Accademie salentine. Storia di un Problema Accademico

Frammenti di cultura letteraria pugliese del primo Settecento

 

di Marzia Mola

 

Raccolta di varie Accademie è un congruo nucleo di fogli vergati a mano conservato presso la biblioteca arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi. La predisposizione alla ricerca, che induce filologi e studiosi a operare sugli aspetti storico letterari di un testo, ha comportato il rinvenimento delle varie sedute accademiche menzionate nel manoscritto in questione.

Tenute a San Vito dei Normanni durante la seconda metà del millesettecento, alcune di esse sono state analizzate brillantemente da diversi cultori pugliesi, ma è risaputo che un codice cela sempre il suo motivo recondito. È tuttavia noto ai più che i protagonisti delle suddette siano stati nobili salentini e non solo; essi, in una Puglia in cui già avanzavano le nuove tendenze culturali dell’epoca, facevano poesia per divertissement, di modo che svagandosi giungessero a conquistare la forma più vera e autentica della conoscenza.

Elemento distintivo degli incontri accademici è l’assenza di una sede fissa, ci si spostava da un cortile a un aranceto, da un sagrato alla stanza di un palazzo.

Entrando nel vivo di una seduta tipo, si evince che ogni riunione cominciava con i saluti e gli omaggi dell’epoca, proseguendo con la nomina per alzata di mano del Principe d’Accademia, sodale deputato a rivelare il tema della serata. Dalle carte emergono i più svariati argomenti che lo rendono uno spicilegio ovvero una raccolta di pagine scelte: fede, gloria, conversione, tirannide, ma anche “come resistere ai vezzi delle donne”, “l’allegrezza distrugge l’uomo?” e via discorrendo.

Le pagine svelano anche la teatralità di questi momenti, nei quali si interveniva con produzioni personali, improvvisando o recitando componimenti d’occasione. I generi adoperati erano il sonetto, il madrigale, la favola pastorale, l’elogio, scritti e recitati in diverse lingue: latino, italiano e dialetto napoletano e salentino.

Segue l’analisi di una serata accademica, tenuta presso l’abitazione privata di Fabio Marchese di Belprato, principe di San Vito degli Schiavoni, tenuta il 5 novembre 1730.

PROBLEMA ACCADEMICO

“Qual renda più glorioso un principe l’uso dell’esatta Giustizia, o quello della Clemenza.”

“ Tenuto in Casa dell’eccellentissimo Sign. Principe di S.Vito il 5 novembre giorno di domenica nell’anno 1730 dall’intervento dell’illustrissimo Cono Luchino del Verme Vescovo di Ostuni ad ora prima. ”

La suddetta raccolta si svolge in una serata autunnale, nel giorno di Domenica 5 novembre 1730. Non è stato semplice risalire all’orario dell’incontro, dato che, per indicarlo, colui che ha steso il testo ha pensato di trascrivere solo la formula “ad ora prima”. Consultando l’antico sistema di trascrizione delle ore, si è giunti alla conclusione che, il computo delle ore notturne aveva inizio dopo il tramonto del sole; i sodali quindi, si erano riuniti un’ora dopo il tramonto. Dunque se nel mese di novembre il sole tramonta intorno alle ore sedici, l’espressione “ad ora prima” la si traduce con l’intervallo di tempo tra le diciassette e le diciotto. Il Principe d’Accademia, Petrina, sottolinea la presenza in serata dell’Illustrissimo Vescovo di Ostuni Cono Luchino Del Verme, il quale interviene eseguendo un madrigale e sonetti vari. Personalità conosciutissima ai sodali per i suoi interessi teatrali e letterari, Del Verme è l’unico che durante la serata si esprime in latino, senza ricorrere ai dialetti, che permeano lo scenario. Il presule probabilmente conosceva poco il dialetto ostunese, date le sue origini napoletane, ancor meno quello sanvitese o leccese.

Alla presentazione iniziale segue una introduzione, nella quale Petrina si presenta al pubblico partecipante.

INTRODUZIONE

“Eccomi di bel nuovo o virtuosissimi accademici, Corona di Letterati, prescelto a far da Principe in ciò che ora dovran concedersi in maggioranza di gloria, in un soggetto, che nascerli dall’usu d’un esatta giustizia o da quello della clemenza.”

Così dà inizio all’orazione e pone l’accento sul fatto che nuovamente, sia stato scelto a presiedere un’adunanza di cultori, alla quale, probabilmente vi hanno preso parte colleghi già conosciuti in passato. Definiti “virtuosissimi” per il loro talento, sono incoronati alla maniera in cui, come le lettere insegnano, ai poeti e agli eroi era donato l’alloro. In virtù delle loro competenze letterarie essi dovranno ragionare insieme per poi esprimersi in un giudizio finale. I benemeriti sono chiamati a decidere qual è il comportamento che un principe deve adottare per essere giudicato glorioso: l’uso di una esatta giustizia o della clemenza?

“Ampia materia invero che sarà la pietra paragona il crivello per sentirne da lui ben conosciuti competitori, che sonovi a canto l’ingegnosa difesa.”

L’argomento vasto che sarà messa al vaglio, cioè a giudizio, deve essere ben valutato da tutti, che comparando le due attitudini del buon Principe, dovranno, in maniera oggettiva e sulla base di argomentazioni fondate, portare a difesa l’una o l’altra predisposizione regale. Il corifeo si serve della metafora della pietra di paragone per spiegare ai competitori che, avrebbero dovuto dimostrare la validità del loro responso, nella maniera più oggettiva possibile, come la pietra di paragone verifica la purezza dell’oro. Solo con questo metodo, il confronto, sarà il mezzo dal quale si arriverà ad un giudizio finale.

“Non vi bastò di d’avermi sperimentato insufficiente a carica cosi importante allora quando meritai l’onere stesso (sebbene mal impiegate) di decidere qual fu la maggior costanza del Campione di Lucania, parlar intento del nostro glorioso S. Vito.”

Petrina, per sottolineare la sua costante partecipazione alle riunioni letterarie, cenna ad un altro momento topico della sua esperienza accademica passata; si tratta di una serata in cui egli invitò i giudici a riflettere sulla figura di S. Vito martire.

  1. Vito, era un siciliano figlio di pagani che venne torturato perché non rinnegava la propria fede cristiana; incarcerato e liberato miracolosamente da un angelo si sarebbe recato in Lucania. Perciò l’accademico lo denomina campione di Lucania, per via della costanza che il santo dimostrò nella continua lotta al paganesimo che poi lo rese martire e quindi campione di fede cristiana. Egli difatti nel 303, in Lucania subì il martirio. Il termine nostro, che indica il santo, è utilizzato, perché gli abitanti di S. Vito, nonostante le origini siciliane del martire, lo hanno accolto, metaforicamente, come cittadino.

“Se niente pentiti contenti siete tra scegliermi or ora a proporvi qual sia la maggior gloria d’un Principe quella che risulta dall’uso di un’esatta giustizia o da quello della clemenza. Problema in cui si pesa la giustizia e la clemenza doti ambedue gloriose in un Principe Cattolico;”

L’interprete deduce che se è stato invitato, ancora una volta, a sovrintendere la riunione, è chiaro che gli argomenti vagliati nelle precedenti sedute, sono stati ben accolti. Allo stesso modo sarà gradito il tema che deliberato la sera del 5 novembre. Egli rimarca il concetto con il quale guadagnerà l’attenzione dei partecipanti: per essere reputato glorioso un principe deve esercitare con oggettività e incorruttibilità la giustizia nei confronti del suo popolo o lasciarsi sopraffare dalla pietà ed essere clemente?

“egli però visiera calata chiuderà gli occhi all’altrui lagrime e peserà le colpe per punirle, a misura sarà giusto, se non terrà le orecchie coverte dalle celate perché ascoltar possa i lamenti di chi lo priega, sarà clemente.”

Quindi come deve comportarsi un principe cattolico? Se egli non si lascerà impietosire, e porrà un velo sugli occhi quando vedrà qualcuno piangere e pregare affinché non sia punito, eserciterà la giustizia. Se invece egli non terrà le orecchie coperte, e si soffermerà ad ascoltare ogni supplica che, giunge dai miseri al suo orecchio, sarà clemente. L’argomento su cui i sodali sono chiamati a rispondere non è semplice: chi può decidere se l’uso della giustizia rende un uomo virtuoso? Chi stabilisce che un re sia degno di stima perché assolve ogni comportamento umano? Se un sovrano è clemente è ingiusto? È anche l’ingiustizia una virtù? Per rispondere ai quesiti, si chiamano in causa i classici, il primo menzionato è Aristotele che, probabilmente nella Politica, elevò l’ingiustizia al rango di virtù. Dalle parole del moderatore emerge che se un principe è ingiusto, perché adotta la clemenza e quindi si lascia corrompere dalle parole e dai comportamenti dei sudditi è comunque un uomo virtuoso perché assecondandoli, dà voce alle leggi non scritte, reprimendo se stesso e mettendo da parte i suoi doveri di monarca. La sua virtù, consiste quindi nel reprimere i princìpi nobili, nei confronti dei quali è ingiusto, e dar voce alle leggi del cuore. In conclusione l’ingiustizia è anch’essa una virtù. A contrastare questa tesi viene chiamato in causa Gregorio Magno assertore del principio di giustizia. Egli ritiene che un re deve sempre coltivare la giustizia perché solo in questo modo può essere considerato il migliore. L’esempio di sovrano è qui, quello di un uomo che dall’alto giudica e si esprime nelle sue azioni, in maniera razionale, tralasciando le passioni e i sentimenti, che sono nemici acerrimi del suo equilibrio mentale. Ma un re facendosi portavoce di giustizia ed esercitandola senza pietà, non concentra tutta la sua energia in un esercizio violento? E non è la violenza essa stessa anche una passione? Allora un principe dovrebbe essere mite, governare arginando le passioni sia positive che negative e agire con umanità. Ma la mitezza è sinonimo di non violenza?

Petrina cita Seneca che, si fa portavoce della visione di un principe mite, il quale regge il potere ricorrendo alla pratica della non violenza. Ma un principe assertore della mitezza può essere considerato giusto? O nella mitezza si nasconde un principio di tolleranza che lo rende clemente? L’introduzione si conclude con gli ultimi due esempi:

“Ma la giustizia al dir di Cicerone è il Sole in un Principe e tutte l’altre sue lodevoli azioni non sono che un di lei piccol raggio. Ella è la base dove s’alzanoj trofei gloriosi, ed eroica azione, senza la quale niente altro vi è di lodabile.”

La citazione di Cicerone, che si fa promotore del concetto di giustizia, legittima che la morale nobile deve prevalere in un principe degno di lode. Il compito di un sovrano decoroso è quello di far splendere il Sole, il sole della Giustizia, che illumina lo stato. Uno stato è rispettabile solo se il suo monarca, attraverso la luce del sole, irradia le menti del popolo educandolo al dovere morale della giustizia, dalla quale hanno origine le altre sue lodevoli azioni.

I virtuosissimi sono chiamati a esporre le proprie riflessioni, ed affiorano moltissimi pensieri a riguardo: Chi può decidere se l’uso della giustizia rende un uomo virtuoso? Il Principe d’Accademia chiude infine la seduta, compendiando i pensieri di tutti: “Questi motivi che riguardano la gloria del principe serviranno di base alle nostre nobili idee, e conchiudenti ragioni”.

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