La sartoria delle zie

sarta

di Chiara Briganti

Avete presente quando, alla fine del film “La Messa è finita”, don Giulio dice «Io sono fortunato, perché sono stato molto amato»? Ecco, se mi chiedessero quand’è che mi sono sentita più felice, e dunque più amata, quasi certamente indicherei quel periodo della mia esistenza, l’infanzia, che ho trascorso per buona parte nella sartoria delle mie zie.

Ci è passato un intero paese in quella sartoria, centinaia di donne, due, tre generazioni di donne, tutte a provarsi i vestiti nell’angolo della stanza con lo specchio grande, e col solo ausilio di una tendazza di panno verde, da tirare se fosse passato qualche improvvido bipede maschio (perché la sartoria era anche uno dei due ingressi della casa). Io avevo una sedia piccola per me, vicino alla Singer, e le clienti mi davano le spalle, però vedevo le loro facce riflesse nello specchio, mentre mia zia girava loro attorno con gli spilli e mi chiedeva di «’nfilare l’imbastire», prepararle cioè degli aghi col cotone bianco per le cuciture preliminari.

Ho visto centinaia di culi, da quella sediolina, culi immensi, matronali, piccoli e arresi, culi da zitella, chiappe ardite sotto schiene insospettabili, ma anche centinaia di paia di minne, coppe di reggipetti a melone, cocomero e chissà quale altra meraviglia della botanica. Riesco ancora distintamente a richiamare alla memoria il suono del ritorno elastico delle bretelle dei body, che ricadevano sulla pelle come una frustata, quando le signore si accomodavano glutei e mammelle nei tailleur ancora sfoderati e mutili. È lì che ho sperimentato la forma d’amore che poi non ho mai smesso di cercare, quella del racconto. Mia zia mi diceva «Mò se viene la tale vedi quanti fatti ci racconta!» Ed era vero.

Tantissimi fatti, una narrazione ininterrotta, un ciclo di acquisizione e riuso, perché poi, quando la cliente andava via, veniva a «sentire i fatti» l’altra mia zia, con la scopa in mano, lasciando per qualche minuto le faccende domestiche e la cura di mio nonno (che, finché è stato in vita, non ha potuto parlarmi mai: tre infarti e tre ictus non perdonano). E nemmeno io parlavo mai: ma ero felice, di una felicità talmente intera e indefettibile, che neanche il pensiero, avevo, di parlare. Il primo anno d’Università, mentre studiavamo l’epica, e gli episodi tipici, ci dissero che uno dei piaceri maggiori dell’uditorio è veder assecondato il proprio orizzonte d’attesa: non solo sentir raccontare qualcosa che già si conosce, ma esattamente nel modo in cui ci si aspetta che venga raccontata. Ed è vero, e l’avrei sperimentato in seguito, quanto s’arrabbiano i bambini quando cambi il finale delle favole che amano. Io pure, chiedevo sempre che mi raccontassero gli stessi fatti, quelli che mi avevano fatto ridere di più, e le zie avevano ormai un collaudato e solidissimo repertorio di formule.

E per il resto della mia vita, non ho mai smesso di cercare chi mi raccontasse qualcosa, e non è un caso che le mie letture preferite siano proprio i diari e la memorialistica in genere. Non conosco una manifestazione d’amore più grande di quella del parlare per qualcuno. E ancora oggi, se potessi, smetterei di parlare e ascolterei e basta, e ascolterei sempre.

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