mediocri, mentre i dissapori interni, tra chi era favorevole a fare delle concessioni ai rivoltosi e chi considerava tale posizione un modo come un altro per sobillare ancor più gli Italici, aumentavano, comportando una pericolosa instabilità poi sfociata nella guerra civile, i Romani decisero che era meglio venire a più miti consigli. Approvarono pertanto la lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda (90 a.C.) con cui si concedeva la cittadinanza romana, non solo ai Latini ed agli alleati che non avevano preso le armi, ma anche a chi le avesse deposte entro un prefissato termine di tempo.

Questo dissuase le popolazioni incerte dall’entrare in lotta e creò dissensi tra gli stessi insorti.

Usando al tempo stesso carota (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) e bastone (la spietata determinazione di Silla) si venne a capo della situazione e, di lì a breve, si riuscì a domare la sollevazione e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina finirono per acquisire la cittadinanza romana.

Brindisi e le altre collettività salentine, che s’erano mantenute fedeli a Roma,  si videro pertanto assegnare la cittadinanza romana già nel 90 a. C. Questo avvenne certo a livello formale, mentre l’effettivo conferimento ebbe luogo solo qualche anno dopo (probabilmente nell’83 a.C.) in quanto, anche ai tempi dei romani, non si era del tutto liberi dalle pratiche burocratiche. Occorreva infatti censire i nuovi cittadini e ascriverli alle tribù esistenti, e questo portava via tempo.

Oltre ad integrare i nuovi cittadini nel corpo civile romano, la concessione della cittadinanza comportava anche il dover riorganizzare le città federate e le colonie latine in municipi, in quanto divenivano territorio romano. Bisognava quindi stabilire quali comunità avevano titolo ad essere elevate al rango municipale e quali a farvi parte in ruolo subordinato. Aspetto questo non certo banale — di cui si parlerà nel prosieguo soffermandosi sulle decisioni prese per le città salentine — perché i nuovi municipi avrebbero fruito di fondi per meglio garantire la loro urbanizzazione quando le altre località rischiavano, come di fatto per lo più avvenne, di essere confinate a restare zone tipicamente rurali. In questa trasformazione, c’era infine da decidere la caratterizzazione istituzionale dei nuovi municipi: magistrature, senati, assemblee cittadine e ripartizione delle relative competenze.

Proprio nell’espletamento di questi adempimenti di così varia natura, l’Urbe cercò di annacquare in una qual certa misura le concessioni fatte e di trarre comunque vantaggio da questa nuova situazione.

 

Eppure non tutti furono contenti di diventare romani

Tutti aspetti importanti, quelli appena enunciati, che per il momento però si tralasceranno per soffermarsi su una avvenimento, per certi versi curioso, a cui in genere non si dà peso e che invece merita d’essere riportato, non fosse altro per avere un quadro più realistico delle diverse posizioni assunte in merito dalle comunità coinvolte.

Come visto, la cittadinanza romana fu accordata a tutti: sia a chi aveva combattuto per ottenerla, sia a chi non l’aveva di fatto neppure richiesta. Questa circostanza viene sempre valutata nel senso che Roma, dopo aver concesso questo alto privilegio a chi aveva avviato la rivolta, non poteva non riconoscerlo anche a chi s’era mantenuto fedele, dando così per scontato che tutte le comunità avessero preferito questo nuovo stato giuridico a quello precedentemente goduto.

In effetti così non fu: alcune città, che non avevano partecipato alla rivolta, avrebbero preferito piuttosto continuare a mantenersi autonome che divenire cittadini romani inquadrati in un municipium. Naturalmente di questo coro dissenziente fecero parte le cittadine che fruivano di foedera o di statuti particolarmente vantaggiosi, tra le quali non è detto che non fosse pure compresa Brindisi.

Spulciando bene le fonti narrative antiche, si scopre infatti che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret»19). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine le due città si adeguarono, non è dato di sapere, sebbene sia facile immaginare che Roma abbia attuato qualche fattiva opera di convincimento, soprattutto tra le classi più umili, poco sensibili ai benefici politici concessi dall’autonomia e molto più convinti da quelli pratici conseguibili con la cittadinanza romana. D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero dissenso. E, come già riportato, magari anche Brindisi fu tra queste. Le fonti offrono appunto qualche spunto che indurrebbero a credere che la città si conformò alla soluzione imposta da Roma, ma probabilmente non tanto di buon grado.

Primo indizio. In un famoso passo, Cicerone ci racconta che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione del municipium, i Brindisini festeggiavano ancora con grande calore il giorno natale della colonia latina20. Un evidente segno questo di grande nostalgia per il passato coloniale.

Altro indizio. Silla — che non era molto ben disponibile a concedere la cittadinanza romana alle città federate ed alle colonie latine — è nell’ 83 a.C. di ritorno dall’Oriente. Si vocifera che voglia rimettere in discussione i diritti politici già concessi dalla lex Iulia, per cui molte comunità non vogliono aprirgli le porte oppure lo accolgono a muso duro. Eppure sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo, riceve un’accoglienza talmente entusiasta  che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»21).

Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo, oltre a vedersi sottratta la possibilità — questione questa non certo di poco conto — di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.

Ultimo indizio. Ci si è sempre chiesti come mai i Brindisini, che pure erano sempre stati fedeli alleati dell’Urbe, furono gli unici tra i salentini ad essere iscritti nella tribù Maecia, che era allora un modo evidente per isolarli, quasi avessero commesso una qualche colpa. Quale fosse la loro mancanza lo si può forse ricavare dal fatto che nella stessa tribù fu inserita Napoli, vale a dire proprio una delle città che più s’erano opposte ad accettare lo statuto municipale. Il che fa sospettare che pure Brindisi avesse manifestato, più o meno vivacemente, le medesime perplessità, e che, per questo, fosse stata anch’essa in un qual certo modo punita.

Comunque siano andate le cose, c’è motivo per ritenere che un qualche rimpianto per il passato ebbe forse modo di  palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.

In ogni caso, certo è che in quel lontano 83 a.C. la gloriosa colonia di diritto latino di Brindisi chiuse per sempre i battenti.

E, qualunque cosa ne possano pensare gli estimatori della “pregevole” cittadinanza romana, non fu certo un giorno da segnare, come avrebbe detto Catullo, con una piccola pietra più bianca delle altre.

 

I passaggi burocratici per divenire municipium

Come anticipato, Brindisi, Taranto e le altre comunità della Calabria divennero in linea teorica territorio romano nel 90 a. C., tuttavia per la concreta fruizione della cittadinanza romana la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri. Questa formula, per quanto letteralmente indecifrabile, considerato che la sua traduzione letterale, “farsi fondo”, risulta del tutto incomprensibile, non pone dubbi interpretativi sul perché fosse stata inserita nella norma. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città che le erano rimaste fedeli. Tuttavia, da un punto di vista formale, le autorità romane non volevano che fosse considerata come un obbligo cui loro sottostavano, quanto piuttosto una graziosa elargizione da loro fatta alle comunità italiche. In aggiunta, da  un punto di vista sostanziale, tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità dovevano preliminarmente aderire alla totalità delle norme municipali e, più in generale, a quelle del diritto romano («iura populi romani»), rinunciando così alla formale autonomia che i trattati precedenti avevano conferito loro. Ed è proprio in tale fase che certamente Napoli ed Eraclea — e forse Brindisi e qualche altra città — tentarono di mantenere i loro antichi privilegi, senza però, come visto, riuscirci.

Dopo l’accettazione del fundus fieri, c’erano poi un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane.

Non è dato di sapere quando questi adempimenti siano stati fatti  perché, quasi insieme alla guerra sociale, era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, ed in questo periodo turbolento le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione dei singoli avvenimenti. C’era infatti un’importante questione da dirimere in via preliminare, vale a dire il peso politico da dare a questi nuovi cittadini. La parte elitaria degli optimates (ottimati, testualmente i migliori) sostenitrice di Silla, non voleva che l’alto numero dei nuovi cittadini facesse prendere loro il sopravvento nelle decisioni politiche; la fazione populares (popolari, in quanto difensori delle istanze del popolo), capeggiata da Mario e Cinna, intendeva invece mettere tutti i cittadini, vecchi e nuovi, sullo stesso piano.

Per comprendere meglio il motivo del contendere, ci si deve soffermare, sia pure semplificando al massimo, sulle sedi e sulle modalità di espressione del potere popolare previste dalla legislazione romana.

I cittadini romani contribuivano alla gestione dello Stato svolgendo funzioni legislative, elettorali e giurisdizionali nelle assemblee (comitia e concilia) le principali delle quali erano, nel periodo trattato, i comitia centuriata (comizi centuriati), i comitia tributa (comizi tributi) ed i concilia plebis (concili della plebe). Nei comizi tributi e nelle assemblee della plebe il popolo era ripartito per tribù, termine questo che non va inteso in senso moderno, come gruppo etnico che costituisce un organismo sociale ben determinato, ma in senso storico che, riguardo alle antichità romane, caratterizzava nello specifico la suddivisione amministrativa e territoriale dello stato romano. Nell’ambito dell’organizzazione amministrativa dell’Urbe, le tribù rappresentavano le circoscrizioni territoriali entro cui venivano ripartiti i cittadini romani per effettuare i censimenti, le leve militari e fissare il relativo tributo22. In seguito, quando con la professionalizzazione dell’esercito le leve non furono più fatte ed il tributo non più richiesto, le tribù finirono per identificarsi con i distretti elettorali per l’esercizio dei diritti politici. Ed era proprio per motivi collegati all’espressione del voto che ogni cittadino romano era allora assegnato ad una tribù.

C’è da aggiungere inoltre che per gli esiti delle votazioni delle assemblee popolari non si teneva conto dei voti espressi dai singoli cittadini ma di quelli espressi dalle tribù, ciascuna considerata nel suo complesso. Infatti le unità votanti non erano i cittadini ma le tribù, sicché si votava per tribù ed il voto della tribù era quello espresso dalla maggioranza dei suoi componenti. In definitiva, dal momento che le tribù previste erano allora 35, bastava che 18 di esse si esprimessero in senso favorevole perché un provvedimento fosse approvato.

Gli Ottimati, in considerazione del numero abbondantemente superiore dei nuovi cittadini rispetto ai veteres cives (vecchi cittadini), temevano che essi avrebbero potuto imporre il proprio volere all’interno delle singole tribù, condizionando a loro favore le votazioni. Per questo, per contenere il loro peso politico li fecero inizialmente distribuire in otto (o, al massimo, dieci23) tribù, per altro soprannumerarie e destinate a votare dopo le altre trentacinque tribù affinché il loro voto risultasse meno influente24. Tale decisione, che creò più d’un malumore, fu però poi modificata dai Popolari che, per garantire uguali diritti a tutti, riuscirono a far approvare che i nuovi cittadini fossero ripartiti in tutte le trentacinque tribù già esistenti. E fu questa la decisione definitiva, adottata presumibilmente non prima dell’83 a.C.

 

I criteri di scelta dei municipia

C’era inoltre un altro problema gestionale di non poco conto da risolvere, vale a dire quali città meritassero d’essere elevare al rango di municipio e quali no. Le comunità da municipalizzare erano infatti diversamente organizzate essendoci, nel vasto territorio degli ex-alleati, insediamenti di differente natura. C’erano zone dove si trovavano stanziamenti aventi già una configurazione da città-stato (ad esempio le aree etrusche e quelle delle ex-colonie greche), in cui la scelta era in pratica obbligata, ed altre (le aree italiche tra le quali quelle della penisola salentina) che avevano rari centri con uno sviluppo urbano equiparabile ad una città e che, pertanto, non potevano per lo più contare su una struttura politico-amministrativa autonoma, tanto da essere considerati delle borgate (vici) o delle semplici compagini rurali (pagi), tra i quali la scelta non era per niente pacifica. Nel primo caso, si trovavano infatti già presenti le strutture fondamentali per ospitare il costituendo municipium; nel secondo, invece occorreva scegliere quali centri dovessero divenire municipio — e, nel contempo, prevedere gli interventi necessari per adattarli alle nuove esigenze — e quali dovessero essere relegati ad un ruolo secondario, inglobati nei costituendi municipi magari come zone rurali che ne avrebbero irrimediabilmente condizionato lo sviluppo futuro. In quest’ultima condizione si trovavano, come già anticipato, le zone italiche e, tra queste, a parte Brindisi e Taranto, le comunità della penisola salentina.

Non esiste documentazione da cui desumere quali siano stati i reali criteri adottati per fare una simile scelta, sebbene si possa  ipotizzare che le località furono valutate in base al livello di urbanizzazione già in atto, all’importanza da tempo acquisita e, come avveniva di solito in queste circostanze, ai comportamenti tenuti in passato nei confronti di Roma.

Non è d’altra parte questo il solo punto oscuro. Restano infatti dibattuti altri aspetti giuridici, tra i quali quello di maggior rilievo riguarda le modalità con cui la riorganizzazione dei territori fu compiuta, in particolare se si cercò di normalizzare i nuovi municipi, imponendo dall’alto un modello statutario, oppure no. In altre parole, se il processo di municipalizzazione avvenne riproducendo, sia pure in scala ridotta, il sistema costituzionale operante nell’Urbe o se avvenne, come accaduto nei periodi precedenti la guerra sociale, lasciando alle singole comunità margini di scelta. Qualunque sia stata la decisione assunta in merito, certo è che, verificando gli effettivi esiti della municipalizzazione, si ha un quadro quasi uniformemente diffuso riguardo alle magistrature di maggior peso e alla composizione dei senati e delle assemblee dei nuovi municipi. Una uniformità che si otterrebbe ben difficilmente per spontanea adesione, e che fa quindi presupporre l’esistenza e la realizzazione d’un piano ben preciso ideato in sede centrale. D’altra parte il fatto stesso della presenza della clausola del fundus fieri, la quale come visto prevedeva la formale accettazione del diritto romano, farebbe propendere per l’adozione di statuti, in un certo qual modo, standardizzati.

Comunque sia andata, vediamo cosa presumibilmente fu deciso per le comunità salentine, cioè a dire quali furono i possibili centri elevati al rango di municipium, le tribù cui essi furono assegnati e quali gli assetti istituzionali assunti.

 

I municipi romani istituiti nella penisola salentina

Nel nord della Calabria, divennero di certo municipi le città di Brindisi, Oria e Taranto, mentre non ottennero tale rango località di pur antica tradizione in quanto decaduti, quali Manduria, Mesagne, Muro Tenente e Valesio. Manduria fece certo parte, insieme a Li Castelli, del municipio di Oria; Mesagne, insieme a Muro Maurizio e Valesio, di quello di Brindisi; dubbia la destinazione di Muro Tenente, che molti ipotizzano aggregata a Brindisi mentre io vedrei piuttosto associata ad Oria. Nel Centro, la scelta cadde su Rudiae e Lecce. Nel Sud, con ogni probabilità, su Nardò, Otranto, Gallipoli, Alezio, Ugento e Vereto.

La ricostruzione da me compiuta si basa sulla consistenza ipotizzabile in base alle ricognizioni archeologiche e all’importanza degli insediamenti desumibile dagli scritti dei geografi e naturalisti dell’antichità, oltre che alla loro collocazione rispetto alla rete viaria del tempo. Se certamente su Brindisi e Taranto non c’è discussione, lo stesso dovrebbe essere per Oria e Rudiae (sia per la consistenza, sia per la posizione), per Nardò e Ugento (in questi casi soprattutto per la consistenza), per Lecce, Alezio e Vereto (in prevalenza per la collocazione). Qualche dubbio ci sarebbe per Gallipoli e Otranto, però posizionate in punti troppo strategici perché i Romani non ne abbiano voluto favorire la crescita prevedendo l’istituzione d’un municipium, magari in un momento immediatamente successivo.

Per quanto riguarda le tribù di assegnazione, è possibile formulare ipotesi certe solo su Brindisi (tribù Maecia), Taranto (Claudia), Rudiae (Fabia), Lecce (Camilia), Gallipoli (Fabia) e Vereto (Fabia). Forse anche Alezio fu aggregata alla tribù Fabia, mentre per Oria, Nardò, Otranto e Ugento non esiste il più lontano indizio di quale possa essere stata la tribù di destinazione. A tali conclusioni portano soprattutto le fonti epigrafiche.

 

Gli organi dei municipia salentini

Passando all’organizzazione statutaria, occorre ricordare che la tradizione repubblicana osteggiava l’uomo solo al comando, sicché l’unico organo monocratico previsto dall’ordinamento romano era il dictator (dittatore), per altro magistratura straordinaria, utilizzata quindi eccezionalmente e per periodi limitati nei soli momenti di grave pericolo. Per il resto la costituzione romana si affidava in maniera esclusiva agli organi collegiali. Per lo stesso motivo i municipi romani non avevano un corrispettivo del nostro sindaco ma un istituto collegiale responsabile della gestione amministrativa della città. Nei municipi salentini il collegio dei massimi magistrati cittadini fu composto da quattro membri (quattuorviri)25, ripartiti in due coppie: i due quattuorviri iure dicundo ed i due quattuorviri aedilicia potestate. La prima coppia aveva un ruolo prioritario, assimilabile a quello svolto a Roma dai consoli.

A questi due magistrati — chiamati per semplicità giusdicenti, perché esercitavano tra le altre funzioni la giurisdizione civile e penale — spettava anche l’eponimia in ambito cittadino, presiedere e convocare il consiglio comunale e le assemblee popolari, sovrintendere alle responsabilità di culto e ad amministrare le finanze comunali. Nell’ambito delle loro prerogative, godevano di un’ampia autonomia organizzativa, però rispondevano personalmente di eventuali problemi di carattere economico e dovevano risarcire il municipio per qualsiasi dissesto finanziario conseguente ad una loro decisioni. Per questo, all’assunzione dell’incarico dovevano versare una cifra consistente, denominata summa honoraria, utile a coprire ammanchi di vario genere. Di conseguenza potevano aspirare ad un simile incarico solo i cittadini particolarmente danarosi.

Anche la seconda coppia, quella dei due quattuorviri aedilicia potestate, doveva essere finanziariamente ben attrezzata. La locuzione aedilicia potestate racchiudeva infatti funzioni riguardanti il mantenimento dell’agibilità delle strade, degli edifici pubblici e dei templi ma pure l’approvvigionamento della città e il garantire una vita pubblica regolata tramite il corpo di polizia urbana. Nello svolgimento di tale incarico non si potevano accampare scuse di bilancio: se una strada era dissestata, bisognava aggiustarla, magari in parte o in toto a proprie spese, e non limitarsi, come avviene ora, a mettere un cartello avvisando di fare attenzione perché la strada è danneggiata.

Dai magistrati si pretendeva la diligentia, vale a dire l’essere scrupolosi nell’adempimento dell’incarico ed un atteggiamento solerte e sincero (sine dolo malo) non fingendo quindi una cosa per poi farne un’altra. Pulizia d’animo che dovevano manifestare sin dal momento in cui proponevano il proprio nome nelle riunioni (contiones) delle assemblee (comitia) popolari, vestiti con una toga sbiancata in modo da essere candida, circostanza questa che diede origine al termine “candidato”.

Da un punto di vista politico, il ruolo dei due quattuorviri iure dicundo era quello più prestigioso e costituiva di fatto l’apice delle cariche magistratuali previste dal cursus honorum (letteralmente, corso degli onori, nel senso di sequenza delle cariche pubbliche) municipale. Ed erano infatti loro a ricoprire, a scadenza quinquennale, il ruolo di quinquennales, cioè a dire di censori, che aveva un valore davvero speciale in antichità, in quanto conferiva il compito di stabilire il “censo” di ciascun cittadino, fissandone così la relativa posizione sociale, ma pure di valutare la loro condotta morale. Una bocciatura da parte dei censori incideva di fatto sul bene allora più tenuto in considerazione, il buon nome, e conduceva inevitabilmente all’emarginazione sociale e politica. La nota censoria, con cui i censori riprendevano un cittadino, era una vera e propria sanzione politica comminata a chi s’era macchiato di comportamenti indegni, che comportava  l’espulsione dal decurionato, dall’ordine equestre e, per il semplice cittadino, dalla tribù.

I quattuorviri duravano in carica un anno ed erano eletti dal populus, composto dai cives  (cittadini di pieno diritto del municipio) e dagli incolae (per lo più forestieri che avevano ottenuto di risiedere nel territorio municipale), ripartiti in distretti politico-amministrativi chiamati curie.

Come gli attuali comuni, anche i municipi salentini prevedevano un organo collegiale di base, assimilabile al nostro consiglio comunale, con funzioni normative, finanziarie e di controllo. A quel tempo un simile ente era denominato ordo decurionum, sicché i consiglieri comunali erano chiamati decuriones o, meno spesso, curiales, perché le loro riunioni avvenivano nelle curie.

Le regole per diventare decuriones erano per certi versi molto più rigide rispetto a quelle attuali per diventare consigliere comunale. L’ufficio era vitalizio e la composizione era decisa dai censori che ogni cinque anni stabilivano, nella cosiddetta lectio senatus (letteralmente, scelta del senato), inserimenti, subentri e decadenze, in base a criteri che tenevano conto del censo, dell’età, della residenza, della onorabilità e della stima goduta dai designabili. Per ambire alla carica di decurione, bisognava infatti godere: dei diritti politici, di un reddito annuale di almeno 100.000 sesterzi (all’incirca 400.000 € attuali) e d’una età non inferiore ai trent’anni. In aggiunta occorreva: essere domiciliati nella città da almeno cinque anni; essersi comportati sempre in maniera inappuntabile e, infine, di non aver mai esercitato mestieri infamanti (in pratica, non aver mai fatto l’attore, il banditore, il tenutario di case di tolleranza, l’impresario di pompe funebri ed il gladiatore). Erano questi i requisiti ritenuti essenziali per accedere e svolgere nel migliore dei modi gli honores, termine con cui venivano appunto caratterizzate le massime magistrature statali, in quanto tali incarichi davano l’onore di adempiere un officium (un obbligo) e non utili monetari o di altra natura. Pertanto, al pari dei quattuorviri, la carica di decurione non comportava l’accredito di assegni mensili o vitalizi ma, al contrario, il dover spesso far fronte di tasca propria a spese di utilità pubblica, fossero esse correnti oppure straordinarie.

Se qualcuno a questo punto avesse modo di chiedere loro chi glielo faceva fare, si sentirebbe rispondere con una semplice parola: existimatio, come dire per la stima ed il credito che tali compiti, svolti nel migliore dei modi, consentivano di ottenere presso i concittadini.

Fare politica ad un certo livello era in definitiva un punto d’onore e, al tempo stesso, motivo di prestigio e di riconoscimento.

 

Note

1 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.

2 Ibidem, XXIII 20, 2.

3 Ibidem, XXIII 20, 2.

4 Diiodoro siculo (I secolo a.C.),  Biblioteca Storica, XXXVII 18.

5 Il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui Roma annetteva un territorio conquistato.

6 Le colonie greche avevano con ogni probabilità maggiore capacità contrattuale delle comunità italiche, sicché riuscivano a strappare condizioni  in genere più vantaggiose. Così almeno avvenne per Taranto rispetto a tutte le altre città salentine, fatta eccezione di Brindisi, dove venne dedotta una colonia.

7 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.),  De domo sua, 77.

8 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).

9 Livio, Cit., XXV 3, 16.

10 Ibidem, XXII 61, 11-12.

11 Ibidem, XXV 1, 1.

12 Ibidem., XXVII 10, 7-9.

13 Cicerone, De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).

14 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.

15 In quel periodo s’intendeva per Italia la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.

16 Velleio patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.

17 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, A.C. CLARK, 1907, p. 3. Incerta la datazione del provvedimento che viene comunque fissata per gli ultimi decenni del II secolo a.C.

18 Per consultare la scheda,  https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (consultata il 23.03.2022).

19 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.

20 Cicerone, Lettere ad Attico, IV 1, 4.

21 Appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, I 9, 79.

22 Non a caso, il termine tributum derivava appunto da tribus.

23 Velleio patercolo, Cit., II 20, 2, parla di otto tribù; appiano, Cit., I 49, di dieci.

24 C’è da rammentare che le tribù non votavano in contemporanea ma in sequenza, sicché c’era il rischio che quelle scelte a votare per prime potessero con il loro voto influenzare le altre. Per evitare ché le fazioni  utilizzassero  l’ordine con cui le tribù votavano per condizionare a proprio favore il voto, da un certo momento in poi si ricorse al sorteggio. S’aggiunge che le votazioni venivano dichiarate concluse quando diciotto tribù s’erano espresse allo stesso modo, essendosi ottenuta la maggioranza prevista.

25 Qualche decennio dopo, a metà circa del I secolo a.C., Taranto adottò, in luogo del quattuorvirato, il duovirato, come testimoniato dall’epigrafe bronzea riportante alcune parti dello statuto tarantino (lex municipii Tarentini).

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Un commento a Penisola salentina romana

  1. Mi occupo di divulgazione scientifica riguardante gli oli essenziali che, en passant, vorrei ricordare sono presenti nella Farmacopea Uff. Italiana ed Eueopea. Sono quindi innanzitutto farmaci.
    Guardare cosa scrive Wikipedia è come sparare sul pianista. Nella pag. di divulgazione che pubblico su Fb ho una serie di post dedicati e intestati a Wikipirlia quando vuole parlare di oli essenziali e ormai, annoiato, ho smesso da un pezzo. Rideteci su, non fanno testo che per le date e poco altro.

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