Biodiversità nell’oliveto del Salento, agli inizi del XX secolo

di Gianpiero Colomba

In Terra d’Otranto, tra la fine del XVIII° e per tutto il XIX° secolo, come conseguenza dei continui dissodamenti dovuti alla nascita di nuovi impianti con piante che per la prima volta colonizzavano il territorio (olivo, gelso, fichi, tabacco, ecc.), c’era poca disponibilità di nuovi terreni coltivabili. Una chiave per l’equilibrio produttivo fu l’intensificazione del livello di coltivazione nei terreni in genere ma soprattutto negli oliveti, con cereali e legumi spesso in rotazione tra loro. La parcellizzazione del territorio salentino e la coesistenza di colture diverse nello stesso fondo è stata una caratteristica delle comunità tradizionali che ha garantito nel tempo l’autosussistenza delle famiglie.

L’olivo quasi sempre era all’interno di possedimenti nei quali condivideva lo spazio con coltivazioni come i cereali, la vite, gli ortaggi e altre colture arboree come il gelso, il mandorlo o il fico. La distanza tra le piante di olivo permetteva di intercalare colture che consentivano al contadino di avere un reddito diversificato e quindi pressoché costante nel tempo.

Alla fine del XVIII° secolo il medico e agronomo salentino Giovanni Presta, indicava una distanza conveniente tra le piante di olivo di circa 65 «palmi», il che corrispondeva a poco meno di 50 piante per ettaro, la stessa densità indicata un secolo dopo dal cavaliere Gennaro Pacces, il quale si riferiva al dato medio dell’intera provincia di Terra d’Otranto. Intorno agli anni trenta del XX secolo si stima con maggior precisione una densità media di 62 piante per ettaro. Per fare un confronto: in Andalusia, regione leader nel mondo in quanto a produzioni di olio, nello stesso periodo potevano esserci tra le 90 e le 100 piante per ettaro. Per inciso, attualmente nella provincia di Lecce si stimano 112 piante per ettaro e un minimo livello di consociazione.

Per avere un riscontro rispetto alla reale condizione delle colture intercalate nell’oliveto in epoca preindustriale, prendiamo come rappresentativo il classico lavoro del professore Attilio Biasco di inizio XX secolo:

Gli oliveti specializzati, se non mancano del tutto, sono sicuramente molto rari. La consociazione arborea è abitualmente con la vite, la mandorla e il fico. La consociazione è talmente rilevante che l’olivo si considera la coltivazione secondaria.

Esiste dovunque una rotazione in cui spesso figurano le cereali e scarseggiano le leguminose: le prime sono rappresentate dal frumento, dall’avena, dall’orzo; le seconde dal lupino, dalla fava e il trifoglio incarnato.

Ma quali colture erano intervallate nell’oliveto e in quale proporzione? I dati che permettono un’analisi più precisa sono quelli in calce al Catasto Agrario del 1929. Per la prima volta in Italia nel su indicato Catasto, si descrivevano le aree coltivate differenziandole tra superficie cosiddetta «integrante» ovvero specializzata e superficie «ripetuta» ovvero associata ad altre coltivazioni prevalenti. L’oliveto integrante, a sua volta, era definito «esclusivo» laddove non vi era alcuna promiscuità con altre coltivazioni, o «prevalente» laddove la coltivazione associata occupava non oltre il 50% della superficie dell’oliveto.

Secondo la definizione data nel Catasto Agrario quindi, all’interno della categoria integrante potevano ricadere oliveti con all’interno fino al 49% della superficie occupata da altre colture. Per semplificare, poteva esserci un ettaro di oliveto con intercalati 3 mila metri quadri di mandorlo. Quindi, non solo esisteva una quota parte di olivi associati in altre coltivazioni, ma, vi era anche un certo livello di promiscuità colturale all’interno dell’oliveto definito integrante.

L’analisi dei dati permette un’interessante ed inedita valutazione: poco più del 33% dell’oliveto specializzato (50.591 ettari su 149.947 ettari nel 1930) aveva al suo interno coltivazioni in rotazione (principalmente, grano duro, avena, orzo, fave e lupini). Questo significa che esisteva ben un terzo dell’oliveto specializzato al cui interno vi era un certo livello di promiscuità, ed era quello che si definiva come oliveto prevalente. Di queste colture, il 44% erano cereali, il 21% piante da foraggio (trifoglio, veccia, …), il 13% fave, il 7% lupini e il 13% altri legumi. Si avverte che questa è una fotografia sul territorio in un dato momento storico e che, secondo quanto enunciato nel catasto, queste rilevazioni erano dati medi riferiti al sessennio 1923/28. Data inoltre la ciclicità annuale delle coltivazioni, l’analisi che ne può derivare riveste un significato di sola tendenza.

A questo punto se consideriamo la totalità della superficie dell’oliveto, cioè sia la superficie di associato che di specializzato, osserviamo che in percentuale l’oliveto esclusivo «puro» senza alcuna associazione, rappresentava in Provincia una quota poco più alta della metà di tutto l’oliveto ossia il 54%. Per altro verso, era pari al 18% la superficie occupata dagli olivi in associazione ma, se includiamo la categoria prevalente, non indicata nelle statistiche ufficiali ma qui calcolata, vediamo che la percentuale sale al restante 46%. Quindi, in poco meno della metà della superficie totale dell’oliveto (associato + specializzato), esisteva una qualche forma di associazione colturale. Riassumiamo il tutto nella figura sotto.

Tipologia dell’oliveto in Terra d’Otranto nel 1930. (Ettari). Fonte: propria elaborazione.

 

Alcune riflessioni. In alcune zone d’Italia e in particolar modo nel Salento, c’era poca disponibilità di territorio supplementare per le nuove colture. Infatti, già nel 1929 la quota di terra forestale (pascoli permanenti e boschi) si era progressivamente ridotta a poco meno del 10% su tutto il territorio della provincia di Lecce. Inoltre, l’alta densità di abitanti obbligava a rendere altamente efficienti tutti i terreni disponibili. Una chiave per l’equilibrio produttivo per tutto il XIX secolo e anche nei primi decenni del XX, fu l’intensificazione del livello di coltivazione nella stessa area con cereali e legumi, a dimostrazione di una più compiuta razionalità ed efficienza contadina, e rappresentando quindi un esempio di land-saving strategy. Le consuete rotazioni tra fave o lupini da un lato e avena, grano duro o orzo dall’altro, consentivano il soddisfacimento dei bisogni familiari in condizioni di sostenibilità per l’oliveto. L’associazione tra colture è uno dei segnali che rafforza l’idea di una strategia agraria basata sull’autoconsumo.

Questa tendenza si sarebbe poi evoluta nel giro di alcuni decenni in direzione della monocoltura e della specializzazione. Nel 1980 l’Istat riportava circa 1 milione di ettari d’olivo in consociazione su tutto il territorio italiano, circa 1,4 milioni di ettari nel 1950 e a circa 1,7 milioni nel 1910. Secondo stime più recenti del progetto europeo di agro-selvicoltura Agforward (2014-17), in Italia circa 200.000 ha di olivo sono attualmente gestiti in consociazione. Il trend quindi è in calo. Assistiamo a una lenta evoluzione in direzione della specializzazione colturale.

Sebbene quindi intorno al 1930, abbiamo calcolato un consistente livello di diversità colturale negli oliveti, verosimilmente questa quota era in diminuzione e con esso diminuiva progressivamente la biodiversità al loro interno. Ed è altrettanto plausibile che per l’oliveto, il quale per chi scrive ha rappresentato il classico esempio di coltura promiscua in epoca contemporanea, l’uscita dalla crisi produttiva iniziata alla fine del XIX° secolo fu rappresentata proprio dal percorso di avvicinamento alla specializzazione. Tutto ciò coincise anche con la globalizzazione dei prodotti e il conseguente ingresso di cereali a basso costo provenienti da altre parti del mondo. Tutta questa complessa e simultanea concomitanza di eventi, condizionò l’abbandono delle tradizionali strategie contadine, le quali consideravano l’associazione tra le colture come sistemi agronomici efficienti e in ultima analisi, forzò il percorso di semplificazione degli agro-ecosistemi. Negli ultimi decenni, l’utilizzo massivo di agro-chimici negli oliveti si sta realizzando senza controllo, contaminando il suolo e le acque, e originando, da un lato una forte perdita di sostanza organica e dall’altro una minaccia alla biodiversità.

Bibliografia

Biasco A., L’olivicoltura nel basso leccese, Napoli 1907.

Casella O., L’Ulivo e l’olio: manuale pratico ad uso degli agricoltori e dei proprietari, Napoli 1883.

Cimato A., Il germoplasma olivicolo in provincia di Lecce: recupero, conservazione, selezione e caratterizzazione delle varietà autoctone, Matino (LE) 2001.

COLOMBA G., Transición socio-ecológica del olivar en el largo plazo. Un estudio comparado entre el sur de Italia y el sur de España (1750-2010), Tesi di dottorato, Siviglia 2017.

Pacces G., Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola in Italia, Monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura e della classe agricola dei singoli circondari della provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1880.

Presta G., Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Napoli 1794.

Tombesi A. et al., Recommendations of the working group on olive farming production techniques and productivity, «Olivae», 63, Madrid 1996.

 

Colomba Gianpiero, indirizzo mail: gianpiero.colomba@gmail.com

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Un commento a Biodiversità nell’oliveto del Salento, agli inizi del XX secolo

  1. Non essendo un esperto in olivicoltura, non intendo assolutamente contraddire gli illustri olivicoltori citati nel suddetto articolo.
    E’ vero che gli ulivi hanno sempre convissuto con altri alberi sporadicamente intercalati nel loro habitat (fichi, peri, albicocche, gelsi ed a volte qualche pianta di vite).
    Però, ricordo che i vecchi contadini si guardavano bene nell’inserire tra gli ulivi filari di vigne, in quanto asserivano che ulivi e vigne si sarebbero vicendevolmente <> l’humus e le sostanze nutritive contenute nel terreno, col risultato che le rispettive piante avrebbero fornito frutti scarsi e scadenti.
    Inoltre nel Salento, sia gli ulivi che i vitigni, pur adattandosi ad ogni tipo di terreno, per ottenere risultati ragguardevoli, richiederebbero terreni con proprietà chimico-fisiche molte diverse e dissimili

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