A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

di Salvatore Coppola

Sulla vicenda complessiva dell’Arneo è opportuno fare alcune considerazioni. Il movimento contadino pugliese, fin dai primi anni del secolo scorso, e in modo clamoroso nel primo dopoguerra, si è sostanzialmente espresso in forme di lotta anarcoidi ed estremistiche tipiche di una regione caratterizzata dalla presenza di una grandissima massa di braccianti e contadini poveri, ai quali i governi che si sono succeduti dall’Unità d’Italia in poi non avevano saputo offrire alcuna seria alternativa alle loro durissime condizioni di vita. Improvvise esplosioni di collera popolare e forme di protesta anarchica e primitiva hanno costituito la forma di lotta tradizionale del bracciantato pugliese che, più che nel riformismo del PSI, aveva cercato una guida, una prospettiva ed un programma nella tradizione massimalista delle Leghe bracciantili che avevano assicurato un discreto consenso elettorale al PSI nelle elezioni del 1919 e del 1921. Nel secondo dopoguerra il movimento sindacale era ancora fortemente condizionato dalla tradizione massimalista che trovava la propria giustificazione nella tragica condizione dei braccianti e dei contadini poveri. Le lotte del periodo 1945-1949 ebbero come obiettivo le rivendicazioni immediate (il pane, il lavoro, il salario) più che i problemi delle riforme di struttura, del rinnovamento dello Stato e delle possibili alleanze di classe. Anche il movimento che si è sviluppato in Puglia tra il 1949 e il 1951, in concomitanza con l’occupazione delle terre in Calabria e in altre regioni del Mezzogiorno, non pose al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra e della riforma agraria generale, con l’unica eccezione del movimento di lotta che si è sviluppato sull’Arneo. Quel movimento ha avuto caratteristiche diverse rispetto ad analoghi movimenti popolari e contadini della Puglia, ha posto al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra, della riforma agraria generale e delle alleanze con i ceti medi della campagna e della città. La lotta contro il più vasto latifondo borghese del Salento avrebbe potuto costituire un modello per le future azioni di lotta in tutta la regione, ma così non fu, e anzi, all’interno dello stesso movimento sindacale salentino, nella fase di attuazione della riforma agraria, emersero alcune incertezze programmatiche tipiche dell’intero movimento sindacale pugliese che stentava a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge di riforma. I dirigenti politici e sindacali salentini che guidarono il movimento di lotta sulle terre dell’Arneo dimostrarono di aver saputo individuare precisi obiettivi di riforma agraria che i gruppi dirigenti di altre province, come ad es. quelli di Bari e Foggia, non avevano saputo indicare.

Al di là dei risultati immediati conseguiti con la riforma agraria (il numero degli ettari di terre concesse e delle famiglie degli assegnatari, il reddito agrario conseguito dalle stesse, ecc.), è importante sottolineare il dato storico rappresentato dal fatto che la lotta contro il latifondo borghese, condotta soprattutto sull’Arneo e in qualche altra zona del Salento, ha rappresentato l’inizio della fine del regime feudale nelle campagne salentine, un sistema fatto di soprusi e di angherie, di gestione clientelare del mercato del lavoro, di prestazioni servili. Quella lotta ha costituito il primo passo per il definitivo riscatto politico, sociale, morale e culturale delle masse contadine del Salento. Con riferimento alla seconda fase dell’occupazione (1950/1951), così scriveva nel 1977 Antonio Ventura:

 

[…] i contadini lasciarono l’Arneo, a piedi: le loro biciclette contorte e bruciate erano rimaste sotto gli alberi d’ulivo, simbolo emblematico di una sconfitta che poteva non essere tale. E non lo fu se si guarda a ciò che quel movimento riuscì a conquistare, alle cose che riuscì a chiarire, alle alleanze che fece intravedere come possibili [… ] e se tali furono i risultati ottenuti là dove meno forte e organizzato era il movimento operaio, c’è da chiedersi a quali vette si sarebbe giunti, nel Salento e altrove, se alla lotta per la riforma agraria e per imporre un limite alla proprietà terriera, le zone più forti e le categorie più combattive avessero dato quel contributo che esse potevano dare in particolare[1].

Le riflessioni di Ventura rappresentano uno dei tanti contributi al dibattito sui risultati delle lotte per la riforma agraria che, negli anni cinquanta e sessanta, si è sviluppato all’interno delle organizzazioni politiche e sindacali salentine come in ambito storiografico nazionale. Per quanto riguarda il Salento, la valutazione non può essere univoca. I limiti del movimento appaiono evidenti, e sono costituiti essenzialmente dalla mancata estensione della lotta alla vasta area del basso Salento (dove la stragrande maggioranza dei lavoratori agricoli fu costretta a cercare nell’emigrazione il proprio riscatto economico e sociale) e dalla insufficiente capacità delle forze politiche della sinistra di esercitare un efficace controllo sulla gestione della riforma che, sul piano politico, ha finito col favorire i partiti di governo, soprattutto la Democrazia cristiana. Questo partito riuscì, infatti, attraverso l’uso di strumenti pubblici quali gli Enti di riforma, la Cassa del Mezzogiorno e gli istituti di credito, a legare a sé la maggior parte delle famiglie dei coltivatori diretti. Nel corso di una delle tante cerimonie di assegnazione delle terre d’Arneo, alle quali partecipavano deputati e sottosegretari democristiani, autorità civili e religiose (chiamate queste ultime a benedire le terre concesse), un autorevole rappresentante della DC neretina dichiarava che «la riforma agraria si attua per opera della DC nell’ordine, nella legalità e nella libertà. Si ottiene contro i comunisti»[2].

 

In quegli anni di grandi passioni politiche e di scontri ideali e ideologici, la DC incassava i risultati di una riforma che sostanzialmente aveva voluto e per la quale, nelle prime elezioni successive all’adozione dei provvedimenti agrari, pagò un prezzo in termini elettorali perdendo voti a vantaggio sia delle destre (Partito liberale, Partito nazionale monarchico e Movimento sociale) sia dei partiti di sinistra (soprattutto il PCI, che nella lotta per la terra e per la riforma agraria aveva impegnato l’intero gruppo dirigente meridionale). Quello che la DC perse nell’immediato sul piano elettorale lo conquistò però sul piano politico nel periodo di media e lunga durata. All’interno della CGIL e dei partiti di sinistra (in particolar modo il PCI) si è sviluppata, negli anni successivi alla conquista della legge stralcio, una complessa e non facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Emergeva la consapevolezza che era stato un errore concentrare la lotta solo sulle terre del latifondo classico senza investire contemporaneamente le immense estensioni degli oliveti condotti in economia dai grossi agrari e con rese produttive largamente inferiori a quelle che si sarebbero ottenute se quelle terre fossero state concesse ai contadini con contratti di compartecipazione. Emergeva, altresì, la consapevolezza che era stato un errore concentrare gli sforzi solo su alcune zone (l’Arneo, la fascia adriatica a nord e sud di Lecce) senza interessare alla lotta le zone del basso Salento (dove i rapporti agrari erano ancora di tipo feudale), e che era stato fatto poco per coinvolgere nella lotta contro i grossi agrari i piccoli e medi proprietari terrieri. All’interno della sinistra si confrontavano due linee diverse di politica agraria, una legata alla piattaforma sindacale dei braccianti, che costituivano la categoria più importante e maggioritaria dei lavoratori iscritti alla CGIL, un’altra che, pur non volendo trascurare l’impegno per quella categoria, sollecitava l’elaborazione di una politica agraria che coinvolgesse nella lotta contro la rendita parassitaria le categorie dei ceti medi produttivi, ai quali occorreva assicurare un forte impegno per la costituzione di cooperative di produzione e consumo, per una politica di agevolazioni creditizie, onde garantire la stabilità sulla terra e la proprietà della stessa a coloni e mezzadri, per la ricerca di sbocchi di mercato che non fossero imposti dalla strategia capitalistica dei monopoli pubblici e privati, per la creazione, infine, di una rete di complessi manufatturieri di lavorazione e trasformazione dei prodotti.

Al di là, quindi, della riflessione sui risultati economici della riforma (siamo d’accordo con quanti sostengono che i circa 17.000 ettari concessi a poco più di quattromila famiglie contadine non possono essere considerati una vera e propria riforma agraria), nonostante tutti i limiti oggettivi e soggettivi emersi dalla conduzione e gestione della battaglia per la riforma, dobbiamo sottolineare come la lotta contro il latifondo borghese abbia costituito uno dei momenti più significativi della storia sociale della provincia di Lecce. Dopo l’Arneo, e grazie all’Arneo, nulla fu più come prima nei rapporti agrari; l’Arneo ha contribuito, infatti, a fare dei braccianti e dei contadini poveri, fino ad allora politicamente e socialmente disgregati, una classe pienamente consapevole dei propri diritti. Dall’Arneo è partito il movimento di rinascita degli anni cinquanta e sessanta, quando i braccianti e contadini poveri hanno conseguito altre significative vittorie, come l’abolizione definitiva del cappuccio e la sua sostituzione col paniere nel lavoro di raccolta delle olive e la trasformazione dei contratti colonici miglioratari in contratti di enfiteusi. Migliaia di coloni, infatti, che avevano trasformato terreni seminativi poveri in vigneto e oliveto, erano costretti (sulla base dei vecchi contratti) a cedere la metà del prodotto ai proprietari, il più delle volte esentati dalle spese di trasformazione e di coltivazione. Il perdurare di tali contratti era insostenibile non solo dal punto di vista della giustizia sociale, ma anche della stessa economia della provincia, perché condannava l’agricoltura alla stagnazione e al regresso, e i contadini all’esodo. Con la loro lotta (sviluppatasi soprattutto alla fine degli anni sessanta) i coloni riuscirono a far approvare la legge sulla trasformazione dei contratti di colonia in contratti di enfiteusi che garantiva la stabilità sulla terra a migliaia di famiglie contadine e consentiva loro di riscattarsi dalla servitù feudale e dal capestro delle scadenze che, il più delle volte, colpiva i lavoratori proprio quando avrebbero potuto raccogliere i frutti di anni di intenso e duro lavoro.

 

Se la riforma agraria, con tutti i suoi limiti, non ha trasformato la realtà produttiva della provincia di Lecce (tant’è vero che molti tra i primi assegnatari abbandonarono le terre concesse per mancanza di prospettive concrete), il giudizio sul movimento di lotta dell’Arneo deve essere più articolato. Nelle relazioni e nei documenti delle organizzazioni politiche e sindacali della sinistra si trovano di frequente espressioni come «la lotta eroica dei contadini dell’Arneo», «la gloriosa lotta dell’Arneo», le «memorabili lotte dell’Arneo oramai scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento», dell’Arneo insomma si parlava quasi con toni mitici. Anche nei documenti della controparte padronale e in quelli delle autorità preposte al controllo dell’ordine pubblico si trovano spesso riferimenti all’Arneo, con toni naturalmente diversi. La possibilità o il timore che i lavoratori agricoli di altre zone della provincia potessero fare quanto era stato fatto sull’Arneo costituiva, infatti, un formidabile pungolo a chiudere le trattative e a sottoscrivere i contratti provinciali di categoria. Molti grossi proprietari che avevano lasciato incolti i loro terreni, temendo un’azione di occupazione da parte dei braccianti, effettuarono opere di dissodamento, impiantarono vigneti e oliveti.

Se i braccianti agricoli e i contadini poveri del Salento hanno maturato una chiara coscienza politica lo si deve proprio all’Arneo, la cui vicenda, avvertita come una loro vittoria per avere costretto il governo ad estendere alla provincia la legge stralcio, costituì lo stimolo per ulteriori lotte e per nuove conquiste sociali, economiche e culturali. Oggi, comunque, gli studi e le ricerche per esprimere un giudizio sereno su quella pagina di storia non mancano, e anche la pubblicazione degli atti del convegno organizzato in occasione del 50° anniversario di quelle lotte possono rappresentare un contributo utile ad approfondire una pagina di storia politica e sindacale che è tra le più importanti e significative del Salento[3].

fine

Note

[1] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in F. De Felice, Togliatti e il Mezzogiorno, cit., pp. 331-332.

[2] L’Ordine, organo dei cattolici salentini, del 28/12/1951.

[3] M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, cit.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

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Un commento a A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

  1. Stimo molto il professore COPPOLA per cui ho letto con grande interesse l’articolo sulla lotta dell’Arneo condividendo ogni sua riflessione.

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