Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (VI)

Scorcio di paesaggio rupestre e marino di Santa Caterina, Nardò, (Lecce) (ph Cristina Manzo)

 

di Cristina Manzo

«Sulle pianure del Sud non passa un sogno.

Sostantivi e le capre senza musica,

con un segno di croce sulla schiena, un cerchio,

quivi accampati aspettano un’altra vita.

Tutto è evidenza e quiete,

e si vedrebbe anche un pensiero, un verbo,

con il bigio sgomento d’una talpa

correre tra due pietre.»

Vittorio Bodini[*]

 

Il Salento è una magia da scoprire che affascina e cattura quanti realizzano la possibilità di conoscerlo. Si lascia penetrare fin nei più piccoli segreti e apre il cuore a ogni viaggiatore interessato alla sua storia e, pian piano, si insinua dentro e ruba l’anima.

Attraversata la Serra delle Fontane, a sud di Ugento, c’è la Bufalaria, una delle poche masserie salentine in cui si allevavano bufali che, si dice, potrebbero essere stati introdotti in Italia nell’epoca sveva e normanna. Alle spalle della casa vi è un boschetto di pini. In Salento pochissimi allevatori si erano dedicati a questa scelta, che prese invece piede in Sicilia e in Campania. Si allevavano i bufali esclusivamente per il loro latte, per ricavarne i prodotti caseari ma, vi era ripugnanza a mangiare la loro carne. “Una vita grama, quella dei bufalari, sempre in lotta con la malaria, che come paga riceveva poco burro alla settimana e il diritto di contendere al bestiame la cicoria selvatica[1]

Ma, andiamo con ordine, riprendiamo il nostro viaggio itinerante nella Mancha del Salento, esattamente da dove si era interrotto con l’ultima storia, quella di Michael Binder, artista della Baviera che aveva scoperto il Salento su invito di Helmut Dirnaichner, fino a farne la dimora della sua arte e della sua vita. Andò in questo modo la storia d’amore tra Helmut e Christine Dirnaichner e il Salento:

Un interminabile viaggio da Lecce a Gallipoli e poi da Gallipoli a Ugento. Da soli, in tutto un vagone del treno della Sud Est, mentre oltre i finestrini, corrono ulivi e pietre e all’orizzonte si snoda il nastro azzurro del mare. Tutto il tempo necessario per rimanere folgorati da un vero e proprio colpo di fulmine. Nel 1979 fu il loro primo viaggio, la loro prima volta nell’affacciarsi da quel finestrino sulla poesia del Salento, e bastò a fargli decidere di farne la loro seconda patria.

Helmut e Christine, tedeschi della Baviera, come altri degli artisti di cui abbiamo parlato si trasferirono circa quarant’anni fa nell’entroterra di Torre San Giovanni, presso Gemini, con il loro bambino, tra le pietre e gli ulivi di una campagna primordiale dove, dicono con orgoglio, non è mai entrato un trattore. Nella masseria tutto è lasciato alla sua selvatica e naturale bellezza, le antiche e nude mura architettoniche e la vegetazione: un misto di alberi e macchia mediterranea, agavi, fichi d’India, capperi, menta, basilico e altro ancora. Persino il serpente insediato nelle fessure della colombaia può restare indisturbato e la natura, dona in cambio del loro rispetto, una vastità enorme di frutti e ortaggi da non aver quasi bisogno di nulla altro.

Christine, oltre ad essere un’intellettuale, diventa una capace vestale della casa e una massaia formidabile, che impara a sfruttare appieno tutte le risorse di quella generosa terra, così come era già accaduto a Michael, a Patience e Mommens, a Gerhard e Rita, ad Heinz e Mirjam. Helmut e Christine sentono intensamente il valore dell’ospitalità e il piacere della conversazione.

La loro casa è un punto di incontro e di scambio, un cenacolo dove costruire progetti e nuove situazioni. Helmut intrattiene rapporti di dialogo di vari livelli con i suoi vicini, non solo per i problemi dell’agricoltura, ma anche per scambi culturali, facendo della masseria un luogo d’incontro e dibattito. Nella persona di Helmut nei panni di profeta, sembra essersi trasferito lo spirito che già aveva animato le scelte e lo stile di vita degli abitanti di Spigolizzi e della Bufalaria: quell’identico legame profondo con la terra e la struttura contadina, quel desiderio di essere attenti e rispettosi verso i luoghi e il desiderio di socializzare il proprio lavoro. Helmut rispetto a Normann ha dovuto affrontare più spostamenti, a causa degli studi del figlio e di alcune necessità che lo hanno ricondotto a singhiozzo a Milano e a Monaco ma, sin dal principio si era creato un sodalizio perfetto tra lui e Normann, le feste, i raccolti, le vendemmie condivise, i discorsi sull’arte e anche le mostre insieme: la prima fu “Costellazioni Terra e Pietra” a Palazzo D’Elia a Casarano nel 1986, la seconda fu “Materia sorgente”, al Circolo “La Scaletta”, a Matera nel 1989.

Nato nel 1942 a Kolbemoor in Germania. Dal 1970 al 1976 studia all’Akademie der Bildenden künste a Monaco. Nel 1978 arriva a Milano con una borsa di studio del DAAD. Il suo lavoro artistico è incentrato sulle terre e sui minerali di cui ricerca materia, colore e storia in stretto rapporto con lo spazio. Quando nel 1979 conosce il Salento, e acquista la casa presso Ugento, vi trascorre lunghi periodi collaborando con le realtà culturali del luogo. Globe trotter con esperienza di vita e d’arte a Monaco e a Parigi, a Mosca e a Londra, ad Amsterdam e a New York, in Spagna, Messico, Egitto e un lungo percorso italiano da Milano a Firenze, da Roma a Matera, individua in quel di San Giovanni l’essenza della sua futura vita. Come Federico II di Svevia, il suo conterraneo, Helmut sente profondamente il fascino di questa terra di Puglia, da sempre luogo di transito di civiltà di cui conserviamo tracce ovunque, come nei misteriosi graffiti di porto Badisco, nelle memorie dei messapi, greci, romani, monaci basiliani e nello Zeus di Ugento. Terra che da sempre, essendo centro di esodi e di approdi, ha irradiato cultura nella cultura, come il paziente e minuzioso lavoro degli amanuensi di Casole.

Helmut venera e rispetta la terra, ne fa la materia privilegiata dei suoi lavori. Per lui la terra racconta, ha una storia, una memoria. Come un alchimista manipola le polveri preziose di lapislazzulo, malachite, acqua marina tormalina e il cinabro, di origine magmatica, già noto ai greci, che usa in pittura per produrre il pigmento vermiglione. E ancora, preleva per le sue magie la ricca terra rossa del Salento, la terra grigia di palude, sedimentata vicino al mare, le argille gialle, le nere ceneri dell’ulivo bruciato che lega con la cellulosa.

Il tutto viene disposto con ordine nell’ambiente più bello della masseria che dopo alcuni restauri è diventato il suo studio, una grande stanza con il soffitto a botte, cinquecentesca, dove entra una luce chiara che accende di colore i minerali preziosi che usa per esprimere la sua arte. Le forme dei lavori di Helmut, semplici e minimali, sono suggerite dalla natura: l’ovale del frutto, la forma lanceolata delle foglie, l’anello della chioma d’ombra dell’ulivo.

Così l’artista ritrae il Salento, esattamente nel modo in cui lo ama e tutto il suo lavoro racconta la mappa del paesaggio e ne racconta la forma sotterranea e originale. La sua opera è pittura e struttura, corpo plastico e figura astratta. Si articola nello spazio e si costruisce sulla memoria di architetture reali e spazi concreti ma, se si indaga oltre, si scopre che i suoi lavori sono veri distillati del mondo che oltrepassano il confine fisico del visibile per andare oltre la materia, percependo l’infinito e vestendolo di poesia. Quando trasforma i suoi elementi, Helmut lo fa immergendosi nella ricerca di una ricostruzione del paesaggio passando per un percorso di rarefazione della materia prima, per poi concettualizzarlo in modo che non perda la sua naturalità espressiva. Insomma non è un alchimista alla ricerca della pietra filosofale ma un artista che mette la sua anima nella profondità dell’oggetto per arrivare alla sua essenza e sentirsi un tutt’uno con essa. Ed è proprio questo che dona alla sua opera una profonda aria di sacralità. Esattamente come Piet Mondrian, il pittore olandese famoso per i suoi quadri “non rappresentativi” che in realtà erano frutto di una instancabile ricerca di equilibrio tra linee e colori, Helmut vuole raggiungere l’essenza dei materiali e delle cose e renderla visibile allo spettatore, mettendolo a parte così, della magia che caratterizza ogni singola creazione[2]. Nel 2005 ha tenuto uno stage all’Accademia di Belle Arti di Lecce.

Le sue mostre hanno visto come sedi Dresda, New York, Monaco, Milano, Bonn, Mittwock ma anche Lecce, Casarano, Copertino, Matera, Presicce e Nardò, nella primavera del 2018, come ci racconta l’intervista del Tacco D’Italia:

Dopo la partecipazione alla manifestazione tenutasi nel luglio scorso a Presicce, dove aveva fatto ammirare alcuni suoi lavori, magica combinazione sintetica di colori e materia, di forme sospese nell’aria, l’artista bavarese ritorna nel Salento con una mostra delle sue opere più recenti, installate a Nardò, presso la galleria L’Osanna. Risponde con piacere ad alcune nostre domande.

Helmut Dirnaichner

 

Dopo l’esposizione di Presicce, si ritorna a Finis terrae: quale valore ha per Lei questo estremo lembo tra due mari?

– E’ stato affascinante per me constatare come le mie opere, con i colori minerali, sono entrate in corrispondenza con gli affreschi dell’ex convento degli Angeli a Presicce. Nel convento, rinato a nuova vita in occasione della manifestazione “Insediamenti“, nei mesi di luglio-agosto, grazie all’entusiasmo dell’Associazione Nous, si è creata un’atmosfera magica e meditativa. Da quasi quarant’anni sono legato al Salento come importantissima fonte della mia ispirazione artistica. La luce, il senso della materia, la forza meditativa e i rapporti di amicizia mi fanno sempre tornare di nuovo.

Un’opera di Helmut Dirnaichner (foto: Galleria Osanna Nardò)

 

Non è la prima volta che espone opere nella galleria d’arte neretina.

– Volentieri torno, dopo otto anni, a Nardò per continuare la collaborazione con la galleria L’Osanna, presentare il mio sviluppo artistico e portare avanti la comunicazione con le persone interessate all’arte.

 

Ogni mostra è sempre una sfida per creare un tutt’uno con lo spazio, in questo caso con la volta a stella. La Sua carriera artistica è in continua evoluzione e richiama un interesse sempre maggiore da parte della critica. Quali sono gli elementi innovativi che caratterizzano i Suoi ultimi lavori ?

– Nell’ultimo periodo mi occupo di un pensiero che avevo agli inizi del mio lavoro artistico e cioè il tratto del pennello, come l’acquarello, che con massima concentrazione descrive un andamento lungo e insieme profondo. Nei miei lavori attuali le pennellate hanno acquistato un corpo, creato a mano con i minerali di forma lanceolata; tali forme, sospese, si muovono con le correnti dell’aria. Nei vari periodi della mia evoluzione artistica ho costantemente inseguito lo stesso silenzio contenuto nella pennellata contemplativa, che oggi nell’installazione “Meteore” trova la sua espressione attuale.

 

Come non rimanere incantati dai lavori di Dirnaichner ?

Nelle sue opere parte da elementi presenti in natura per trasformarli in combinazioni di forme e colori di grande eleganza estetica. Rigore ed essenzialità sono alla base della sua ricerca, prima che luce e materia si schiudano in scrigni d’arte. Così Helmut riesce a emozionare e suggestionare: mettendo insieme cellulosa ed elementi attinti alla natura, siano pietre o minerali, erbe o vegetali, una sintesi che racconta lo spazio e il tempo. Di ciò che è in natura studia le qualità intrinseche, ne evidenzia le trasformazioni: le reazioni ad ogni movimento dell’aria, alla luce cangiante di cui si impregna la materia. Vivono di luce i colori delle sue installazioni di pittura-scultura,” mossi dal vento, dalla pioggia, dall’arcobaleno”, come meteore e particelle di un cosmo infinito che non smette mai di sorprenderci[3].

La sintesi della realtà concettuale dei lavori di Helmut è contenuta e documentata nei suoi libri artistici. Essi sono esposti anche nella preziosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, il luogo mitico in cui era collocata anche una delle sette meraviglie dell’antichità. E persino nelle pagine dei suoi libri è tangibile come la carta diventi soggetto di un processo manipolatorio in cui il bianco puro divetta colore appena percettibile, dando vita a forme elementari e antiche legate alla cultura del luogo. Nel 2001 l’artista, con la collaborazione della moglie Christine, pubblica sulla rivista “A Contrappunto”, la rievocazione di una sua conversazione sull’arte con Normann, scomparso l’anno prima, e una sorta di lettera-diario di viaggio da lui inviata dalla Spagna all’amico, datata in successione 19/XII- 29/XII/1992-5/I 1993[5].

Sul finire degli anni sessanta, avevamo detto… Normann Mommens, scultore-scrittore-astronomo-archeologo-contadino, e Patience Gray, scrittrice e giornalista, insieme alla coppia Arno Mandello, fotografo e pittore, ed Helen Ashbee, scultrice e orafa, si fermarono nella campagna tra Salve e Ugento al termine del loro viaggio verso sud alla ricerca di pietre e di luoghi persi. Qui avevano trovato una pietra povera e docile, per le sculture di Normann ed Helen, e per tutti l’illusione di essere giunti in un isola di vita antica, intatta[6].

I quattro amici, tutti di cultura ed esperienze cosmopolite, vennero rapiti dalla magia del luogo, dall’ospitalità semplice e spontanea della gente, dal cibo sano e genuino, dal senso di libertà che derivava da quella che Patience avvertiva come “ la meravigliosa mancanza di tutto”. Quello che sentivano di voler realizzare era proprio uno stile di vita che tenesse al di fuori tutto ciò che era un bisogno inutile costruito meramente dalla società. Aspiravano a costruire una comunità stanziale di spiriti itineranti attraverso la condivisione della cultura e dell’arte, e il rispetto della natura e di tutto quello che offriva. E, avrebbero fatto conoscere il Salento a molti amici artisti, ancora ignari della sua esistenza, invitandoli a trascorrere del tempo in quel luogo. Giusto il tempo di innamorarsene come era accaduto a loro.

Decisero quindi di scegliere due masserie vicine e farne la loro casa, dando vita ognuno alla propria vocazione personale e dando il via a questo meraviglioso progetto di identità. Le masserie Spigolizzi e Bufalaria divennero questo centro di aggregazione a cui molto presto si unirono altri salentini e altri artisti venuti dal loro paese o da altri luoghi stranieri. Tutti sensibili a questi principi. Un tentativo davvero eroico per il luogo e per i tempi, che molte volte, si scontrava con troppa burocrazia generando insofferenza, che alcune volte, mancava di concretezza, che ogni tanto, gettava nello sconforto perché, pareva di dover intraprendere una lotta per tante cose come quando, Don Chisciotte in sella a ronzinante, si era lanciato contro i mulini a vento credendoli dei giganti, finendo disarcionato per terra. Quando la sua lancia si era conficcata tra le pale che, mosse dal vento facevano muovere la macina, credendole braccia di giganti nemici, di difficoltà insormontabili, Don Chisciotte si era reso conto che Sancho aveva ragione, i mulini non si dovevano combattere, ma solo aggirare e proseguire in cerca di nuove avventure.

E così anche i nostri amici avevano continuato a proseguire la loro impresa nella mancha del Salento con desiderio e tenacia. Negli anni Settanta, si sa, i problemi del Mezzogiorno erano ancora tanti. Questi meravigliosi artisti che avevano lasciato tutto per cominciare il loro sogno ci misero tanto impegno. Per farla diventare una vera comunità però, oltre all’entusiasmo occorreva più diffusione e più sostegno. Senza una rendita stabile l’agricoltura della Bufalaria poteva solo mantenere i primi membri della comunità, producendo frutta, verdura, vino e olio.

La Bufalaria era stata trovata dopo ben tre mesi di ricerca, attraverso tutta la penisola salentina, era disabitata e in rovina con un’antica aia per battere il grano, quindici ettari di terreno trascurato, qualche albero di olivo e un bosco di pini alle spalle, e aveva di fronte una vista stupenda sul mare. Dopo lunghe trattative diventò la loro nuova “home”. Poco a poco, almeno in parte il “sogno” cominciava a realizzarsi. Gli androni principali della vecchia costruzione diventavano la casa con un “atelier” per Arno Mandello, l’amico di Man Ray, Pablo Picasso e Joseph Roth. In un edificio separato, che originariamente era la stalla dei buoi, fu creato un laboratorio di scultura per i lavori di saldatura e di fusione di Helen Ashbee, che già si prevedeva di ampliare grazie allo spazio magnifico intorno.

Nello stesso tempo si riparavano muri diroccati si piantavano cipressi come frangivento, si curavano gli ulivi rimondati, si piantavano frutteti e vigneti e si scavava un pozzo.

La vecchia stalla di capre, accanto al laboratorio, era stata trasformata in foresteria per amici e ospiti interessati a vedere quello che la masseria poteva offrire, per studenti venuti per contribuire con il loro lavoro nei mesi di vacanza alla realizzazione del “sogno” o addirittura, per rimanere e diventare una parte integrante del gruppo.

Nei primi tre anni di soggiorno nel Salento una grande scultura slanciata dorata fu ordinata per la sala di esposizione della “Olivetti” a Lecce, e una prima “manifestazione” o mostra dei vari lavori di entrambi gli artisti ebbe luogo alla Bufalaria nel 1972: tutto questo con l’aiuto e l’interessamento del Sindaco di allora S. Corvaglia, dell’Ente del Turismo, del Comune, di Ugento e della Pro loco, con la collaborazione del giornalista C. Pizzinelli[7].

Così, la campagna che circonda torre mozza, nella marina di Ugento, diventò negli anni settanta il set principale di un sogno, il sogno sognato da una donna, Helen Ashbee, che dopo la sua odissea nel mondo europeo approdava lì. Un percorso quello della Ashbee che avveniva esattamente in direzione contraria e originale partendo da uno dei centri culturali e artistici tra i più fervidi e importanti del secolo, come quello di Parigi, dove incontrò il suo maestro Giacometti, per giungere, in un angolo sperduto del mondo nel profondo sud che sapeva di Grecia e di miti ancestrali, alla ricerca di una autenticità senza compromessi.

Quando si arriva a Salve, Ugento, Santa Maria di Leuca è inevitabile fermarsi, siamo giunti a Finis terrae, oltre non c’è più niente…o meglio c’è solo il mare, e le colonne d’Ercole verso l’Oriente. In un ondata di emigrazione intellettuale verso sud, oltre un secolo prima, c’erano stati altri artisti che avevano compiuto quei viaggi in cerca di ideali, di poesia, di identità, e non tutti possedevano già fama e gloria; alcuni partivano portando con sé solo l’urgenza di ritrovare se stessi.

C’era stato Ferdinand Gregorovius, giovane trentenne in cerca delle tracce materiali di quel mito che lo caratterizzava e che sentiva essere il suo proprio destino. Segno di distinzione sono proprio le memorie raccolte nei suoi diari di viaggio, che ponevano attenzione ad ogni aspetto letterario, artistico e sociologico dei luoghi che attraversava e grazie ai rapporti intessuti con le persone con cui veniva a contatto, uno storico, non un pittore.

Il quinto volume della sua raccolta di viaggi è quello dedicato alla Puglia, “Apulische Landschaften”,(Lipsia, F. A. Brockhaus, 1877),dove si recò nel 1874 e nel 1875. C’era stato anche Johann Wolfgang von Goethe, da prendere come modello di attenzione e di sensibilità. Aveva viaggiato a lungo nel bel paese, ma a causa della ferrovia che all’epoca era ancora in buona parte da costruire, egli non arrivò mai nel Salento. Anche per lui valeva lo stesso discorso: « Lo scopo di questo mio magnifico viaggio non è quello d’illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti.»

Il viaggio in Italia consentì a Goethe di compiere «il passaggio definitivo da una visione soggettivistica e passionale a una visione oggettiva e serena della realtà», al punto che, secondo Pareyson, l’esperienza estetica maturata dal poeta tedesco divenne da allora inseparabile da quella scientifica e filosofica. Sarà infatti proprio di ritorno dal viaggio che Goethe inizierà a dedicarsi con slancio allo studio scientifico della natura, andando oltre le ristrettezze materialistiche degli scienziati del suo tempo, limitate a una concezione meramente meccanicista dei fenomeni, producendo opere di spessore come la Metamorfosi delle piante e la Teoria dei colori[8].

Ma se solo Goethe avesse conosciuto la nostra terra, sono sicura che molte delle sue poesie ne avrebbero parlato, egli, l’ultimo “uomo universale” a camminare sulla terra, come nessun altro, avrebbe tradotto la magia dei nostri luoghi in parole, in versi, in musica, in immagini, di un incanto perenne. E c’era stato anche Paul Bourget:

“Se il leggendario stivale che forma l’Italia portasse uno sperone, la cara città da dove scrivo queste righe occuperebbe proprio il posto della rotella. […]L’occhio è affascinato fino a essere abbacinato, lo spirito è preso fino al rapimento da questa ricercatezza di pietra che posa come un merletto, come un ricamo su tutta la piccola città. Questa capitale della terra d’Otranto è una città della fine del XVII secolo napoletano, rimasta intatta, con ogni sorta di particolari dovuti dapprima agli architetti di Carlo V, poi agli ultimi allievi del Rinascimento.[…] Qui si sognano musiche leggere, mascherate, feste voluttuose e facili, una Spagna italianizzata e felice. […]Gli abitanti hanno una sobrietà di gesti che contrasta coi popoli vicini del rumoroso Mezzogiorno. Nelle particolarità della strada, ci son gentilezze in cui si è lieti di trovar la prova d’una razza raffinata – come il ponticello di legno montato su ruote che si mette tra un marciapiede e l’altro nei giorni di pioggia perché si possa passare senza salirvi; – e quando, come ora, è giorno di pubblico mercato, la forma delle lampade di terra col loro becco allungato, quella dei vasi, stavo per dir delle anfore, destinate all’olio e al vino con le due anse, basta a ricordarvi che questi contadini, venuti dalle pianure vicine, sono i moderni eredi dei coloni cretesi sbarcati con Idomeneo, e gli ultimi nipoti degli antichi sudditi di Dauno, il suocero di Diomede. […]Eccomi dunque in piena Magna Grecia, già ho potuto veder sorgere sopra una porta le statue di Dauno e di Idomeneo. Gli stessi nomi delle strade serbano qui la traccia di quei lontani ricordi e di altri quasi ugualmente remoti, ma più autentici. Sono di nuovo Dauno e Idomeneo, favolosi eroi della leggenda; è Ennio, il poeta che nacque a Rudiae, vicinissima; è Augusto, che apprese a Lecce la morte di Cesare; sono Adriano e Marco Aurelio, che s’occuparono del porto ai tempi in cui la città era più vicina al mare. Essi hanno fatto da padrini a queste strade e a queste piazze, e i loro nomi s’alternano con quelli di Goffredo, di Boemondo, del re Tancredi, di Manfredi, di Gualtiero di Brienne, di Federico II. […] Bisogna scendere fino all’XI secolo e al periodo dei re normanni, per trovare una reliquia, veramente grandiosa, questa. Si tratta della chiesa dei Santi Nicola e Cataldo, fuori di Porta Napoli. Cominciata dal re Tancredi nel 1180, s’ingrandì poi d’un chiostro e fu posseduta dagli Olivetani dei quali riconosco gli stemmi. Le tre montagne con la croce e gli alberi mi ricordano i miei lunghi e tranquilli soggiorni nel convento di Monte Oliveto. […] Se ho mai rimpianto di non aver ricevuto o di non essermi procurato quella special educazione che permette di discernere al primo sguardo il valore tecnico d’un pezzo d’architettura, fu in altri tempi in Inghilterra, davanti a cattedrali come quella di Canterbury, ed è qui, davanti a questa facciata normanna. Malgrado ciò io l’ho sentita bellissima. […]Le più romanzesche leggende, di cui si compiacquero le immaginazioni dei novellieri cari un tempo all’ingegnoso Hidalgo nel suo castello della Mancia, non superano in inverosimiglianza la vera storia degli avventurieri normanni dei quali questo religioso re fu quasi l’ultimo erede. […]Il mare ondeggia senza posa all’orizzonte, d’un azzurro marezzato di brividi, ed ecco, di là dal mare, spuntar fuori la costa albanese, color viola, infarinata di neve. Il treno si ferma ai piedi d’una città che ammucchia le case a ridosso di una collina cinta di spalti e di bastioni: è Otranto che sembra non esser per nulla mutata dall’anno famoso in cui i Turchi le dettero il sanguinoso assalto. Ah! Che immediato, delizioso incanto di colori! Gli uliveti che circondano Otranto sono grigi, ed essa è costruita di pietre dorate e rossicce. Il mare, in questa rientranza del golfo, e all’orizzonte, sfoggia profonde sfumature di zaffiro. Non una nube vagola per il cielo, che sembra di turchese.

Le montagne della penisola greca, viste così da lontano, con riflessi d’argento e d’ametista, mostrano perfino i crepacci del più intenso lilla in cui vagheggia la chiara macchia dei villaggi. Questa è la Finisterra d’Italia, o quasi, giacché il capo d’Otranto fa – con quello di Leuca, l’antico Japyx, e Gallipoli, – un triangolo che chiude la penisola dal lato della Grecia[9].

 

Note

[*] Vittorio Bodini, Foglie di tabacco (1945-1947), in Macrì O. (a cura di), Tutte le poesie, Lecce, Besa Editrice, 1997, p.61.

[1] Curiosità: Il consumo della carne di bufalo, invece, sembra fosse discretamente diffuso a Napoli, soprattutto presso la comunità ebraica, così come avveniva a Roma. Nel 1852, Vito Antonio Ascolesi definiva la carne di bufala “dura e disgustosa al palato, e ripugnante all’odorato, anche quando l’animale è giovine”, mentre nel 1903, per Giuseppe Santini, “quella dei bufalotti è assai pregiata e, mangiata inconsciamente, può senza dubbio passare per carne di bovino”: insomma, da qui potrebbe derivare il termine… “bufala”, intesa come “fregatura”. https://www.lacucinaitaliana.it/news/in-primo-piano/storia-della-bufala-dalla-mozzarella-alla-carne/

[2]   Cfr. M. Cataldini, M. Pizzarelli, (testi), Caterina Gerardi (foto), Verso Sud, Anima Mundi edizioni, Otranto, 2008.

[3]  https://www.iltaccoditalia.info/2018/05/11/lo-spazio-infinito-nelle-opere-di-dirnaichner/ di Antonio Lupo, maggio, 11, 2018, visionato il 22 maggio, 2020, ore 17,33.

[4] Immagini relative a https://www.iltaccoditalia.info/2018/05/11/lo-spazio-infinito-nelle-opere-di-dirnaichner/ di Antonio Lupo, maggio, 11, 2018,

[5]   Cfr. Verso Sud, 2008, “A Contrappunto” Edizioni Leucasia di Levante Arti Grafiche, Presicce, (Le), anno IX, nn. 1e2, aprile 2001.

[6] Verso Sud, 2008.

[7] http://www.bpp.it/Apulia/html/archivio/1978/III/art/R78III028.html. Visualizzata il 27 maggio 2020, ore 16,35.

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Viaggio_in_Italia_(saggio)#Tappe_del_viaggio_di_Goethe

[9] Paul Bourget, Sensations d’Italie (Toscane – Ombrie – Grande Grèce). Con traduzione italiana dei capitoli XVI-XXIV / Paul Bourget ; edizione anastatica e traduzione a cura di Alessandra De Paolis – Edizioni digitali del CISVA, 2010 – 404 p. – integralmente riprodotto. http://www.viaggioadriatico.it/biblioteca_digitale/titoli/scheda_bibliografica.2011-02-08.6502316502 ( direttore Giovanna Scianatico), (dominio dell’Università del Salento), visualizzato il 26 maggio 2020, ore 18,31.

 

Per la prima parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri

Per la seconda parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (II)

Per la terza parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (III)

Per la quarta parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (IV)

Per la quinta parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (V)

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