I 150 anni del faro: guardiano di Gallipoli

Isola_di_Sant'Andrea,_Gallipoli

di Giuseppe Massari

150esimo anniversario del faro di Gallipoli. Infatti, dalla sua prima accensione sono trascorsi ben 150 anni: e così la città, dal 24 agosto scorso e fino alla fine dell’ anno, dedicherà più di 4 mesi ai festeggiamenti in onore del suo faro.

Un pezzo di storia, tra passato e presente, che illumina la costa ionica regalando panorami suggestivi anche di notte. Il guardiano del litorale, riferimento che ha dato sicurezza a pescatori e non, con la sua “lampada” capace di illuminare sino a 20 miglia marine, da sempre musa ispiratrice di artisti e di scrittori, sarà inondato di ricordi e di celebrazioni. Per ricordare questo importante traguardo, anche noi non vogliamo essere da meno. Lo facciamo affidandoci alla storia, più precisamente alla penna di Enrica Simonetti, autrice di: “Lampi e splendori: Andar per fari lungo le coste del Sud”, Editori Laterza – Banca Carime Gruppo Intesa, Prima edizione, ottobre 2000”. (G.M)

FARO GALLIPOLI

“Gallipoli non è una città sul mare, ma nel mare. E il suo faro ha la stessa identità: poggia su un isolotto brullo e piatto che, visto dalla terraferma mettendosi di spalle alla chiesa della Madonna della Purità, sembra raggiungibile a nuoto, con poche bracciate. La lanterna accesa, di notte, è l’unica luce visibile di un orizzonte che scompare, quasi una seconda luna che si cala nell’acqua, una luna bizzarra che appare e scompare, secondo i ritmi del linguaggio del faro. Tutta l’Isola di S. Andrea, piede della torre bianca, di giorno sembra senza colori. O meglio, cambia la sua “pelle” rubando le tinte del sole, del tramonto e del cielo; apparendo prima gialla, poi rosa e infine, al calare della luce, bluastra. Anche la torre del faro sprofonda in questa sorta di non-colore, con la sua pietra cangiante e magica, pietra porosa salentina che assorbe ogni bagliore trasformando il bianco in oro e riflettendo il calore del sole. Al faro, edificato nel 1865, si arriva solo in barca, sicchè, quando soffia vento forte, le onde ricoperte di spuma rendono difficile l’approdo. La torre sormonta la casa spaziosa che un tempo era abitata dai faristi “isolani”, confinati in questo meraviglioso esilio diviso dalla terraferma di uno scoglio sul quale approdano solo gabbiani e forse per questo chiamato da qualcuno la “roccia dei piccioni”. La vita al faro S. Andrea non è mai stata facile, il mare circonda lo scoglio in ogni anfratto e – per quanto suggestivo – il giro attorno al faro dà subito l’impressione di una visita in un lungo surreale, separato dalla realtà e dalla frenesia della città posta di fronte, a poche remate dalla torre. Due e, a volte, anche tre famiglie di faristi hanno vissuto in questo isolotto durante il secolo scorso, riempiendo di voci e profumi la casa bianca ora disabitata; negli anni Sessanta, i bambini in età scolare presenti al faro erano sette e si pensò di risolvere il problema dei continui e vorticosi spostamenti sulla terraferma con la creazione di una scuola in loco. Nacque così (nei tempi in cui Internet e i possibili sistemi tele-scuola non erano nemmeno una fantasia) un’aula che poteva sembrare un fumetto, circondata solo dal mare, con le mura battute dai venti e risuonanti della buona volontà di una maestra, figlia di pescatori, che veniva accompagnata in barca per le lezioni quotidiane. In alcuni periodi, quando il tempo impediva i collegamenti, l’insegnante restava al faro, negli alloggi di servizio, e concludeva la sua giornata di lavoro tra quei bambini isolati ma felici, cresciuti tra i conigli, i granchi e gli scogli. Uno di questi alunni della scuola al faro ha scelto da anni la sua strada: fa il farista a S. Cataldo, la torre di Bari, dove vive con moglie e figlio. A proposito delle donne dei fari, a questo punto è doveroso aprire una parentesi. Tanto spesso si parla genericamente di famiglie di faristi, ma è importante sottolineare il sacrificio di tante madri e mogli, capaci di organizzare la vita sotto le torri, con le piccole e grandi cose di ogni giorno: dalle conserve preparate in casa per affrontare l’inverno, agli approvvigionamenti misurati e calcolati con precisione. Le donne dei fari sono stae (e sono) attente “comandanti” o provette cambusiere, quasi marinaie senza gradi. Qualcuna confessa di odiare la salsedine che incrosta continuamente i vetri delle case, altre raccontano di essere andate in città e di essersi perse nella terribile confusione della vita “degli altri”. L’Isola di S. Andrea racchiude in sé il fascino del mondo lontano dal resto, tanto che anche la bellezza di Gallipoli assume un’altra ottica, se vista da questo scoglio. Affascina il blocco della città che sprofonda nel mare, acceca lo sguardo – nelle giornate di sole – il giallo ocra della spiaggetta della Purità, con i resti dell’antico fortino, memoria del perenne tentativo di difesa del borgo antico. L’isola del faro, in questo senso, ha sempre fatto da sentinella, un avamposto aperto ai venti e ai tanti attacchi che venivano dal mare: questo scoglio è la prima striscia di terra che appare a chi si avvicini via mare a Gallipoli. Nell’antichità, sono stati in tanti ad abitare successivamente il borgo, la costa sabbiosa e dolce, che affascinò o Messapi, le legioni di Roma e poi fu attaccata da Vandali e Goti e, infine, presa da Saraceni e Normanni. In città le tracce lasciate dai popoli invasori sono in parte visibili, tanto che questo centro del sapore barocco, in cui si tocca il calore della pietra leccese, rivela in molti angoli le sue numerose identità. “Città dentro il mare, circondata dai suoi bastioni come un bambino nella carriola, ha scritto di Gallipoli Cesare Brandi.( Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia, Editori Laterza, Bari 1960. N.d.r) E quel mare che si insinua tutto intorno è il liquido amniotico on cui è cresciuta parte importante della civiltà salentina. Proprio il nome del popolo, Sallentini, secondo Varrone, deriva dal mare: Salentini perché avevano fatto amicizia in mare, “in salo”, spiega. E gallipoli, terra di conquiste, conserva l’etimologia greca nel nome romatico di “Città bella” (volgarizzazione di kalè polis ) che, secondo una leggenda, si deve a un amore tragico: quello sbocciato in un principe greco, di ritorno in Salento dopo l’ennesima guerra, per una bellissima fanciulla, la quale si sottrasse a lui scomparendo nel nulla per volere di Venere e in segno di punizione per i tanti massacri compiuti. Il principe, assecondando il volere degli dei, volle alla fine seppellire la sua amata in una terra che prese il nome dalla beltà della ragazza, diventando appunto “città bella”. Un’altra donna, ricordata nel folklore e nelle leggende gallipoline, è la martire santa Cristina, quella che uscì ondenne anche dal supplizio dell’acqua bollente: la notte di ogni 24 luglio, per la sua festa, un corteo di barche – con la caratteristica arrampicata sul palo proteso sul mare – rompe la tranquillità dell’Isola di S. Andrea. Poi,a gara conclusa, le luci si spengono e sull’isolotto torna il silenzio, rotto solo dal fascio di luce del faro e dal saltellare di qualche pesce” (Enrica Simonetti).

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